Da lontano la montagna era sembrata innalzarsi poderosamente dalla pianura nebbiosa in un solo immenso bastione. Ma adesso che Gundersen era giunto sulle sue pendici, vide che a distanza ravvicinata la montagna si dissolveva in una serie di contrafforti di pietra rosa, uno sopra l’altro. La totalità della montagna era costituita dalla somma di questi, ma dalla sua posizione non aveva la sensazione di una massa unitaria. Non poteva scorgere neppure le guglie, le torri, le cupole che sapeva dovevano trovarsi a migliaia di metri sopra di lui. Uno strato di nebbia tagliava la montagna a metà della sua altezza, permettendogli di vedere solo la vasta e incomprensibile base. Il resto, che l’aveva guidato per centinaia di chilometri, poteva anche non essere mai esistito.
La salita era facile. A destra e a sinistra c’erano lisce pareti, picchi impossibili, fragili ponti di pietra che collegavano cornicione a cornicione; ma c’era anche un sentiero sinuoso, evidentemente di origine naturale, che forniva allo scalatore paziente accesso alle regioni più alte. Gli escrementi di innumerevoli nildor coprivano questa lunga rampa di pietra, dicendogli che doveva essere sulla strada giusta. Non poteva immaginare le grandi creature salire la montagna per qualsiasi altra strada. Anche un sulidoror si sarebbe trovato in difficoltà fra quelle gole e precipizi.
Ciarlieri munzoror saltavano da un cornicione all’altro, o attraversavano con passo leggero terrificanti abissi, scivolando su rampicanti sospesi. Creature simili a capre, bianche con delle macchie nere a forma di diamante, brucavano in piccoli spiazzi sassosi su fianchi irraggiungibili, lanciando profondi versi che echeggiavano nell’aria pomeridiana. Gundersen saliva con passo regolare. L’aria era fredda ma tonificante. La nebbia era meno fitta a quell’altezza, consentendogli una buona visuale in tutte le direzioni. Si guardò alle spalle e vide la pianura improvvisamente molto in basso sotto di lui. Gli sembrò quasi di poter vedere fino al grande prato dove era atterrato lo scarafaggio.
Si chiese quando avrebbe incontrato un sulidor.
Quello, dopo tutto, era il luogo più sacro del pianeta. Non c’erano guardiani? Nessuno che lo fermasse, lo interrogasse, lo costringesse a tornare sui suoi passi?
Giunse in un punto, dopo circa due ore di salita, dove il sentiero si trasformava in una lunga striscia orizzontale, che curvava a destra e svaniva dietro la massa della montagna. Mentre Gundersen raggiungeva la curva, apparvero tre sulidoror. Lo guardarono un momento e gli passarono accanto, senza alcun segno particolare, come se fosse una cosa normale che un terrestre salisse la montagna della rinascita.
Oppure, pensò bizzarramente Gundersen, come se lui fosse atteso.
Dopo un po’ il sentiero riprese a salire. Adesso un cornicione di pietra sporgente forniva una parziale copertura al sentiero, ma non un riparo, perché una quantità di piccoli munzoror schiamazzanti, dalla faccia raggrinzita, vi avevano fatto il proprio nido, e gettavano contro il viandante sassolini, pezzetti di legno, o peggio. Scimmie? Roditori? Qualunque cosa fossero introducevano una nota sacrilega nella solennità della grande montagna, facendosi beffe di coloro che salivano. Penzolavano appesi alle code prensili; muovevano le lunghe orecchie sormontate da ciuffi di pelo; sputavano; ridevano. Cosa dicevano? “Vattene, terrestre, questo non è il tuo santuario!” Era questo? Oppure qualcosa come: “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate!”
Si accampò per la notte sotto quel cornicione. I munzoror gli si arrampicarono in più occasioni sulla faccia. Una volta venne svegliato da quelli che sembravano i singhiozzi disperati di una donna, provenienti dall’abisso sottostante. Raggiunse l’orlo, e scoprì che imperversava una violenta tempesta di neve. Sbattute dal vento, delle creature simili a pipistrelli, con neri corpi cilindrici e grandi ali gialle, scendevano a capofitto, perdendosi alla vista, per risalire verso i loro nidi, stringendo brandelli di carne cruda negli affilati becchi rossi. Non sentì più il singhiozzare. Quando il sonno tornò, fu quello inquieto di un drogato, finché un’alba luminosa si schiantò come un tuono contro il fianco della montagna.
Si lavò in un torrente dalle rive ghiacciate che incrociava il sentiero, scendendo da una ripida gola. Poi riprese la marcia, e dopo tre ore raggiunse un gruppo di nildor che procedevano verso la rinascita. Non erano verdi, ma di un grigio rosato, che li designava come membri di una razza dell’emisfero orientale. Gundersen non era mai riuscito a capire se questi nildor disponevano di un luogo di rinascita nel loro continente, o venivano lì per sottoporsi al processo. Quella domanda riceveva adesso una risposta. Erano in cinque, e si muovevano lentamente, con estremo sforzo. Avevano la pelle screpolata e rugosa, e le proboscidi (più grosse e lunghe di quelle dei nildor occidentali) penzolavano senza forze. Gundersen provava un senso di affanno solo a guardarli. Tuttavia, avevano buoni motivi per essere stanchi: non avendo mezzi per attraversare l’oceano dovevano aver preso la via di terra, il terribile passaggio a nord-ovest, attraverso il letto secco del Mare di Polvere. Talvolta, durante un giro di ispezione, Gundersen aveva visto dei nildor orientali che si trascinavano attraverso quella cristallina desolazione, e adesso finalmente capiva quale era stata la loro destinazione.
— Possiate avere gioia della vostra rinascita! — li salutò mentre passava, usando la tersa inflessione orientale.
— Sia pace al tuo viaggio — rispose calmo uno dei nildor.
Neppure loro videro alcunché di strano nella sua presenza lì. Ma lui sì. Non poteva fare a meno di pensare a se stesso come un intruso, un ficcanaso. Istintivamente si fece piccolo, avanzando lungo la parte interna del sentiero, come se questo servisse a renderlo meno visibile. Prevedeva da un momento all’altro di essere respinto da qualche guardiano della montagna, che sarebbe apparso d’improvviso a bloccargli la strada.
Sopra di lui, dopo due o tre spirali del sentiero, scorse segni di attività.
Due nildor e forse una dozzina di sulidoror erano fermi davanti all’ingresso di un oscuro crepaccio sul fianco della montagna. Riusciva a vederli solo sporgendosi in posizione precaria sull’orlo del sentiero. Un terzo nildor emerse dalla caverna; parecchi sulidoror entrarono. Forse una stazione di transito lungo la strada della rinascita? Allungò il collo per vedere, ma proseguendo lungo il sentiero raggiunse un punto da dove la scena non era più visibile.
Gli ci volle più di quanto avesse pensato per raggiungerla. Il sentiero si snodava per un lungo tratto onde poter girare attorno a un torrione di roccia che si levava dal fianco della montagna, e la deviazione portò Gundersen fin sulla faccia della montagna che guardava a nord. Quando riuscì a rivedere la caverna, un crepuscolo rapido stava calando, e la sua meta era ancora a una certa distanza.
Il buio completo giunse prima che potesse raggiungerla. Una spessa coltre di nebbia si era stesa su ogni cosa. Gundersen si trovava a circa metà dell’ascesa. Il sentiero in quel punto si allargava sul fianco della montagna, creando un ampio spazio coperto dalle fragili scaglie di una pietra pallida, e contro il fianco della montagna Gundersen vide uno squarcio nero, una grande V rovesciata, l’ingresso di quella che doveva essere una gigantesca caverna. Tre nildor giacevano addormentati alla sinistra dell’ingresso, e cinque sulidoror, sulla destra, parevano impegnati in una discussione.
Si nascose dietro un masso, sbirciando con cautela l’ingresso della caverna. I sulidoror entrarono, e per più di un’ora non accadde niente. Poi li vide emergere, svegliare uno dei nildor e guidarlo all’interno. Passò un’altra ora prima che tornassero a prendere il secondo. Dopo un po’ fu la volta del terzo. Ormai la notte era inoltrata. La nebbia, costante compagna del suo viaggio, si avvicinò e lo avvolse. Le creature simili a pipistrelli dal grande becco calarono dalle regioni superiori della montagna come marionette appese ai fili, lanciando strida e svanendo nella nebbia sottostante, per tornare pochi momenti dopo, in un’ascesa altrettanto veloce. Gundersen era solo. Questo era il momento adatto per sbirciare nella caverna, ma non riuscì a trovare il coraggio. Esitò, tremando, incapace di muoversi. I suoi polmoni erano soffocati dalla nebbia. Non riusciva a vedere nulla in nessuna direzione, adesso; anche gli esseri simili a pipistrelli erano invisibili, ridotti a semplici grida distorte dall’effetto Doppler, mentre salivano e scendevano. Si sforzò di ritrovare una parte della sicurezza che aveva provato il giorno successivo alla morte di Cullen, quando era partito senza guida in quella terra invernale. Con uno sforzo cosciente, ritrovò alla fine un brandello di quel vigore.
Andò all’imboccatura della caverna.
Vide solo buio all’interno. Né sulidoror né nildor apparivano all’ingresso. Fece un passo, cauto. La caverna era fredda, ma di un freddo secco, molto più piacevole del gelo intriso di nebbia all’esterno. Estraendo la torcia a fusione, arrischiò un rapido lampo di luce, e scoprì di trovarsi al centro di un’immensa camera, il cui soffitto altissimo si perdeva nell’ombra. Le pareti della camera erano una fantasia barocca di pieghe e sporgenza, contrafforti e torri di pietra lucida e trasparente, che scintillò come vetro nell’istante in cui la luce la colpì. Proprio davanti a lui, fiancheggiato da due ali ondulate di pietra, spalancate come tende solide, c’era un passaggio, grande abbastanza per Gundersen, ma probabilmente piuttosto difficoltoso per i nildor che erano venuti prima di lui.
Si avviò verso di esso.
Altri due lampi della torcia lo fecero arrivare. Poi proseguì a tentoni, tenendosi vicino a un fianco dell’apertura. Il corridoio piegava bruscamente a sinistra, e dopo circa venti passi piegava altrettanto bruscamente dalla parte opposta. Superando la seconda curva, una fievole luce accolse Gundersen. Una formazione fungoide verde pallido che cresceva sul soffitto forniva un minimo di illuminazione. Si sentì sollevato, ma anche vulnerabile: adesso poteva vedere, ma anche essere visto.
Il corridoio era circa due volte la grandezza di un nildor e tre volte l’altezza, e il soffitto formava un arco acuto, in cui crescevano i fungoidi. Si addentrava per quella che sembrava una distanza infinita nella montagna. Ai lati si aprivano camere e passaggi secondari.
Avanzò e sbirciò nella prima di queste camere. Conteneva qualcosa di grande, strano, e apparentemente vivo. Sul pavimento di nuda pietra giaceva una massa di carne rosa, informe e immobile. Gundersen distinse arti corti e grossi e una coda avvolta strettamente sopra larghi fianchi; non riuscì a vedere la testa, né alcun segno che gli permettesse di associarla a qualche specie conosciuta. Avrebbe potuto essere un nildor, ma non era grande abbastanza. Mentre guardava, si gonfiò respirando, e si sgonfiò lentamente. Passarono molti minuti prima che inalasse un altro respiro. Gundersen proseguì.
Nella cella successiva trovò una massa analoga di carne indefinibile. Nella terza un’altra. La quarta cella, sul lato opposto del corridoio, conteneva un nildor della specie occidentale, profondamente addormentato. La cella successiva era occupata da un sulidor che giaceva, stranamente, sulla schiena, con le membra irrigidite verso l’alto. La cella successiva conteneva un sulidor nella stessa posizione, ma peraltro sorprendentemente diverso, poiché si era spogliato della spessa pelliccia e giaceva nudo, rivelando tremendi muscoli sotto la pelle grigia e lustra. Proseguendo Gundersen arrivò a una camera che ospitava qualcosa di ancora più bizzarro: una creatura che possedeva gli aculei, la proboscide, le zanne di un nildor, ma braccia, gambe e tronco di un sulidor. Che agglomerato da incubo era quello? Gundersen rimase davanti a esso a lungo, stupefatto, cercando di comprendere come la testa di un nildor avesse potuto essere innestata al corpo di un sulidor. Si rese conto che non poteva trattarsi di un innesto; il dormiente partecipava semplicemente delle caratteristiche di entrambe le razze in un singolo corpo. Un ibrido? Una fusione genetica?
Non lo sapeva. Ma adesso sapeva che quella non era una stazione di passaggio nella strada verso la rinascita. Quello era il luogo della rinascita medesima.
Molto davanti a lui, delle figure emersero da uno dei corridoi laterali e attraversarono quello principale: due sulidoror e un nildor. Gundersen si appiattì contro una parete e rimase immobile fino a quando non sparirono alla vista, in una della camere. Poi proseguì.
Non vide altro che miracoli. Era in un giardino di bizzarrie, dove nessuna barriera esisteva.
Vide una massa spugnosa e rotonda di morbida carne rosa, con un unico tratto distintivo che sporgeva da essa: la grossa coda di un sulidor.
Vide un sulidor con tutta la sua pelliccia, con tronco e orecchie di nildor.
Vide carne che non era né di sulidor né di nildor, ma viva e passiva, come una cosa in attesa della mano dello scultore.
Vide un’altra cosa che assomigliava a un sulidor le cui ossa si fossero fuse.
Vide un’altra cosa che assomigliava a un nildor che non avesse mai avuto ossa.
Vide proboscidi, aculei, zanne, artigli, code, zampe. Vide pellicce e pelle liscia. Vide carne scorrere alla ricerca di nuove forme. Vide camere buie, illuminate solo dalla luminescenza dei fungoidi, in cui non esisteva una netta distinzione fra specie.
Le leggi della biologia sembravano sospese in quel luogo. Non era una banale sollecitazione dei geni, Gundersen lo sapeva. Sulla Terra qualsiasi tecnico da salone genetico era in grado di ridisegnare il plasma genetico di un organismo con qualche preciso colpo di ago e poche iniezioni; poteva indurre una cammella a generare un ippopotamo, una gatta a generare una tamia, o magari una donna a generare un sulidor. Bastava rinforzare le caratteristiche desiderate entro lo sperma e l’uovo, e sopprimere altre caratteristiche, fino ad avere una copia ragionevole della creatura desiderata. I mattoni genetici fondamentali erano gli stessi per ogni forma di vita; riorganizzandoli, si poteva creare ogni genere di mostruosa progenie. Ma quello che stava accadendo lì era una cosa diversa.
Sulla Terra, Gundersen lo sapeva, era anche possibile indurre qualsiasi cellula vivente a svolgere la funzione di un uovo fertilizzato, dividersi, crescere, produrre un organismo completo. Il veleno di Belzagor era un catalizzatore per questo processo; ce n’erano altri. In questa maniera si poteva indurre il moncone di un braccio a riprodurre quel braccio; si poteva da un frammento di pelle di rana generare un esercito di rane; si poteva perfino ricostruire un intero essere umano dai resti di un corpo distrutto. Ma quello che stava accadendo lì era una cosa diversa.
Quello che stava accadendo lì, si rese conto Gundersen, era una trasmutazione di specie, una trasformazione che avveniva non su uova, ma su organismi adulti. Adesso comprendeva le parole di Na-sinisul, quando gli aveva chiesto se anche i sulidoror subivano la rinascita: “Se non ci fosse il giorno, potrebbe esistere la notte?” Sì. Nildor in sulidor. Sulidor in nildor. Gundersen ebbe un brivido di incredulità. Dovette appoggiarsi alla parete per non cadere. Si sentiva scagliato in un universo senza punti fissi. Cos’era reale? Cos’era durevole?
Comprendeva adesso cosa era accaduto a Kurtz in quella montagna.
Gundersen capitò in una cella dove una creatura giaceva a metà di una metamorfosi. Più piccola di un nildor, più grande di un sulidor; denti e non zanne; proboscide e non naso; pelliccia, non pelle coriacea; grandi piedi piatti e non artigli; corpo adatto a camminare in posizione eretta.
— Chi sei? — sussurrò Gundersen. — Cosa sei? Cosa eri? Da che parte ti stai dirigendo?
Rinascita. Ciclo dopo ciclo dopo ciclo. Nildoror che pellegrinavano a nord, entravano in quella caverna, diventavano… sulidoror? Era possibile?
Se è vero, pensò Gundersen, allora non abbiamo mai capito niente di questo pianeta. Ed è vero.
Corse all’impazzata da una cella all’altra, senza più preoccuparsi di essere scoperto. Ciascuna cella confermò il suo sospetto. Vide nildor e sulidoror in ogni stadio di metamorfosi, alcuni quasi interamente nildor, alcuni indubitabilmente sulidoror, ma la maggior parte in qualche stadio intermedio fra un estremo e l’altro; più della metà erano a tal punto trasfigurati che gli era impossibile capire quale sarebbe stato il punto di arrivo. Tutti dormivano. Davanti ai suoi occhi la carne scorreva, ma nulla si muoveva. In quelle fredde camere immerse nella penombra, il mutamento giungeva come un sogno.
Gundersen raggiunse il termine del corridoio. Appoggiò il palmo contro la pietra fredda, solida. Senza fiato, inzuppato di sudore, si voltò verso l’ultima camera ed entrò.
Dentro di questa vi era un sulidor non ancora addormentato, in piedi fra tre serpenti dei tropici, che si muovevano in pigre spire intorno a lui. Il sulidor era grande, grigio per l’età, un essere di insolita imponenza e dignità.
— Na-sinisul? — chiese Gundersen.
— Sapevamo che prima o poi saresti arrivato, Edmundgundersen.
— Non avrei mai immaginato… non avevo capito… — Gundersen si interruppe, cercando con uno sforzo di riprendere il controllo di sé. Con voce più calma disse: — Perdonami se mi sono intromesso. Ho interrotto l’inizio della tua rinascita?
— Ho ancora molti giorni — disse il sulidor. — Sto soltanto preparando la camera.
— E ne uscirai come nildor.
— Sì — disse Na-sinisul.
— La vita segue un ciclo, dunque, su questo pianeta? Da sulidor a nildor a sulidor a nildor a…
— Sì. Rinascita dopo rinascita.
— Tutti i nildor trascorrono una parte della loro vita come sulidoror? Tutti i sulidoror trascorrono parte della loro vita come nildor?
— Sì. Tutti.
Com’era cominciato? si chiese Gundersen. Come si erano intrecciati i destini di due razze così diverse? Come aveva potuto un’intera specie consentire a una tale metamorfosi? Non riusciva neppure a immaginarselo.
Ma adesso comprendeva perché non aveva mai visto un nildor o un sulidoror piccolo. Disse: — Nascono mai dei piccoli di una razza o dell’altra, su questo mondo?
— Soltanto quando servono per sostituire coloro che non possono più rinascere. Non capita spesso. La nostra popolazione è stabile.
— Stabile, ma continuamente mutevole.
— Secondo uno schema prevedibile — disse Na-sinisul. — Quando riemergerò, sarò Fi’gontor della nona nascita. La mia gente ha atteso trenta rotazioni che mi riunissi a loro; ma le circostanze hanno richiesto che rimanessi tanto a lungo nella foresta delle nebbie.
— Nove rinascite sono un numero insolito?
— Ci sono alcuni fra noi che sono stati qui anche quindici volte. Ci sono alcuni che attendono cento rotazioni per essere chiamati. La chiamata giunge quando vuole; e per coloro che lo meritano, la vita non avrà fine.
— Non avrà… fine…
— Perché dovrebbe? — chiese Na-sinisul. — In questa montagna veniamo purgati dei veleni dell’età, e altrove ci purghiamo dei veleni del peccato.
— Sull’altopiano centrale, cioè.
— Vedo che hai parlato con l’uomo Cullen.
— Sì — disse Gundersen. — Poco prima della sua… morte.
— Sapevo anche che la sua vita era giunta al termine — disse Na-sinisul. — Apprendiamo rapidamente le notizie, qui.
Gundersen disse: — Dove sono Srin’gahar e Luu’khamin e gli altri con cui ho viaggiato?
— Sono qui, in celle non lontane.
— Già rinascono?
— Da alcuni giorni. Presto saranno sulidoror, e vivranno qui a nord, finché non verranno chiamati per riassumere la forma nildor. Così rigeneriamo la nostra anima, iniziando nuove vite.
— Durante la fase sulidoror conservate il ricordo della vostra vita trascorsa come nildor?
— Certamente. Come può l’esperienza essere utile se non viene conservata? Noi accumuliamo saggezza. La nostra capacità di vedere la verità viene acuita dal vedere l’universo ora attraverso gli occhi dei un nildor, ora di un sulidor. Non soltanto nel corpo le due forme sono diverse. Subire una rinascita significa entrare in un nuovo mondo, non soltanto una nuova vita.
Esitando, Gundersen disse: — E quando qualcuno che non è di questo pianeta subisce la rinascita? Qual è l’effetto? Che trasformazione avviene?
— Hai visto Kurtz?
— Ho visto Kurtz — disse Gundersen. — Ma non ho idea di cosa sia diventato.
— Kurtz è diventato Kurtz — disse il sulidor. — Per la vostra razza non può esistere vera trasformazione, perché non avete una specie complementare. Cambiate, sì, ma diventate solo quello che avete la potenzialità di diventare. Liberate quelle forze che già esistono in voi. Mentre dormiva, Kurtz scelse lui stesso la sua nuova forma. Nessun altro la definì per lui. Non è facile spiegarlo mediante le parole, Edmundgundersen.
— Se io mi sottoponessi alla rinascita, dunque, non mi trasformerei necessariamente in qualcosa di simile a Kurtz?
— No, a meno che la tua anima non sia l’anima di Kurtz, e questo non è possibile.
— Cosa diventerei?
— Nessuno può saperlo prima che avvenga. Se desideri scoprire cosa ti farà la rinascita, devi accettare la rinascita.
— Se chiedessi la rinascita, mi verrebbe concessa?
— Ti ho detto quando ci siamo incontrati la prima volta — disse Na-sinisul — che nessuno su questo mondo ti impedirà di fare alcunché. Non sei stato fermato mentre salivi la montagna della rinascita. Non sei stato fermato quando hai esplorato questa caverna. La rinascita non ti verrà negata se senti di doverla provare.
Senza esitare, serenamente, Gundersen disse: — Allora chiedo la rinascita.