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La nebbia si addensò, portando con sé gemme di ghiaccio che pendevano da ogni albero, da ogni capanna; e sulla riva del lago di piombo Gundersen cremò il corpo devastato di Cullen con una lunga, feroce fiammata della torcia a fusione, mentre i sulidoror guardavano, silenziosi e solenni. La terra sfrigolò un poco, quando ebbe finito, e la nebbia mulinò follemente quando l’aria fredda si precipitò a riempire la zona di calore creata dalla torcia. Dentro la capanna c’erano pochi oggetti privi di importanza. Gundersen frugò fra di essi, sperando di trovare un diario, un memoriale, qualsiasi cosa portasse l’impronta dell’anima e della personalità di Cedric Cullen. Ma trovò solo qualche strumento arrugginito, una scatola di insetti e lucertole disseccate, vestiti stinti. Lasciò queste cose dove le aveva trovate.

I sulidoror gli portarono una cena fredda, lo lasciarono mangiare indisturbato, seduto sulla culla di legno, fuori dalla capanna di Cullen. Venne il buio, e si ritirò nella capanna per dormire. Se-holomir e Yi-gartigok si misero di guardia all’ingresso, anche se non aveva chiesto loro di stare lì. Non disse niente. La sera presto, si addormentò.

Stranamente, sognò non Cullen appena morto, ma Kurtz ancora vivo. Vide Kurtz attraversare a piedi il paese delle nebbie, il vecchio Kurtz, non ancora trasformato nella sua condizione presente: infinitamente alto, pallido, gli occhi che bruciavano nel cranio, illuminati da una strana conoscenza. Kurtz portava un bastone da pellegrino e marciava instancabile nella nebbia. Lo accompagnava, senza essere veramente con lui, una processione di nildor, i corpi verdi ricoperti di fango rosso vivo; si fermavano ogni volta che Kurtz si fermava, e si inginocchiavano accanto a lui, e di tanto in tanto lui li lasciava bere da una borraccia a forma di tubo, che portava con sé. Ogni volta che Kurtz offriva questa borraccia ai nildor, lui e non loro subiva una trasformazione. Le sue labbra si univano in un liscio sigillo; il suo naso si allungava; gli occhi, le dita delle mani e dei piedi, le gambe, cambiavano e cambiavano ancora. Fluido e mutevole, Kurtz non manteneva la forma a lungo. A un certo stadio del viaggio divenne un sulidor sotto tutti gli aspetti tranne uno: la testa dall’alta calotta calva che sormontava il massiccio corpo peloso. Poi la pelliccia si sciolse, gli artigli si rattrappirono, e prese un’altra forma: quella di un essere agile e dai lunghi balzi, rapace e veloce, con gomiti dalla doppia articolazione e lunghe gambe sottili. Altre trasformazioni seguirono. I nildor intonavano inni di adorazione, in spesse, monotone matasse di grigio suono. Kurtz si inchinava, salutava, sorrideva benevolmente. Faceva passare la sua borraccia, che non si vuotava mai. Subiva cicli incessanti di stupefacenti metamorfosi. Dallo zaino estraeva doni che distribuiva fra i nildor: torce, coltelli, libri, cubi-lettera, computer, statue, organi a colori, farfalle, fiaschi di vino, sensori, moduli di trasporto, strumenti musicali, perline, stampe antiche, medaglioni sacri, cesti di fiori, bombe, razzi di segnalazione, scarpe, chiavi, giocattoli, lance. Ciascun dono produceva sospiri estatici e grugniti e muggiti di gratitudine da parte dei nildor; saltavano per la gioia intorno a lui, sollevando con le proboscidi i loro nuovi tesori, mostrandoseli eccitati l’un l’altro. “Vedete?” gridava Kurtz. “Io sono il vostro benefattore. Sono vostro amico. Sono la resurrezione e la vita.” Arrivarono al luogo della rinascita, non una montagna nel sogno di Gundersen, ma piuttosto un abisso, scuro e profondo, ai cui bordi i nildor si radunarono, in attesa. E Kurtz, il cui corpo sembrava tremolare e lampeggiare per la velocità delle metamorfosi: ora fornito di corna, ora coperto di scaglie, ora avvolto dalle fiamme, avanzò mentre i nildor lo acclamavano e gli dicevano: “Questo è il luogo, la rinascita sarà tua”, e lui si gettò nell’abisso, che lo avvolse in una notte assoluta. Poi dalle profondità del pozzo si levò un singolo grido prolungato, un acuto lamento di terrore e di costernazione, così spaventoso che Gundersen si svegliò, e giacque sudato e tremante per ore, aspettando l’alba.

La mattina, si mise lo zaino in spalla e si preparò a partire. Se-holomir e Yi-gartigok vennero da lui; e uno dei sulidoror disse: — Dove andrai ora?

— A nord.

— Dobbiamo venire con te?

— Vado da solo — disse Gundersen.

Sarebbe stato un viaggio difficile, forse pericoloso, ma non impossibile. Aveva strumenti per orientarsi, concentrati di cibo, una riserva di energia e cose del genere. Aveva la determinazione necessaria. Sapeva che i villaggi sulidoror lungo il cammino gli avrebbero offerto ospitalità, se ne avesse avuto bisogno. Ma sperava non fosse necessario. Era stato scortato abbastanza: prima da Srin’gahar, poi da vari sulidoror; sentiva di dover terminare quel pellegrinaggio senza una guida.

Due ore dopo il sorgere del sole si mise in cammino.

Era una giornata buona per iniziare l’impresa. L’aria era fresca e limpida, la nebbia alta; riusciva a vedere sorprendentemente lontano in tutte le direzioni. Attraversò la foresta alle spalle del villaggio ed emerse su una collina di discrete dimensioni, in cima alla quale poté farsi un’idea del terreno che lo attendeva. Vide un paesaggio accidentato, con fitte foreste, interrotto frequentemente da ruscelli, laghi, fiumi; e riuscì anche a individuare la cima della montagna della rinascita, una sentinella scoscesa a settentrione. La guglia rosata sull’orizzonte sembrava così vicina da poterla toccare. Bastava allungare una mano, le dita. E i crepacci, le alture, le pareti che lo separavano dalla sua meta non erano un ostacolo: potevano essere superati con pochi rapidi balzi. Il suo corpo era ansioso di tentare: il cuore che pulsava regolare, i sensi straordinariamente acuti, le gambe che si muovevano fluide e instancabili. Avvertiva un innalzarsi dell’anima, una tensione controllata ma estatica verso la vita e la forza; i fantasmi che gli avevano fatto velo per tanti anni stavano svanendo; in quella terra gelida di neve e nebbia si sentiva temprato, purificato, pronto ad accettare tutto ciò che doveva essere accettato. Una strana energia lo riempiva. Non gli dava fastidio l’aria sottile, il freddo o la desolazione della terra. Era una mattina di insolita limpidezza, con una chiara luce solare che scendeva attraverso l’alta cortina di nebbia, e dava agli alberi e al suolo nudo una luminosità da sogno. Si avviò con passo fermo.

La nebbia si infittì verso mezzogiorno. La visibilità diminuì, fino a quando Gundersen poté vedere solo otto o dieci metri davanti a lui. Gli alberi giganti divennero degli ostacoli seri; le loro radici aggrovigliate e gli speroni sinuosi erano trappole per i piedi. Avanzò con cautela. Poi entrò in una regione dove grandi massi piatti spuntavano dal terreno, leggermente inclinati, uno dopo l’altro, scivolosi per la nebbia, come gradini che conducevano alla terra successiva. Dovette strisciare sopra di essi, alla cieca, senza sapere quale balzo avrebbe incontrato al termine di ciascun masso. Saltare era un atto di fede: uno dei dislivelli risultò di circa quattro metri, e in conseguenza dell’impatto le caviglie gli formicolarono per un quarto d’ora. Cominciò a sentire la stanchezza nelle cosce e nelle ginocchia. Ma quella sensazione di estasi controllata, pacata e insieme giubilante, rimase con lui.

Pranzò tardi, accanto a una piccola pozza, perfettamente circolare, limpida come uno specchio, circondata da alti alberi dal tronco sottile e chiusa da uno stretto cerchio di nebbia. Era meraviglioso il senso di solitudine, di intimità di quel luogo; era come una stanza sferica con muri di cotone, all’interno della quale era perfettamente isolato da un universo ambiguo. Qui poteva liberarsi della tensione del viaggio, dopo tante settimane passate insieme a nildor e sulidoror, sempre preoccupato di poter offendere in qualche maniera sconosciuta ma imperdonabile. Era riluttante ad andarsene.

Mentre raccoglieva le sue cose, un suono sgradito si intromise nel suo ritiro: il ronzio di un motore, non molto lontano. Schermandosi gli occhi contro il bagliore della nebbia, guardò in alto e dopo un momento scorse la forma di uno scarafaggio aereo che volava appena al di sotto del soffitto di nuvole. Il piccolo veicolo dalla punta tozza si muoveva in un cerchio stretto, come se cercasse qualcosa. Me? si chiese Gundersen. Automaticamente si riparò sotto un albero, anche se sapeva che era impossibile per il pilota vederlo, anche all’aperto. Un momento dopo lo scarafaggio sparì, in un banco di nebbia a ovest. Ma la magia del pomeriggio era stata infranta. Il fastidioso ronzio meccanico riverberava ancora nella mente di Gundersen, distruggendo la pace che aveva appena trovata.

Dopo un’ora di marcia attraverso una foresta di esili alberi con la corteccia rossa, dall’aria gommosa, Gundersen incontrò tre sulidoror, i primi da che si era separato da Se-holomir e Yi-gartigok. Gundersen si sentì a disagio. Gli avrebbero consentito il passaggio? Si trattava evidentemente di cacciatori, che tornavano a un villaggio vicino; due di loro, legata a un palo che tenevano sulle spalle, portavano la carcassa di un grosso erbivoro a quattro zampe, con la pelliccia di nero velluto e lunghe corna ricurve. Provò un attimo di paura istintiva alla vista delle tre creature gigantesche che avanzavano verso di lui attraverso gli alberi; ma con sua sorpresa la paura svanì rapidamente come era giunta. I sulidoror, malgrado il loro aspetto feroce, non costituivano una minaccia. È vero: potevano ucciderlo con un solo colpo del braccio, ma con questo? Non avevano più ragione di attaccarlo di quanta ne avesse lui di bruciarli con la sua torcia. E qui, nel loro ambiente naturale, non sembravano neppure bestiali o selvaggi. Grandi, sì. E potenti. Con zanne e artigli tremendi. Ma naturali, adatti al loro ambiente, e non terrificanti.

— Il viaggiatore ha avuto una buona marcia? — chiese il capo sulidor, quello che non reggeva il peso della preda. Parlò con tono sommesso ed educato, usando il linguaggio dei nildor.

— Il viaggiatore ha avuto una buona marcia — disse Gundersen. Improvvisò un saluto di risposta: — La foresta è stata benevola con i cacciatori?

— Come vedi, i cacciatori sono stati fortunati. Se il tuo cammino ti conduce verso il nostro villaggio, saremo felici di dividere con te la nostra preda, questa sera.

— Vado verso la montagna della rinascita.

— Il nostro villaggio si trova in quella direzione. Vuoi venire?

Accettò l’offerta, poiché la notte era vicina e un vento teso sibilava fra gli alberi. Il villaggio sulidoror era piccolo, addossato ai piedi di una scoscesa parete a mezz’ora di cammino verso nord-est. Gundersen vi trascorse una notte piacevole. Gli abitanti erano cortesi, quantunque distanti, ma in una maniera del tutto priva di ostilità. Gli diedero un angolo in una capanna, cibo e bevande, e lo lasciarono solo. Non ebbe l’impressione di essere il membro di una razza disprezzata di conquistatori scacciati, alieno e indesiderato. Sembravano considerarlo semplicemente un viandante bisognoso di rifugio, senza preoccuparsi della specie a cui apparteneva. Trovò la cosa piacevole. Naturalmente i sulidoror non avevano le stesse ragioni di risentimento dei nildor, dal momento che quegli abitanti della foresta non erano mai stati effettivamente resi schiavi dalla Compagnia; ma lui si era sempre immaginato una rabbia latente nei sulidoror, e la loro tranquilla gentilezza era una felice smentita di questa immagine, che, sospettava ora Gundersen, era stata forse una proiezione dei suoi sensi di colpa. Il mattino gli portarono frutta e pesci, e lui prese congedo.

Il secondo giorno di viaggio da solo non fu piacevole come il primo. Il tempo era cattivo, freddo e umido, spesso nevicava, con una nebbia densa che gravava sulla terra. Perse gran parte della mattina intrappolandosi in un cul-de-sac, con una lunga catena di colline alla sua sinistra, un’altra alla destra, e un largo lago che apparve d’improvviso davanti a lui. Attraversarlo a nuoto era impensabile: avrebbe dovuto trascorrere forse parecchie ore nelle sue acque gelide, e non sarebbe sopravvissuto. Perciò dovette compiere un lungo e faticoso giro verso ovest, superando la catena più bassa di colline, e si ritrovò a tal punto fuori strada che a mezzogiorno non era arrivato più a settentrione di quanto non lo fosse stato la sera prima. La vista della montagna della rinascita, avvolta nella nebbia, lo spinse avanti, e per un paio d’ore, nel pomeriggio, ebbe l’illusione di aver recuperato il tempo perso al mattino, solo per scoprire di essere bloccato da un rapido e ampio fiume che scorreva da ovest a est, evidentemente quello che formava il lago che l’aveva bloccato in precedenza. Non osò attraversare a nuoto neppure questo: la corrente l’avrebbe trascinato chissà dove prima che riuscisse a raggiungere la riva opposta. Perse invece più di un’ora seguendo il fiume a monte, finché non raggiunse un punto dove poteva guadarlo. Era ancora più largo, in quel punto, ma il letto appariva molto più basso, e qualche sollevamento geologico aveva gettato attraverso la corrente una fila di massi, come una collana. Una dozzina di essi emergevano, circondati da una schiuma bianca, gli altri, benché sommersi, erano appena visibili sotto la superficie. Gundersen cominciò la traversata. Riuscì a saltare da un masso all’altro rimanendo asciutto, fin quasi a un terzo del cammino. Poi dovette entrare nell’acqua fino alle caviglie, scivolando e a tentoni. La nebbia lo avvolse. Avrebbe potuto essere solo nell’universo, senza nulla davanti e dietro di sé se non confuse masse bianche. Non vedeva né gli alberi né la riva, neppure i massi che lo attendevano. Si concentrò completamente nel tenersi in piedi e mantenere la direzione giusta. Avendo messo un piede in fallo, scivolò e cadde nel fiume fino alle ascelle, sbattuto dalla corrente, talmente confuso per un momento che non riuscì ad alzarsi in piedi. Tutta la sua energia era dedicata a tenersi aggrappato alla roccia angolosa sotto di sé. Dopo qualche minuto, riuscì a trovare la forza per rimettersi in piedi, e avanzò barcollando, finché non trovò un masso che emergeva di circa mezzo metro sull’acqua. Si inginocchiò su di esso, intirizzito e inzuppato, tremante. Trascorsero forse cinque minuti. Con la nebbia che lo opprimeva, non riuscì ad asciugarsi, ma almeno riprese fiato, e poté ricominciare la traversata. Allungando la punta di uno stivale, trovò un altro masso emergente, davanti a sé. Passò su questo. Ce n’era un altro. Poi un altro. Adesso era facile. Avrebbe raggiunto la riva opposta senza più bagnarsi. Affrettò il passo e attraversò altri due massi. Poi, attraverso uno squarcio nella nebbia, intravide la riva.

C’era qualcosa che non andava.

La nebbia si richiuse; ma Gundersen esitò a proseguire senza essersi assicurato che tutto fosse come doveva essere. Si abbassò e immerse una mano nell’acqua. Sentì la corrente venire da destra e colpirgli il palmo aperto. Stancamente, chiedendosi se il freddo e la fatica non gli avessero confuso la mente, ricapitolò la topografia della situazione parecchie volte, giungendo invariabilmente alla stessa avvilente conclusione: se sto attraversando in direzione nord un fiume che scorre da ovest a est, dovrei sentire la corrente venire dalla mia sinistra. In qualche maniera aveva girato su se stesso mentre cercava un appiglio nell’acqua, e da quel momento aveva continuato con grande diligenza a dirigersi verso la riva meridionale del fiume.

La sua fede in se stesso ne uscì distrutta. Venne tentato di fermarsi lì, aggrappato a quella roccia, in attesa che la nebbia si diradasse prima di proseguire; poi gli venne in mente che forse avrebbe dovuto attendere tutta notte, o magari ancora di più. Si ricordò anche, in ritardo, che aveva con sé l’equipaggiamento adatto per affrontare simili problemi. Dallo zaino estrasse il piccolo cilindro freddo della bussola e lo puntò verso l’orizzonte, facendole compiere un arco che finì quando sentì il “biip” che indicava il nord. Questo confermò le sue conclusioni circa la corrente, e riprese la traversata del fiume, giungendo poco dopo nel punto dove era caduto in precedenza. Questa volta non ebbe difficoltà.

Giunto sulla riva opposta, si spogliò e asciugò se stesso e gli abiti con il raggio della torcia alla minima potenza. La notte ormai era scesa. Non gli sarebbe spiaciuto un altro invito in un villaggio sulidoror, ma quel giorno non apparvero cacciatori ospitali. Trascorse una scomoda notte accoccolato sotto un cespuglio.

Il giorno successivo fu più caldo e meno nebbioso. Gundersen proseguì stancamente, tormentato dal timore che le dure ore di marcia potessero risultare sprecate, quando avesse incontrato qualche ostacolo imprevisto. Ma andò tutto bene, e riuscì senza difficoltà ad attraversare i ruscelli e i torrenti che incontrò sul suo cammino. La terra qui era corrugata e piegata, come se due mani gigantesche, una da nord e Una da sud, l’avessero schiacciata. Ma mentre Gundersen scendeva un pendio e risaliva il successivo, guadagnava costantemente in altezza, poiché l’intero continente si inclinava verso il possente altopiano su cui si innalzava la montagna della rinascita.

Verso il primo pomeriggio l’andamento prevalente delle pieghe, da est a ovest, cambiò direzione e si trovò a camminare parallelamente a una serie di scanalature poco profonde, che andavano da sud a nord, e che terminarono in una pianura circolare, priva di alberi. I grandi animali del nord, i cui nomi Gundersen non conosceva, brucavano numerosi, frugando col muso fra l’erba coperta da una spruzzata di neve. Pareva ci fossero solo quattro o cinque specie: una di animali dalle zampe grosse e la schiena arcuata, come mucche mal formate, un’altra di gazzelle sovradimensionate, e poche altra, ma ce n’erano centinaia o migliaia di esemplari di ciascuna specie. In lontananza, verso est, ai margini della pianura, Gundersen vide quello che sembrava un piccolo gruppo di cacciatori sulidoror, che ammassavano alcuni degli animali.

Di nuovo sentì il ronzio del motore.

Lo scarafaggio che aveva visto il giorno prima tornò, volando alquanto basso. Istintivamente Gundersen si gettò a terra, sperando di passare inosservato. Attorno a lui gli animali si agitarono, inquieti, perplessi dal rumore, ma non fuggirono. Lo scarafaggio atterrò a un migliaio di metri da lui. Gundersen decise che Seena doveva essere venuta a cercarlo, sperando di trovarlo prima che potesse consegnarsi ai sulidoror della montagna della rinascita. Ma si sbagliava. Il portello dello scarafaggio si aprì, e Van Beneker con i suoi turisti ne emersero.

Gundersen strisciò avanti, finché non fu al riparo di una piccola macchia di piante simili a cardi, su una bassa altura. Non poteva sopportare l’idea di incontrare di nuovo quella gente, non a quel punto del suo pellegrinaggio, quando era stato purgato da tante vestigia dei Gundersen passati.

Li osservò.

Camminarono verso gli animali, fotografandoli, osando perfino toccare alcune delle bestie più pigre. Gundersen sentì le loro voci e le loro risate spezzare il silenzio. Parole isolate lo raggiunsero, prive di senso quanto il flusso partorito dai sogni di Kurtz. Sentì anche la voce di Van Beneker che si levava sopra il chiacchiericcio, spiegando e illustrando. Quei nove esseri umani sul prato, davanti a lui, gli sembravano altrettanto alieni quanto i sulidoror. Forse di più. Era consapevole che quegli ultimi giorni di nebbia e di gelo, questa solitaria odissea attraverso un mondo bianco e silenzioso, avevano prodotto in lui una trasformazione che a stento riusciva a comprendere. Si sentiva l’anima leggera, liberata dall’eccessivo bagaglio dello spirito, un uomo più semplice sotto tutti i punti di vista, eppure più complesso.

Aspettò un’ora o più, nascosto, che i turisti finissero la loro visita del pascolo. Poi tutti tornarono allo scarafaggio. Dove sarebbero andati adesso? Van Beneker li avrebbe portati a nord, per spiare la montagna della rinascita? No. Non era possibile. Van Beneker aborriva l’intera faccenda della rinascita, come tutti i bravi terrestri: non avrebbe osato sconfinare in quella regione misteriosa.

Ma quando lo scarafaggio decollò, si diresse verso nord.

Gundersen, nella sua angoscia, urlò che tornasse indietro. Come se l’avesse sentito, il veicolo scintillante virò, dopo aver guadagnato in altezza. Van Beneker doveva aver approfittato di un vento favorevole, nulla più. Lo scarafaggio si diresse verso sud. Il giro era finito. Gundersen lo vide passare direttamente sopra di lui e sparire in un alto banco di nebbia. Senza fiato per il sollievo, corse avanti, facendo scappare con alte grida gli animali esterrefatti.

Ora tutti gli ostacoli sembravano alle sue spalle. Gundersen attraversò la valle, superò uno spartiacque innevato senza difficoltà, guadò un torrente poco profondo, si fece strada in una foresta di fitti alberi bassi e grossi, con una stretta corona di foglie appuntite. Assunse un ritmo di viaggio tranquillo, senza prestare più attenzione al freddo, alla nebbia, all’umidità, all’altezza, alla stanchezza. Era in armonia con il suo compito. Quando dormiva, dormiva profondamente; quando cercava cibo per integrare le sue razioni, trovava cibo buono; quando voleva coprire grandi distanze, ci riusciva. La pace della foresta nebbiosa lo ispirava a compiere prodigi. Si mise alla prova, cercando i limiti della propria resistenza, li trovò, li superò alla prima occasione.

Durante questa parte del suo viaggio fu completamente solo. Qualche volta vide tracce di sulidoror sulla sottile crosta di neve che copriva la maggior parte del terreno, ma non incontrò nessuno. Lo scarafaggio non tornò. Anche i suoi sogni erano vuoti; il fantasma di Kurtz che l’aveva tormentato in precedenza era sparito, e sognava solo nude astrazioni, che scordava al risveglio.

Non sapeva quanti giorni fossero passati dalla morte di Cedric Cullen. Il tempo scorreva e si scioglieva in se stesso. Non provava impazienza, né stanchezza, neppure il desiderio che tutto fosse finito. E fu così con una certa sorpresa che alzando gli occhi si accorse, mentre si arrampicava lungo un liscio cornicione di roccia largo circa trenta metri, delimitato da una parete di ghiaccioli e decorato qua e là da ciuffi d’erba e alberi stentati, che aveva cominciato la scalata della montagna della rinascita.

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