Ciò che Gundersen vide era apparentemente umano, e probabilmente un tempo era perfino stato Jeff Kurtz. L’assurda lunghezza del corpo era senza dubbio propria di Kurtz, poiché la figura nel letto sembrava lunga una volta e mezzo un uomo normale, come se una sezione extra di vertebre, e magari un secondo paio di femori fossero stati inseriti. Anche il cranio era chiaramente quello di Kurtz: la grande calotta bianca, le arcate sporgenti. Queste erano ancora più prominenti di quanto Gundersen ricordasse. Si levavano al di sopra degli occhi chiusi come barricate a guardia di qualche invasione da nord. Ma le fitte sopracciglia nere che avevano coperto quelle arcate erano sparite. E così pure le sopracciglia lunghe, quasi femminili.
Sotto la fronte la faccia era irriconoscibile.
Era come se fosse stata fusa in un crogiuolo e lasciata scorrere. Il naso dritto e alto era diventato una protuberanza gommosa, simile in maniera sconvolgente a quello di un sulidor. La bocca larga aveva adesso labbra flosce che penzolavano aperte, rivelando gengive senza denti. Il mento era inclinato all’indietro, come quello di un pitecantropo. Gli zigomi, piatti e larghi, alteravano del tutto la fisionomia della faccia.
Seena tirò indietro la coperta, per rivelare il resto. Il corpo nel letto era completamente privo di peli, una lunga cosa rosa, che sembrava essere stata bollita, simile a una grossa lumaca senza guscio. Tutta la carne superflua era sparita, e la pelle era distesa come un sudario su ossa e muscoli chiaramente delineati. Le proporzioni del corpo erano sbagliate: la vita si trovava a una distanza impossibile dal torace, e le gambe per quanto lunghe non lo erano come avrebbero dovuto essere; le caviglie sembravano addossate alle ginocchia. Le dita dei piedi si erano fuse in zampe animalesche. Forse per compenso le dita delle mani avevano sviluppato nuove giunture, e sembravano adesso zampe di ragno che si contraevano in maniera irregolare. La giuntura fra le braccia e il busto aveva qualcosa di strano, ma fu solo quando Gundersen vide Kurtz roteare lentamente il braccio sinistro in un arco di 360 gradi, che si rese conto che l’ascella doveva essere stata ricostruita in una sorta di versatile snodo a sfera. Kurtz fece uno sforzo disperato per parlare, farfugliando delle parole in una lingua che Gundersen non aveva mai sentito. I globi oculari si mossero visibilmente sotto le palpebre. La lingua scivolò fuori per inumidire le labbra. Qualcosa di simile a un pomo di Adamo con tre protuberanze gli salì lungo la gola. Per un momento inarcò il corpo, tendendo la pelle su ossa curiosamente allargate. Continuò a parlare. Di tanto in tanto una parola intelligibile in inglese o in nildororu emergeva, fra un flusso di suoni confusi: — Fiume… morte… perso… orrore… fiume… caverna… caldo… perso… rovina… nero… andare… dio… nato… perso… nato…
— Cosa sta dicendo? — chiese Gundersen.
— Nessuno lo sa. Anche quando riusciamo a capire le parole, non hanno senso. E di solito non si capiscono neppure le parole. Parla nella lingua del mondo dove ora vive. Una lingua solo sua.
— Ha mai ripreso conoscenza da quando è qui?
— Non propriamente — disse Seena. — Qualche volta apre gli occhi, ma non reagisce mai a ciò che lo circonda. Vieni. Guarda. — Andò al letto e aprì le palpebre di Kurtz. Gli occhi che Gundersen vide erano privi di bianco. La superficie era di un nero profondo, scintillante, con dei puntini azzurri. Gundersen sollevò tre dita davanti a quegli occhi e le spostò da parte a parte. Kurtz non ebbe alcuna reazione. Seena lasciò andare le palpebre, e gli occhi rimasero aperti, anche quando le punte delle dita di Gundersen arrivarono vicinissime. Ma mentre Gundersen fece per ritirare la mano, Kurtz sollevò la destra e gli afferrò il polso. Le dita grottescamente allungate glielo circondarono completamente, si incontrarono, si avvolsero ancor per metà. Lentamente, con forza tremenda, Kurtz tirò giù Gundersen, costringendolo a inginocchiarsi accanto al letto.
Adesso Kurtz parlava solo in inglese. Come prima, pareva in preda a una disperata angoscia, e costringeva le parole a uscire da un recesso d’incubo, senza alcun accento o punteggiatura percepibili: — Acqua sonno morte salvare sonno sonno fuoco amore acqua sogno freddo sonno proposito salire cadere salire cadere salire salire salire. — Dopo un momento aggiunse: — Cadere. — Poi il flusso di sillabe prive di senso riprese, e le dita abbandonarono la stretta selvaggia attorno al polso di Gundersen.
Seena disse: — Sembrava che volesse dirci qualcosa. Non gli ho mai sentito pronunciare tante parole intelligibili di seguito.
— Ma cosa voleva dire?
— Non so. Ma c’era un significato.
Gundersen annuì. Kurtz, nel suo tormento, aveva espresso il suo testamento, e la sua benedizione. Sonno proposito salire cadere salire cadere salire salire salire. Cadere. Forse aveva perfino un senso.
— E ha reagito alla tua presenza — disse Seena. — Ti ha visto! Ti ha preso per un braccio! Digli qualcosa. Prova a richiamare la sua attenzione di nuovo.
— Jeff? — sussurrò Gundersen, inginocchiandosi. — Jeff, ti ricordi di me? Sono Edmund Gundersen. Sono tornato, Jeff. Riesci a sentire quello che dico? Se mi capisci, Jeff, solleva la mano destra.
Kurtz non sollevò la mano. Emise un lamento soffocato, basso e terribile; poi i suoi occhi si chiusero lentamente, e cadde in un rigido silenzio. I muscoli si contraevano sotto la pelle alterata. Goccioline di sudore acre gli sgorgarono dai pori. Dopo un momento, Gundersen si rialzò e si allontanò.
— Da quanto tempo è qui? — chiese.
— Quasi sei mesi. Credevo che fosse morto. Poi due sulidoror l’hanno riportato, su una specie di barella.
— Trasformato in questa maniera?
— Trasformato. E adesso giace qui. È cambiato molto più di quanto tu possa immaginare — disse Seena. — Dentro è tutto differente. Non ha quasi apparato digerente. Non può assumere cibi solidi; gli do succhi di frutta. Il suo cuore ha dei ventricoli in più. I polmoni sono grandi il doppio di quanto dovrebbero. Il diagnostat non è stato capace di dirmi niente, perché non ci sono corrispondenze con i parametri del corpo umano.
— E questo gli è accaduto nella rinascita?
— Nella rinascita, sì. I nildor prendono una droga che li trasforma. E funziona anche sugli uomini. È la stessa droga che usano sulla Terra per rigenerare gli organi, il veleno, ma qui usano una dose più massiccia e il corpo impazzisce. Se andrai, Edmund, è quello che succederà anche a te.
— Come fai a sapere che è stata la rinascita a fargli questo?
— Lo so.
— Come?
— È quello che ha detto che andava a fare. E i sulidoror che l’hanno riportato hanno detto che si era sottoposto alla rinascita.
— Forse mentivano. Forse la rinascita è una cosa benefica, poi c’è un’altra cosa, una cosa dannosa, ed è questa a cui hanno sottoposto Kurtz, perché era stato così malvagio.
— Ti stai illudendo — disse Seena. — C’è un solo processo, e questo è il risultato.
— Allora può darsi che persone diverse reagiscano in maniera diversa al processo. Se esiste un solo processo. Ma insisto a dire che non puoi essere sicura che sia stata la rinascita a fargli questo.
— Non dire sciocchezze!
— Parlo seriamente. Forse qualcosa dentro Kurtz ha prodotto questo risultato, e in me il risultato potrebbe essere diverso. Un risultato migliore.
— Tu vuoi essere cambiato, Edmund?
— Sono disposto a rischiare.
— Cesseresti di essere umano!
— È un sacco di tempo che cerco di essere umano. Forse è ora di provare qualcos’altro.
— Non ti lascerò andare — disse Seena.
— No? Che diritti hai su di me?
— Ho già perso Jeff per colpa loro. Se andrai lassù…
— Sì?
Lei esitò. — E va bene. Non posso minacciarti. Ma non andare.
— Devo.
— Sei come lui! Gonfio dei tuoi supposti peccati. Ossessionato dalla necessità di qualche tremenda redenzione. È morboso, non capisci? Vuoi solo farti del male nella maniera peggiore possibile. — I suoi occhi brillavano ancora più intensamente. — Ascolta, se vuoi soffrire posso aiutarti io. Vuoi che ti frusti? Che ti calpesti? Se vuoi giocare a fare il masochista, io posso giocare a fare la sadica. Ti darò tutti i tormenti che vuoi. Ti ci affogherai dentro. Ma non andare nel paese delle nebbie. Questo significa tirare troppo la corda, Edmund.
— Tu non capisci, Seena.
— Tu sì?
— Forse capirò quando sarò tornato.
— Tornerai come lui! — urlò Seena. Corse verso il letto di Kurtz. — Guardalo! Guardagli i piedi! Guardagli gli occhi! La bocca, il naso, le dita, e tutto il resto! Non è più un uomo. Vuoi finire come lui, a farfugliare parole senza senso, a vivere dentro un sogno folle tutto il giorno e tutta la notte?
Gundersen esitò. Kurtz era una vista tremenda; era ossessionato al punto da voler affrontare la stessa trasformazione?
— Devo andare — disse, meno fermamente di prima.
— Vive nell’inferno — disse Seena. — E ci finirai anche tu.
Andò da Gundersen e si strinse a lui. Sentì le punte calde dei seni sfregare contro la sua pelle; le sue mani gli premettero disperatamente la schiena; le loro cosce si toccarono. Una grande tristezza scese su Gundersen: per tutto quello che Seena aveva significato un tempo per lui, per tutto quello che era stata, per quello che era diventata, per quello che doveva essere la sua vita con quel mostro a cui badare. Fu scosso da una visione del passato perso e irrecuperabile, del presente oscuro e incerto, del futuro squallido e tremendo. Ancora una volta esitò. Poi la scostò dolcemente. — Mi dispiace — disse. — Io vado.
— Perché? Perché? Che cosa inutile! — Le lacrime le scesero lungo le guance. — Se hai bisogno di una religione — disse — scegli una religione terrestre. Non c’è ragione per cui tu debba…
— C’è una ragione — disse Gundersen. Se la tirò vicino di nuovo e le baciò molto delicatamente le palpebre, poi le labbra. Poi la baciò fra i seni, e la lasciò andare. Andò un momento da Kurtz e rimase un momento a guardarlo, cercando di venire a patti con la bizzarra metamorfosi dell’uomo. Notò una cosa che non aveva osservato prima: la pelle sulla schiena di Kurtz si era indurita, come se piccole placche scure si andassero formando ai due lati della spina dorsale. Senza dubbio c’erano molti altri cambiamenti, evidenti solo a un’esame ravvicinato. Gli occhi di Kurtz si riaprirono, e i globi scuri e lucidi si mossero, come se cercassero di incontrare gli occhi di Gundersen. Lui li fissò, fissò il disegno di puntini azzurri sullo sfondo lucido e uniforme. Kurtz, fra molti suoni che Gundersen non riuscì a comprendere, disse: — Danzare… vivere… cercare… morire… morire.
Era tempo di andarsene.
Passando accanto alla figura immobile e rigida di Seena, Gundersen uscì dalla stanza. Quando raggiunse la veranda, vide che i suoi cinque nildor erano fuori dalla stazione, nel giardino, con un robot che li sorvegliava nervosamente, temendo che cominciassero a strappare piante rare come cibo. Gundersen chiamò, e Srin’gahar alzò lo sguardo.
— Sono pronto — disse Gundersen. — Possiamo partire non appena avrò preso le mie cose.
Trovò i suoi vestiti e si preparò a partire. Seena venne ancora da lui; indossava un vestito nero, aderente, e aveva lo sdrucciolo avvolto intorno al braccio sinistro. La faccia era cupa. Gundersen disse: — Hai qualche messaggio per Ced Cullen, se lo trovo?
— Non ho messaggi per nessuno.
— Va bene. Grazie per l’ospitalità, Seena. È stato bello rivederti.
— La prossima volta che ti vedrò — disse lei — non saprai chi sono. O chi sei tu.
— Forse.
La lasciò e andò dai nildor. Srin’gahar, in silenzio, accettò il suo peso. Seena uscì sulla veranda della stazione, e li guardò partire. Non lo salutò, e neppure lui. Poco dopo non poté più vederla. La processione si mosse lungo la riva del fiume, oltre il luogo dove Kurtz aveva danzato insieme ai nildor, tanti anni prima.
Kurtz. Chiudendo gli occhi, Gundersen rivide lo sguardo vitreo e cieco, la fronte alta, la faccia appiattita, la carne devastata, le gambe contorte, i piedi deformi. Contro questa immagine collocò i suoi ricordi del vecchio Kurtz, quell’uomo bello e straordinario, così alto e magro, così sicuro di sé. Quali demoni avevano spinto Kurtz alla fine a consegnare la sua anima e il suo corpo ai sacerdoti della rinascita? Quanto tempo aveva richiesto la metamorfosi di Kurtz, e aveva provato dolore durante il processo, e quale consapevolezza aveva ora della sua condizione? Cosa aveva detto Kurtz? Sono Kurtz che ha giocato con le vostre anime, e adesso vi offro la mia? Gundersen non aveva mai sentito parlare Kurtz in un tono diverso dal distacco sardonico; come aveva potuto Kurtz mostrare una vera emozione: paura, rimorso, colpa? Sono Kurtz il peccatore, prendetemi e fate di me ciò che volete. Sono Kurtz, l’angelo caduto. Sono Kurtz il dannato. Sono Kurtz e sono vostro. Gundersen immaginò Kurtz che giaceva in qualche valle nebbiosa del nord, le sue ossa ammorbidite dagli elisir dei sulidoror, il suo corpo che si dissolveva, si trasformava in un ammasso di gelatina rosa, libero adesso di cercare una nuova forma, di aspirare a una nuova kurtzità, libera dalle antiche impurità sataniche. Era presuntuoso volersi collocare nella stessa classe di Kurtz, pretendere gli stessi difetti spirituali, avviarsi incontro allo stesso terribile destino? Non aveva forse ragione Seena a dire che quello era un gioco, che lui stava recitando semplicemente una commedia masochistica, eleggendosi a eroe di un mito tragico, gravato dall’ossessione di intraprendere un pellegrinaggio alieno? Ma l’ossessione era del tutto reale per lui, e niente affatto finta. Andrò, si disse Gundersen. Non sono Kurtz, ma andrò, perché devo andare. In lontananza, ma ancora potente, il rombo e il pulsare della cascata risuonavano ancora, e mentre l’acqua si gettava a capofitto dal precipizio, sembrava echeggiare le parole di Kurtz, l’avvertimento, la benedizione, la minaccia, la profezia, la maledizione: acqua sonno morte salvare sonno sonno fuoco amore acqua sogno freddo sonno proposito salire cadere salire cadere salire salire salire.
Cadere.