LIBRO III: SOGNATORI 2075

I dogmi del quieto passato sono inadeguati per il tempestoso presente. La contingenza è accresciuta dalle difficoltà e noi dobbiamo sollevarci con essa. Essendo nuovo il nostro caso, dobbiamo pensare in modo nuovo e agire in modo nuovo. Dobbiamo essere disincantati.

ABRAMO LINCOLN, Messaggio al Congresso 1 dicembre 1862

17

La mattina del suo sessantasettesimo compleanno, Leisha Camden stava seduta sul bordo di una poltrona nella sua tenuta del Nuovo Messico a rimirarsi i piedi.

Erano stretti e dall’inarcatura pronunciata, la pelle fresca e sana fino alla punta delle dita, che erano forti e diritte. Le unghie dei piedi, dal taglio netto, brillavano leggermente di rosa. Susan Melling avrebbe approvato. Susan aveva sempre tenuto in gran conto i piedi: la loro forza, la condizione delle loro ossa e delle vene, la loro generale utilità come barometro dell’invecchiamento. O del non invecchiamento.

Scoppiò a ridere. Piedi. Ricordare Susan, morta da ventitré anni, in termini di piedi. E nemmeno per i piedi di Susan, che sarebbe stata cosa logica, ma per i propri, quelli di Leisha, che risultava ridicolo. In memoriam bipedalis.

Quando aveva cominciato a trovare buffe cose come i piedi? Certamente non quando era giovane, a venti, trenta o cinquant’anni. Tutto era stato molto serio allora, di conseguenze tali da sconvolgere la terra. Non soltanto le cose che avrebbero potuto effettivamente scuotere la terra, ma tutto. Doveva essere stata davvero pesante. Forse i giovani non avevano alcuna possibilità di essere seri senza essere pesanti. Mancava loro l’importantissima dimensione della fisica: il momento torcente. Troppo tempo davanti, troppo poco alle spalle, come un uomo che tentasse di portare orizzontalmente una scala tenendola a un’estremità. Nemmeno un’onorevole passione poteva fornire un buon equilibrio. Mentre ci si muoveva faticosamente a scatti, solo per mantenere il proprio equilibrio, come si sarebbero potute trovare divertenti le cose?

— Per cosa stai ridendo? — chiese Stella, entrando nell’ufficio di Leisha dopo una singola perentoria bussata. — Quel giornalista ti sta aspettando nella sala riunioni.

— Di già?

— È in anticipo. — Stella tirò su col naso; non aveva voluto che Leisha parlasse con alcun giornalista, "Che facciano pure il loro tricentenario senza di noi" aveva detto. "Che cosa c’entriamo noi? Adesso?" Leisha non aveva avuto una risposta, ma aveva accettato di incontrare comunque il giornalista. Stella sapeva essere così poco curiosa. Ma, in fondo, Stella aveva soltanto cinquantadue anni ed era difficile che trovasse divertente qualcosa.

— Annunciagli che sto arrivando — disse Leisha — ma non prima di avere fatto visita ad Alice. Dagli un po’ di caffè o di quello che ti pare. Fagli suonare dai bambini l’assolo di flauto: dovrebbe entusiasmarlo. — Seth ed Eric avevano appena imparato a costruire flauti con le ossa degli animali che recuperavano nel deserto. Stella tirò su col naso ancora una volta e uscì.

Alice si era appena svegliata. Stava seduta sul bordo del letto, mentre l’infermiera le faceva passare la camicia da notte da sopra la testa. Leisha si ritirò subito nel corridoio: Alice odiava che la sorella vedesse il suo corpo nudo. Non rientrò nella stanza finché non udì l’infermiera dire: — Ecco fatto, signora Watrous.

Alice indossava pantaloni di cotone larghi e un top bianco abbastanza ampio da permetterle di infilarlo con il solo braccio destro: il sinistro era inutilizzabile da quando era stata colpita dalla paralisi. I suoi riccioli bianchi erano stati pettinati. L’infermiera stava inginocchiata a terra, infilando i piedi della paziente in soffici pantofole.

— Leisha — esclamò Alice, mostrando piacere. — Buon compleanno.

— Volevo dirtelo prima io!

— Peccato — fece Alice. — Sessantasette anni.

— Già — commentò Leisha,, e le due donne si fissarono a vicenda, Leisha con la schiena diritta in pantaloncini bianchi e reggiseno, Alice che si sosteneva con una mano venata alla spalliera del letto.

— Buon compleanno, Alice.

— Leisha! — Era di nuovo Stella, con il suo atteggiamento da top-manager. — Hai una conferenza telefonica alle nove, quindi se devi parlare con quel giornalista…

Dall’angolo destro della bocca, tanto piano che Stella non la potesse sentire, Alice sussurrò: — Povero il mio Jordan…

Leisha mormorò di rimando: — Sai che a lui piace? - e si recò nella sala riunioni per incontrare il giornalista.

Lui la sorprese, dimostrando di essere approssimativamente un sedicenne, un ragazzetto dinoccolato con gomiti esageratamente appuntiti e una brutta pelle, vestito in quella che doveva essere l’ultima moda degli adolescenti: pantaloni corti a palloncino e una maglietta plastificata e decorata con piccoli pendenti in plastica a forma di scooter bianchi, rossi e blu. Stava appollaiato nervosamente su una sedia mentre Eric e Seth gli danzavano attorno suonando il flauto, malamente. Leisha mandò via i nipotini dalla stanza. Seth si allontanò allegramente, Eric corrugò la fronte e sbatté la porta. Nell’improvviso silenzio, Leisha si sedette dirimpetto al ragazzo.

— Che testata ha detto di rappresentare, signor… Cavanaugh?

— La rete della mia scuola — spifferò lui. — Solo che non l’ho detto alla signora con cui ho preso l’appuntamento.

— Ovviamente no — confermò Leisha. Che cos’erano i suoi piedi al confronto? Questo sì che era divertente. La prima intervista che concedeva in dieci anni e saltava fuori che si trattava di un ragazzo per il giornalino della scuola. A Susan sarebbe piaciuto moltissimo.

— Benissimo, allora, cominciamo — disse lei. Sapeva che il ragazzo non aveva mai parlato con un Insonne prima di allora. Ce l’aveva scritto dappertutto: la curiosità, il disagio, il giudicare furtivo. Nessuna invidia, però, in nessuna delle sue forme virulente. Quella era la cosa eccezionale: la sua assenza in quel ragazzino così poco eccezionale.

Era più organizzato di quanto non sembrasse. — Mia madre dice che era diverso da come è adesso. Dice che i Muli e perfino i Vivi odiavano gli Insonni. Come mai?

— Come mai lei non lo fa?

La domanda sembrò sorprenderlo profondamente. Corrugò la fronte e poi le lanciò un’occhiata di celato imbarazzo che disse a Leisha, ben più chiaramente delle parole, quanto lui fosse decoroso. — Be’, non vorrei proprio offenderla ma… perché io dovrei odiarla? Voglio dire, i Muli sono quelli che… gli Insonni sono in realtà solo una specie di Super-Muli, no?… che devono fare tutto il lavoro, A noi Vivi spetta di goderci i risultati, Vivere. Sa — disse in uno slancio di ingenua confidenza — non riesco proprio a capire perché i Muli non lo comprendono e odiano noi.

Plus ga change, plus c’est la même chose.

— Che significa?

— Nulla, signor Cavanaugh. Ci sono Muli nella sua scuola?

— Nooo. Hanno scuole loro. — Guardò Leisha come se lei fosse stata tenuta a saperlo, e, ovviamente, lei lo sapeva. Gli Stati Uniti erano ormai una società a tre strati: i nullatenenti, che tramite il misterioso ed edonistico narcotico della Filosofia del Vivere Vero erano divenuti i beneficiari del dono dell’ozio. I Vivi, l’ottanta per cento della popolazione, che si erano liberati dell’etica del lavoro per sostituirla con una godereccia versione popolare dell’antica etica aristocratica: i fortunati non devono lavorare. Sopra di loro, oppure sotto, c’erano i Muli, Dormienti migliorati geneticamente che gestivano la macchina politica ed economica, come dettato dai, e in cambio dei, voti signorili della nuova classe oziosa. I Muli tiravano avanti: i loro robot lavoravano. Alla fine c’erano gli Insonni, quasi tutti invisibili all’interno del Rifugio, che venivano trascurati dai Vivi, se non dai Muli. L’intera organizzazione a trifoglio, Es, Io e Super Io, come qualcuno l’aveva sardonicamente etichettata, veniva assicurata dall’economica, onnipresente energia-Y che alimentava le fabbriche automatizzate rendendo possibile l’esistenza di una prodiga assistenza sociale che barattava pane e giochi del circo con voti. Tutta quella situazione, pensò Leisha, era tipicamente americana, essendo riuscita a combinare democrazia con materialismo, mediocrità con entusiasmo, potere con l’illusione del controllo dal basso.

— Mi dica, signor Cavanaugh, che cosa fate lei e i suoi amici con tutto il tempo libero che avete?

— Fare? — sembrò sconcertato.

— Sì. Fare. Oggi, per esempio. Quando avrà termi nato di registrare questa intervista, che cosa farà?

— Be’, lascerò a scuola la registrazione. L’insegnante la inserirà nell’olonotiziario scolastico, immagino. Se vorrà farlo.

— È un Vivo o un Mulo?

— Un Vivo, ovviamente — rispose, con un certo di sprezzo. Leisha si accorse che la sua stima stava calando rapidamente. — Poi potrei leggere qualcosa fino al termine della scuola, a mezzogiorno: ho quasi imparato a leggere, ma non ancora bene. È abbastanza inutile, ma mia madre vuole che impari. Poi c’è la corsa di scooter a mezzogiorno, ci andrò con qualche amico…

— Chi le paga e le organizza?

— Il nostro deputato alla camera bassa locale, ovviamente. Cathy Miller. Lei è un Mulo.

— Ovviamente.

— Poi qualche amico darà una fantastica narcofesta, il nostro uomo al congresso ha fatto circolare della roba nuova dal Colorado o da un altro posto del genere, poi c’è l’olovideo a realtà virtuale che voglio fare…

— Come si chiama?

Tamarra dei Mari di Marte. Lei non andrà a vederlo? È una gallata.

— Forse lo farò — rispose Leisha. Piedi, giornalisti, Tamarra dei Mari di Marte. Moira, la figlia di Alice, era emigrata su una colonia marziana. — Lei sa che in realtà non ci sono mari su Marte, vero?

— Davvero? — fece lui, del tutto privo di interesse. — Poi andrò a giocare a palla con qualche amico, e poi io e la mia ragazza andremo a farci una scopata. Dopo, se ci sarà tempo, potrei raggiungere i miei genitori nella casetta di mia madre perché terranno un ballo. Se non ci sarà tempo… signorina Camden? C’è qualcosa di divertente?

— No — disse Leisha soffocando una risatina. — Mi dispiace. Nessun aristocratico del Diciottesimo secolo avrebbe potuto avere un carnet sociale più pieno.

— Già, be’, io sono un Vivo gallo — disse il ragazzino modestamente. — Ma dovrei essere io a fare domande a lei. Allora, c’è… no, aspetti… che cos’è questa… Fondazione che lei dirige? Che cosa fa?

— Chiede ai mendicanti perché sono mendicanti e fornisce fondi per quelli che vogliono essere qualcosa d’altro.

Il ragazzo sembrò sconcertato.

— Se, per esempio, lei volesse diventare un Mulo — spiegò Leisha — la Fondazione Susan Melling potrebbe aiutarla a iscriversi a scuola, finanziare potenziamenti genetici per lei, qualsiasi cosa fosse necessaria.

— Perché mai dovrei volere una cosa simile?

— Già, perché? — ribalté Leisha. — Ma alcune persone lo vogliono.

— Nessuno di mia conoscenza — rispose deciso il ragazzo. — Mi sembra una cosa un po’ bacata. Un’altra domanda. Perché lei lo fa? Gestire questa specie di fondazione?

— Perché ciò che i forti devono ai mendicanti è chiedere a ognuno di loro perché è un mendicante, e agire di conseguenza — rispose Leisha misurando le parole. — Perché la comunità è il presupposto, non il risultato, e soltanto attribuendo all’improduttività la stessa individualità dell’eccellenza, e agendo di conseguenza, si colma l’obbligo nei confronti dei mendicanti di Spagna.

Si accorse che il ragazzino non aveva capito una singola parola. Né le chiese spiegazioni. Si alzò in piedi, recuperò il registratore con ovvio sollievo. Il lavoro giornaliero era terminato. Le porse la mano. — Be’, immagino che sia tutto. L’insegnante ha detto che quattro domande erano abbastanza. Grazie, signorina Camden.

Lei gli strinse la mano. Un ragazzino così cortese, così privo di odio e invidia, così soddisfatto. Così stupido. — Grazie, signor Cavanaugh. Per avere risposto alle mie domande. Risponderebbe ancora a una?

— Certo.

— Se il suo insegnante inserirà questa intervista nel notiziario scolastico, qualcuno la guarderà? — Lui distolse lo sguardo: Leisha si accorse che non aveva intenzione di metterla in imbarazzo con la risposta. Che ragazzino cortese. — Lei guarda mai i notiziari, signor Cavanaugh?

Ora lui incrociò il suo sguardo, con un’espressione sbalordita sul giovane volto. — Certamente! Tutta la mia famiglia lo fa! Come farebbero altrimenti la mamma e il papà a sapere quali Muli ci daranno di più per il nostro voto?

— Oh — disse Leisha. — La Costituzione Americana all’opera.

— E l’anno prossimo è l’anno del tricentenario — aggiunse con orgoglio il ragazzo: i Vivi erano tutti patrioti. — Be’, grazie ancora.

— Grazie a lei — rispose Leisha. Stella sulla porta, con espressione severa, accompagnò il ragazzo all’uscita.

— La tua comunicazione telefonica è fra due minuti, Leisha, e adesso c’è…

— Stella, quante domande ha esaminato questo trimestre la Fondazione?

— Centosedici — rispose Stella con precisione. Teneva lei la documentazione della Fondazione, inclusa la contabilità.

— Di che percentuale siamo scesi rispetto allo scorso trimestre?

— Sei per cento.

— E dall’anno scorso?

— Otto per cento. Lo sai. — Leisha lo sapeva: Stella avrebbe avuto molto più da fare se la Fondazione avesse funzionato al ritmo impetuoso dei primi anni. Non avrebbe cercato di far sì che gli impegni materni e di segretariato riempissero il suo cervello di prima categoria, pesando su tutti gli altri nell’agire così. Stella doveva avere immaginato quello che Leisha stava pensando. Disse improvvisamente: — Potresti tornare a occuparti di legge. Oppure scrivere un altro libro. Oppure fondare una nuova azienda, semmai intendessi prendere in considerazione l’idea di competere con i Muli su quello che sai fare anche meglio di loro.

— Il Rifugio compete — rispose dolcemente Leisha. — Il nuovo ordinamento economico non è basato comunque sulla competizione, è basato sulla qualità della vita: me l’ha appena detto quel giovanotto. Non mi tormentare, Stella, è il mio compleanno. Che cos’è tutto quel fracasso là fuori?

— È quello che stavo cercando di raccontarti. C’è un bambino, appena fuori dal cancello, che sta gridando a squarciagola che vuole vedere te e nessun altro se non te.

— Un bambino Insonne? — chiese Leisha, mentre il sangue prendeva a scorrerle più velocemente. Succedeva ancora qualche volta: una modificazione genetica illegale, un bambino confuso che apprendeva lentamente nel corso degli anni di essere differente, che le corse degli scooter, gli olovideo e le narcofeste non erano sufficienti per lui come invece lo erano per i suoi amici. L’occasione, quindi, di scoprire della Fondazione Susan Melling, generalmente da un Mulo gentile, e il viaggio terrorizzante e determinato in cerca del proprio genere, ancora prima di sapere che cosa significasse appartenere al proprio genere. Accogliere quegli Insonni, bambini, ragazzi e a volte perfino adulti all’interno della Fondazione, aiutarli a diventare ciò che realmente erano, era stato il più dolce godimento di Leisha durante i venticinque anni passati nell’isolato deserto.

Stella, però, disse: — No. Non è un Insonne. Ha più o meno dieci anni: è un bambino lurido che strilla a squarciagola che deve vedere te e nessun altro. Ho mandato fuori Eric per dirgli che ricevi domani, ma quello gli ha dato un pugno in un occhio e ha detto che non poteva aspettare.

— Eric lo ha messo a terra? — chiese Leisha. Il figlio dodicenne di Stella aveva i geni della forza modificati. Prendeva lezioni di karate. Inoltre, aveva un temperamento che nessun Insonne avrebbe dovuto avere.

— No — rispose Stella, con orgoglio. — Eric sta crescendo. Ha imparato a non colpire a meno che non ci sia una chiara necessità fisica di difendersi.

Leisha ne dubitava. Eric Bevington-Watrous la preoccupava. Tutto quello che disse, però, fu: — Fai entrare il ragazzino. Gli parlerò subito.

— Leisha! Tokio è in linea proprio adesso!

— Di’ che richiamerò. Assecondami, Stella: è il mio compleanno. Sono vecchia.

Alice è vecchia — rettificò Stella, mutando improvvisamente umore. Un istante dopo aggiunse: — Mi dispiace.

— Fai entrare il ragazzino. Quanto meno smetterà di strillare. Come hai detto che si chiama?

— Drew Arlen — rispose Stella.


In orbita sopra l’Oceano Pacifico, il Consiglio del Rifugio scoppiò in un applauso spontaneo.

Quattordici uomini e donne stavano seduti attorno al lucido tavolo in metallo dalla sagoma di una doppia elica stilizzata, sistemato nella cupola del Consiglio. Una finestra in plastivetro a circa un metro dal pavimento correva tutto attorno alla cupola, occasionalmente incrociata da strutture di sostegno in metallo. La cupola stessa era posta il più vicino possibile a una estremità della stazione orbitale cilindrica, cosicché la vista dalla sala delle conferenze, che occupava quasi la metà della cupola del Consiglio, risultasse gradevolmente variata. A "nord" si estendevano i campi agricoli, punteggiati di cupole che si curvavano dolcemente verso l’alto fino a perdersi nel cielo pallido. A "sud" c’era lo spazio, inflessibile nello strato relativamente sottile di aria che si trovava fra la cupola del Consiglio e l’estremità in plastivetro del cilindro orbitante. A nord si godeva di un caldo e soleggiato "giorno", visto che la luce del sole fluiva nella stazione orbitale attraverso le lunghe sezioni di finestre non oscurate; a sud regnava l’infinita notte, piena alternativamente di stelle o di una terra enorme in modo oppressivo. La curvatura irregolare del tavolo da conferenza e le sedie inchiodate al pavimento facevano sì che sei membri del Consiglio guardassero le stelle e otto guardassero il sole.

Jennifer Sharifi, capo permanente del Consiglio, era rivolta sempre a nord, verso il sole.

Disse, con il godimento che le faceva scintillare gli occhi scuri: — Tutte le scansioni cerebrali, le analisi dei fluidi, i risultati della cartografia spinale e, ovviamente, le analisi del DNA non indicano altro se non successo. Bisogna congratularsi caldamente con i dottori Toliveri e Clemens. Così come, ovviamente, con Ricky ed Hermione. — Sorrise calorosamente al figlio e alla nuora. Ricky ricambiò il sorriso, Hermione abbassò la testa e uno spasmo attraversò il suo volto bello in modo stravagante. Circa la metà delle famiglie del Rifugio non alteravano più i geni, accontentandosi dei benefici intellettuali e psicologici dovuti all’insonnia e volendo conservare la somiglianza familiare. Hermione, dagli arti affusolati e gli occhi viola, apparteneva all’altra metà.

Il consigliere Victor Lin chiese con trepidazione: — Non possiamo vedere il bambino? È ovvio che l’ambiente debba essere sufficientemente sterile. — Svariate persone si misero a ridere.

— Sì, per favore — disse la consigliera Lucy Ames e arrossi. Aveva solo ventun anni, era nata sulla stazione orbitale ed era ancora un po’ schiacciata dal fatto che il suo nome fosse stato estratto nella lotteria cittadina come membro a termine del Consiglio. Jennifer le sorrise.

— Certo, ovviamente. Tutti possiamo vedere il bambino. Vi debbo ripetere, però, ciò che vi è già stato detto prima: questo turno di alterazione genetica è andato ben al di là di qualsiasi cosa chiunque di noi possa pregiarsi di avere. Se vogliamo mantenere il nostro vantaggio sui Dormienti della Terra dobbiamo esplorare ogni via di superiorità che ci si apra davanti. Esistono, a volte, alcuni prezzi da pagare, inevitabili e di minore importanza, mentre ci muoviamo in avanti.

Quel discorso fece tornare tutti seri. Gli otto consiglieri a termine, quelli che non appartenevano alla famiglia Sharifi che controllava finanziariamente il cinquantuno per cento del Rifugio, e di conseguenza il cinquantuno per cento di voti nel Consiglio, si guardarono a vicenda. I sei consiglieri permanenti, Jennifer, Ricky, Hermione, Najla, il marito di Najla, Lars Johnson e il marito di Jennifer, Will Sandaleros, continuarono a sorridere con grande determinazione. Eccetto Hermione.

— Porta dentro il bambino — le disse Jennifer. Hermione uscì. Ricky allungò una mano in modo incerto verso la moglie mentre quella passava, ma non la toccò. Ritirò la mano e prese a fissare fuori dalla finestra della cupola. Nessuno parlò finché Hermione non fu ritornata con un fagottino.

— Questa — disse Jennifer — è Miranda Serena Sharifi. Il nostro futuro.

Hermione appoggiò la neonata sul tavolo delle conferenze e aprì la copertina gialla. Miranda aveva dieci settimane. Aveva la pelle pallida, del tutto priva di rosa, e i capelli erano uno spesso groviglio nero. Guardò attorno al tavolo delle conferenze con occhi brillanti, scurissimi. Quegli occhi sporgevano dalle orbite e dardeggiavano continuamente, incapaci di rimanere fermi. Il corpo forte ma piccino si contraeva incessantemente. I piccoli pugni si aprivano e chiudevano tanto velocemente che risultava difficile contarne le dita. La bambina irradiava una vitalità maniacale, una tensione nervosa talmente intensa che sembrava quasi che il suo sguardo potesse perforare a zig-zag la parete della cupola.

La giovane consigliere Ames si portò un pugno alla bocca.

— A prima vista — disse Jennifer con la sua tipica voce composta — si potrebbe pensare che i sintomi della nostra Miranda assomiglino a quelli di certe malattie del sistema nervoso di cui sono vittime i mendicanti non alterati, oppure ai sintomi da assunzione di para-anfetamine. Tuttavia, ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso. Il cervello di Miri agisce a una velocità tre, quattro volte superiore rispetto ai nostri, con capacità mnemoniche magnificamente potenziate e una concentrazione altrettanto amplificata. Non esistono danni al controllo neurale, anche se esiste qualche difetto di secondaria importanza nel controllo motorio, come effetto collaterale. Le modificazioni genetiche di Miri includono un alto grado di intelligenza ma ciò che farà il suo sistema nervoso alterato sarà darle modi di usare quell’intelligenza che noi non siamo in grado di prevedere. Questa modificazione genetica è il modo migliore per superare il famoso fenomeno della regressione intellettuale verso il basso, per cui genitori superiori hanno figli di intelligenza soltanto normale, che forniscono una piattaforma più bassa da cui poter lanciare nuove modificazioni genetiche.

Poche persone attorno al tavolo annuirono a quella lezione: poche altre, memori delle minori realizzazioni di Najla e Ricky in confronto a quelle della stessa Jennifer, guardarono il tavolo. La consigliera Ames continuò a fissare la bambina che si contraeva, con gli occhi sbarrati e la mano ancora sulla bocca.

— Miranda è la prima — proseguì Jennifer. — Ma non l’ultima. Noi al Rifugio costituiamo le menti migliori degli Stati Uniti. È nostro obbligo mantenere un tale vantaggio. Per il bene di noi tutti.

Il consigliere Lin disse pacatamente: — I nostri soliti bambini Insonni modificati geneticamente lo stanno già facendo.

— Sì — replicò Jennifer, con un sorriso smagliante. — Ma, in qualsiasi momento, i mendicanti della Terra potrebbero decidere di invertire la loro miope condotta politica e di ricominciare a farlo anche loro. Abbiamo bisogno di qualcosa di più. Abbiamo bisogno di tutto ciò che possiamo creare per noi stessi con la tecnologia genetica che noi osiamo utilizzare fino in fondo, mentre loro no.

Will Sandaleros le appoggiò delicatamente una mano sul braccio.

Per un istante, un sentimento di furia sfolgorò negli occhi di Jennifer. Quindi sparì, e lei sorrise a Will, che la guardò teneramente. Jennifer scoppiò a ridere. — Stavo nuovamente facendo un’arringa? Mi dispiace. So che tutti comprendete la filosofia del Rifugio esattamente come me.

Poche persone sorrisero; alcune si mossero impercettibilmente, a disagio, attorno alla tavola lucida. La consigliera Ames continuò a fissare, a occhi sbarrati, la bambina in preda alle convulsioni. Hermione colse lo sguardo inorridito della donna: riavvolse immediatamente Miranda nella coperta. La sottile stoffa gialla fremette e si contrasse. Lungo l’orlo erano state ricamate farfalle bianche e stelle blu.


Drew Arlen stava davanti a Leisha Camden con le gambe divaricate, in atteggiamento deciso. Leisha pensò di non avere mai visto un contrasto come quello fra il ragazzino che aveva di fronte e il giornalista che era appena uscito e di cui aveva già dimenticato il nome.

Drew era il bambino di dieci anni più sudicio che lei avesse conosciuto. Il fango gli imbrattava i capelli marrone e macchiava i resti della sua camicia di plastica, dei pantaloni e delle scarpe malconce fornite dall’assistenza sociale. A un profondo graffio che aveva sul braccio sinistro nudo era attaccata talmente tanta terra che Leisha ritenne che dovesse essere sicuramente infetto: la pelle appariva rossa e irritata attorno alle ossa dei gomiti che assomigliavano a scalpelli. Gli era stato staccato un dente dal volto che risultava eccezionale soltanto a causa degli occhi verdi, proprio come quelli di Leisha, e di una specie di ostinata bramosia, come se Drew fosse preparato a combattere per qualcosa con ogni fibra del suo essere sporco, ossuto, chiaramente non da Mulo.

— Io sono Drew Arlen, io — disse. Sarebbe potuta essere una fanfara.

— Leisha Camden — si presentò con espressione grave Leisha. — Hai insistito per vedermi.

— Voglio stare nel tuo Fontanile.

— Fondazione. Dove hai sentito parlare della mia Fondazione?

Drew agitò una mano come per congedare l’argomento privo di interesse. — Da qualcuno. Dopo che me lo ha detto, ho fatto un bel po’ di strada per venire qui, io. Dalla Louisiana.

— A piedi? Per tuo conto?

— Ho preso passaggi quando ho potuto — disse il bambino, di nuovo come se non fosse una cosa di cui valesse la pena parlare. Ci ho messo un sacco di tempo. Ma adesso sono qui, io, e sono pronto per farti cominciare.

Leisha disse al robot-cameriera: — Porta dei sandwich dal frigorifero. E del latte. — Il robot scivolò via senza emettere rumore. Drew lo fissò con una totale concentrazione finché quello non ebbe lasciato la stanza. Si rivolse poi a Leisha. — È del tipo che ci puoi lottare contro? Per allenare i muscoli. Io l’ho visto ai notiziari, io.

— No. È soltanto un robot base porta e registra. Allora, per che cosa sei pronto, Drew?

Lui disse in tono impaziente: — Per cominciare. Nel tuo Fontanile. Mi devi far diventare qualcuno.

— E questo che cosa significa esattamente per te?

— Tu lo devi sapere, sei tu la signora del Fontanile! Ripulirmi a me, educarmi e farmi essere qualcuno!

— Vuoi diventare un Mulo?

Il ragazzino corrugò la fronte. — No, ma devo cominciare da lì, io, vero? Poi, andare avanti.

Il robot rientrò. Drew guardò languidamente il cibo: Leisha gli fece un cenno, e lui ci si avventò sopra come un sudicio cagnolino, sbranando i panini con i denti della parte sinistra della bocca, e contraendosi per il dolore ogniqualvolta il buco sanguinante sulla destra entrava in contatto con pane o carne. Leisha lo stette a guardare.

— Quando è stata l’ultima volta che hai mangiato?

— Ieri mattina: ’sta roba è buona.

— I tuoi genitori sanno dove sei?

Drew recuperò una briciola dal pavimento e la mangiò, — A mia mamma non gliene frega. È sempre alle narcofeste, lei, adesso. Mio papà è morto. — Disse quell’ultima cosa con durezza, fissando Leisha dritta in faccia con i suoi occhi verdi, come se lei dovesse già essere al corrente della morte di suo padre. Leisha prese il terminale dalla parete.

— Non serve a niente chiamarli — disse Drew — Noi non abbiamo terminali, noi.

— Non sto chiamando loro, Drew. Voglio scoprire qualcosa su di te. Dove abitavi, in Louisiana?

— Montronce Point.

— Bioricerca personale, su tutte le banche dati principali — disse Leisha. — Drew, qual è il tuo numero di assistenza sociale?

— 842-06-3421-889.

Montronce era un piccolo paese sul delta, nessuna economia da Muli di cui valesse la pena parlare. Millenovecentoventidue abitanti, scuola con il sedici per cento di frequenza per gli studenti e il sessantadue per cento per gli insegnanti volontari che mantenevano aperto l’edificio cinquantotto giorni all’anno. Drew faceva parte del sedici per cento, occasionalmente. Non esisteva una sua cartella clinica, ma quelle dei suoi genitori e di due sorelle maggiori erano in archivio. Leisha rimase a sentire tutto quanto e si fece molto silenziosa.

Quando il terminale ebbe finito, lei disse: — I tuoi voti, anche per quella che passa per essere una scuola a Montronce, non erano eccezionali.

— No — confermò il ragazzetto. I suoi occhi non abbandonarono mai il volto di lei.

— Non sembri avere insolite capacità in atletica, in musica o in qualche altra cosa.

— No, io no.

— E non vuoi realmente essere istruito per un lavoro da Mulo.

— Quello può andare — disse lui in modo aggressivo. — Posso farlo.

— Ma non lo desideri realmente. La Fondazione Susan Melling esiste per aiutare le persone a diventare quello che realmente vogliono diventare. Che cosa vorresti che contemplasse il tuo futuro? — Sembrava una domanda assurda da porre a un bambino di dieci anni, in particolar modo a quello. Più povero perfino della maggior parte dei Vivi. Non particolarmente dotato di talento. Sparuto. Puzzolente. Un Dormiente.

Eppure non era nemmeno un tipo ordinario: gli sfolgoranti occhi verdi fissavano Leisha con una franchezza che la maggior parte degli adulti Dormienti non era mai riuscita a raggiungere, nemmeno nella rilassata ed edonistica tolleranza del clima sociale del tricentenario. In effetti, pensò Leisha, c’era qualcosa di più della franchezza negli occhi di Drew: c’era una sicurezza di ricevere aiuto da lei che la maggior parte dei candidati all’ingresso nella Fondazione non aveva quasi mai. La maggior parte di loro guardava Leisha con incertezza ("Perché lei dovrebbe aiutarmi?") oppure con sospetto ("Perché lei dovrebbe aiutarmi?") o con un ossequio nervoso che le rammentava inevitabilmente i cani adulanti. Drew la guardava come se lui e Leisha fossero partner commerciali in un affare sicuro.

— Hai sentito come ha detto il terminale che è morto mio nonno, lui?

Leisha confermò. — Era un operaio alla costruzione del Rifugio. Un montante in metallo si è liberato nello spazio e gli ha strappato la tuta.

Drew annuì. La sua voce denotava la stessa equilibrata sicurezza, era del tutto priva di angoscia. — Mio papà era un bambino, a quei tempi. L’assistenza sociale non gli dava praticamente niente, allora.

— Ricordo — disse Leisha con una smorfia; quello che aveva fornito l’assistenza sociale, gentile concessione dell’economicissima energia-Y e della coscienza sociale, non era nulla al confronto di ciò che fornivano ormai governo e Muli, gentile concessione per bisogno di voti. Pane e giochi circensi, salvati dalla barbarie romana soltanto dallo stesso dozzinale benessere. Agiati e corteggiati, i Vivi mancavano della rabbia repressa per l’arena.

Si era aspettata che Drew passasse sopra al riferimento del ricordo dell’era di suo padre: la maggior parte dei bambini considerava il passato irrilevante. Ma lui la sorprese. — Te lo ricordi, tu? Com’era? Quanti anni avevi, Leisha?

"Non sa fare di meglio che chiamarmi per nome", pensò con indulgenza Leisha, e immediatamente si accorse, per la prima volta, di quale fosse il dono di Drew. Il suo interesse per lei era così intenso, così fresco e scintillava talmente nei suoi occhi verdi, che lei era disposta a essere indulgente. Portava addosso l’irreprensibilità come una fragranza. Cominciò a capire come avesse potuto effettuare il viaggio dalla Louisiana al Nuovo Messico restando illeso: la gente lo aiutava. In effetti, il sangue che aveva sul braccio era recente, così come il dente spezzato: era possibile che non avesse incontrato altro che aiuto finché non si era trovato davanti Eric Bevington-Watrous, di fronte alla casa di Leisha.

E aveva soltanto dieci anni.

Lei disse: — Ho sessantasette anni.

Drew sbarrò gli occhi. — Oh! non sembri proprio una vecchia, tu!

"Dovresti vedermi i piedi". Lei scoppiò a ridere, e il ragazzino sorrise. — Grazie, Drew. Ma non hai ancora risposto alla mia domanda. Che cosa vuoi dalla Fondazione?

— Mio papà è cresciuto senza il suo papà, ed è cresciuto male, lui, bevendo troppo — commentò Drew come se fosse una risposta. — Picchiava mia mamma. Picchiava le mie sorelle, Picchiava me. Ma mia mamma mi diceva che lui non diventava così, lui, se suo papà era vivo. Diventava un uomo diverso, lui, gentile e buono, e non era colpa sua.

Leisha comprese: la madre maltrattata, nemmeno trentenne, scusava l’uomo davanti ai bambini maltrattati, finendo forse per credere a sua volta alla scusa, perché anche lei aveva bisogno di una scusante, per trattenersi dall’andare via. Non era colpa sua diviene non è colpa mia. "Lei passa tutto il tempo alle narcofeste", aveva detto Drew. C’erano narcofeste e narcofeste. Non tutte rispondevano alle regole indicate dalla FDA, il Controllo Droghe e Farmaci, in quanto a leggerezza o non accumulazione di effetti collaterali.

— Non era colpa di mio papà — ripeté Drew. — Ma io penso che non era manco la mia. Così me ne sono dovuto andare fuori da Montronce.

— Già, ma… che cosa vuoi?

Gli occhi verdi mutarono. Leisha non aveva mai pensato che un bambino potesse guardare in quel modo. Odio, sì: aveva visto occhi di bambini carichi di odio, Ma quello non era odio né rabbia e nemmeno dolore infantile. Era uno sguardo completamente adulto che ormai non mostravano più nemmeno gli adulti, uno sguardo vecchio stile: gelida determinazione.

Drew rispose: — Voglio il Rifugio.

— Lo vuoi? Che cosa significa che lo vuoi? Per pareggiare i conti? Per distruggerlo? Per danneggiare le persone?

Gli occhi verdi si raddolcirono: sembravano divertiti, uno sguardo ancora più adulto, ancora più sconcertante. Leisha si alzò e quindi si risedette.

— Certo che no, sciocca — disse Drew. — Non farei male a nessuno, io. Non voglio distruggere il Rifugio.

— Allora?

— Un giorno, io, lo possederò.


L’allarme risuonò per tutta la stazione orbitale, forte e inconfondibile. I tecnici afferrarono le tute. Le madri presero in braccio i bambini che strillavano per il rumore e dettero istruzioni ai terminali, con voci che tremavano tanto da impedirne quasi l’identificazione. La Borsa del Rifugio bloccò immediatamente ogni transazione: nessuno avrebbe potuto approfittare della portata del disastro, qualunque fosse.

— Prendi un flitter — disse Jennifer a Will Sandaleros, che aveva già indossato la tuta anticontaminazioni. Lei infilò la propria e corse fuori dalla loro cupola. Quella volta poteva essere quella buona. Qualsiasi volta poteva esserlo.

Will fece alzare in volo il flitter. Mentre si avvicinavano alla zona a caduta libera, lungo l’asse centrale della stazione orbitale, il circuito di comunicazione annunciò: — Quarto pannello. È un proiettile, Wìll. Robot a trentatré secondi di distanza: equipaggio tecnico a un minuto e mezzo. Attenzione alla pressione del vuoto…

— Non riusciremo ad arrivare lì abbastanza in fretta — disse Will seccamente. Sotto quella rudezza, Jennifer udì una certa soddisfazione. A Will non piaceva che lei corresse personalmente nei luoghi danneggiati. Per tenerla lontana, tuttavia, avrebbe dovuto legarla.

Ormai lei poteva vedere il buco, uno squarcio frastagliato in un pannello agricolo. I robot erano già arrivati e stavano spruzzando il primo strato di plastica resistente sulla falla, ancorati contro la spinta verso l’esterno della preziosa aria del Rifugio tramite ventose a aspirazione a energia-Y che avrebbero potuto tenere insieme gli asteroidi. Quando un robot si doveva muovere, l’aspirazione non faceva altro che interrompersi sui piedi, alternativamente. I flitter della squadra dei tecnici atterrarono con grazia, e l’equipaggio con le tute di sicurezza si trovò fuori nel giro di pochi secondi, irradiando le colture in un ampio semicerchio con un sigillante diverso, uno che non avrebbe danneggiato nulla di organico finché non ne fosse stato analizzato il DNA alla ricerca di ciò che vi poteva essere finito.

Le armi costituivano soltanto la metà del pericolo: la metà peggiore era rappresentata dalla contaminazione. Non tutte le nazioni della Terra ponevano sanzioni alla ricerca genetica.

— Dov’è il proiettile? — chiese Jennifer nella ricetrasmittente al capo dei tecnici. La trasmittente dell’uomo era dotata solo di audio, ma lui non ebbe bisogno di domandare chi stesse parlando.

— Sezione H. L’hanno già sigillata. Ha intaccato il pannello nell’impatto ma non l’ha perforato. — Era una buona cosa: il proiettile era disponibile per l’analisi all’esterno, senza che lo dovessero portare dentro la stazione dallo spazio. — Che forma ha?

— Meteorite.

— Forse — disse Jennifer, e Will, al suo fianco, annuì. Lei era contenta che ci fosse Will. A volte c’era Ricky, quando avvenivano i danni, ed era sempre estenuante.

Will volò più lentamente per ritornare all’orbitale. Era un buon pilota ed era orgoglioso della propria abilità. Sotto di loro si estendeva il Rifugio: campi e cupole, strade e impianti di produzione energetica, pannelli-finestra costantemente puliti dai piccoli robot che non avevano altro compito. Una calda e forte luce artificiale soffondeva l’aria di un bagliore dorato. Mentre atterravano, lo speziato profumo dei fiori di soia, i nuovissimi fiori decorativi che erano anche commestibili, giunse a ondate verso Jennifer.

— Voglio che si riunisca il Consiglio per udire i rapporti di laboratorio — ordinò lei.

Will, tolto il casco, assunse dapprima un’espressione sconcertata, quindi comprese. — Li chiamerò.

Non si poteva mai riposare. Il Corano e la storia degli Stati Uniti concordavano almeno su un punto: "E coloro che raggiungeranno il loro accordo solenne e sopporteranno con coraggio la sfortuna, le difficoltà e il pericolo… questi saranno i veri fedeli al loro credo". E poi: "Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza".

Non che al Rifugio si godesse di reale libertà.

Jennifer si presentò davanti al Consiglio. Ricky la guardò in volto e il proprio si rabbuiò. Najla fissò fuori dalla finestra. Il consigliere Lin si sporse in avanti; la consigliera Ames tenne le mani strettamente serrate sul tavolo in metallo.

— Le analisi di laboratorio sono tutte negative — annunciò Jennifer. — Questa volta. La composizione del corpo estraneo è conforme a quella delle meteoriti di classe J, anche se ovviamente questo non esclude che possa essere stata catturata e susseguentemente usata come arma. Pare non contenere microbi attivi, e le spore che vi sono state trovate sono conformi a quelle della classe J. Il materiale non presenta microbi sconosciuti geneticamente alterati o altri, che siamo stati in grado di identificare, anche se questo ovviamente non significa che non ce ne siano, nascosti da un’imitazione del DNA con innescatori genetici ad attivazione ritardata.

— Mamma — disse misurando le parole Ricky — nessuno oltre noi è in grado di effettuare un lavoro genetico di quel livello. E anche noi non lo sappiamo eseguire eccessivamente bene.

Jennifer gli rivolse un sorriso smagliante: — Nessuno di nostra conoscenza.

— Ma noi controlliamo praticamente ogni laboratorio della Terra, tramite intercettazione dati…

— Nota la parola "praticamente" — sottolineò Jennifer. — Non sappiamo effettivamente di averli tutti, no?

Ricky spostò il peso sulla sedia. Aveva trentun anni, era un uomo robusto, dai capelli folti sulla fronte bassa e occhi scuri. — Mamma, questo è il sedicesimo allarme in due anni, e nessun danno è stato riconosciuto come effetto di un attacco. Ci hanno colpito otto meteoriti con tre perforazioni. Abbiamo avuto tre malfunzionamenti temporanei, corretti quasi immediatamente, due mutazioni batteriche spontanee causate dalla radiazione spaziale su cui non possiamo fare proprio nulla e un…

— Sedici di cui siamo al corrente — ribatté Jennifer. — Puoi essere certo che in questo preciso istante non esistano microbi a DNA mimetico nell’aria che stai respirando? In quella che sta respirando la tua bambina?

La consigliera Ames disse timidamente: — Ma in assenza di prove…

— La prova politica è un concetto da mendicanti — la interruppe Jennifer. — Tu non lo sai, Lucy, perché non sei mai stata sulla Terra. Il concetto di prova scientifica è distorto, lì, usato selettivamente per portare avanti qualsiasi causa che il governo stia proponendo per avanzare pretese sui migliori. Possono "provare" qualsiasi cosa, nei tribunali, sulla stampa, nei contratti finanziari. Quanto hai pagato di tasse al fisco lo scorso anno, Lucy? Allo stato di New York? E che cos’hai ricevuto in cambio? Eppure il Presidente degli Stati Uniti ti fornirebbe la prova che hai l’obbligo di sostenere i deboli, pagando per loro, e un’ulteriore prova che, se non lo fai, il suo esercito ha il diritto di confiscare o distruggere proprio le strutture che usi per mantenere la tua vita e la vita della tua comunità.

— Ma — ribatté la consigliera Ames, sconcertata — il Rifugio paga le tasse. Non sono giuste, però le paghiamo.

Jennifer non rispose. Un istante dopo, Will Sandaleros commentò pacatamente: — Già. Le paghiamo.

Ricky Keller disse: — Il fatto è che nessuno di questi danni accidentali è stato prodotto da attacchi. Tuttavia, tu sostieni sempre che lo siano, e anche la prova del contrario risulta sospetta. Non ti pare che abbiamo portato un po’ troppo avanti questa paranoia?

Jennifer fissò il proprio figlio. Forte, leale, produttivo, un membro della comunità di cui essere fieri. Lei era fiera di lui. Lei amava lui e Najla esattamente come quando erano stati bambini, ma il suo amore aveva reso loro un cattivo servizio. Ormai lo sapeva. A causa della sua protezione, del suo fiero schermarli da quello che i mendicanti avrebbero potuto fare loro, erano diventati eccessivamente sicuri. Non capivano come andassero le cose fuori da quella enclave in cui la comunità rappresentava forza, sicurezza, sopravvivenza, e in cui forza, sicurezza e sopravvivenza consentivano a un individuo di utilizzare i propri talenti per la realizzazione della propria vita. I suoi figli non capivano l’odio efferato e furibondo che i mendicanti provavano nei confronti di quell’attitudine, perché i mendicanti non riuscivano mai a realizzare la propria vita senza depredare le vite dei migliori. Ricky e Najla lo avevano visto solo a distanza, nelle trasmissioni terrestri, trasmissioni, oltre tutto, quasi sempre contemporanee. Come animali selvatici che hanno mangiato a sazietà, i mendicanti ormai erano relativamente tranquilli con la sovvenzione dell’assistenza sociale, e con l’assenza degli Insonni davanti ai loro occhi. Sonnecchiavano al sole dell’economica energia-Y, ed era facile dimenticare quanto fossero realmente pericolosi. In special modo se, come i suoi figli, si era passata la maggior parte della propria vita al sicuro.

Jennifer non avrebbe mai dimenticato. Avrebbe ricordato per tutti loro.

Disse: — La vigilanza non è paranoia. La spinta verso l’esterno della comunità non è un’abilità a sopravvivere. Ci metterebbe tutti in pericolo.

Ricky non aggiunse altro: non avrebbe mai messo in pericolo la comunità. Nessuno di loro lo avrebbe fatto, Jennifer lo sapeva bene.

— Ho una proposta da farvi — continuò Jennifer. Will, l’unico che sapeva che cosa lei stesse per dire, si irrigidì. Attento.

— Tutte le nostre misure di sicurezza sono di tipo difensivo. Nemmeno di ritorsione, soltanto di difesa per la limitazione dei danni. Il nucleo della nostra esistenza, tuttavia, è rappresentato dalla sopravvivenza della comunità e dei suoi diritti, e fra i diritti della comunità c’è l’autodifesa. È arrivato per il Rifugio il momento di cominciare a sviluppare un potere contrattuale tramite armamenti difensivi. Ci è stato impedito di farlo dall’attento controllo internazionale di ogni transazione del Rifugio con la Terra, indipendentemente da quanto fosse segreta. L’unico modo in cui siamo riusciti a tenere fuori da qui i mendicanti per ventiquattro anni è stato non dando loro la minima scusa legale per l’emissione di un mandato di perquisizione.

Jennifer esaminò i volti del suo pubblico, giudicandoli: Will e Victor Lin erano solidali con lei. Ottima cosa, Lin era un personaggio influente; altri tre stavano ascoltando e trasmettendo un linguaggio corporale ricettivo; tre erano chiusi e corrugavano la fronte; otto mostravano espressioni di sorpresa o incertezza, inclusa Lucy Ames. E tutt’e due i suoi figli.

La donna proseguì con atteggiamento composto; — L’unico modo per impedire sia l’irruzione nel Rifugio da parte dei Dormienti sia di acquistare armamenti di difesa ci è dato dall’uso della nostra unica innegabile tecnologia di livello superiore: la genetica. Lo abbiamo già fatto con le nuove modificazioni genetiche per Miranda e gli altri bambini. Adesso abbiamo bisogno di pensare a utilizzare la nostra forza per creare armi di difesa.

Esplose una raffica di proteste. Lei e Will se l’erano aspettato. Il Rifugio, un asilo, non godeva di tradizione militare. Rimasero ad ascoltare attentamente, non tanto per comprendere le argomentazioni, quanto per rendersi conto delle potenziali alleanze. Chi avrebbero potuto persuadere, chi non sarebbe mai stato persuaso, chi era aperto a quali mosse lungo l’albero delle decisioni. Tutti i movimenti sarebbero stati aperti e legittimi: la comunità innanzi tutto. Ma le comunità cambiavano. Gli otto consiglieri che non appartenevano alla famiglia mantenevano i seggi per soli due anni, e perfino la composizione della famiglia era aperta ai cambiamenti. Lars Johnson era il secondo marito di Najla: lei avrebbe potuto averne un terzo, oppure Ricky avrebbe potuto avere una nuova moglie. A sedici anni, poi, la successiva generazione avrebbe cominciato a votare nel Consiglio. Sedici anni, per un Insonne modificato geneticamente, era un’età sufficiente per prendere decisioni intelligenti: le scelte di Miranda sarebbero state superintelligenti.

Jennifer e Will potevano aspettare. Non avrebbero forzato nessuno. Era così che funzionava una comunità. Non fra i mendicanti, ma lì, nel Rifugio, era quello il modo in cui funzionava la comunità. Funzionava attraverso il lento modellare del consenso fra i membri, i produttivi che erano autorizzati ad avere punti di vista personali in quanto erano produttivi. Jennifer avrebbe potuto aspettare che la sua comunità entrasse in azione.

Ma le strutture di ricerca Laboratori Sharifi non appartenevano alla comunità. Quelli erano suoi, costruiti e finanziati con i suoi soldi, non con quelli dei fondi dell’Azienda del Rifugio. Quello che era suo poteva cominciare a lavorare immediatamente. In quel modo, le armi biologiche sarebbero state pronte quando la comunità ne avesse avuto bisogno.

— Io penso — disse Najla — che dovremmo discutere di questo argomento in termini della prossima generazione. Quale relazione avremo con il governo federale fra vent’anni? Se inseriremo tutte le variabili nelle equazioni socio-dinamiche di Geary-Tollers…

Sua figlia. Brillante, produttiva, impegnata. Jennifer sorrise con amore a Najla, dall’altra parte del tavolo. Avrebbe protetto sua figlia.

E avrebbe dato inizio alla ricerca di bioarmi genetiche.


Drew aveva due problemi nella casa di Leisha, nel deserto: Eric Bevington-Watrous e il cibo.

Per come la vedeva, nessuno a parte lui aveva mai saputo che potessero esserlo. Per contro, loro pensavano che Drew avesse tutta una serie di problemi che il ragazzino stesso non considerava affatto fastidiosi. Pensavano che fosse preoccupato per le strane maniere, il sorprendente numero di persone da ricordare, il parlare da Mulo che lui non aveva mai sentito prima di allora, il bisogno di dormire che condividevano soltanto poche altre persone e il tempo che doveva aspettare, senza far nulla fino a settembre, quando l’avrebbero spedito alla scuola per Muli che stavano pagando.

Nulla di tutto ciò rappresentava un problema per Drew, specialmente l’ozio. Non aveva mai visto nessuno nella sua breve vita agire altrimenti. Ma non far nulla, si accorse fin dal primo giorno, non lo avrebbe fatto restare a galla in un posto simile. Non lì. Quella gente era terrorizzata dall’ozio.

Quindi si mantenne occupato e cercò di assicurarsi che tutti lo vedessero tenersi occupato con le cose che loro ritenevano che fossero i suoi problemi. Imparò i nomi di tutti nella tenuta, ecco come chiamavano quel posto, "tenuta"; a Drew, fino a quel minuto esatto, era sembrato un incrocio fra un’orgia e una narcofesta, una cosa che aveva visto una volta con grande interesse. Imparò quali fossero le parentele: Leisha e sua sorella, la vecchia con la paralisi che era una Dormiente, il figlio Dormiente di lei, Jordan, con la moglie Insonne Stella, ai quali Drew imparò presto che si doveva rivolgere chiamandoli "signor Watrous" e "signora Bevington". Erano fatti così. Avevano tre figli: Alicia, Eric e Seth. Alicia era grande, poteva avere quasi diciotto anni, ma non era sposata, cosa che a Drew apparve strana. A Montronce, le donne a diciotto anni avevano generalmente il primo figlio. Forse i Muli erano diversi.

C’erano anche altre persone che vivevano lì, nella maggior parte dei casi Insonni, ma non sempre. Drew scoprì di che cosa si occupavano quelle persone, legge, soldi e altra roba da Muli, e cercò di interessarsi. Quando non riusciva a restare interessato, cercava quanto meno di essere utile, svolgendo commissioni e chiedendo alla gente se avesse bisogno di qualche cosa. — Un ossequioso piccolo lacché — aveva sentito dire una volta ad Alicia, ma la vecchia signora l’aveva ripresa in modo abbastanza brusco dicendole: — Non osare fraintenderlo, signorina. Sta facendo del suo meglio con i geni che ha, e non ti permetterò di calpestare i suoi sentimenti! — Drew non si era sentito calpestato: non sapeva né cosa significasse "ossequioso" né "lacché". Però aveva scoperto che la vecchia signora lo apprezzava e, da quel giorno, aveva passato un sacco di tempo a fare cose per lei che, alla fine, era quella che aveva più bisogno di tutti, visto che era così vecchia.

— Per caso sei un gemello, Drew? — gli aveva chiesto lei una volta. La donna stava lavorando molto lentamente a un terminale.

— No, signora — aveva risposto prontamente lui. L’idea gli faceva venire la pelle d’oca. Nessun altro era come lui!

— Oh — aveva commentato la vecchia signora con un debole sorriso. — Decisamente discontinuo.

Usavano una marea di parole che lui non capiva: parole, idee, maniere. Parlavano dello spostamento della corrente elettorale: di che genere era? Era differente dall’energia-Y? Di diatomee modificate geneticamente che alimentavano il Madagascar, dei vantaggi delle stazioni orbitali circumlunari rispetto alle vecchie circumterrestri. Gli spiegarono come tagliare la carne con forchetta e coltello, di non parlare con la bocca piena e di dire grazie anche per la roba che non voleva. Lui fece tutto. Gli dissero che doveva imparare a leggere, e lui lavorò ogni giorno al terminale, anche se era una roba lenta e non riusciva proprio a capire come sarebbe potuto tornargli utile. I terminali ti dicevano tutto quello che volevi sapere, e quando c’erano le parole sullo schermo non restava altrettanto posto per la parte grafica. Le immagini avevano comunque più senso per Drew che non le parole. Era sempre stato così. Lui provava cose in immagini, colori e forme nel fondo del suo cervello che, in qualche modo, fluttuavano fino alla superficie, stipandogli la testa. La vecchia signora era una spirale di color bruno e ruggine; il deserto di notte lo riempiva di un dolce e mobile color porpora. Proprio così. Gli dicevano però di imparare a leggere, e lui lo faceva.

Gli dissero anche di andare d’accordo con Eric Bevington-Watrous, ma quello era più difficile della lettura. E fu proprio Eric il primo ad accorgersi del problema di Drew con il cibo. Era sveglio: erano tutti così fottutamente svegli.

— Hai problemi col cibo vero, eh? — lo stuzzicò Eric. — Sei abituato a quella roba di soia sintetica che usano i Vivi e il cibo vero ti rivolta le budella. Perché non lo ributti fuori qui davanti, piccolo verme privo di buone maniere?

— Hai qualche problema, tu? — disse Drew tranquillamente. Eric lo seguì presso l’enorme pioppo nero vicino al ruscello, un posto in cui Drew gradiva stare da solo: il ragazzino si alzò in piedi, teso, e cominciò a voltarsi lentamente per avere il corso d’acqua alle spalle.

— Sei tu il mio problema, verme — disse Eric. — Qui sei un parassita. Non contribuisci, non appartieni a questo posto, non sai leggere, non sai nemmeno mangiare. Non sei manco pulito. Perché non vai a farti una passeggiatina nell’oceano e lasci che le onde ti puliscano il culo!

Mentre Drew si voltava lentamente, lo fece anche Eric. Era una buona cosa: Eric poteva anche avere dieci chili e due anni più di lui, ma non sapeva come muoversi per ottenere un vantaggio in un combattimento. Il sole apparve sopra la spalla sinistra di Drew. Lui continuò a girare.

Disse: — Non mi sembra che manco tu contribuisci per un cazzo, tu. La tua nonna dice che tu sei la più grossa preoccupazione che ha, lei.

Il volto di Eric si fece color porpora. — Tu non ti devi permettere di parlare di me con la mia famiglia! — strillò, e caricò in avanti.

Drew si chinò su un ginocchio, pronto a proiettare Eric sopra una spalla e a gettarlo nel ruscello. Appena prima di raggiungere Drew, però, Eric balzò in aria, sferrando un calcio controllato che produsse immediate ondate di nausea nel petto di Drew: aveva commesso un brutto errore. Eric era allenato, solo che il suo addestramento era di un tipo che Drew non aveva riconosciuto. La punta dello stivale di Eric colpì Drew sotto al mento. Il dolore gli esplose nella mascella. La testa frustò indietro, e lui sentì qualcosa schioccare nella spina dorsale. La forza del calcio lo scaraventò indietro, oltre la breve riva, nel ruscello.

Tutto si fece bagnato e rosso.

Quando rinvenne, si trovò steso su un letto. Tubicini e aghi andavano dal suo corpo a macchinari che ronzavano e brontolavano. Anche la sua testa ronzava e brontolava. Cercò di sollevarla dal cuscino.

Il collo non volle muoversi.

Decise, allora, di voltarla lentamente di lato il più possibile, qualche centimetro. Una figura massiccia stava seduta su una seggiola accanto al suo letto: Jordan Watrous.

— Drew! — Jordan balzò su dalla seggiola. — Infermiera! È sveglio!

Arrivarono un sacco di persone nella sua stanza, allora, molte delle quali non facevano parte della ristretta cerchia di abitanti della tenuta che Drew frequentava. Non vide Leisha. Gli faceva male la testa, gli faceva male il collo: — Leisha!

— Sono qui, Drew. — La donna gli arrivò vicino alla testa. La sua mano era fresca sulla guancia di lui.

— Che cosa… mi è successo?

— Hai lottato con Eric.

Ricordò tutto. Guardò Leisha e restò sbalordito vedendo che aveva gli occhi pieni di lacrime. Perché stava piangendo? La risposta arrivò lentamente: stava piangendo per lui. Drew. Lui.

— Sento male.

— Lo so, tesoro.

— Non riesco a muovere il collo, io.

Leisha e Jordan si scambiarono uno sguardo. Poi lei spiegò: — È immobilizzato. Non c’è niente che non vada nel tuo collo. Le tue gambe, però…

— Leisha, non ancora — la scongiurò Jordan, e Drew voltò la testa lentamente, dolorosamente, verso l’uomo. Non aveva mai udito quel tipo di voce in un uomo adulto. In sua madre e nelle sue sorelle, sì, dopo che il papà le aveva picchiate per bene, ma non in un uomo adulto.

Qualcosa nella testa gli sussurrò: "questo è importante".

— Sì, adesso — replicò Leisha con fermezza. — La verità è la cosa migliore, e Drew è forte. Tesoro… ti si é rotto qualcosa nella spina dorsale. Abbiamo effettuato moltissime riparazioni, ma il tessuto nervoso non si rigenera, quanto meno non in persone come te. I dottori hanno potenziato i muscoli e altre cose. So che tu non capisci ancora che cosa significhi. Quello che puoi capire è che il tuo collo è a posto, quanto meno lo sarà in un paio di mesi. Le tue braccia e il corpo sono a posto. Ma le tue gambe… — Leisha voltò la testa. La forte luce rese scintillanti le sue lacrime. — Non potrai più camminare, Drew. Il resto del tuo corpo funziona normalmente, ma tu non camminerai più. Avrai una carrozzella elettrica, la migliore che potremo comperare, costruire o inventare ma… non camminerai più.

Drew rimase in silenzio. Era una cosa troppo enorme: non era in grado di assimilarla tutta. Poi, improvvisamente, vi riuscì. Forme e colori gli esplosero nella mente.

Disse con fierezza: — Significa che non potrò andare a scuola a settembre, io?

Leisha sembrò sconcertata. — Tesoro, settembre è passato. Ma sì, certo che potrai ancora andare a scuola, la prossima sessione, se vorrai. Certo che puoi. — Fissò dall’altra parte del letto verso Jordan, e lo sguardo di lei esprimeva un tale dolore che anche Drew guardò.

Jordan sembrava bruciato. Drew sapeva che cosa significasse avere uno sguardo da ustionati: lo aveva visto in uomini i cui scooter, modificati illegalmente, erano andati in fiamme, bruciando anche chi c’era sopra. Lo aveva visto in una donna il cui figlio era affogato nel grande fiume. Lo aveva visto in sua madre. Era uno sguardo per cui non bisognava provare un sentimento, perché quel sentimento avrebbe fatto talmente male da non permetterti di aiutare più nessuno. Nemmeno te stesso. E quello sguardo significava cercare l’aiuto di qualcuno, aveva sempre pensato Drew, com’era possibile, altrimenti,, che le persone dovessero sopportare che sbranasse loro le facce?

Il ragazzo disse: — Signor Watrous, signore… — aveva imparato anche quella parola, lì l’apprezzavano molto — …non è stata colpa di Eric. Sono stato io a cominciare.

Il volto di Jordan cambiò. Dapprima quello sguardo andò via, quindi ritornò, poi si indurì in qualcosa d’altro e tornò nuovamente, peggiore di prima.

— Sappiamo che non è vero. Eric ci ha detto quello che è successo — rispose Leisha.

Drew rifletté: forse era vero. Non riusciva a capire Eric fino in fondo, lui, lo sapeva già. E se le cose fossero andate al contrario, e fosse stato Drew a far sì che Eric non avesse potuto più camminare?

Non poter più camminare.

— Tesoro, no — disse Leisha, e ormai anche lei lo stava scongiurando. — So che sembra terribile, ma non è la fine del mondo. Puoi ancora andare a scuola, imparare a "essere qualcuno" come dicevi tu… Sii coraggioso, Drew. Io so che tu sei coraggioso.

Be’, lo era. Era un ragazzino coraggioso, lui, lo avevano sempre detto tutti, perfino nella puzzolente Montronce. Lui era Drew Arlen, quello che un giorno avrebbe posseduto il Rifugio. E non avrebbe mai e poi mai avuto lo sguardo bruciato come quello del signor Watrous in quel momento. Non Drew Arlen, lui.

Chiese a Leisha: — La carrozzella elettrica sarà del tipo che può sollevarsi a dieci centimetri da terra e scendere le scale?

— Sarà del tipo che potrà volare sulla Luna, se lo vorrai!

Drew sorrise. Si costrinse a sorridere. Vide qualcosa, in quel momento, chiara davanti a sé come un’enorme bolla scintillante, e non riuscì a spiegarsi come avesse fatto a non vederla prima. Era grossa, calda e rilucente e lui non solo la vide, ma sentì la bolla perfino nel più piccolo osso del suo corpo. Il signor Watrous disse con voce rotta: — Drew, nulla potrà mai ripagarti, ma noi faremo tutto ciò che potremo. Tutto.

Lo avrebbero fatto. Ecco che cos’era la bolla. Drew non aveva avuto parole per descriverla, prima, non si sa come, non aveva mai parole finché qualcuno non gliele forniva, ma la bolla era quello. Proprio lì. Non avrebbe più avuto bisogno di svolgere commissioni per la vecchia signora o di imparare le buone maniere che gli inculcavano e nemmeno di mangiare cibo vero. Avrebbe continuato a fare quelle cose perché voleva impararne alcune e perché altre gli piacevano. Ma non sarebbe stato costretto. Da quel momento, loro avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui. Lo avrebbero fatto. Da quel momento e per il resto della sua vita.

Li aveva in pugno.

— So che lo farete, voi — disse a Jordan. Per un lungo istante la bolla lo strinse, mentre Leisha e Jordan si scambiavano sguardi sconcertati sopra la sua testa. Poi la bolla esplose. Drew non riuscì a trattenerla. Sparì completamente, era ancora vera e sarebbe ritornata, ma in quel momento non fu in grado di trattenerla. Aveva le gambe spezzate e non avrebbe mai più potuto camminare: cominciò a piangere, un ragazzino di dieci anni immobilizzato su un letto d’ospedale, in una stanza insieme a estranei che non dormivano mai.

18

— Prossimo servizio: una nazione rappacificata, gli Stati Uniti nel tricentenario — disse l’annunciatore olovisivo. — Un approfondimento speciale della CNS.

— Bah — commentò Leisha. — Non saprebbero fare un commento approfondito nemmeno su un seme di soia sintetica da cucina.

— Sttt, fammi sentire — disse Alice. — Drew, passami gli occhiali che stanno sul tavolino.

Formavano un semicerchio attorno all’olovisore, ventisei persone assorte sedute, in piedi o appoggiate contro le pareti in cotto. Drew consegnò ad Alice gli occhiali. Leisha distolse per un minuto l’attenzione dalla ridicola trasmissione per lanciargli un’occhiata. Era un anno che Drew era sulla carrozzella, e la manovrava con la stessa disinvoltura di un paio di scarpe. Nei mesi in cui era stato lontano, a scuola, era diventato più alto, anche se non meno sparuto. Era più tranquillo, meno aperto, ma non era normale per un ragazzino che si stava avvicinando all’adolescenza? Drew sembrava a posto: si era abituato alla carrozzella, adeguato alla nuova vita. Leisha riportò la propria attenzione sull’olovisore.

Rappresentava la tecnologia da Mulo più avanzata, un rettangolo appiattito fissato al soffitto, butterato da varie aperture e protuberanze. Proiettava la trasmissione in ologrammi tridimensionali di un metro e mezzo sull’olopalco sottostante. I colori erano più vividi di quelli della realtà, i contorni meno netti, così che tutte le immagini assumevano l’aspetto brillante e contuso dei disegni dei bambini.

— Trecento anni fa — disse il cronista eccezionalmente bello, ovviamente modificato geneticamente, vestito con un’immacolata divisa dell’esercito di George Washington — i fondatori del nostro paese firmarono il documento più importante per la storia che il mondo abbia mai conosciuto: la Dichiarazione di Indipendenza. Le antiche parole ci commuovono ancora: "Quando nel corso degli eventi umani diviene necessario per un popolo sciogliere i vincoli politici che l’hanno unito a un altro e assumere fra i Poteri della Terra, lo stato separato e ugualitario che gli garantiscono le Leggi di Dio e della Natura, un onesto rispetto delle opinioni dell’umanità richiede che esso dichiari le cause che lo spingono alla separazione. Noi consideriamo lampanti le seguenti verità: che tutti gli uomini sono stati creati uguali…".

Alice sbuffò. Leisha le lanciò un’occhiata, ma Alice stava sorridendo.

— "…che siano stati dotati dal loro Creatore di determinati diritti inalienabili e che fra questi vi siano la Vita, la Libertà e il conseguimento della Felicità…"

Drew corrugò la fronte. Leisha si chiese se sapesse che cosa significassero tali parole: i suoi voti a scuola non erano stati esaltanti. Una sottile coperta gli copriva le gambe. Dall’altra parte della camera, Eric, afflitto e tetro, stava appoggiato contro una parete. Non guardava mai direttamente Drew, ma Leisha aveva notato, invece, che Drew sembrava quasi cambiare strada per spingere la propria carrozzella sotto il naso di Eric, per parlargli, per rivolgergli il suo sfolgorante sorriso. Rivincita? Era certamente un comportamento troppo sottile per un ragazzino di undici anni. Riconciliazione? Bisogno? — Tutte e tre le cose — aveva detto bruscamente Alice una volta. — Ma in fondo, Leisha, non sei mai stata molto sensibile al teatro.

Il pittoresco narratore terminò la Dichiarazione di Indipendenza e svanì. Seguirono alcune scene di festeggiamenti del Quattro Luglio in tutto il paese: Vivi impegnati in grigliate di arrosti di soia sintetica in Georgia; sfilate di scooter bianchi-rossi-e-blu in California; un ballo per Muli a New York, con donne che indossavano i nuovi severi abiti di seta tanto diritti da sembrare inamidati, sfoggiandoli tuttavia con elaborati colletti e polsini d’oro massiccio tempestato di pietre preziose.

La voce fuori campo era potenziata elettronicamente: — Una vera Indipendenza, dalla fame, dal bisogno, dal fazionalismo che ci ha divisi così a lungo. Da intrighi stranieri, come ammoniva George Washington trecento anni fa, dall’invidia, dal conflitto di classe. Dall’innovazione: è passato un decennio dall’ultima volta in cui gli Stati Uniti sono stati pionieri di un singolo importante progresso tecnologico. Sembra che accontentarsi dia luogo all’agio della familiarità; ma era questo ciò che i padri fondatori volevano per noi, questo dolce comodo, questo indisturbato equilibrio politico? Il tricenfenario ci trova arrivati a destinazione o immobili in acque stagnanti?

Leisha rimase strabiliata: quando era stata l’ultima volta che aveva sentito porre quella domanda, anche solo su un canale olovisivo da Muli? Jordan e Stella si sporsero tutti e due in avanti.

— E che effetto sta avendo questo smielato equilibrio sui nostri giovani? — proseguì la voce fuori campo. — La classe lavoratrice — …scene della Borsa di New York, sedute del Congresso, una riunione del consiglio di amministrazione di Fortuna 500… — si dà ancora da fare. Ma i cosiddetti Vivi, l’ottanta per cento della popolazione che controlla le votazioni semplicemente con il proprio numero, rappresenta una fonte in estinzione da cui trarre gli elementi migliori e i più brillanti per creare il futuro dell’America. Diventare i migliori e i più brillanti deve essere preceduto dal desiderio di eccellere…

— Oh, spegni l’olovideo — disse Eric a voce alta. Stella gli lanciò un’occhiata infuriata; Jordan fissò il pavimento. Quel secondo figlio stava spezzando loro il cuore.

— …e forse la stessa avversità è necessaria per creare quel desiderio. Gli ideali dello yagaismo, niente affatto screditati, che portarono avanti questa spinta quaranta anni fa quando…

Le gare di scooter e Wall Street scomparvero. Il narratore proseguì, descrivendo oloimmagini che non erano li, mentre il palco si riempiva di una proiezione di profonda oscurità. — Che diavo… — disse Seth.

Nell’oscurità, apparvero le stelle. Lo spazio. La voce del narratore andava avanti a descrivere la festa per il tricentenario alla Casa Bianca. Davanti alle stelle apparve una stazione orbitale che ruotava lentamente e, sotto di essa, uno stendardo con la citazione fatta da un diverso presidente in un diverso periodo… Abramo Lincoln: "Nessun uomo ha il diritto di governare un altro uomo senza il consenso di quest’ultimo".

La stanza si riempì di un vociare confuso. Leisha restò seduta un istante, sbalordita, ma poi comprese. Quella non era un trasmissione a diffusione generale. Il Rifugio manteneva una serie di satelliti per comunicazioni che monitorava le trasmissioni terrestri e portava avanti affari in rete. Era in grado di inserirsi in frequenze strettissime, focalizzate. L’immagine del Rifugio era stata inviata in modo che arrivasse solamente alla tenuta, a nessun altro se non a lei. Erano passati venticinque anni dall’ultima volta che Leisha aveva comunicato con il Rifugio, con le sue holding dichiarate o con i suoi partner economici nascosti e segreti. Quella mancanza di comunicazione, con la sua miriade di implicazioni, aveva costretto tutti all’inattività, a quella specie di calma piatta: la sua, quella di Jordan e dei figli di Jordan. Venticinque anni. Fino a quella comunicazione.

Jennifer voleva solamente ricordarle che il Rifugio c’era ancora.


Il primo ricordo di Miri furono le stelle. Il secondo ricordo Tony.

Nel ricordo delle stelle, sua nonna la teneva in braccio davanti a una lunga vetrata curva e, al di là della vetrata, c’era il nero punteggiato di luci fisse: luci scintillanti, meravigliose e, mentre Miri guardava, una di esse era sfrecciata davanti a loro. — Una meteora — aveva detto la nonna, e Miri aveva allungato le braccia per toccare le magnifiche stelle. La nonna si era messa a ridere. — Sono troppo lontane per la tua mano. Ma non per la tua mente. Ricordalo sempre, Miranda.

Lo aveva fatto. Ricordava sempre tutto: ogni singola cosa le accadesse. Non poteva però essere vero, perché non ricordava un periodo di tempo senza Tony; la mamma e il papà le avevano detto che c’era stato un intero anno senza di lui, prima che nascesse da loro esattamente nello stesso modo in cui era nata lei. Doveva esistere, quindi, almeno un anno che lei non ricordava.

Ricordava di quando erano arrivati Nikos e Christina, Demetrios e, subito dopo i gemelli, erano giunti Allen Sheffield e poi Sara Cerelli. Erano in sei che si agitavano nell’asilo nido, sotto lo sguardo vigile della signora Patterson o della nonna Sheffield, tornavano alle proprie cupole in visita dai genitori e giocavano con gli elettrodi sulla testa per il dottor Toliveri e il dottor Clement. A tutti loro piaceva il dottor Toliveri che rideva spesso, e piaceva anche il dottor Clement che non rideva mai. A loro piaceva sempre tutto, perché era tutto molto interessante.

Il loro asilo nido si trovava nella stessa cupola di un altro, e per una parte di ogni "giorno" (Miri non era sicura di cosa significasse quella parola, eccetto che aveva qualcosa a che fare con il contare, e a lei piaceva contare) la plasti-parete fra di essi veniva aperta. I bambini dell’altro asilo nido sfrecciavano in quello di Miri o viceversa, e Miri si rotolava per terra con Joan, si azzuffava per i giocattoli con Robbie oppure metteva dei blocchi in pila l’uno sull’altro insieme con Kendall.

Ricordava il primo giorno in cui ciò era terminato.

Tutto aveva avuto inizio con Joan Lucas, che era più grande di Miri e aveva riccioli castano chiaro che scintillavano come stelle. Joan le aveva detto: — Perché ti dimeni in continuazione così?

— Io n-n-non s-s-so — aveva risposto Miri. Ovviamente, aveva notato che lei, Tony e gli altri del proprio asilo nido si agitavano, mentre Joan e gli altri del suo non lo facevano. Joan non balbettava mai come succedeva invece a Miri, Tony, Christina e Allen. Miri, però, non ci aveva riflettuto. Infatti, Joan aveva i capelli castani, lei li aveva neri, Allen li aveva biondi. Il tremito, invece, si manifestava come il balbettio.

Joan aveva detto: — Hai la testa troppo grossa.

Miri l’aveva tastata. Non le sembrava più grossa del solito.

— Non voglio giocare con te — aveva deciso bruscamente Joan, e si era allontanata. Miri l’aveva fissata sbalordita. La signora Patterson era arrivata immediatamente. — Joan, c’è qualche problema?

Joan aveva smesso di camminare e aveva fissato la signora Patterson. Tutti i bambini conoscevano quel tono di voce. Il volto di Joan aveva assunto un’espressione abbattuta.

— Ti sei comportata da sciocca — aveva detto la signora Patterson. — Miri è un membro della tua comunità, del Rifugio. Adesso giocherai con lei.

— Sì, signora — aveva risposto Joan. Nessuno dei bambini era certo di cosa fosse una comunità ma, quando gli adulti pronunciavano quella parola, loro obbedivano. Joan aveva preso la bambola che lei e Miri avevano cercato di vestire per gioco, ma la sua espressione era rimasta corrucciata e, dopo qualche tempo, Miri non aveva avuto più alcuna voglia di giocare.

Lo ricordava.

Avevano lezione ogni "giorno", tre asili nido di bambini che imparavano insieme in una comunità. Miri ricordava chiaramente il momento in cui si era resa conto che un terminale non era solamente da guardare o da ascoltare: gli si potevano far fare delle cose. Gli si potevano far dire delle cose. Lei gli aveva chiesto che cosa fosse un "giorno", perché il soffitto si trovasse in alto, che cosa avesse mangiato Tony a colazione, quanti anni avesse il papà, quanti giorni mancassero al proprio compleanno. Quello sapeva sempre tutto: sapeva più della nonna, della mamma o del papà. Era molto saggio. Diceva anche di fare determinate cose e, se le si facevano correttamente, mostrava una faccia sorridente, se invece non vi si riusciva, bisognava provare un’altra volta.

Ricordava il primo giorno in cui aveva notato che a volte il terminale si sbagliava.

Era stato proprio a causa di Joan che Miri se n’era accorta. Stavano lavorando insieme a un terminale, cosa che ognuno doveva fare per una parte di ogni giorno (Miri ormai conosceva quella parola), perché erano una comunità. A Miri non piaceva lavorare con Joan: Joan era lentissima. Lasciata da sola, Joan poteva restare bloccata al secondo problema mentre Miri era già al decimo. A volte pensava che nemmeno a Joan piacesse lavorare con lei.

Il terminale aveva solo la modalità visiva: si stavano esercitando a leggere. Il problema era: "bambola: plastica bambino:?" Miri aveva detto: — T-t-tocca a m-m-me — e aveva digitato "Dio". Il terminale aveva mostrato un volto imbronciato.

— Non è giusto — aveva esclamato Joan con una certa soddisfazione.

— S-s-sì c-c-che lo è — aveva replicato Miri, preoccupata. — Il t-t-t-terminale è s-s-sbagliato.

— Immagino che tu sappia più del terminale!

— D-dio è g-g-giusto - aveva insistito Miri. — È q-q-quattro s-s-tringhe più in b-b-basso.

A dispetto di se stessa, Joan era apparsa interessata. — Che cosa vuoi dire con "quattro stringhe più in basso?" Non esistono stringhe in questo problema.

— N-n-n-on nel p-p-p-roblema — aveva spiegato Miri. Aveva cercato di pensare a come farlo capire: lei riusciva a vederlo nella mente, ma spiegarlo era più difficile. Specialmente a Joan. Prima che avesse potuto iniziare, era arrivata la signora Patterson.

— C’è qualche problema qui, bambine?

Joan aveva detto, senza cattiveria: — Miri ha dato una risposta sbagliata ma dice che è giusta.

La signora Patterson aveva guardato lo schermo. Si era inginocchiata accanto alle piccole. — Come fa a essere giusto, Miri?

Miri aveva tentato di spiegare. — È q-q-quattro p-p-piccole s-s-stringhe p-p-più in b-b-basso, s-s-signora P-Patterson. V-v-v-ede, una "B-bambola" è un "g-g-giocattolo"… la p-p-prima s-s-stringa va da b-b-bambola a g-g-giocattolo. Un g-g-giocattolo sta per "f-f-fingere" e una c-c-cosa che noi f-f-facciamo f-finta è che una s-s-stella c-c-cadente è una s-s-stella v-v-vera, così si p-p-può m-m-mettere "s-s-stella c-c-cadente" v-vicino n-nella p-p-p-prima s-s-stringa. Per far f-f-f-funzionare lo s-s-s-schema. — Dire così tante parole era un lavoro difficile: Miri desiderava non dover spiegare tanto. — P-p-oi, una s-s-tella c-c-cadente è in r-r-realtà una m-m-meteora e b-b-bisogna far r-r-ridiventare v-v-vera la s-s-stringa p-p-p-perché p-prima la si è resa f-f-finta e così la f-f-fine della p-p-p-rima s-s-stringa, q-q-quattro piccole s-s-stringhe s-s-sotto c’è "m-m-meteora".

La signora Patterson la stava fissando. — Vai avanti, Miri.

— P-poi per "P-p-plastica — aveva detto Miri, un po’ disperata — la p-p-prima stringa c-c-conduce a "i-i-inventato". D-d-d-deve, c-capisce, p-p-perché "G-g-giocattolo" p-portava a "f-f-fingere". — Aveva cercato di pensare a un modo per spiegare che il fatto che le piccole stringhe erano a un passo di distanza l’una dall’altra faceva parte dell’intero disegno, riecheggiato nell’inversione che lei avrebbe poi effettuato delle stesse parole fra le sotto-stringhe due e tre, ma era troppo difficile Era rimasta incastrata fra le stringhe stesse, non nel disegno complessivo, cosa che la turbava perché il disegno nel complesso era altrettanto importante. Le occorreva semplicemente troppo per spiegare nel suo linguaggio balbettante. — "I-i-inventato" p-porta a "p-p-persone", o-o-ovviamente, p-p-perché s-sono le p-p-persone a inventare le c-c-cose. La s-s-stringa p-p-persone p-p-porta a "c-c-comunità", m-m-molte p-p-persone, e quella s-s-stringa d-deve p-p-portare a "o-o-orbitale", p-p-perché allora le d-due s-s-stringhe al-l-lineate una di f-fianco all’al-al-altra f-f-fanno dire al p-p-problema "m-m-meteora: o-o-orbitale".

La signora Patterson aveva detto con un buffo tono di voce: — E questa è un’analogia ragionevole. La meteora ha una relazione definibile con stazione orbitale: una naturale e inumana, l’altra costruita e umana.

Miri non era certa di cosa volessero dire tutte le parole pronunciate dalla signora Patterson. Non stava andando bene. La signora Patterson appariva spaventata e Joan completamente persa. Lei comunque si era tuffata avanti. — P-p-poi per "b-b-bambino", la p-p-prima s-s-stringa p-p-porta a "p-p-piccolo". Questo p-p-porta a "p-p-p-proteggere" come f-f-faccio io con T-tony p-p-perché lui è più p-p-p-piccolo di m-me e p-p-potrebbe farsi m-m-male se si ar-r-arrampica t-t-troppo in alto. Poi la p-p-piccola s-s-stringa p-p-porta a "c-c-comunità" p-p-perché la c-c-comunità p-p-protegge le p-p-persone, e la q-q-quarta p-p-piccola s-s-stringa d-deve p-p-portare a "p-p-persone" perché le c-c-comunità sono p-p-persone e p-p-perché era al c-c-contrario sotto "p-p-lastica" e g-g-ran parte del n-n-nostro o-o-orbitale è fatto di p-p-p-plastica.

La signora Patterson aveva ancora il buffo tono di voce. — Così alla fine di tre serie di quattro stringhe, Joan non cambiare la videata sul terminale proprio adesso, alla fine di queste tue stringhe il problema dice "meteora sta a orbitale come persone a X" e tu hai inserito "Dio".

— S-sì — aveva detto Miri, più contenta: la signora Patterson capiva! — P-p-perché un orbitale è una c-c-comunità i-i-inventata, mentre una m-m-meteora è s-s-solo r-r-roccia nuda e D-d-dio è una c-c-comunità di m-m-menti o-o-organizzate mentre le p-p-persone da sole s-s-sono, una per una, n-n-nude.

La signora Patterson l’aveva portata dalla nonna. Miri aveva dovuto spiegare l’intera cosa da capo, ma quella volta era stato più semplice, perché la nonna aveva tracciato un disegno mentre Miri parlava. Miri si era chiesta come avesse fatto a non pensarci da sola. Il disegno le permetteva di inserire tutte le connessioni incrociate ed era molto più chiaro, anche se alcune delle linee che tracciava erano tremolanti perché la penna luminosa che aveva in pugno non andava diritta come il quadro che lei aveva nella mente.

Quando era arrivata al termine, il disegno le era sembrato davvero semplicissimo. Ma, in fondo, era semplice, solo una piccola serie di stringhe per esercitarsi nella lettura:



In seguito, la nonna era rimasta in silenzio per lungo tempo.

— Miri, tu pensi sempre in questo modo? In stringhe che creano schemi?

— S-s-sì — aveva risposto Miri sbalordita. — Tt-tu nn-no?

La nonna non aveva commentato. — Perché hai voluto inserire sul terminale l’analogia esistente quattro piccole stringhe più in basso?

— V-v-vuoi dire i-i-i-invece di o-o-otto o-o-oppure d-d-dieci s-s-stringhe più in b-b-basso? — aveva chiesto Miri, e gli occhi della nonna si erano spalancati moltissimo.

— Invece di… di nessuna stringa sotto. Quella che il terminale chiedeva. Non sapevi che era ciò che voleva?

— S-s-sì. M-ma… — Miri si era dimenata sulla sedia. — Io m-m-mi a-a-annoio con le s-s-stringhe di t-t-testa. A v-v-volte.

— Oh — aveva fatto la nonna. Dopo un ulteriore lungo silenzio, aveva aggiunto: — Dove hai sentito dire che Dio è una comunità di menti organizzate?

— S-s-sulla olovisione. La s-s-stava g-g-guardando la m-m-mamma quando ero a c-c-casa in v-v-visita.

— Capisco. — La nonna si era alzata in piedi. — Tu sei molto speciale, Miri.

— Anche T-t-t-tony. E N-n-nikos e C-c-christina e Al-Al-Allen e S-sara. Nonna, il nuovo b-b-b-ambino che v-v-vuole a-a-avere la M-m-mamma sarà s-s-speciale anche lui q-q-quando n-n-nascerà?

— Sì.

— S-s-si d-d-d-imenerà c-come n-n-noi? E b-b-balbetterà? E m-m-m-angerà t-t-tanto?

— Sì.

— E p-p-p-penserà in s-s-stringhe?

— Sì — aveva detto la nonna, e Miri ricordò sempre l’espressione sul suo viso.


Non ci furono più trasmissioni olovisive dalla Terra. Non le aveva mai viste all’asilo nido, solo nella cupola della mamma e del papà, ma adesso Miri non le vide più nemmeno lì. — Quando sarai più grande — aveva detto la nonna. — Ci sono idee da mendicanti che dovrai affrontare anche troppo presto, ma non ancora. Prima impara quello che è giusto.

Era la nonna, o a volte il nonno Will, che decideva che cosa fosse giusto. Il papà era via frequentemente per affari. La mamma invece era spesso presente, ma a volte Miri aveva l’impressione che non desiderasse esserci. Distoglieva lo sguardo da Miri e da Tony quando loro entravano in una stanza,

— È p-p-perché ci d-d-dimeniamo e b-b-balbettiamo — aveva detto lei a Tony. — Alla m-m-m-mamma non p-p-piacciamo,

Tony aveva cominciato a piangere. Miri lo aveva abbracciato e si era messa a piangere anche lei, ma non aveva ritirato le parole dette. Erano vere: la mamma era troppo bella perché potesse piacerle chiunque si dimenasse, balbettasse e sbavasse, e la verità era la cosa più importante per una comunità. — Sono i-i-io la t-t-tua c-c-comunità — aveva detto a Tony, e si era trattato di una frase interessante perché era contemporaneamente vera e di limitata veridicità, con sottostringhe e connessioni incrociate che si allungavano per sedici ulteriori stringhe, formando uno schema che si avvicinava a quello che aveva imparato in matematica, astronomia e biologia: un magnifico schema complesso e bilanciato come la struttura molecolare di un cristallo. Lo schema valeva quasi le lacrime di Tony. Quasi.

Diventando più grande, tuttavia. Miri cominciò ad avvertire che mancava qualcosa nei suoi schemi. Non riusciva a stabilire di cosa si trattasse. Ne aveva tracciati parecchi per il dottor Toliveri e per la nonna, finché non si erano fatti talmente complicati che lei si era accorta di tralasciare sempre qualcosa. Inoltre, ogni volta che disegnava uno schema a stringhe, il pensare e il disegnare producevano altri schemi, ognuno con stringhe a livelli multipli e riferimenti incrociati propri, e non c’era modo di disegnare anche quelli perché, se lei lo avesse fatto, il disegnarli ne avrebbe generati altri. Disegnare e spiegare non riuscivano mai a stare al passo con il pensare, e Miri divenne impaziente nei suoi tentativi.

Comprese, all’età di otto anni, l’aspetto biologico di ciò che era stato fatto a lei e agli altri come lei. Venivano chiamati Superinsonni. Comprese, anche, che non bisognava mai permettere che qualcosa interferisse con le due verità su cui era stato costruito il Rifugio: produttività e comunità. Essere produttivi significava essere completamente umani. Condividere la propria produttività con la comunità in modo leale significava creare forza e protezione per tutti. Chiunque avesse cercato di violare una qualsiasi delle due verità, estorcendo i benefici alla comunità senza contribuirvi produttivamente a propria volta, era un essere osceno, un mendicante disumano. Miri inorridì al pensiero. Nessuno poteva essere così moralmente repellente. La Terra sì che era piena di quelli che la nonna chiamava mendicanti di Spagna, alcuni dei quali erano perfino Insonni, ma il Rifugio mai.

Le alterazioni del suo sistema nervoso, di quello di Tony, di Christina, di Allen, di Mark e di Joanna dovevano renderla più produttiva, più utile alla comunità e a se stessa, più intelligente di quanto gli umani non fossero mai stati prima. Quello era stato insegnato a tutti loro, perfino ai non Super e, alla fine, tutti lo avevano accettato. Joan e Miri giocavano insieme, ormai, ogni giorno. Miri si sentiva piena di gratitudine.

Per quanto però lei amasse Joan, per quanto ammirasse i lunghi riccioli bruni di Joan, la sua abilità nel suonare la chitarra e la sua acuta dolce risata, Miri sapeva che era con quelli della sua specie, con gli altri Super, che provava maggiormente il senso di comunità. Cercò di nasconderlo: era sbagliato. Non celò, ovviamente, quel sentimento con Tony, che era suo fratello e che un giorno, insieme con lei e il piccolo Ali, che alla fine non era poi nato Super, nonostante quanto aveva detto la nonna si sarebbe andato ad aggiungere al blocco di votanti Sharifi, che controllava il cinquantuno per cento delle azioni del Rifugio, oltre alle holding finanziarie di famiglia. Erano quelle le cose che garantivano loro di non essere mendicanti.

La struttura economica del Rifugio la interessava. Tutto la interessava. Imparò a giocare a scacchi, e per un mese si rifiutò di fare qualsiasi altra cosa: quel gioco permetteva di creare dozzine di generazioni di stringhe, tutte annodate in modo complesso alle stringhe dell’avversario! Ma, dopo un mese, gli scacchi la stancarono. Dopo tutto, erano coinvolte solamente due serie di stringhe, anche se molto, molto lunghe.

La neurologia l’interessò di più. Il cervello aveva cento miliardi di neuroni, ognuno con siti ricettori multipli per neurotrasmettitori dei quali esistevano talmente tante varianti, che le stringhe che si potevano costruire risultavano quasi infinite. Quando Miri compì i dieci anni, stava conducendo esperimenti sui dosaggi di neurotrasmettitori, utilizzando se stessa e il volontario Tony come soggetti primari, Christina e Nikos come campioni di controllo. Il dottor Toliveri la incoraggiò. — Miranda, presto contribuirai personalmente alla prossima generazione di Super!

Ma non bastava ancora. C’era sempre qualcosa di mancante nelle sue stringhe, qualcosa che Miri percepiva così oscuro da non riuscire a discuterne con alcuno oltre a Tony, che, si scoprì, non sapeva di che cosa lei stesse parlando.

— V-v-vuoi d-d-dire, M-m-miri, che alcune s-s-stringhe m-m-m-mostrano punti d-d-deboli d-d-dovuti all’ins-insufficienza delle b-b-banche d-d-dati da cui t-t-trarre c-c-concetti?

Lei udì le parole pronunciate, ma udì anche di più: le stringhe che vi si univano, le stringhe nel cervello di Tony, che lei poteva dedurre perché lo conosceva così bene. Lui stava seduto sorreggendosi la grossa testa con le mani, come facevano frequentemente tutti loro, mentre la bocca, le palpebre e le tempie gli fremevano e i folti capelli scuri gli sobbalzavano ritmicamente sulla fronte per le convulsioni del corpo. Le stringhe del fratello erano amabili, forti e nitide, ma Miri sapeva che non erano lunghe come le sue, o altrettanto complesse nelle interconnessioni. Tony aveva solo nove anni.

— N-n-no — disse lentamente lei — non b-b-banche d-d-dati ins-insufficienti. P-p-più c-come… la m-m-m-mancanza di uno s-s-spazio in cui d-d-dovrebbe an-an-dare un’altra d-d-dimensione di s-s-stringhe.

— Una t-t-t-terza d-d-dimensione del p-p-pensiero — disse lui con entusiasmo. — F-f-forte. M-m-m-a… p-p-perché? T-t-tutto si ad-adatta nelle d-d-due d-d-di-mensioni. La s-s-semplicità del d-d-disegno è s-s-superiorità del d-d-disegno.

Lei udì le stringhe relative: lama di Occam, minimalismo, eleganza di programma, teoremi geometrici. Agitò una mano, goffamente. Nessuno di loro era molto agile a livello fisico: tendevano a evitare qualsiasi ricerca che richiedesse la manipolazione di molti materiali, e a passare il tempo a programmare robot domestici quando una tale manipolazione non poteva essere evitata. — N-non s-s-so.

Tony la abbracciò. Non erano necessarie parole fra di loro, e quello era un terzo linguaggio, un’aggiunta alla semplicità delle parole e alla complessità delle stringhe, migliore di tutt’e due.


Per una volta tanto, Jennifer sembrò scossa.

— Come è potuto accadere? — chiese il consigliere Perrilleon. Era pallido quanto Jennifer.

La dottoressa, una giovane donna che aveva ancora addosso gli indumenti sterili riciclabili, scosse la testa. Il sangue macchiava la parte anteriore del camice. Era venuta direttamente dalla sala parto dell’ospedale da Jennifer, che aveva indetto una riunione di emergenza del Consiglio. La dottoressa sembrava prossima alle lacrime. Era tornata al Rifugio solo due mesi prima dall’internato medico sulla Terra, che era ancora obbligatorio, molto più magra di quando era partita.

Perrilleon continuò: — Ha già compilato il certificato di nascita?

— No — rispose la dottoressa. Era intelligente, pensò Jennifer, ed era capace. La sensazione di orrore attorno al tavolo non diminuì, ma vi strisciò sopra una specie di rilassamento quasi impercettibile. Non esisteva ancora alcuna comunicazione ufficiale a Washington.

— Allora abbiamo un po’ di tempo — disse Jennifer.

— Se non fossimo ancora legati ai governi dello stato di New York e degli Stati Uniti, avremmo ancora più tempo — commentò Perrilleon. — Inoltrare certificati di nascita, ricevere un numero dell’assistenza sociale… — Sbuffò. — Venire inseriti negli archivi fiscali.

— Nulla di tutto ciò conta in questo momento — osservò Ricky, con un briciolo di impazienza.

— Sì, invece — insistette Perrilleon. Jennifer vide il volto allungato dell’uomo fissarsi in un’espressione cocciuta. Aveva settantadue anni, era appena qualche anno più giovane di lei, ed era venuto dagli Stati Uniti con la prima ondata di insediamento. Sapeva, aveva visto, come stavano le cose laggiù, a differenza degli Insonni nati nel Rifugio, e ricordava. I suoi voti erano stati utili agli scopi di Jennifer al Rifugio. Ne avrebbe sentito la mancanza, quando fosse scaduto il suo mandato.

— La questione che ci troviamo ad affrontare — disse Najla — è che cosa fare di questo… bambino. Non abbiamo molto tempo. Se ci fosse un’anomalia nella registrazione del certificato di nascita, un qualche maledetto agente potrebbe emanare un mandato di perquisizione.

Era quello che temevano tutti: un motivo legale per i Dormienti per entrare nel Rifugio. Per ventisei anni si erano premurati che non si creasse alcuna ragione legale simile, osservando scrupolosamente ogni singola richiesta burocratica del governo sia degli Stati Uniti, sia dello stato di New York: il Rifugio, in quanto proprietà di un’azienda registrata nello stato di New York, ricadeva sotto la sua giurisdizione. Il Rifugio presentava lì le sue istanze legali, vi abilitava alla professione i propri avvocati e i medici, pagava le tasse e ogni anno inviava altri studenti di legge ad Harvard per imparare come mantenere "qui" e "lì" legalmente separati.

Quel nuovo bambino avrebbe potuto infrangere la separazione.

Jennifer aveva riacquistato la propria compostezza. Era ancora molto pallida, ma la sua testa, con la corona di capelli neri, era alta. — Cominciamo con l’esposizione dei fatti. Se questo bambino dovesse morire, il suo corpo verrebbe inviato a New York per l’autopsia, come tutti gli altri.

Perrilleon annuì. Sapeva già dove stesse andando a parare. Il suo cenno d’assenso significava sostegno.

Lei proseguì con fermezza: — Se questo accadrà, i Dormienti potrebbero avere un motivo legale per entrare nel Rifugio. Imputazione di omicidio.

Nessuno menzionò l’altro processo farsa per omicidio, avvenuto trentacinque anni prima. Quel caso sarebbe stato differente. Il Rifugio sarebbe stato colpevole.

— D’altra parte — continuò Jennifer con voce chiara — sarebbe clinicamente possibile che il bambino sembrasse morto di sindrome di morte istantanea infantile, o di qualche altra causa chiaramente irrefutabile. Se invece il bambino vivrà, saremo costretti a crescerlo. Qui, con i nostri. Nelle sue condizioni, con tutto ciò che questo implica. — Si interruppe. — Penso che l’alternativa sia chiara.

— Ma come è potuto accadere! — sbottò la consigliera Kivenen. Era molto giovane e incline al mostrarsi piagnucolosa. Jennifer non ne avrebbe sentito la mancanza, quando il suo mandato fosse scaduto.

Il dottor Toliveri disse: — Non sappiamo tutto ciò che desidereremmo sulla trasmissione di informazioni genetiche nel corso del tempo. Ci sono state soltanto due generazioni di Insonni nate spontaneamente… — la sua voce si affievolì. Era ovvio che, in qualche modo, si sentisse colpevole lui in qualità di Genetico-Capo del Rifugio. Era così chiaramente ingiusto che Jennifer provò una gran rabbia. Raymond Toliveri era un superbo esperto di genetica, autore della creazione della sua preziosa Miranda. Quel bambino stava già causando fratture e lotte nella comunità.

Ma non lo facevano sempre?

La consigliera Kivenen disse alla giovane dottoressa: - Ci racconti ancora una volta cosa è accaduto.

La voce della donna si era calmata. — Il parto è stato normale. Un maschietto di circa quattro chili. Ha pianto subito. L’infermiera lo ha pulito e lo ha portato allo scanner McKelvey-Waller per un’analisi del cervello neonatale. Questo esame dura circa dieci minuti. Mentre il piccolo era steso nella culla imbottita sotto gli scanner, il bambino, lui… si è addormentato. — Ci fu un momento di silenzio. Alla fine, il dottor Toliveri disse: — Regressione dell’RNA verso il valore medio: sappiamo così poco nel campo della ridondanza di codificazione…

Jennifer disse bruscamente: — Non è colpa sua, dottore. — Lasciò che l’affermazione indugiasse nell’aria, in modo che tutti notassero la colpa che un Dormiente, perfino un Dormiente neonato, poteva riversare su persone innocenti. Dette quindi inizio al dibattito.

Il Consiglio esaminò tutti gli scenari legali possibili: e se avessero inoltrato un certificato di nascita falso, contrassegnando la casella "Insonne" invece di "Dormiente"? Potevano passare ottant’anni prima che il bambino morisse di vecchiaia prematura e il governo pretendesse un’autopsia. Ma il bambino avrebbe dovuto sostenere i test obbligatori della Commissione educativa dello stato di New York a sette anni; quanti parametri di normalità avevano realmente i mendicanti per quei test? Erano sufficienti per differenziare i Dormienti dagli Insonni? C’era inoltre l’impronta della retina, una prova virtualmente certa per l’identificazione del sonno, anche se non per i bambini piccolissimi. E se…

Jennifer, con l’aiuto di Will e Perrilleon, continuò a riportare l’argomento al punto focale: il bene della comunità contro il bene di uno che sarebbe stato per sempre un outsider. Non soltanto un outsider, ma anche un punto di frattura, una potenziale scusante per l’ingresso legale di governi stranieri, una persona che non avrebbe mai potuto produrre allo stesso livello del resto di loro, che avrebbe sempre preso più di quanto non potesse dare.

Un mendicante.

La votazione terminò otto a sei.

— Non sarò io a farlo - disse improvvisamente la giovane dottoressa. — Non io.

— Non dovrà esserlo — rispose Jennifer. — Sono io il Capo esecutivo, mia è la firma che dovrebbe essere apposta su un certificato di nascita falso: lo farò io, È sicuro, dottor Toliveri, che l’iniezione creerà condizioni indistinguibili dalla sindrome di morte improvvisa infantile?

Toliveri annuì. Era pallidissimo. Ricky abbassò lo sguardo sulla superficie della tavola. La consigliera Kivenen si morse un pugno. La giovane dottoressa sembrò in preda al dolore.

Nessuno di loro, tuttavia, protestò a voce alta dopo che il voto fu espresso. Erano una comunità.

Più tardi, Jennifer pianse. Le lacrime la umiliavano, scarse lacrime bollenti come sale incandescente. Will la abbracciò, e lei riuscì a sentire la sua rigidità anche mentre le batteva una mano sulla schiena. Non era ciò che si era aspettato da lei. Non era nemmeno quello che si era aspettato lei.

Lui tentò comunque di parlarle. — Mia cara, non ha sofferto. Il cuore si è fermato immediatamente.

— Lo so — ribatté freddamente lei.

— Allora…

— Perdonami. Non mi piace fare così.

Più tardi, quando fu tornata in sé, lei non si scusò nuovamente. Disse tuttavia a Will, mentre camminavano insieme sotto l’arco incurvato dei pannelli agricoli e tecnici che rappresentavano il cielo: — La colpa è delle normative del governo che ci costringono all’inganno, indipendentemente da quello che facciamo. È soltanto un nuovo esempio di ciò che abbiamo detto prima. Se non facessimo parte degli Stati Uniti…

Will annuì.

Si recarono dapprima a visitare Miranda nella cupola dei bambini, e poi ai Laboratori Sharifi, Reparto Imprese Speciali, importanti quanto Miranda e sottoposti alla più stretta sorveglianza della proprietà privata rispetto a qualsiàsi altro posto sotto il cielo solido e produttivo del Rifugio.


Era arrivata la primavera nel deserto. Il pero Spinoso rifioriva di boccioli gialli. Lungo i dilavamenti brillavano verdi i pioppi neri. Gli sparvieri, solitari per la maggior parte dell’inverno, stavano appollaiati a coppie. Leisha osservò quella fioritura molto più brulla e disadatta di quella lungo il lago Michigan, e si chiese sardonicamente se la modestia del deserto fosse per lei un vantaggio, così come lo era il suo isolamento. Lì nulla era alterato geneticamente.

Si pose davanti al terminale da lavoro, mordicchiando una mela e ascoltando il programma che recitava il quarto capitolo del suo libro su Thomas Paine. La stanza era soffusa di luce solare. Il letto di Alice era stato spostato accanto alla finestra, così che lei potesse vedere i fiori. Leisha ingoiò velocemente un pezzetto di mela e si rivolse al terminale.

— Modificare testo: "Paine correndo a Philadelphia" con "Paine stava correndo a Philadelphia"

"Modificato" confermò il terminale. Alice disse: — Pensi davvero che a qualcuno interessino ancora quelle vecchie regole verbali?

— A me interessano — rispose Leisha. — Alice, non hai toccato il pranzo.

— Non ho fame. E a te non interessa niente dei verbi: stai solo riempiendo il tempo, Leisha. Ascolta, c’è un sacco di frastuono davanti casa.

— Che tu abbia fame o no, devi mangiare. Devi. - Alice aveva settantacinque anni, ma sembrava molto più vecchia. La figura grassoccia che l’aveva tormentata per tutta la vita era sparita: ormai la pelle era tirata sulle ossa che venivano messe in evidenza come un sottile intreccio di fili. Aveva avuto un’altra paralisi e, in seguito, aveva messo da parte il terminale. Leisha, dalla disperazione, aveva perfino suggerito che Alice riprendesse il lavoro sulla parapsicologia nei gemelli. Alice aveva sorriso tristemente il lavoro sui gemelli era stata l’unica cosa su cui non erano mai state realmente in grado di discutere, e aveva scosso la testa. — No, cara. È troppo tardi. Per convincerti.

La paresi tuttavia non aveva intaccato l’amore di Alice per la famiglia. Si mise a sorridere quando il trambusto che proveniva dal portone di ingresso le esplose nella camera.

— Drew!

— Sono a casa, Nonna Alice! Ehi, Leisha!

Alice protese le braccia, bramosa, e Drew si mosse con la carrozzella per entrare nell’abbraccio. A differenza dei nipoti di Alice dotati di una salute perfetta, Drew non aveva mai provato repulsione per il lato sinistro immobilizzato del volto di Alice, la bava nell’angolo sinistro della bocca, il parlare un po’ biascicato. Alice lo strinse forte.

Leisha appoggiò la mela, non sapeva comunque di nulla; qualsiasi cosa avessero fatto gli agronomi quella volta rappresentava un passo indietro. Si irrigidì sulle punte dei piedi, aspettando. Quando Drew, alla fine, si rivolse verso di lei, gli disse: — Sei stato sbattuto fuori da un’altra scuola.

Drew esibì il suo solito sorriso ingraziante, si avvicinò ulteriormente al volto di Leisha e smise di sorridere. — Sì.

— Per quale motivo, questa volta?

— Non i voti, Leisha. Questa volta avevo studiato.

— Bene, e allora?

— Una rissa.

— Chi è rimasto ferito?

Lui rispose con espressione truce: — Un figlio di puttana che si chiama Lou Bergin.

— E immagino che avrò notizie dall’avvocato del signor Bergin.

— È stato lui a cominciare, Leisha. Io ho solamente finito.

Leisha esaminò Drew. Aveva sedici anni, e a dispetto della carrozzella, o forse proprio per quello, si allenava freneticamente, mantenendo la parte superiore del corpo in condizione superba. Non aveva alcuna difficoltà a credere che fosse un combattente letale. I suoi lineamenti da adolescente non erano ancora ben amalgamati: naso troppo grosso, mento troppo piccolo, pelle macchiata di acne nei punti in cui non era più arrotondata dal grasso infantile. Solamente i suoi occhi erano belli, di un verde vivido e circondati da folte ciglia nere, con uno sguardo concentrato che riusciva ancora a far pensare a tutti che Drew si trovasse completamente affascinante. Leisha costituiva un’eccezione. Durante gli ultimi due anni era cresciuto dell’antagonismo fra loro, mitigato periodicamente da goffi tentativi da parte di lui di ricordare quanto le dovesse e da parte di lei di ricordare che bambino accattivante fosse stato.

Quella era la quarta scuola che lo aveva espulso. La prima volta Leisha era stata indulgente: era un piccolo Vivo menomato, e le richieste intellettuali di una scuola piena di bambini Muli, nella maggior parte dei casi alterati geneticamente in quanto a intelligenza e salute fisica, dovevano essere state sconvolgenti per lui. La seconda volta era stata meno indulgente: Drew era stato bocciato in ogni singola materia, poiché aveva semplicemente smesso di recarsi alle lezioni, passando ore in solitudine con la sua chitarra semiautomatica o con i giochi su computer. Nessuno lo aveva disturbato. La scuola si aspettava che i propri studenti, la maggior parte dei quali un giorno avrebbe governato il paese, fosse automotivata.

Leisha, quindi, lo aveva inviato alla scuola meglio strutturata che era riuscita a trovare. A Drew era piaciuta immediatamente: aveva scoperto il programma teatrale. Era la celebrità della sua classe di recitazione. — Ho trovato il mio destino! — aveva detto durante una telefonata a casa. Leisha si era irrigidita, Alice si era messa a ridere. Quattro mesi dopo, tuttavia, Drew era tornato a casa, amareggiato e cupo. Non era riuscito ad avere una parte né in Morte di un commesso viaggiatore né in Luci del mattino. Alice gli aveva chiesto gentilmente: — È stato forse perché non volevano un Willy Loman o un Kelland Vie sulla carrozzella?

— È stata politica da Muli — aveva sputato Drew. — E lo sarà sempre.

Perciò Leisha aveva cercato strenuamente una scuola con un programma accademico leggero e un programma artistico impegnativo, una giornata scolastica strutturata e con la più alta percentuale possibile di studenti provenienti da famiglie senza grossi appoggi politici, importanti collegamenti finanziari o storie illustri. Ne aveva trovata una che sembrava adatta a Springfield, nel Massachusetts. Pareva che a Drew la scuola piacesse, e Leisha aveva pensato che le cose stessero andando bene. Eppure eccolo lì di nuovo.

— Guarda l’espressione che hai — disse Drew in modo cupo. — Perché non lo dici ad alta voce? "Ecco di nuovo Drew, il fottuto Drew che pensa che diventerà qualcuno ma che non riesce a portare a termine niente. Che cacchio dovremmo fare con il povero piccolo Vivo Drew?"

— Che cosa faremo? — ribatté Leisha in modo crudo.

— Perché non mi abbandonate semplicemente a me stesso?

Alice disse: — Oh, no, Drew.

— Non tu, Nonna Alice. Lei. Lei che insiste che la gente deve essere meravigliosa oppure non esistere.

Leisha replicò: — Invece di pensare che sia meravigliosa solo perché esiste, ma non fa nulla per realizzare la sua esistenza?

Alice schioccò: — Adesso basta, voi due!

Non bastava, però, per Leisha. La battuta di Drew aveva ferito parti di lei che non sapeva che esistessero ancora. Disse: — Adesso che sei a casa, Drew, vorrai vedere Eric. Lui si è sistemato magnificamente e sta facendo dei reali progressi nello studio dei diagrammi atmosferici. Jordan è immensamente orgoglioso di lui.

Gli occhi verdi di Drew balenarono. Leisha voltò le spalle. Provò, in modo improvviso e nauseante, una gran vergogna di sé. Aveva settantacinque anni, fatto incredibile di per se stesso, non si era mai sentita una settantacinquenne, e quel ragazzino aveva sedici anni. Non alterato geneticamente, un Dormiente, nemmeno estratto dalla classe dei Muli. Con l’avanzare dell’età, stava perdendo la compassione. Per quale altro motivo sennò si era alienata dal mondo in quella fortezza nel Nuovo Messico, ritirandosi da un paese che aveva sperato, un tempo, di migliorare per tutti? Sogni di gioventù.

Sogni che Drew non aveva nemmeno.

Alice disse con espressione stanca: — D’accordo Leisha. Drew, Eric mi ha detto di darti un messaggio.

— Cosa? — udì ringhiare Drew. Si trattava però di un ringhio addolcito: non poteva essere infuriato con Alice. Non con Alice.

Alice continuò: — Eric mi ha chiesto di dirti che, come parte dei suoi studi, ha camminato nel Pacifico e si è fatto pulire il culo. Che significa?

Drew scoppiò a ridere. — Davvero? Eric ha detto questo? Immagino che sia cambiato. — La meditabonda amarezza gli tornò nella voce.

Stella entrò di corsa nella camera con espressione eccitata. Aveva messo su peso e ormai assomigliava a un dipinto di Tiziano, con la carne soda e grassoccia sotto una giovanile chioma rossa. — Leisha c’è… Drew! Che ci fai a casa?

— È in visita — rispose Alice. — Cosa c’è, cara?

— C’è una visita per Leisha. A dire il vero sono in tre. — Stella sorrise, e il doppio mento le ondeggiò di, eccitazione. — Eccoli!

— Richard!

Leisha si catapultò attraverso la stanza per abbracciarlo. Richard la strinse, ridendo, e poi la lasciò andare. Leisha si voltò immediatamente verso la moglie di lui, Ada, una sottile ragazzina polinesiana che le sorrise timidamente. Ada aveva ancora dei problemi con l’inglese.

Quando Richard aveva portato Ada per la prima volta nella tenuta del Nuovo Messico, dopo vent’anni di pellegrinaggi solitali e privi di meta attorno al globo, Leisha era stata diffidente. Lei e Richard non erano mai più stati amanti: Leisha era inorridita al pensiero di andare a letto con il marito di Jennifer. Richard, inoltre, non glielo aveva mai chiesto. Aveva sofferto per anni per i suoi bambini perduti, Najla e Ricky, una sofferenza silenziosa e amara così insolita in un Insonne che Leisha non aveva saputo come reagire. Si era sentita sollevata quando lui aveva cominciato a compiere viaggi lunghi interi anni, scomparendo con il solo anello di credito e i vestiti che aveva addosso, in India, in Tibet, nelle colonie Antartiche, nel deserto sudamericano: sempre in luoghi tecnologicamente arretrati, prossimi al primitivo quanto poteva esserlo un mondo alimentato dall’energia di Kenzo Yagai. Leisha non gli aveva mai posto domande sui suoi viaggi, e lui non aveva mai fornito volontariamente informazioni. Lei sospettava che si facesse passare per un Dormiente.

Poi, quattro anni prima, era tornato per una delle sue poco frequenti visite portando Ada. Sua moglie. Era originaria di una delle riserve culturali volontarie del Pacifico del sud. Ada era magra e scura, con lunghi e lucidi capelli neri e l’abitudine di abbassare la testa ogniqualvolta le si rivolgeva la parola. Non parlava inglese. Aveva quindici anni.

Leisha le aveva dato il benvenuto, si era mesa a studiare il samoano e aveva cercato di nascondere di essere rimasta ferita nel profondo del cuore. Non era tanto perché Richard l’avesse rifiutata, quanto perché aveva rifiutato tutte le scelte dell’essere Insonne: la scelta della realizzazione, la scelta dell’ambizione, la scelta della mente.

Gradatamente, però, Leisha aveva compreso. Il punto fondamentale per Richard non era soltanto che Ada, con i suoi sorrisi timidi, la sua parlata inceppata e la sua giovane adorazione per lui, era così diversa da Leisha; Ada era così diversa da Jennifer Sharifi.

Richard, inoltre, sembrava felice. Aveva fatto ciò che Leisha non era riuscita a fare e aveva raggiunto una specie di pace con il loro passato Insonne. Se quella pace appariva come una resa, Leisha poteva forse sostenere che la propria soluzione, la moribonda Fondazione Susan Melling che l’anno precedente aveva avuto solamente dieci iscritti, fosse realmente migliore?

— Io vedo te, Leisha — disse Ada in inglese. — Io vedo te con felicità.

— E io vedo con felicità te — rispose caldamente Leisha, Per Ada si trattava di un lungo discorso di notevole forza intellettuale.

— Io vedo te con felicità, Mirami Alice. — Mirami, aveva detto una volta Richard, era un termine di grande rispetto per gli onorati anziani. In modo timido e dolce e tuttavia molto deciso, Ada aveva decisamente rifiutato di credere che Alice e Leisha fossero gemelle.

— Ti vedo con felicità, cara — disse Alice. — Ti ricordi di Drew?

— Salve — salutò Drew sorridendo. Ada gli rivolse un debole sorriso, quindi distolse lo sguardo, come si confaceva a una donna sposata rispetto a un uomo non imparentato. Richard rispose allegramente: — Salve Drew. — C’era un tale cambiamento dal solito dolore ombroso nei suoi occhi quando si rivolgeva a Drew, che Leisha strizzò gli occhi. Non aveva mai capito fino in fondo quel dolore: Drew era di una generazione più giovane rispetto al figlio che Richard aveva perduto. Oltre tutto, poi, era un Dormiente.

La voce di Alice si fece tremula, il che significava che si stava stancando. — Stella ha detto tre visitatori…

Stella entrò, a quel punto, portando in braccio un neonato.

— Oh, Richard — disse Leisha. — Oh, Richard…

— Questo è Sean. Come mio padre.

Il piccolo assomigliava in maniera quasi assurda a Richard: fronte bassa, folti capelli scuri, occhi scuri. Solo la pelle color caffè indicava i geni di Ada. Evidentemente non lo avevano fatto modificare per nulla. Leisha prese in braccio il neonato, senza essere sicura di cosa provasse. Sean la fissò solennemente. Il cuore di Leisha sembrò rigirarsi.

— È magnifico…

— Fammelo tenere — disse Alice bramosa, e Leisha le consegnò il piccolo. Era contenta per Richard, che aveva sempre desiderato una famiglia, un punto fisso, una comunità intima. Due anni prima Leisha aveva fatto delle analisi che avevano confermato che i suoi ovuli erano inerti. I gameti, l’aveva ammonita Susan decenni addietro, non si rigenerano.

Kevin Baker, l’unico Insonne importante rimasto negli Stati Uniti, aveva avuto quattro figli dalla sua giovane moglie Insonne.

Jennifer Sharifi, Leisha lo sapeva per aver consultato l’anagrafe degli Stati Uniti, aveva due figli e quattro nipoti.

Alice poteva avere perduto Moira, emigrata su una colonia di Marte, ma aveva Jordan con i suoi tre figli.

"Smettila", si disse, e lo fece.

Il bambino venne fatto girare. Stella entrò tutta affaccendata, portando caffè e biscotti. Alice, stanca, venne condotta nella sua stanza a dormire. Jordan arrivò da un campo che stava coltivando con girasoli sperimentali modificati geneticamente. Richard raccontò, in apparente libertà e tuttavia con qualcosa di strano nei modi, dei viaggi insieme con Ada attraverso le Isole Artificiali Santuario del Gioco al largo della costa africana.

— Ehi — disse Drew, e al suono della sua voce tutti sollevarono lo sguardo. — Ehi, questo bambino dorme.

Leisha rimase seduta immobile. Quindi si alzò, si avvicinò alla carrozzella di Drew e abbassò lo sguardo sul port-enfant appoggiato ai piedi del ragazzo. Sean giaceva con i piccoli pugni sollevati accanto alla testa, addormentato. Le palpebre chiuse tremolavano. Leisha sentì serrarsi lo stomaco. Richard aveva provato un tale odio per il suo genere, per la sua gente, che aveva fatto eseguire una modificazione genetica in vitro per invertire l’insonnia.

L’uomo la stava fissando. — No, Leisha — disse tranquillamente. — Non l’ho fatto. È naturale.

Naturale…

— Sì. Ecco dove siamo stati il mese scorso, dopo le Isole Artificiali: l’Istituto Medico di Chicago. In cerca delle risposte per una regressione spontanea. Ma lì non c’è nessuno in grado di fare più di una specie di intruglio da libro di cucina con le antiche scoperte. Che diavolo, non è rimasto alcun esperto in genetica da nessuna parte che sappia fare più di quello, eccetto che nel settore agricolo. — Rimase in silenzio: lui e Leisha sapevano che non era vero. Esisteva il Rifugio.

Leisha disse con voce incerta: — Sanno almeno se è un fenomeno in diffusione, oppure in crescita… nei parametri statistici…

— Sembra essere abbastanza raro. Ovviamente ci sono talmente pochi Insonni, adesso, che non si può stilare alcun profilo statistico.

Ancora quel silenzio, carico di ciò che non veniva pronunciato.

Fu Ada a rompere il silenzio. Non poteva aver seguito un gran che della conversazione fra Leisha e il marito, ma si alzò con grazia per portarsi accanto a Leisha. Ada si fermò e prese in braccio il bambino. Guardandolo teneramente disse: — Ti vedo con felicità, Sean. Ti vedo dormire — e il suo sguardo si alzò per incrociare direttamente quello di Leisha per la prima volta, per quanto Leisha ricordasse.

Anche quando tutto nel paese era cambiato, non era cambiato nulla.

19

Jennifer, Will, i due esperti in genetica dottor Toliveri e dottor Blure e i loro assistenti stettero a guardare la creazione di un mondo in miniatura.

A settecento chilometri di distanza, nello spazio, fluttuava una bolla in plastica. Mentre il gruppo di ricerca del Rifugio osservava via schermo dai Laboratori Sharifi, Reparto Imprese Speciali, la bolla raggiunse il massimo della dimensione. All’interno migliaia di membrane in plastica si tesero. L’interno era un alveare di tunnel dalle pareti sottili, di camere e di diaframmi; alcuni dotati di forellini, altri porosi come i materiali da costruzione standard terrestri, altri ancora aperti. Nessuno di essi era più alto di dieci centimetri. Quando la bolla fu completamente gonfia e piena della miscela atmosferica standard, l’olovisore sul soffitto del laboratorio proiettò verso il basso un modello trasparente e tridimensionale della bolla e delle sue ripartizioni interne.

Da ognuna delle quattro camere poste all’esterno della bolla vennero rilasciati cinque topi. I topi si infilarono nei tunnel, la cui altezza ridotta impediva la caduta libera, squittendo in modo isterico. Sul modello dell’olovisore venti punti neri ne tracciarono i percorsi. Uno schermo su una parete differente mostrò venti serie di valori provenienti dai biorilevatori impiantati in ogni topo.

I topi corsero liberamente per dieci minuti. Quindi, da una singola fonte all’interno della bolla, venne rilasciato l’organismo modificato geneticamente, lontanamente imparentato con un virus: Toliveri e Blure avevano impiegato sette anni per crearlo.

Uno per uno, i valori dei biorilevatori cominciarono a diminuire e lo squittio, amplificato sul canale audio, cessò. I primi tre smisero di trasmettere nel giro di tre minuti, i sei successivi qualche minuto dopo, altri cinque nei successivi dieci minuti. Gli ultimi sei trasmisero ancora per circa trentuno minuti.

Il dottor Blure inserì i dati in un programma di proiezione. Corrugò la fronte. Era molto giovane, non aveva più di venticinque anni e, visto che era anche biondissimo, la barba che cercava strenuamente di far crescere appariva come una morbida peluria, come piuma. — Non va bene. A questo ritmo il tempo stimato di un progetto di minima per arrivare alla saturazione in una stazione orbitale si protrae per oltre un’ora, e in una città di mendicanti, in un giorno privo di vento, per oltre cinque ore.

— Troppo lento — convenne Will Sandaleros. — Non sarebbe convincente.

— No — confermò Blure. — Ma siamo più vicini. — Lanciò un’altra occhiata ai biovalori piatti. — Immaginate persone che potrebbero realmente usare una cosa simile.

— I mendicanti lo farebbero — ribatté Jennifer Sharìfi.

Nessuno la contraddisse.


Miri e Tony erano seduti nel laboratorio che condividevano nella Cupola Scientifica Quattro. I bambini comuni utilizzavano i laboratori scolastici, non professionali, per i loro progetti di studio: lo spazio in una stazione orbitale era troppo prezioso per essere assegnato indiscriminatamente. Miri e Tony Sharifi, però, non erano bambini comuni e i loro progetti non rappresentavano solamente esperienze di apprendimento. Il Consiglio del Rifugio, i Laboratori Sharifi e il Consiglio Scolastico si erano riuniti per esaminare la questione: gli esperimenti neurologici di Miri e le migliorie di Tony sui sistemi di dati dovevano essere considerati progetti scolastici, lavori privati brevettabili oppure studi pagati dall’Azienda del Rifugio? I potenziali profitti dovevano appartenere alla famiglia, all’azienda o a un fondo fiduciario aperto per Miri e Tony finché non fossero stati più minorenni secondo la legge dello stato di New York? Tutti, alla riunione, avevano sorriso, e la discussione era stata gioiosa: erano troppo orgogliosi dei Super per litigare a causa loro. Avevano deciso che il lavoro dei ragazzi appartenesse al Rifugio, mentre il sessanta per cento dei diritti d’autore su ogni applicazione commerciale dovesse andare agli stessi ragazzi, oltre a un credito per il college. Miri aveva dodici anni, Tony undici.

— G-g-guarda qui — disse Tony. Miri non rispose per quarantacinque secondi, il che significava che si trovava a un punto cruciale nella costruzione di una stringa-pensiero, e la stringa che le parole di Tony aveva avviato si annodava solamente alla periferia. Tony aspettò allegramente. Era generalmente allegro, e Miri riusciva solo raramente a individuare stringhe nere fra gli edifici di pensiero che il fratello tracciava per lei sul suo olovisore. Era il progetto del ragazzino: creare una mappa degli schemi di pensiero dei Super, Aveva iniziato con una frase: "Nessun adulto può arrogarsi automaticamente qualche diritto sulla produzione di altri: la debolezza non costituisce un diritto morale rispetto alla forza". Tony aveva passato settimane a trarre, da dodici Super, ogni stringa e stringa incrociata evocata da quella frase, inserendo Ognuna di esse in un programma che aveva elaborato personalmente.

Era stato un lavoro lento. Jonathan Markowitz e Ludie Calvin, i più giovani Super nell’esperimento, avevano perso la pazienza a causa della lentezza balbettante e opaca delle parole pronunciate, ed erano scappati per ben due volte dalle tartassanti sedute con Tony. Le stringhe di Mark Meyer erano state talmente bizzarre che il programma si era rifiutato di riconoscerle come valide finché Tony non aveva riscritto determinate sezioni della codifica. Nikos Demetrios aveva mostrato stringhe chiare e aveva cooperato con entusiasmo, ma nel bel mezzo dell’interrogatorio aveva preso freddo, era stato in isolamento per tre giorni ed era tornato indietro con stringhe talmente diverse dalle precedenti, per le stesse frasi, che Tony aveva gettato tutti i dati relativi a lui a causa di una contaminazione da riorganizzazione artistica.

Tuttavia aveva insistito, restando seduto all’oloterminale davanti a quello di Miri perfino più a lungo di quanto non facesse lei, agitandosi e balbettando. In quel momento, le stava sorridendo. — V-v-vieni a v-v-vedere!

Miri girò attorno alla doppia scrivania, giungendo al fianco di Tony. Lo schermo tridimensionale dell’oloterminale era stato oscurato dalla parte che dava verso di lei. Quando finalmente riuscì a vedere i risultati preliminari, Miri restò a bocca aperta dalla contentezza.

Era un modello delle sue stringhe per la frase campione di Tony, ogni concetto rappresentato da un piccolo grafico per i termini concreti, da parole per gli astratti. Linee rilucenti in vari colori tracciavano riferimenti incrociati di primo, secondo e terzo livello. Lei non aveva mai visto una rappresentazione altrettanto completa di ciò che le accadeva nella mente. — È b-b-bellissimo!

— Le t-t-tue sono c-c-c-compatte — disse Tony. — E-eleganti.

— C-c-conosco quella s-s-struttura! — Miri si rivolse allo schermo biblioteca. — A-a-accendere t-terminale. Aprire b-b-biblioteca. B-b-banca terrestre. C-c-cattedrale di C-Chartres, F-f-francia, r-r-rosone. Mostrare i-i-immagine.

Lo schermo baluginò dell’intricato disegno della vetrata del Tredicesimo secolo. Tony lo esaminò con l’occhio critico di un matematico. — N-n-no… n-n-non proprio u-u-uguale.

— Ma lo s-s-s-sento così — disse Miri, e la vecchia frustrazione la assalì, producendo zoppicanti stringhe a spirale nella sua mente: c’era qualche collegamento essenziale fra il rosone e il modello su computer di Tony che non era ovvio, ma era , in qualche modo, ed era di una tremenda importanza nascosta. Il suo pensiero però non riusciva a esprimerlo. Mancava qualcosa nelle sue stringhe di pensiero, era sempre mancato.

Tony disse: — G-g-guarda J-j-jonathan. — Il modello del pensiero di Miri svanì e apparve quello di Jonathan. Miri restò nuovamente a bocca spalancata. — Ma c-c-come fa a p-p-p-pensare in q-q-questo modo!

A differenza di quello di Miri, il modello di Jonathan non aveva una forma simmetrica e sembrava un’ameba irregolare, con stringhe che sfrecciavano in tutte le direzioni, esaurendosi oppure tornando improvvisamente indietro da bizzarre connessioni che Miri non riuscì a comprendere subito. Come faceva la battaglia di Gettysburg a collegarsi con la costante di Hubble? Presumibilmente Jonathan lo sapeva.

Tony disse: — Q-q-questi sono gli u-u-unici due che ho s-s-sviluppato f-f-finora. Il m-m-mio sarà il p-p-p-prossimo. Poi il p-programma li so-sovrapporrà e c-c-cercherà dei p-p-principi di c-c-comunicazione. Un g-g-giorno, M-miri, oltre alla in-incoraggiante scienza della c-c-comunicazione, p-p-potremo usare i t-t-terminali per parlare a v-v-vicenda s-senza questo f-fottuto 1-linguaggio m-monodimensionale!

Miri lo guardò con amore: quello era un lavoro che offriva un vero contributo alla comunità. Be’, forse un giorno lo sarebbe stato anche il suo. Stava lavorando a neurotrasmettitori sintetici per i centri della parola nel cervello. Sperava un giorno di riuscirne a creare uno che, a differenza di quelli trovati fino a quel momento dagli scienziati, non producesse effetti collaterali, inibendo la balbuzie. Allungò una mano e accarezzò la grossa testa di Tony che ballonzolava e tremava sul collo largo.

Joan Lucas piombò nel loro laboratorio senza bussare. — Miri! Tony! Il campo giochi è aperto!

Miri licenziò immediatamente i neurotrasmettitori e la scienza della comunicazione. Il campo giochi era aperto! Tutti i bambini, Normali e Super, avevano aspettato quel momento per settimane. Lei afferrò Tony per la mano e si mise a caracollare dietro Joan. All’esterno Joan, con le sue gambe lunghe e agili, la distanziò facilmente, ma nessun bambino al Rifugio aveva bisogno di indicazioni per arrivare al nuovo campo giochi. Bastava soltanto alzare lo sguardo.

Nel nucleo del mondo cilindrico, ancorato con resistenti cavi sottili, il pallone di plastica gonfiato fluttuava sull’asse della stazione orbitale. La gravità, lì, era così scarsa da tendere alla caduta libera, quanto meno per i bambini. Miri e Tony si stiparono nell’ascensore che li portò in alto, infilarono guanti e pianelle di velcro e si misero a strillare deliziati quando vennero catapultati dentro la bolla immensa. L’interno era attraversato da montanti in plastica rosa traslucida, tutti fortemente elastici, dotati di nicchie opache per potervisi nascondere, con sacche e tunnel che terminavano a mezz’aria. Tutto era punteggiato da maniglie gonfiate e morbide e da strisce di velcro. Miri si lanciò a capofitto nell’aria, volò attraverso una stanza di plastica e si tuffò all’indietro, andando a sbattere contro Joan. Tutt’e due le ragazzine scoppiarono a ridere e fluttuarono lentamente verso il basso, tenendosi strette a vicenda e strillando quando Tony e un bambino che non conoscevano presero a sfrecciare sopra le loro teste.

Le stringhe di Miri si incresparono nella sua mente con teorie del caos, immagini mitiche, angeli, flitter, Icaro, la relazione di accelerazione, Orville Whrigt, astronauti mercuriani, mammiferi palmati, la velocita di fuga e le relazioni muscoli-forza-peso. Con estremo piacere.

— Vieni qui dentro — le gridò Joan al di sopra degli strilli. — Ho un segreto da confidarti! — Afferrò Miri, la cacciò in una nicchia trasparente sospesa e si stipò insieme con lei. All’interno c’era un po’ meno rumore.

Joan disse: — Miri, pensa: la mia mamma è incinta!

— M-m-magnifico! — esclamò Miri. Gli ovuli della madre di Joan erano di tipo r-14, difficili da penetrare perfino in vitro. Joan aveva tredici anni: Miri sapeva che aveva desiderato una sorellina o un fratellino con la stessa tenacia con cui Tony desiderava una Litov-Hall auto-am. — Sono c-c-così f-f-felice!

Joan la abbracciò. — Sei la mia migliore amica, Miri! — Repentinamente, si lanciò fuori dalla nicchia, — Prendimi!

Miri non ci sarebbe mai riuscita, ovviamente. Era troppo goffa, al confronto con l’agilità da normale di Joan, ma non importava. Si scaraventò dietro l’amichetta, strillando con gli altri semplicemente per il gusto di fare rumore, mentre sotto di lei il mondo continuava a ruotare in uno schema di idrocampi, cupole e parchi belli quanto stringhe.


Il martedì successivo all’apertura del campo giochi era il giorno dell’Anniversario del Ricordo. Miri si vestì con cura indossando pantaloncini e una tunica neri. Riusciva ad avvertire la struttura grave delle sue stringhe che scivolavano insieme con i pensieri in ovali compatti e appiattiti, scuri come gli abiti di tutti. Le feste religiose nel Rifugio variavano da famiglia a famiglia: alcuni festeggiavano il Natale, il Ramadan, la Pasqua, Yom Kippur o Divali; molti non festeggiavano nulla. Le due ricorrenze che si celebravano in comune erano il Quattro Luglio e l’Anniversario del Ricordo, il 15 aprile.

La folla si ammassò nel pannello centrale. Il parco era stato esteso ricoprendo i campi circostanti, seminati a colture a superrendimento, con una temporanea struttura in plastica spray, abbastanza resistente da sopportare il peso di ogni persona del Rifugio, e abbastanza larga da poter accogliere tutti. I pochi che non avevano potuto lasciare il lavoro, o che erano momentaneamente indisposti, osservavano la cerimonia sull’olovideo. Una piattaforma posticcia per l’oratore incombeva sulla folla. Alto al di sopra della piattaforma, fluttuava il campo giochi deserto.

La maggior parte delle persone si trovava lì con i propri familiari. Miri e Tony, tuttavia, si erano stretti agli altri Super che avevano più di otto o nove anni, seminascosti all’ombra di una cupola per la produzione energetica. I Super si sentivano più contenti quando erano separati dalla folla di Normali, con i quali non potevano tenere il passo a livello fisico, e più felici quando si trovavano insieme. Miri non pensò nemmeno per un istante che sua madre avesse cercato lei, Tony o Ali. Hermione aveva un nuovo bambino a cui dedicarsi. Nessuno aveva spiegato a Miri perché costui, come la piccola Rebecca, fosse Normale. Miri non lo aveva chiesto.

Dov’era Joan? Miri si voltò a destra e a sinistra ma non riuscì a scorgere da nessuna parte la famiglia Lucas.

Jennifer Sharifi, indossando una abbaya nera, salì sulla piattaforma. Il cuore di Miri si gonfiò di orgoglio. La nonna era bellissima, perfino più bella della mamma o della zia Najla. Era bella come Joan. Sul volto della nonna, inoltre, si notava l’espressione seria e composta che evocava sempre in Miri stringhe e riferimenti incrociati di intelligenza e forza di volontà umana. Non esisteva nessuno come la nonna.

— Cittadini del Rifugio — cominciò Jennifer. La sua voce amplificata giungeva in ogni angolo della stazione orbitale senza che lei avesse bisogno di alzarla nemmeno una volta. — Vi chiamo in questo modo perché, anche se il governo degli Stati Uniti ci definisce cittadini di quel paese, noi sappiamo che non è così. Sappiamo che nessun governo fondato senza il consenso dei governati ha il diritto di rivendicarci. Sappiamo che nessun governo privo dell’abilità di riconoscere la realtà che gli uomini sono stati creati disuguali ha una visuale tale da poterci rivendicare a sé. Sappiamo che nessun governo che operi basandosi sul principio che i mendicanti possono reclamare un diritto sul lavoro altrui è dotato della moralità per rivendicarci.

"In questo Anniversario del Ricordo, il 15 aprile, noi riconosciamo al Rifugio il diritto a un proprio governo conclamato, alla propria realtà illuminata, ai frutti del proprio lavoro produttivo. Abbiamo diritto a ottenere queste cose, ma non le possediamo, in realtà. Non siamo liberi. Non ci è ancora concesso lo ’stato separato e uguale che le Leggi di Dio e della Natura ci garantiscono’. Possediamo il Rifugio grazie all’Insonne visione del nostro fondatore, Anthony Indivino, ma non abbiamo la libertà".

— P-p-per ora — sussurrò Tony a Miri con espressione truce. Lei gli strinse forte la mano e si sollevò sulla punta dei piedi per cercare nella folla tracce di Joan.

— E tuttavia abbiamo creato per noi stessi il massimo della libertà possibile — continuò Jennifer. — Sottoposti senza un nostro consenso alla giurisdizione legale dello stato di New York, non abbiamo mai, in trentadue anni, né promosso né subito un’azione giudiziaria. Piuttosto, abbiamo organizzato un nostro sistema giuridico, all’insaputa dei mendicanti, e lo abbiamo amministrato per nostro conto. Sottoposti senza il nostro consenso alle regolamentazioni per l’abilitazione dei nostri assicuratori, dei medici, degli avvocati, perfino degli insegnanti per i nostri bambini, ci siamo adeguati a tutte le regole. Lo abbiamo fatto anche se questo ha significato vivere per un certo periodo di tempo in mezzo ai mendicanti. Sottoposti a regolamentazioni statistiche prive di senso che ci considerano uguali ai mendicanti, ci siamo contati, comparati e testati come richiesto, e poi abbiamo buttato i risultati considerandoli l’irrilevante idiozia che in effetti sono.

Miri avvistò Joan. Si stava facendo strada a spintoni attraverso la folla, sgomitando con incuranza le persone, e Miri restò scioccata nel notare che Joan non aveva indossato i rituali abiti neri dell’Anniversario del Ricordo. Portava un reggiseno e dei pantaloncini verde bosco. Miri sollevò un braccio il più possibile al di sopra dell’ombra della cupola per la produzione energetica e agitò freneticamente una mano.

— Esiste tuttavia una richiesta dei mendicanti cui non possiamo sottrarci — continuò Jennifer. — I mendicanti non lavorano per mantenersi: per farlo dipendono, ringhiosi, dai migliori. Per mantenere i milioni di "Vivi" improduttivi degli Stati Uniti, il Rifugio, come entità e come individui, viene derubato a forza di un totale del 64,8 per cento dei suoi utili annuali attraverso il furto legalizzato rappresentato da tasse statali e federali. Non possiamo combattere contro questo, non senza mettere a rischio lo stesso Rifugio. Non possiamo opporre resistenza. Tutto quello che possiamo fare e ricordare cosa ciò significhi: moralmente, praticamente, politicamente e storicamente. E il 15 aprile di ogni anno, quando le nostre risorse ci vengono strappate senza che ci venga dato nulla in cambio, noi ricordiamo.

Il volto grazioso di Joan era gonfio e striato: aveva pianto. Miri cercò di rammentare l’ultima volta che aveva visto piangere qualcuno dell’età di Joan. I bambini piccoli piangevano quando cadevano, quando non riuscivano a risolvere un problema al terminale o litigavano l’uno con l’altro per i giocattoli. Ma Joan aveva tredici anni. Gli adulti, notando il volto di Joan mentre lei avanzava a gomitate fra la folla, cercarono gentilmente di interrogarla. Joan li ignorò, spingendosi verso Miri.

— Ricordiamo l’odio contro gli Insonni della Terra. Ricordiamo…

— Vieni con me — disse Joan a Miri con espressione feroce. Afferrò l’amica e la trascinò attorno alla cupola per la produzione energetica, finché la nera superficie curva non nascose completamente Jennifer alla vista. La voce di Jennifer, tuttavia, fluttuò verso di loro chiara come se la donna si trovasse di fianco al corpo tremante di Joan. Nella mente di Miri esplose una serie di stringhe. Non aveva mai visto tremare un Normale.

— Sai che cosa hanno fatto? Lo sai, Miri?

— C-c-chi? C-c-cosa?

— Hanno ucciso il bambino!

Miri si sentì pervadere dall’oscurità. Le cedettero le ginocchia e si accasciò a terra. — I m-m-mendicanti? C-c-come? — La madre di Joan era stata incinta di sole poche settimane e non aveva lasciato il Rifugio: significava, forse, che i mendicanti erano ?

— Non i mendicanti! Il Consiglio! Guidato dalla tua cara nonna!

Le stringhe si dipanarono e si strapparono. Miri ne afferrò saldamente i capi. Il suo sistema nervoso, sempre stimolato al limite dell’isteria biochimica, cominciò a scivolare oltre quel margine. Miri chiuse gli occhi e respirò profondamente finché non riprese il controllo di sé.

— C-c-che cosa è s-s-successo, J-joan?

La calma di Miri, per quanto fosse fragile, sembrò tranquillizzare anche Joan. La ragazzina scivolò sull’erba accanto a Miri e si strinse le ginocchia fra le braccia. Sul polpaccio sinistro aveva un taglio non ancora rigenerato.

— Mia madre mi ha chiamato nel suo studio proprio quando stavo per andarmi a cambiare per l’Anniversano del Ricordo. Stava piangendo. Era sdraiata sul giaciglio che lei e papà usano per gli incontri sessuali.

Miri annuì: la sua mente creò stringhe sul perché un Insonne dovesse giacere a letto se non stava avendo un rapporto sessuale o non era ferito.

Joan continuò: — Mi ha raccontato che il Consiglio ha preso la decisione di farla abortire. Ho pensato che fosse una cosa strana: se i test prefetali mostrano danni in un’area importante del DNA, i genitori decidono naturalmente per l’aborto. Che cosa aveva a che fare il Consiglio con questo?

— C-c-che c-c-cosa?

— Ho chiesto quale fosse il danno al DNA. Mi ha detto che non ce n’erano.

Attorno a loro fluttuava ancora la voce di Jennifer: — …il presupposto che, perché sono deboli, è automaticamente loro dovuto il lavoro dei forti…

— Ho chiesto a mia madre perché il Consiglio avesse ordinato l’aborto, se il bambino era normale. Lei ha risposto che non era stato un ordine ma una forte raccomandazione, e lei e il papà l’avrebbero accettata. Ha cominciato a piangere di nuovo. Mi ha detto che l’analisi genetica dimostrava che il bambino è… era…

Non riuscì a dirlo. Miri abbracciò l’amica.

— …era un Dormiente.

Miri ritirò il braccio. Un istante dopo se ne pentì amaramente, ma era troppo tardi. Joan arrancò in piedi: — Anche tu pensi che la mamma dovesse abortire!

Davvero? Miri non ne era sicura. Le stringhe le turbinavano nella testa: regressione genetica, ridondanza di informazioni nel DNA, bambini che spiraleggiavano nel campo giochi, l’asilo, il laboratorio, la produttività… i mendicanti. Un neonato, morbido fra le braccia della madre di Joan. Ricordò Tony fra le braccia di sua madre, sua nonna che la sollevava per vedere le stelle.

Jennifer alzò la voce: — Soprattutto, ricordare che la morale è definita da ciò che contribuisce alla vita, non da ciò che succhia sangue alla vita stessa.

Joan si mise a gridare: — Non sarò mai più tua amica, Miranda Sharifi! — Scappò via di corsa, con le gambe lunghe che balenavano sotto i pantaloncini verdi che non avrebbe mai dovuto indossare nell’Anniversario del Ricordo.

— A-a-aspetta! — strillò Miri. — A-a-a-spetta! Io penso che il C-c-consiglio si sb-sbagli! — Ma Joan non l’aspettò.

Miri non sarebbe mai riuscita a raggiungerla.

Lentamente, goffamente, si alzò da terra e si recò nel laboratorio della Cupola Scientifica Quattro. Sia il suo terminale sia quello di Tony erano accesi e stavano eseguendo programmi. Miri li spense, quindi spazzò via tutte le copie cartacee dalla sua scrivania con un violento gesto del braccio.

— M-m-maledizione! — La parola non era sufficiente: doveva esserci più di quelle parole, doveva… qualcosa che avesse a che fare con un dolore così forte. Le sue stringhe non bastavano. La loro incompletezza la tormentò ancora, come un dato mancante in un’equazione quando ci si rendeva conto che mancava, anche se non lo si era notato prima perché, altrimenti, ci sarebbe stato un buco proprio al centro dell’idea. C’era un buco anche in Miri, e un bambino Dormiente vi spiraleggiò dentro: il fratello di Joan che, alla stessa ora del giorno dopo, non sarebbe esistito più di quanto non esistesse, non fosse mai esistito, il dato mancante nell’equazione del pensiero, anche se doveva trovarsi da qualche parte. Ormai Joan la odiava.

Miri si accucciò sotto la scrivania di Tony e si mise a singhiozzare.

Jennifer la trovò lì, due ore più tardi, dopo che i discorsi per l’Anniversario del Ricordo erano terminati e l’immenso capitale in credito, il controvalore del lavoro produttivo, era stato inviato al governo che non dava mai nulla in cambio. Miri udì la nonna attardarsi sull’arco della porta, poi attraversare senza esitare la stanza come se già sapesse dove si trovava Miri.

— Miranda. Vieni fuori di lì.

— N-n-no.

— Joan ti ha detto che sua madre ha in grembo un feto Dormiente che deve essere abortito.

— N-n-non "d-d-deve". Il b-b-bambino p-p-potrebbe v-v-vivere. È n-n-normale sotto ogni a-a-altro p-p-punto di v-v-vista. E loro lo v-v-vogliono!

— Sono i genitori che hanno preso la decisione, Miri. Nessun altro potrebbe farlo al posto loro.

— Allora p-p-p-p-perché Joan e sua m-m-madre stanno p-p-piangendo?

— Perché a volte le cose necessarie sono difficili. E perché nessuna delle due ha ancora imparato ad accettare la dura necessità senza renderla peggiore con il rimpianto. È una lezione vitale, Miri. Il rimpianto non è produttivo. Nemmeno il senso di colpa o il lutto, anche se ho provato tutt’e due le cose per i cinque feti Dormienti che abbiamo avuto al Rifugio.

C-c-cinque?

— Per adesso. Cinque in trentuno anni. Ogni coppia di genitori ha preso la stessa decisione dei genitori di Joan, perché ogni coppia ha compreso la dura necessità. Un bambino Dormiente è un mendicante, e quelli produttivamente forti non accolgono le pretese parassitiche dei mendicanti. La carità, forse, è una questione individuale. Ma la pretesa, come se la debolezza avesse un diritto morale sulla forza, come se fosse in qualche modo superiore alla forza, no. Non lo ammettiamo.

— Un b-b-bambino D-d-dormiente sarebbe p-p-p-produttivo! È n-n-normale, per il r-resto!

Jennifer si sedette con grazia sulla sedia della scrivania di Tony. Le pieghe della sua nera abbaya si adagiarono a terra accanto al corpo accucciato di Miri. — Per la prima parte della sua vita, sì. La produttività, però, è una cosa relativa. Un Dormiente può avere cinquant’anni di produttività, iniziando, diciamo, dai venti. Ma, a differenza di noi, verso i sessanta o i settant’anni i loro corpi si indeboliscono, sono preda di esaurimenti, si sfaldano. Possono vivere tuttavia per almeno altri trent’anni, un fardello per la comunità, una vergogna per se stessi perché è una vergogna non lavorare quando gli altri lo fanno. Anche se un Dormiente fosse industrioso, ammassasse denaro per la vecchiaia, acquistasse robot che si prendessero cura di lui, finirebbe per essere isolato, incapace di prendere parte alla vita quotidiana del Rifugio, degenerando. Morendo, Dei genitori che amano il proprio bambino lo condannerebbero a un simile destino? Una comunità potrebbe mantenere molte di queste persone senza assumersi un fardello spirituale? Pochi, sì: ma che sarebbe dei principi coinvolti?

"Un Dormiente allevato fra noi non sarebbe soltanto un estraneo qui, inconscio e morto cerebralmente per otto ore al giorno, mentre la comunità va avanti senza di lui. Avrebbe anche il tremendo peso di sapere che un giorno o l’altro potrebbe avere una paralisi, un attacco di cuore, un cancro o una delle miriadi di malattie cui sono soggetti i mendicanti. Sapendo che lui stesso diventerà un peso, Come potrebbero un uomo o una donna di sani principi vivere in questo modo? Sai che cosa dovrebbero fare?"

Miri capì. Ma non lo disse.

— Dovrebbero suicidarsi. Una cosa tremenda a cui costringere il bimbo che ami!

Miri strisciò fuori da sotto la scrivania. — M-m-ma, n-nonna… t-t-tutti d-d-dovremo m-m-orire un giorno. Anche t-t-tu.

— Ovviamente — rispose con compostezza Jennifer. — Ma quando lo farò, sarà dopo una vita lunga e produttiva come membro completo della mia comunità: il Rifugio, il sangue del nostro cuore. Non vorrei niente di meno per i miei figli e per i miei nipoti. Non mi accontenterei di niente di meno. Nemmeno la madre di Joan.

Miri rifletté. Reti complesse di pensiero si annodarono nella sua testa. Alla fine, dolorosamente, annuì.

Jennifer proseguì, come se non avesse vinto: — Io penso, Miri, che tu sia grande abbastanza da cominciare a vedere trasmissioni dalla Terra. Abbiamo creato una limitazione ai quattordici anni perché pensavamo che sarebbe stato meglio se i tuoi principi si fossero formati, i tuoi e quelli degli altri bambini, prima di mostrarvi le violazioni che avvengono sulla Terra. Forse ci siamo sbagliati, specialmente con voi Super. Con voi stiamo ancora cercando una via a tentoni, tesoro. Ma forse sarebbe meglio che tu vedessi il genere di vite sprecate, parassitiche che i mendicanti, adesso si chiamano "Vivi", prediligono.

Miri provò una strana riluttanza a guardare le trasmissioni della Terra, una riluttanza che non aveva certamente provato prima di allora. Ancora una volta, però, annuì. La nonna aveva la fragranza di un sapone profumato, leggero e pulito; i suoi capelli lunghi, raccolti in una crocchia, rilucevano come vetro nero. Miri appoggiò timidamente una mano sul ginocchio di Jennifer.

— E ancora una cosa, tesoro caro — disse Jennifer. — Dodici anni sono troppi per piangere, Miri, specialmente per una dura necessità. La sola sopravvivenza richiede troppo da noi per poterci consentire le lacrime. Ricordalo.

— Lo f-f-farò — rispose Miri.

Il giorno dopo vide Joan che si recava dalla cupola dei suoi genitori al parco. Miri la chiamò, ma Joan continuò a camminare e non si voltò. Un momento dopo, Miri sollevò il mento e si incamminò nella direzione opposta.

20

I cinque giovani strisciarono furtivamente verso la recinzione metallica, tenendosi nell’ombra di cespugli e alberi non potati e di una panchina sfasciata in quello che un tempo poteva essere stato un parco. La luna stava salendo alta a est, facendo scintillare la recinzione d’argento. Le sue maglie erano molto ampie, con una lavorazione a chiocciola che risultava tanto diseguale quanto priva di sostanza: la recinzione era indubbiamente solo un segnale, e la vera protezione doveva essere fornita da un campo a energia-Y. Se così era, il debole scintillio del campo non risultava visibile nell’oscurità e non c’era modo di calcolarne l’altezza.

— Lancia in alto — sussurrò Drew dalla carrozzella al ragazzo che gli stava vicino, chiunque fosse. Tutti e cinque indossavano plastitute scure e stivali neri. Drew riusciva a ricordare soltanto tre dei loro nomi. Li aveva incontrati nel pomeriggio in un bar, appena dopo essere arrivato in città. Immaginava che avessero meno dei suoi diciannove anni; non era importante. Avevano crediti dell’assistenza sociale per liquori e narcotici, quindi perché doveva importare? Perché doveva importare qualsiasi cosa?

— Ora! — gridò qualcuno.

Balzarono in avanti. La carrozzella di Drew si inceppò su un ammasso di erbacce resistenti e lui venne proiettato in avanti. Le cinture di sicurezza lo trattennero, e la carrozzella si raddrizzò e procedette, ma gli altri raggiunsero per primi lo scudo a energia-Y. Scagliarono le bombe di fortuna, fatte con benzina procurata in una fattoria abbandonata. Nessuno oltre Drew aveva avuto idea di cosa fosse quella roba, così come nessuno oltre Drew aveva mai sentito parlare di "cocktail Molotov". Lui era l’unico che sapeva leggere.

— Merda! — strillò il ragazzo più giovane. La sua bomba aveva colpito quella che poteva essere la parte superiore della recinzione a energia, era esplosa e aveva cominciato a far piovere fiamme e plastica sull’erba secca. L’erba prese fuoco. Due delle altre bombe fecero la stessa fine; il quarto ragazzo lasciò cadere la propria e si mise a correre, strillando. La sua camicia aveva preso fuoco a causa di un frammento incandescente.

Drew fece correre la carrozzella fino a meno di due metri dalla recinzione, tirò indietro il braccio e lanciò. Le sue braccia fortemente muscolose, risultato di un incessante allenamento, spedirono la bomba al di sopra della recinzione a energia-Y. L’erba su entrambi i lati dello scudo si infiammò.

— Karl è stato colpito! — gridò qualcuno. I tre ragazzi più grandi sfrecciarono in direzione dei propri scooter. Uno di loro placcò Karl e lo fece rotolare, urlante, sull’erba. Drew rimase seduto sulla carrozzella, immobile, a guardare l’incendio e a sentire lo stridio della sirena d’allarme, perfino più rumorosa del ragazzo ustionato.


— C’è qui qualcuno per tirarti fuori, stronzo — annunciò lo sceriffo. Sbloccò la serratura a energia-Y e spalancò la porta della cella. Drew sollevò lo sguardo con espressione insolente dalla brandina in pietra spugnosa, uno sguardo che svanì quando il suo salvatore fu entrato.

— Tu! Perché?

— Ti aspettavi di nuovo Leisha, vero? — domandò Eric Bevington-Watrous. — Peccato. Questa volta avrai me.

— È stufa di tirarmi fuori? — Drew chiese con voce strascicata.

— Se non lo è, dovrebbe esserlo.

Drew lo esaminò, cercando di pareggiare il freddo disprezzo di Eric. Il ragazzo furioso che aveva combattuto con lui presso il pioppo nero poteva anche non essere mai esistito. Eric indossava pantaloni neri di cotone, un corpetto elasticizzato crespato e un cappotto nero con rinforzi: tutto molto tradizionale ma alla moda. Aveva stivali di pelle argentina, i capelli dall’ottimo taglio, una pelle lucente. Sembrava un Mulo, di bell’aspetto e deciso, abituato a gestire le situazioni, mentre Drew sapeva di sembrare un Vivo caduto troppo in basso per riuscire a vivere. E lo era. Uscendo dall’ottica riguardante la realtà, che era l’unico modo in cui gradiva vedere qualsiasi cosa in quel periodo, Drew vide Eric e se stesso come un freddo e liscio ovulo che fluttuava accanto a una piramide deformata e frastagliata, con ogni punta dentellata, sbreccata o intaccata.

Chi era stato il primo a operare quella deformazione? Chi lo aveva menomato? Di chi era la fottuta carità che gli aveva mostrato quanto lui fosse inutile rispetto a tutti gli stronzissimi Muli del mondo?

— E se io non volessi essere tirato fuori?

— Allora resta qui a marcire — rispose Eric. — A me non interessa.

— Perché dovrebbe? Con il tuo vestito da Mulo rampante, la tua superiorità da Insonne e i soldi di tua zia?

Eric non poteva più essere schernito in quel modo. — I miei soldi, adesso. Io li guadagno. A differenza di te, Arlen.

— Per alcuni di noi è un po’ più dura.

— Oh, e noi dovremmo proprio provare una gran pena per te, per questo motivo? Povero Drew. Povero puzzolente, menomato criminale Drew — disse Eric in un tono talmente disinteressato, talmente adulto, che Drew rimase sbalordito. Eric aveva soltanto due anni più di lui: nemmeno Leisha riusciva a essere così distaccata.

Se lo fosse stata, loro due si sarebbero forse trovati in quella cella?

Quel pensiero era un verme spinoso che gli scivolava attraverso la mente, lasciando una scia di bava che riluceva perfino al buio.

— Secondino — chiamò Eric. — Noi andiamo.

Nessuno rispose. Nessuno menzionò imputazioni penali, avvocati, cauzione, l’intero sistema legale che avrebbe dovuto funzionare con uguale giustizia per tutti gli uomini in modo fottutamente uguale.

Drew si trascinò sui gomiti attraverso il pavimento e salì sulla carrozzella, parcheggiata appena al di là delle sbarre. Nessuno lo aiutò. Seguì Eric… perché no? Che cazzo importava se lui era o no in galera, a marcire in quel paesello o da qualche altra parte? Grazie a quella pura indifferenza comprendeva la stupidità di entrambe le scelte.

— Se lo pensassi davvero, resteresti qui — disse Eric da sopra una spalla, senza rallentare il passo, e Drew si sentì nuovamente smerdato: erano semplicemente più svegli. Lo sapevano. Fottuti Insonni.

C’era un’automobile in attesa. Drew voltò la carrozzella in un’altra direzione ma, prima che riuscisse a muoversi, Eric fissò un blocco a energia-Y sul pannello di controllo posto sul bracciolo.

— Ehi!

— Chiudi il becco — ordinò Eric. Drew fece partire un destro, ma Eric fu più veloce avendo, inoltre, il vantaggio della mobilità. Il suo pugno colpì Drew sotto al mento, con una forza insufficiente per spaccargli la mascella ma tale da provocargli fitte di dolore che gli attraversarono la faccia, giungendo alle tempie. Quando il dolore prese ad attenuarsi leggermente, Drew si accorse di essere ammanettato.

Cominciò a imprecare, chiamando all’appello tutte le sconcerie che aveva imparato in diciotto mesi per la strada. Eric lo ignorò. Tirò fuori Drew dalla carrozzella e lo gettò sul sedile posteriore dell’auto, già occupato da una guardia del corpo che riportò il ragazzo in posizione eretta, lo guardò profondamente negli occhi e gli disse semplicemente: — Non provarci.

Eric scivolò dietro al volante. Era una novità fra i Muli. Guidare personalmente. Drew ignorò la guardia e sollevò entrambe le braccia, ammanettate insieme, sopra la testa per farle piombare pesantemente sul collo di Eric. Eric non si voltò nemmeno. La guardia afferrò le braccia di Drew al massimo dello slancio e gli fece qualcosa di talmente doloroso alla spalla che lui si accasciò, accecato dal dolore, sul sedile posteriore. Iniziò a singhiozzare.

Eric guidava.

Lo portarono in un motel di Vivi, del genere che veniva affittato per orge o narcofeste a spese dell’assistenza sociale. Eric e la guardia lo spogliarono e lo cacciarono nella dozzinale vasca da bagno fuori misura da quattro persone. La testa di Drew affondò. Respirò acqua finché non riuscì a tirarsi fuori, nessuno nei due lo aiutò. Eric versò nell’acqua una mezza bottiglia di mangiasporco modificati geneticamente. La guardia del corpo si spogliò, entrò insieme con Drew e cominciò a strigliarlo per bene.

Successivamente venne legato al letto.

Immobilizzato, impotente senza la carrozzella, Drew giacque maledicendo le proprie lacrime, mentre Eric incombeva sopra di lui e la guardia del corpo usciva per una passeggiata.

— Non so perché lei vuole preoccuparsi di te, Arlen. So perché io sono qui. Primo, perché altrimenti ci sarebbe lei e secondo perché, altrimenti, tu saresti in piedi e io non potrei mazzuolarti nel modo che ti meriti. Ti è stata data ogni opportunità, ogni considerazione e tu hai buttato tutto. Sei stupido, sei indisciplinato e, a diciannove anni, non hai nemmeno quel minimo di etica che ti farebbe chiedere che cosa è successo al tuo amico che è rimasto ustionato per la tua inutile distruttività. Sei un disastro come essere umano, perfino come essere umano Vivo, ma io ti offro un’ulteriore opportunità. Nota bene: nulla di quello che ti accadrà è idea di Leisha. Lei non ne sa nulla. Questo è il mio regalo per te.

Drew sputò verso di lui. Lo sputo risultò troppo corto e ricadde sul pavimento di pietra porosa. Eric non sorrise nemmeno prima di voltarsi.

Lo lasciarono lì, legato, tutta la notte.

La mattina seguente, la guardia del corpo imboccò Drew con un cucchiaio, come un neonato. Drew gli risputò il cibo il faccia. La guardia del corpo, del tutto inespressiva, lo colpì violentemente alla mascella, un po’ più a destra rispetto al punto in cui l’aveva colpito Eric, e gettò il resto del cibo nello scarico dei rifiuti. Lanciò a Drew un paio di calzini puliti, gli abiti più dozzinali possibili dell’assistenza sociale, pantaloni con i lacci e una camicia aperta di un grigio non tinto e biodegradabile. Drew faticò a infilarsi i pantaloni solo perché sospettò che, altrimenti, l’avrebbero scaraventato nudo in auto. Non riuscì a far passare la camicia sopra le manette. Se la strinse al petto mentre la guardia del corpo lo trascinava, a piedi nudi, all’esterno.

Viaggiarono per quattro o cinque ore, fermandosi una sola volta. Appena prima di fermarsi, la guardia gli mise una benda sugli occhi. Drew ascoltò con la massima attenzione Eric che scendeva dall’auto, ma tutto quello che riuscì a sentire fu un debole sussurrare in quello che poteva, ma poteva anche non essere, spagnolo. L’auto si avviò nuovamente e, alla fine, la guardia gli tolse la benda: il piatto paesaggio desertico non era mutato. A Drew doleva la vescica da scoppiare, e alla fine se la fece addosso. Nessuno degli altri due commentò. I pantaloni di plastica gli trattennero il piscio contro la pelle.

Si fermarono nuovamente davanti a un edificio basso, largo e privo di finestre che assomigliava a un hangar di un aeroporto chiuso. Drew non sapeva in che città si trovassero, in che stato. Eric non aveva detto una parola per l’intera mattinata.

— Io non ci vengo lì dentro!

— Prima levagli quei pantaloni bagnati, Par — fece Eric con disgusto. La guardia del corpo lo afferrò per l’orlo dei pantaloni e tirò. Drew cercò di divincolarsi, ma il suo dimenarsi inefficace cessò quando un roadrurmer gli passò casualmente davanti agli occhi. Dal becco del volatile penzolava un serpente, mezzo mangiato. La pelle del serpente era verde e vi spiccavano lettere arancioni che dicevano PUTA.

Si trovavano in un luogo dove la tecnologia genetica illegale non doveva nascondersi dai poliziotti. All’interno si susseguivano interminabili corridoi grigi, ognuno dei quali era bloccato da un campo a energia-Y. A ogni punto di controllo, Eric si avvicinava allo scanner di retina e veniva fatto passare senza che fosse pronunciata una sola parola. Quella cosa, qualsiasi cosa fosse, era stata organizzata.

La paura in Drew era come un grigio gocciolio che si diffondeva, informe, ed era proprio la sua mancanza di forma a renderlo spaventoso.

Alla fine, arrivarono in una piccola stanza con una barella bianca pulita. Pat ce lo sbatté sopra. Drew rotolò giù, rovinando a terra, non protetto. Cercò di trascinarsi, nudo, verso la porta. Pat lo recuperò senza alcuno sforzo con i suoi muscoli potenziati, lo gettò un’altra volta sulla barella e lo immobilizzò con delle cinghie. Una persona che lui non riuscì a vedere gli toccò la testa con un elettrodo.

Drew si mise a gridare. La stanza si fece arancione, poi rossa di punti incandescenti, ognuno una bruciatura sulla pelle. Ma succedeva tutto nella sua mente: nulla lo aveva ancora toccato, se non il metallo freddo. Lo avrebbero fatto, però, gli avrebbero bruciato la mente.

— Drew, ascoltami — esordì Eric a bassa voce, molto vicino al suo orecchio. — Non si tratta di una lobotomia elettronica. Questa è una nuova tecnica di modificazione genetica. Ti infetteranno il cervello con un virus alterato che ti renderà impossibile bloccare il flusso di immagini dalla zona limbica alla corteccia. Quella è la parte più antica e primitiva del cervello. Quindi, dei bio-feedback regoleranno le tue onde cerebrali finché la corteccia non avrà imparato la sequenza per analizzare le immagini in attività teta. Capisci?

Drew non capiva nulla. La paura gli occludeva il resto della mente, il grigio gocciolio ribollente si spense insieme alle ustioni rosso incandescente e, quando qualcuno gridò, si sentì pervaso dalla vergogna, perché era stato lui. A quel punto, venne messo in funzione il macchinario e la stanza sparì.

Giacque per sei giorni sulla barella. Una flebo gli faceva scorrere il nutrimento nel braccio, un catetere gli sottraeva l’urina. Drew non si rendeva conto di nessuna delle due cose. Per sei giorni, sottili sequenze elettrochimiche nel suo cervello vennero rinforzate, ampliate come un’autostrada viene ampliata da una squadra di intervento, che lavora infaticabilmente senza sapere che cosa dovrà passare su quella strada. Le immagini fluivano liberamente, senza inibitori chimici, dalla mente inconscia di Drew, dalla sua memoria razziale, dalle antiche parti da rettile del cervello verso la nuova corteccia, condizionata dalla società, che le riceveva di solito non filtrate da sogni e simboli, e che sarebbe risultata distrutta dalla frastornante confusione senza l’aiuto della forte struttura delle droghe modificate geneticamente che tenevano tutto insieme.

"Si accovacciò su una roccia al sole e aveva artigli, zanne, pelliccia, penne, scaglie. Le sue mascelle strapparono e lacerarono l’essere che gemeva impotente e il sangue gli scorse sulla faccia, sul muso, sulla cresta. L’odore del sangue lo eccitò e il fragore privo di parole che aveva nelle orecchie disse: ’mio, mio, mio, mio…’

Indietreggiò sulle zampe posteriori, possenti quanto pistoni, e schiacciò nuovamente il sasso contro la testa dell’altro. Suo padre, che si contraeva nel vomito dell’ultima ubriacatura, sollevò le mani serrate e lo scongiurò di avere pietà. Drew abbatté violentemente il sasso e, nell’angolo della tana, sua madre restò accucciata, con la pelliccia rilucente per i narcotici, in attesa del pene che era già congestionato per l’uccisione…

Gli stavano dando la caccia, tutti quanti, Leisha, suo padre e gli esseri ululanti che gli volevano tagliare la gola, e lui correva, correva attraverso un paesaggio che continuava a mutare: alberi che non volevano stare fermi, cespugli che aprivano le fauci verso di lui e le chiudevano di scatto, fiumi che cercavano di risucchiarlo nell’oscurità. Poi il paesaggio divenne la tenuta nel deserto, e anche Leisha era lì e gli gridava dietro che lui era un fallimento e che si meritava di morire perché non sapeva mai fare nulla di giusto, non sapeva nemmeno restare sveglio come facevano le persone vere. Lui afferrò Leisha e la sbatté a terra, e da quell’azione trasse un senso di liberazione così sbalorditivo, uno stato di potenza così esultante che si mise a ridere forte, e poi sia lui sia Leisha erano nudi, lei era legata e lui si guardava attorno nel suo studio e diceva in modo libidinoso: ’Tutto questo è mio, mio, mio…’".

— Non sta soffrendo — disse il dottore. — Le contrazioni non sono niente di più di riflessi muscolari amplificati in risposta al bombardamento corticale. Non è diverso dal sognare.

— Sognare — ripeté Eric fissando il corpo di Drew che si contorceva. — Sognare.

Il dottore alzò le spalle, non in un gesto di indifferenza ma di tremenda tensione. Era solo la quarta volta che veniva usata quella tecnica psichiatrica sperimentale. Le altre tre persone non avevano avuto parentele potenti, anche se lui non sapeva se la relazione fra quel signor Smithson e Bevington-Watrous fosse proprio di parentela. Al dottore non interessava chi lui fosse. Erano al di là dei confini statunitensi, e in Messico le leggi riguardanti la modificazione genetica funzionavano con permessi costosi. Il dottore aveva un permesso. Non per fare ciò che stava facendo, ovviamente, ma chi aveva mai avuto un permesso di quel genere? Alzò nuovamente le spalle.

— Sono passati tre giorni — intervenne Eric. — Quando finirà questa… fase?

— Inizieremo con il rinforzo artificiale questo pomeriggio. Noi… sì, infermiera, cosa c’è?

— Una chiamata per il Signor Bevington-Watrous. — La giovane infermiera messicana sembrava spaventata. — È la signora Leisha Camden.

Eric si voltò lentamente. — Come ha fatto a trovarci?

— Non lo so, signore. Vuole… vuole venire al terminale?

— No — rispose Eric.

L’infermiera fu di ritorno nel giro di novanta secondi, — Signore, la signora Camden dice che se lei non le parlerà sarà qui nel giro di due ore.

— Non le parlerò — ripeté cocciutamente Eric, ma le pupille dei suoi occhi si dilatarono, facendolo apparire improvvisamente molto più giovane. — Dottore, che succederebbe se il trattamento venisse interrotto adesso?

— Non può essere interrotto adesso. Non sappiamo esattamente come il… ma ci sarebbero certamente alcune gravi conseguenze mentali. Certamente.

Eric continuò a fissare Drew.

"Le immagini divennero forme. Facendolo, non persero identità ma ne guadagnarono: le forme erano le immagini con qualcosa in più. Le forme erano l’essenza delle immagini ed erano sia di Drew sia non di Drew: sia i suoi personali angeli, demoni, eroi, paure, desideri, pulsioni, sia di tutti gli altri. Nessuno riusciva a vederle se non lui, nessuno le aveva mai viste ma esse erano le sue traduzioni dei concetti universali: lo sapeva. Anche con le strane droghe, gli elettrodi e lo stato di semi incoscienza, una parte della sua mente conscia lo sapeva. Drew riconosceva le immagini, sapeva che non le avrebbe mai più dimenticate e che non aveva ancora terminato di coglierne".

— Adesso stiamo introducendo l’attività teta — spiegò il dottore. — Stiamo costringendo elettronicamente la sua corteccia a produrre onde cerebrali caratteristiche del sonno a onde lente.

Eric non disse nulla. Un orologio sulla parete scandiva il tempo e gli sembrava di essere incapace di distoglierne lo sguardo.

— Ovviamente, signor Bevington-Watrous, lei ha firmato tutti gli esoneri legali per questo trattamento sul signor Smithson, ma ci ha anche assicurato che se ci fossero state complicazioni di estradizione lei era in una posizione tale da…

— Non tutti gli Insonni sono ugualmente potenti, dottore. Io, per esempio, sono potente quanto le autorità per l’estradizione, ma non potente quanto mia zia: oramai potrebbe anche accettare questo fatto, perché lei si premurerà di chiarirlo a tutti e due.

"Drew dormiva. Eppure non era sonno. Le immagini continuavano a marciare sull’autostrada rinforzata dalla zona limbica alla mente accessibile; lui le vide e le riconobbe. Adesso, però, lui si muoveva in mezzo a loro, Drew, un sonnambulo con la dualità privilegiata dei sonnambuli: dormiva e tuttavia controllava i propri muscoli. Si mosse in mezzo alle forme e le cambiò, le rifece e le rimodellò con un sogno lucido".

— L’EEG mostra attività delta perché lui è profondamente radicato nel sonno a onde lente — riferì il dottore. Non era chiaro se stesse parlando a Eric o a se stesso. — La maggior parte dei sogni avviene durante il sonno REM, ma alcuni proseguono durante il sonno a onde lente, e questo è molto importante, L’intero trattamento si basa sul fatto che la diminuzione del sonno a onde lente è associata con schizofrenia, storie di violenza e, in generale, con una pessima regolazione del sonno. Forgiando sequenze artificiali fra impulsi inconsci e lo stato di sonno a onde lente, costringiamo il cervello ad affrontare e sottomettere gli impulsi che creano disordini comportamentali. La teoria dice che il risultato è uno stato di forte tranquillità, una tranquillità priva degli effetti narcotizzanti dei soliti antidepressivi; una vera tranquillità basata sulle nuove connessioni del cervello fra le sue parti in conflitto: nessuno può andare oltre la sicurezza di questo sistema, signor Bevington-Watrous.

— Chi lo ha progettato?

— Kevin Baker. Tramite una nostra consociata, ovviamente.

Eric sorrise.

Drew respirava ritmicamente e profondamente, con gli occhi chiusi, il suo forte busto e le gambe inutilizzabili, immobili.

"Lui era il padrone del cosmo. Tutto, in esso, si muoveva attraverso la sua mente e lui rimodellava ogni cosa tramite sogni lucidi che erano suoi. Lui, che non aveva posseduto nulla, che non era stato nulla, era padrone di tutto."

Confusamente, attraverso i sogni, Drew udì il primo campanello di allarme.

Le erano occorsi quattro giorni per rintracciarli. Vi era riuscita solamente perché, alla fine, aveva chiamato Kevin. Gli aveva chiesto aiuto.

Fissando Drew collegato ai macchinari, Eric che si stringeva un gomito col palmo dell’altra mano come uno scolaretto insolente, Leisha pensò: "Adesso non potremo mai più tornare indietro". Il pensiero era chiaro, freddo, deliberato e a lei non interessava che risultasse sia teatrale, sia vago. Il nipote di Alice incombeva sul Dormiente che aveva usato, come se Drew fosse una cavia o un cromosoma difettato, come se Eric fosse uno qualsiasi degli individui carichi d’odio che per tre quarti di secolo avevano considerato gli Insonni esperimenti o esseri difettati. Come se Eric fosse Calvin Hawke, Dave Hannaway o Adam Walcott. Oppure Jennifer Sharifi.

Il nipote di Alice. Un Insonne.

Drew giaceva nudo. Con l’amarezza sul volto raddolcita dal sonno, sembrava avere meno di diciannove anni, sembrava ancora il bambino che era arrivato per la prima volta da lei nella tenuta nel deserto pieno di una sconcertante sicurezza di sé. "Io possederò il Rifugio, io". Le gambe inerti non parevano appartenere al busto muscoloso, da adulto. Aveva una ferita da arma da taglio sul petto, un’ustione fresca sulla spalla destra, lividi sulla mascella. Leisha sapeva che lei e i suoi erano responsabili di tutto quello. Sarebbe stato meglio aver lasciato in pace Drew, averlo mandato via nove anni prima, non aver mai cercato di renderlo ciò che non sarebbe mai potuto essere. "Papà, quando sarò grande cercherò di trovare un modo per rendere anche Alice speciale!" E non hai mai smesso di provarci, vero Leisha? Con tutte le Alici, tutti i nullatenenti, tutti i mendicanti che sarebbero stati molto meglio se tu li avessi lasciati in pace col tuo arrogante essere speciale.

"Tony… avevi ragione. Sono troppo diversi da noi."

"Tony…"

Disse freddamente a Eric: — Dimmi esattamente che cosa gli hai fatto. E perché.

Il piccolo dottore intervenne con entusiasmo : — Signorina Camden, questo è un esperimento…

— Tu — ripeté Leisha a Eric. — Tu me lo devi dire. — Le guardie del corpo si frapposero fra lei e il dottore, tagliandolo fuori. La stanza era stipata di guardie del corpo.

Eric rispose brevemente: — Glielo dovevo.

— Questo?

— Un’ultima opportunità per essere umano.

— Lui era umano! Come puoi effettuare esperimenti su…

— "Noi" siamo esperimenti, e siamo riusciti abbastanza bene — replicò Eric con una fiducia nella logica riduttiva che le mozzò il fiato. Lei era mai stata così giovane?

Eric proseguì. — Tu ti aspetti sempre il peggio, Leisha. Ho corso un rischio, sì, ma quattro altri pazienti sperimentali hanno beneficiato…

— Un rischio! Con una vita non tua! Questa non è nemmeno una struttura medica autorizzata!

— Mi scusi — intervenne il dottore — io ho un permesso che…

— Quante altre strutture mediche sperimentali esistono ormai? — chiese Eric. — I Muli non le consentono. Hanno eliminato la ricerca sulla modificazione genetica prima che si potesse trasformare in un’arma ancora più potente, in grado di spazzar via il loro status quo che non è… Leisha, gli altri quattro pazienti che hanno subito questa operazione stanno bene. Sono più calmi, sembrano avere maggior controllo delle proprie emozioni…

— Eric, non era una decisione che dovevi prendere tu. Mi hai capito? Non lo ha scelto Drew!

Per un momento, Eric sembrò nuovamente il bambino torvo e arrabbiato che era stato. — Nemmeno io ho chiesto di essere come sono. Lo ha scelto papà per me, sposando un’Insonne. Chi è che riesce mai a scegliere?

Leisha lo fissò. Non sembrava vedere la differenza, no davvero. Il nipote di Alice, sia privilegiato, sia emarginato per tutta la vita, che pensava che tali condizioni gli avessero conferito saggezza.

Ma non lo avevano pensato tutti? Da Tony in poi?

Le labbra di Drew si muovevano delicatamente nel suo sonno profondo, succhiando a un seno inesistente.


La stanza si schiarì lentamente: dapprima ombre grigie, quindi una foschia perlacea attraverso la quale le sagome si muovevano in modo indistinto e poi la luce, pulita e pallida. Drew cercò di muovere la testa. Sentì che la saliva gli gocciolava dalla bocca.

C’era qualcosa che si muoveva all’interno della sua testa, svariati qualcosa, di estrema importanza. Drew distolse la propria attenzione da quei qualcosa. Ormai poteva permettersi di farlo: sapeva, con completa sicurezza, che qualsiasi cosa nuova fosse nel suo cervello non se ne sarebbe andata prima che lui non l’avesse esaminata. Non se ne sarebbe andata mai. L’aveva in pugno: era lui. Quello che non aveva, era la consapevolezza di quella stanza. Che cosa vi fosse accaduto. Chi fosse presente. Perché.

Qualcuno vestito di bianco disse: — È sveglio.

Alcuni volti fiorirono sopra di lui, una massa amorfa che cominciò a separarsi soltanto lentamente. Volti di infermiere che si guardavano in tralice. Un basso dottore dalla pelle olivastra con l’occhio sinistro che si contraeva freneticamente. La contrazione colpi l’attenzione di Drew: vide il nervosismo dell’uomo, la sua paura, come una linea rossa frastagliata che improvvisamente si mise a crescere, assumendo una sagoma tridimensionale, e, mentre ciò avveniva, l’altra cosa che c’era nel cervello di Drew si mosse con grazia verso di essa per andarle incontro. Si incontrò anche con le sagome di paura e senso di colpa che provenivano dagli angoli della sua mente, distaccate da lui eppure ancora sue. Le forme della paura del dottore e di quella di Drew si fusero Eric, i cocktail Molotov, Karl in fiamme e Drew guardò quelle sagome, le avvertì e seppe che lui conosceva quell’uomo. Quel dottore, che per tutta la vita correva rischi costantemente ai margini della paura, non per la fortuna che tali rischi avrebbero potuto procurargli ma per sfuggire alla nullità che si portava dentro. Quell’uomo per cui il successo non era mai abbastanza (non avrei potuto farlo meglio? qualcun altro lo farà meglio?) per il quale, tuttavia, il fallimento rappresentava annichilimento. Drew vide le sagome di come avrebbe reagito il dottore davanti a un test mal riuscito alla scuola di medicina, davanti a un colloquio andato a qualcun altro, davanti a un arresto a causa di quella struttura medica. Le prime due sagome di fallimento erano incurvate e sconfitte; la terza rappresentava una gioia bruciante per un fallimento che non aveva causato personalmente, che gli era stato inflitto dall’esterno: una specie di trionfo, quindi. Drew vide le forme anche di quello, forme prive di parole, che si agganciarono non tanto al suo cuore, non provava una particolare emozione quanto agli strati successivi della sua mente, come una pianta che metteva profondissime radici. Un albero incrollabile. L’albero della conoscenza, senza parole, come tutti gli alberi sono senza parole contro un cielo immobile.

Drew strizzò gli occhi. Tutto era avvenuto in un solo istante. Lui però lo avrebbe saputo per sempre.

— Solleva la testa — disse bruscamente il dottore, come se fosse stato Drew a ferirlo e non viceversa, e Drew vide anche le sagome della durezza. Altre sagome dalle sue profondità si sollevarono verso di essa, si fusero con essa. Drew rimase a osservare. Le forme erano lui, ma lui era anche qualcosa d’altro, qualcosa di separato, qualcosa che osservava e comprendeva.

Sollevò la testa. Uno schermo sulla sua destra cominciò a emettere un leggero bip-bip, con un ritmo atonale. Il dottore esaminò lo schermo con attenzione.

Leisha corse nella camera.

Vedendola, nella testa di Drew esplosero così tante forme che il ragazzo non riuscì a parlare. Leisha si chinò su di lui, lanciando un’occhiata allo schermo, appoggiandogli una mano fresca sulla fronte. — Drew…

— Salve, Leisha.

— Come… come ti senti?

Lui sorrise perché era impossibile rispondere alla domanda.

La donna disse a denti stretti: — Starai bene, ma ci sono molte cose che hai il diritto di sapere. — E Drew vide quanto chiaramente quelle parole stavano assumendo la forma della stessa Leisha: il diritto di sapere. Vide la forma, il complesso equilibrio di tutte le questioni di diritti e privilegi con cui lei aveva combattuto per l’intera vita, che aveva fatto diventare la sua vita. Vide la forma di Leisha nitida e fondamentalmente austera, che lottava con le altre forme disordinate che protendevano pseudopodi e germogli, e che non potevano essere catturate, come lei continuava a sforzarsi di fare, in leggi e principi. La stessa lotta aveva una forma e Drew tentò strenuamente di cercare una parola per esprimerla, ma le parole non c’erano. Per lui le parole c’erano state raramente. Il termine più vicino che fu in grado di scovare era antico, "cavaliere", ed era sbagliato, troppo sbiadito per l’intensa pregnanza della forma del combattimento di Leisha per codificare il mondo privo di leggi. La parola era sbagliata. Lui corrugò la fronte.

Leisha disse: — Oh… non piangere, Drew, tesoro!

Lui non stava affatto per piangere. Lei non capiva. Ma come avrebbe potuto? Nemmeno lui riusciva a capire quello che gli era accaduto, che gli era stato fatto, qualsiasi cosa fosse. Eric aveva voluto ferirlo, sì, ma lui non era rimasto ferito, questo stava solo rendendo Drew più se stesso, come un uomo che era stato in grado di correre per tre chilometri e ora riusciva a correre per quindici. Ancora se stesso, i suoi muscoli, le sue ossa, il suo cuore, ma più se stesso, e quel di più lo mutava dall’essere qualcosa di comune a qualcosa… d’altro. Straordinario. Appariva straordinario a se stesso.

Leisha disse: — Dottore, non riesce a parlare!

— Riesce a parlare — rispose il dottore seccamente, e subito le sue sagome tornarono a Drew: l’isterico eccitamento pompato che era paura, il trionfo di non mostrarlo. — Le scansioni del cervello non mostrano danni ai centri del linguaggio!

— Di’ qualcosa, Drew! — lo pregò Leisha.

— Sei bellissima.

Non se n’era mai reso conto prima: come aveva fatto a non accorgersene? Leisha china su di lui, coi capelli biondi da ragazzina, il volto segnato dalla forza decisa di una donna nel fiore degli anni. Drew vide le sagome che formavano quella forza: erano le forme dell’intelligenza e della sofferenza. Come aveva fatto a non vederlo prima? Il seno di lei era dolcemente arrotondato sotto il tessuto sottile della camicetta: il suo collo si ergeva come una calda colonna, incavi bianchi delicatamente sfumati di azzurro. Lui non se n’era mai accorto. Per niente. Quanto era bella Leisha.

Leisha indietreggiò leggermente, corrugando la fronte. Disse: — Drew… in che anno siamo? In che paese sei stato arrestato?

Scoppiò a ridere. La risata gli fece dolere il petto, e il giovane si rese conto per la prima volta di avere del cerotto sulle costole e le braccia immobilizzare dai lacci. Eric entrò nella stanza, restando in piedi al fondo del letto e, alla vista del volto rigido di Eric, altre sagome si affollarono nella testa di Drew. Vide perché Eric aveva fatto ciò che aveva fatto, tutto, fino dal giorno presso il pioppo nero, in cui due ragazzini avrebbero combattuto fino alla morte, se uno dei due fosse stato forte abbastanza da farlo. A seguire, arrivarono le forme per il padre di Drew, che picchiava i figli in preda alla rabbia provocata dall’alcol, e per Karl, trafitto e ustionato dalla bomba che non era riuscito a scagliare abbastanza in alto. Erano tutte, in effetti, la stessa forma, e così orrenda che Drew avvertì per la prima volta l’altro sé separato, il sé che osservava le forme, bruciato dalle stesse. Chiuse gli occhi.

— È svenuto! — disse Leisha, e il dottore schioccò di rimando: — No! — E perfino a occhi chiusi Drew vide le sagome che lui ed Eric avevano prodotto: quindi non aveva senso tenerli serrati. Li aprì. Ora sapeva qual era il punto. Quale sarebbe stato.

— Leisha… — La sua voce lo sorprese: uscì debole e indistinta. Tuttavia lui non si sentiva affatto fiacco. Tentò ancora: — Leisha, ho bisogno…

— Sì? Di cosa? Qualsiasi cosa, Drew, qualsiasi.

Gli venne in mente un altro giorno, quello in cui era rimasto infermo. Era stato steso sul letto proprio in quel modo, con il padre di Eric chino su di lui che gli diceva: "Faremo tutto quello che potremo… tutto" e lui aveva pensato "Adesso li ho in pugno". Le stesse forme. Sempre, nel corso della vita di un uomo, e più che nella sua sola vita, erano testimonianza di forme profonde che si agitavano dentro la mente, code sferzanti e lamelle ondeggianti, ma non si limitavano alla sua sola vita.

— Cosa, Drew? Di cosa hai bisogno?

— Di un proiettore di ologrammi programmabile Staunton-Carey.

— Un…

— Sì — sussurrò Drew, usando le ultime forze che gli erano rimaste. — Adesso. Ne ho bisogno adesso.

21

Miri aveva tredici anni. Da un anno guardava le trasmissioni dei Dormienti sia sui canali olovideo dei Vivi sia dei Muli. Per i primi pochi mesi, le olovisioni risultarono interessanti perché sollevavano moltissime domande: perché le corse di scooter erano così importanti? Perché i bellissimi uomini e le bellissime donne di Storie da letto cambiavano partner sessuali così spesso se sembravano davvero entusiasti di quelli che avevano già? Perché le donne avevano tutte seni così gonfi e gli uomini peni così grossi? Perché un’eletta al Congresso dello Iowa doveva tenere un discorso decisamente risentito sulle spese di un eletto al Congresso del Texas, quando, sembrava, la donna stava spendendo esattamente le stesse cifre e, in ogni caso, i due non erano nemmeno membri della stessa comunità? Quanto meno non sembravano definirsi tali. Perché tutti i canali olovideo lodavano i Vivi per la loro inattività, "ozio creativo", e menzionavano a mala pena le persone che lavoravano per mandare avanti le cose, quando saltava poi fuori che la gente che mandava avanti le cose mandava avanti anche le olovisioni?

Alla fine, Miri scoprì alcune risposte a quelle domande, sia tramite ricerche nelle banche dati sia parlando con suo padre o con sua nonna. Il problema era che le risposte non risultavano interessanti. Le corse degli scooter erano importanti perché i Vivi le consideravano importanti: era tutto qui? Non esisteva standard eccetto quello di ciò che piaceva al momento?

La sua mente creò lunghe stringhe dalla questione, inserendo il Principio di Heisenberg, Epicuro, una filosofia scomparsa chiamata esistenzialismo, le costanti di Rahvoli sul rinforzo neurale, il misticismo, le tempeste epilettiche nei cosiddetti centri "visionari" del cervello, la socialdemocrazia, l’utilità dell’organismo sociale e le favole di Esopo. La stringa era buona ma la parte fornita dall’olonotiziario terrestre era ancora essenzialmente poco interessante.

Valeva lo stesso per le risposte al resto delle domande di Miri. L’organizzazione politica e la distribuzione delle risorse dipendevano da un precario equilibrio fra i voti dei Vivi e il potere dei Muli, e quell’equilibrio pareva essere a sua volta il risultato di un’evoluzione sociale casuale, non di programmazione o di principi. Le cose negli Stati Uniti stavano in quel modo perché stavano così: se c’era qualcosa di più profondo, gli olonotiziari non lo rivelavano.

Stabilì che si trattasse solo degli Stati Uniti, coccolati dalla economica energia-Y, ricchi per la concessione dei diritti di quegli stessi brevetti all’estero, decadenti quanto sua nonna aveva sempre sostenuto. Imparò il russo, il francese e il giapponese e passò qualche mese a guardare gli olonotiziari in quelle lingue. Le risposte erano differenti ma non più interessanti. Le cose accadevano perché accadevano: stavano in quel modo perché erano fatte così. Venivano combattute guerre di confine di secondaria importanza, oppure non venivano combattute. Venivano firmati accordi commerciali, oppure non venivano firmati. Importanti Dormienti morivano oppure venivano operati e guarivano. Un annunciatore francese, uno dei più famosi, chiudeva la propria trasmissione sempre allo stesso modo: Ça va toujours.

Negli olonotiziari popolari Miri non riuscì mai a trovare menzione di ricerche scientifiche, o di svolte significative, che non fossero chiaro sensazionalismo, riguardanti entusiasmo politico, suoni musicali complessi come quelli di Bach, Mozart o O’Neil delle biblioteche dati, idee articolate come quelle di cui discuteva con Tony ogni giorno.

Dopo sei mesi, smise di guardare gli olonotiziari.

Tuttavia, una cosa era cambiata. Spesso sua nonna era indaffarata, passava sempre più tempo ai Laboratori Sharifi, e Miri cominciò a porre le domande a suo padre. Lui non conosceva tutte le risposte e quelle che le dava creavano stringhe corte e contraddittorie nella sua mente. Lui aveva lasciato la Terra, le disse, quando aveva dieci anni e, anche se talvolta vi si recava per affari, passava raramente del tempo insieme con i Dormienti. Di solito, effettuava le transazioni attraverso un intermediario, un Insonne che, tuttavia, viveva sulla Terra, che si chiamava Kevin Baker.

Miri conosceva il nome di Baker: vi erano estese documentazioni su di lui nelle banche dati. Non le interessava molto. Le sembrava anzi leggermente deprecabile: un uomo che viveva da solo con i mendicanti, traeva profitti da loro e preferiva quei profitti, che erano apparentemente immensi, ai collegamenti con la comunità. Ascoltò però suo padre che parlava perché, attraverso gli olonotiziari, aveva cominciato a interessarsi a lui. A differenza di sua madre, lui poteva guardare direttamente il volto tremolante, la testa eccezionalmente grossa e il corpo fremente di Miri senza distogliere lo sguardo. Poteva stare a sentire il suo balbettio. Rimaneva seduto, un uomo scuro dalla fronte bassa, con le mani appoggiate tranquillamente sulle ginocchia e la ascoltava pazientemente; nei suoi occhi scuri c’era qualcosa cui lei non riusciva ad attribuire un nome, indipendentemente dal numero di stringhe che ci si avvolgevano attorno. Tutte le stringhe cominciavano con dolore.

— P-p-papà, d-d-dove eri?

— Ai Laboratori Sharifi. Con Jennifer. — Suo padre, a differenza della zia Najla, chiamava spesso la madre per nome. Miri non era sicura di quando avesse cominciato a farlo.

Lo guardò. Aveva la fronte leggermente imperlata di sudore anche se Miri pensava che i laboratori fossero freschi. Il suo volto appariva scosso. Le stringhe di Miri inclusero scosse sismiche, effetti adrenalinici, la compressione di gas che forma l’innesco delle stelle. Disse: — C-c-che cosa s-s-stanno f-f-facendo ai L-laboratori?

Ricky Keller scosse la testa. Disse improvvisamente: — Quando entrerai a far parte del Consiglio?

— A s-s-sedici anni. Fra d-d-due anni e d-d-due mesi.

Suo padre sorrise, e quel sorriso produsse una stringa che si collegò, sorprendentemente, con una olotrasmissione di Dormienti che aveva visto mesi prima e alla quale non aveva più pensato da allora: una storia, evidentemente immaginaria, di un libro mistico fondamentale per molte religioni di Dormienti. Un uomo chiamato Giobbe era stato derubato di un possedimento dietro l’altro senza nemmeno combattere in propria difesa o studiare qualcosa per riconquistarli o rimpiazzarli. Miri aveva pensato che Giobbe fosse uno smidollato, uno stupido o tutt’e due le cose e aveva perso interesse nella trasmissione prima ancora che fosse terminata. Il sorriso di suo padre, però, le riportò alla mente il volto rassegnato dell’attore. Tutto ciò che suo padre disse, tuttavia, fu: — Bene, abbiamo bisogno di te al Consiglio.

— P-p-perché? — chiese Miri in modo tagliente, odiando il fatto che le occorresse tanto tempo per far uscire quella parola, anche se si sentiva infiammata dalla necessità di farlo.

Lui non rispose.


Will Sandaleros disse: — Ora.

Jennifer si sporse in avanti, fissando la bolla olografica tridimensionale. A mille e quattrocento chilometri di distanza nello spazio, quella originale si gonfiò, pressurizzata con aria standard, e liberò i topi dal loro stato quasi ipotermico. Piccoli cerotti a gocce sui collari riportarono i loro sistemi biologici al pieno funzionamento in un tempo minimo. Nel giro di pochi minuti i biorilevatori sui collari indicarono che gli animali si erano sparpagliati dentro la bolla suddivisa secondo una complessa topografia matematica interna analoga a Washington DC.

— Pronti — disse il dottor Toliveri. — Attenzione. Sei, cinque, quattro, tre, due, uno, via!

I virus modificati geneticamente vennero liberati. Le correnti d’aria, corrispondenti a venti di sette chilometri orari provenienti da sud-est, percorsero la bolla controllata termicamente. Jennifer spostò l’attenzione agli schermi che riportavano i valori dei biorilevatori sulla parete opposta. Nel giro di tre minuti non mostrarono più alcuna attività.

— Sì — disse Will. Non stava sorridendo ma le prese la mano. — Sì.

Jennifer annuì. A Toliveri, Blure e ai tre tecnici di laboratorio disse: — Un lavoro superbo. — Si rivolse quindi a Will. La sua voce bellissima, composta, era molto bassa. — Siamo pronti per il prossimo stadio.

— Sì — ripeté nuovamente lui.

— Inizia i negoziati di acquisto della stazione orbitale Kagura. Non passare attraverso Kevin Baker. Tienilo all’oscuro.

Will Sandaleros non sembrò dispiacersi del fatto che gli venisse ripetuto ciò che, in effetti, era stato deciso, da loro, anni addietro. Sembrava comprendere la necessità per sua moglie di impartire ordini. Fissò quindi ancora una volta i biorilevatori con occhi luccicanti.


Miri aprì la porta del laboratorio di Tony. Lui si era trasferito in una stanza di lavoro propria nell’Edificio Scientifico Due sei mesi prima, quando non c’era stato più spazio in un solo laboratorio per entrambi i loro progetti. Ogni volta che Miri guardava la metà della scrivania che era appartenuta al fratello si sentiva triste, anche se pensava che una parte della tristezza derivasse dal suo lavoro che stava andando realmente male. Nel corso di due anni, aveva ricreato ogni modificazione genetica che le era venuta in mente, senza avvicinarsi minimamente a una soluzione che riuscisse a correggere il balbettio e le contrazioni prodotti da tutti i processi elettrochimici potenziati all’eccesso dei Super. Il lavoro aveva cominciato a sembrarle sterile, a ricordarle la componente mancante nelle stringhe stesse, qualunque essa fosse. Elusivo, sterile, improduttivo. Quel giorno era stato un altro fallimento. Era di umore pessimo, un umore terribile, mutevole, carico di stringhe caotiche e sterile, Voleva il conforto e l’incoraggiamento di Tony. Voleva Tony.

La porta del suo laboratorio era bloccata, ma l’impronta della retina di Miri era inserita nel file autorizzato, e l’insegna luminosa AMBIENTE STERILE era spenta. Appoggiò l’occhio destro allo scanner e aprì la porta.

Tony era steso sul pavimento, tutto una contrazione. e un sobbalzo, sopra Christina Demetrios. Oltre il suo corpo che spingeva, Miri vide gli occhi di Christina spalancarsi, quindi oscurarsi. — Oh! — esclamò Christy. Tony non disse nulla: forse non aveva sentito Miri e nemmeno Christina. Le sue natiche nude si contraevano vigorosamente, e il suo corpo intero stava fremendo in un orgasmo. Miri indietreggiò e uscì dal laboratorio, chiuse la porta e corse nel proprio.

Rimase seduta con le mani serrate insieme, tremanti, sulla scrivania, con il capo chino. Tony non le aveva detto… be’, perché avrebbe dovuto dirglielo? Erano affari suoi, non di lei: lei era solamente sua sorella. Non la sua amante, sua sorella. Nella testa, le stringhe si formavano e riformavano; per la prima volta, molte storie antiche e oscure, che aveva ricordato solamente perché ricordava tutto, acquistarono un senso. Era e Io. Otello e Desdemona. Conosceva l’intera fisiologia del sesso: secrezioni influenzate dagli ormoni, congestione vascolare, innescatori di feromoni. Sapeva tutto. Non sapeva nulla.

Gelosia. Una delle emozioni esistenti più rovinose per una comunità. Una emozione da mendicante.

Miri si alzò e si mise a camminare distrattamente. No. Non avrebbe ceduto all’abbrutimento della gelosia. Era migliore di così. Tony si meritava di più da sua sorella. Idealismo (stoicismo, epicureismo, "siamo formati e modellati da ciò che amiamo", le natiche di Tony che pompavano dentro Christina…). Avrebbe risolto quel problema a modo suo (oscurità, pienezza, il dolore pulsante, la pressione gravitazionale per incendiare i gas in reazioni termonucleari, variabili di Cefeo…).

Miri si lavò il volto e le mani. Indossò un paio di pantaloncini bianchi puliti e si legò i capelli neri con un nastro rosso. Le sue labbra, a dispetto del costante contrarsi, erano serrate. Non doveva pensare a chi rivolgersi: lo sapeva già e sapeva di saperlo, e sapeva le implicazioni del saperlo già (oscurità, pienezza, giacere sulla pancia sul pavimento del laboratorio o sotto le piante di soia modificata geneticamente che si congiungevano nascondendola sotto a un arco, la mani in mezzo alle gambe).

Lui si chiamava David Aronson. Aveva tre anni più di lei, era un Normale, ma abbastanza intelligente, un fermo credente nel giuramento al Rifugio e nella posizione di sua nonna. Aveva capelli scuri e ricci, scuri quasi quanto quelli di Miri, ma occhi di un grigio molto chiaro, con ciglia nere. Aveva gambe lunghe e le spalle, a diciotto anni, larghe e possenti come quelle di un adulto. La sua bocca era carnosa, labbra grandi e mobili di una fermezza quasi scolpita. Miri aveva passato gli ultimi sei mesi a osservare la bocca di David.

Lo trovò dove pensava: al porto navette della stazione orbitale, chino sugli schermi CAD di un macchinario. Di lì a due mesi sarebbe partito per un programma di dottorato di ricerca in ingegneria a Stanford, il suo primo viaggio sulla Terra.

— Salve, Miri. — Aveva una voce profonda, un po’ roca. A Miri piaceva quella caratteristica. Non sapeva, però, perché.

— D-d-david, v-v-voglio c-c-chiederti una c-c-cosa.

Lui guardò leggermente oltre Miri, fissando l’ologramma CAD. — Cosa?

Lei non aveva alcuna difficoltà a essere diretta: per tutta la sua vita, il problema nella comunicazione era venuto dalla difficoltà fisica e dalla esagerata semplicità del linguaggio rispetto all’enorme complessità dei suoi pensieri. Era abituata a semplificare il più possibile le cose per i Normali. Quella, poi, era anche una cosa semplice: sembrava adeguarsi perfettamente, quasi come nessun’altra, alle limitazioni del linguaggio.

— V-v-vuoi f-fare s-s-sesso con m-m-me?

David si raddrizzò. Le guance gli si colorirono. Continuò a guardare oltre di lei. — Mi dispiace, Miri, ma non è possibile.

— P-p-perché n-no?

— Ho già un’amica.

— C-c-hi?

— Non pensi che siano affari miei?

Si stava comportando freddamente, Miri non capiva il perché. Un’informazione non commerciale era di uso comune, e quale altra informazione poteva essere più pubblica? Lei era abituata a ottenere risposte alle proprie domande. In caso contrario, era abituata a indagare sul perché non poteva averne. — P-p-perché non mi d-d-dici c-c-chi è?

David si chinò più vicino allo schermo in modo ostentato. La sua bella bocca si irrigidì. — Penso che la conversazione sia terminata, Miri.

— P-p-erché?

Lui non le rispose. Le stringhe dei pensieri si aggrovigliarono improvvisamente, serrandolesi attorno come un cappio. — P-p-p-erché sono o-o-orribile? Perché t-t-tremo?

— Ho detto che non avevo altro da aggiungere! — La frustrazione, l’imbarazzo oppure la rabbia sopraffecero la cortesia, e alla fine, lui la fissò direttamente in volto prima di andarsene. Miri riconobbe lo sguardo: lo aveva colto spesso sul volto di sua madre, prima che Hermione si voltasse ad armeggiare con uno schermo, una tazza di caffè o qualsiasi cosa avesse a portata di mano. Miri capì anche che era lei il motivo della frustrazione, dell’imbarazzo o della rabbia e che lei, in qualche modo, aveva contribuito a sufficienza per giustificare la scortesia. Lui non la voleva, e lei non aveva alcun diritto di insistere… ma tutto ciò che aveva desiderato erano risposte. Incalzandolo, aveva soltanto umiliato se stessa. Lui non la voleva. Miri tremava, aveva una testa troppo grossa, balbettava e non era carina come Joan. Nessun Normale l’avrebbe voluta.

Tornò al proprio laboratorio camminando attentamente, come se fosse un composto chimico da non agitare. Seduta davanti alla scrivania, serrò nuovamente le mani, tremanti, frementi, e cercò di calmarsi. Di pensare. Di costruire ordinatamente reti equilibrate di pensiero che potessero contenere tutto ciò che era utile al problema, tutto ciò che era rilevante, intellettualmente, emotivamente, biochimicamente, tutto ciò che era produttivo. Dopo venti minuti, si alzò un’altra volta e lasciò il laboratorio.

Nikos Demetrios, il gemello di Christina, era affascinato dal denaro. Una volta aveva detto a Miri che il suo flusso internazionale, le fluttuazioni, gli usi, i cambi, il simbolismo erano tutti più complessi di qualsiasi schema geologico naturale sulla Terra ed esattamente altrettanto utili per la sopravvivenza biologica, oltre che essere più interessanti. A quattordici anni, aveva già dato suggerimenti sul commercio internazionale agli adulti Normali che ricoprivano importanti posizioni alla Borsa del Rifugio. Loro avevano accolto i suoi suggerimenti su opportunità di investimento in tutto il mondo: una nuova tecnologia per l’individuazione di correnti eoliche in sviluppo a Seul, un’applicazione di anticorpi catalitici brevettata a Parigi, l’embrionica industria aerospaziale marocchina. Miri lo trovò nella centrale comunicazioni nel suo piccolo ufficio circondato di schermi dati.

— N-n-n-nikos…

— S-salve, M-m-miri.

— V-v-vuoi fare s-s-sesso con m-m-me?

Nikos la fissò. Un colore a chiazze gli salì dal collo alla fronte. Miri capì che, come David Aronson, anche Nikos era imbarazzato ma, a differenza di David, non lo sembrava per il modo diretto in cui gli aveva posto la domanda. Lei riusci a pensare a un solo altro motivo che lo imbarazzasse. Si voltò e caracollò fuori dall’ufficio.

Nikos gridò: — A-a-aspetta, M-miri! — La sua voce sembrava realmente dispiaciuta: erano stati compagni di gioco per tutta la vita. Nikos non riusciva a coordinare i suoi movimenti come lei: lo distanziò facilmente.

Tornata nel laboratorio, porta serrata e segnale AMBIENTE STERILE attivato, Miri si sedette, costringendosi a forza a non piangere. Sua nonna aveva avuto ragione. C’erano dure necessità da affrontare. Non si piangeva.

Dopo quel giorno, si comportò in modo cortese ma distaccato con Nikos che non sembrò proprio sapere cosa farci. Alla fine lo vide con una Normale, una graziosa quattordicenne di nome Patrizia, che sembrava affascinata dall’abilità di Nikos con il denaro. Miri non aveva mai parlato molto con Christina: da quel momento le parlò meno. David non lo vide più. Con Tony restò la stessa di sempre: lui era il suo compagno di lavoro, amico, amato confidente. Suo fratello. A quel punto c’era soltanto quell’area a cui le confidenze non si estendevano, tutto lì. Non era importante. Non avrebbe permesso che fosse importante. Dura necessità.

Due settimane dopo, Miri riprese a guardare gli olocanali terrestri, ma solo quelli del sesso. Ce n’erano moltissimi. Ne trovò uno che le piaceva, tolse tutte le impronte di retina tranne la propria dalla programmazione della porta del laboratorio e imparò a masturbarsi in modo soddisfacente. Lo faceva due volte al giorno, essendo le sue risposte neurochimiche potenziate in quel campo come in ogni altro. Non si concesse mai di pensare a Tony mentre lo faceva, e Tony non le chiese mai perché non potesse più entrare nel suo laboratorio senza essere annunciato. Non ce n’era bisogno. Lo sapeva. Era suo fratello.


Sedendosi sulla poltrona che Drew le aveva indicato, a Leisha passò per la mente uno strano pensiero: "Vorrei essere una fumatrice". Ricordò suo padre che fumava, che allungava una mano per prendere il portasigarette d’oro con monogramma inciso, che, dell’accensione della sigaretta, faceva un rituale. Gli si socchiudevano gli occhi, e le guance gli si incavavano per la prima lunga boccata. Roger aveva sempre detto che lo rilassava. Anche allora Leisha aveva saputo che stava mentendo: lo rivitalizzava.

Che cosa desiderava, lei, in quel momento: tranquillità o rivitalizzazione? Le sembrava di avere bisogno di entrambe le cose e aveva la sensazione che quello che Drew le avrebbe offerto non le avrebbe fornito nessuna delle due.

Drew aveva insistito perché lei fosse la prima e perché fosse sola. — Una nuova forma di arte, Leisha — le aveva detto con quella peculiare intensità che lo aveva contraddistinto dal giorno dell’illegale esperimento di Eric. Drew era sempre stato intenso, ma quella era un’altra cosa. Guardò Leisha da sotto le folte ciglia scure, e la donna provò paura per lui. Dunque, era quello che si sentiva a essere un genitore: la paura che il proprio figlio non riuscisse a ottenere ciò su cui aveva lasciato il cuore. Paura che lui fallisse e che si sarebbe sentito più dolore per lui di quanto non se ne fosse mai provato per i propri fallimenti. Come aveva fatto a sopportarlo Alice? Come aveva fatto Stella?

Ma non Roger. Lui era stato sicuro, fin dall’inizio, che sua figlia non avrebbe fallito. "Sorpresa, Papà. Guardami adesso" in ozio astioso nel deserto da vent’anni, un Achille il cui Agamennone stava combattendo la propria stupida guerra, mentre Leisha allevava un figlio il cui talento principale era la piccola criminalità e che non era, in effetti, nemmeno suo.

Disse a Drew con una certa scortesia: — Dovresti sapere che non sono mai stata particolarmente sensibile verso l’arte, in alcuna forma. Forse qualcun altro…

— So che non lo sei. Ecco perché voglio che sia tu.

Lei si accomodò sulla poltrona. — D’accordo. Vediamo di cominciare. — La frase suonò più rassegnata di quanto lei non avesse voluto.

— Spegnere luci — disse Drew. La camera nella tenuta del Nuovo Messico, riempita nei trascorsi sette mesi con mezzo milione di dollari di equipaggiamento teatrale, si oscurò. Leisha udì la carrozzella di Drew muoversi sul pavimento. Quando il proiettore olografico sul soffitto si accese, lui si trovava seduto direttamente sotto, con una console in grembo. Attorno a lui, nulla: né pavimento, né pareti, né soffitto, soltanto Drew, sospeso nell’oscurità vellutata di una normale proiezione del nulla.

Cominciò a parlare a voce bassa. Per un istante, tutto ciò che Leisha udì fu la voce stessa, calma e musicale: non si era mai resa conto che Drew avesse una voce così bella. In circostanze normali non lo si notava. Poi le parole cominciarono a penetrare. Poesia. Drew, Drew, stava recitando un antico poema, qualcosa su boschetti dorati che perdevano le foglie. Leisha sapeva di averlo sentito in precedenza, ma non riuscì a ricordarne l’autore. Era leggermente imbarazzata per Drew. Aveva una voce bella e tranquillizzante, ma recitare poesie su illustrazioni olografiche era la più giovanile delle forme artistiche che si potesse realizzare. Il suo cuore si serrò. Un altro passo falso, un altro fallimento.

Alcune forme nuotarono verso di lei, provenendo dalla oscurità.

Non erano proprio identificabili, eppure le riconobbe. Passarono sopra a Drew, dietro, davanti, perfino attraverso lui, mentre terminava il poema e ne ricominciava la lettura da capo. Lo stesso poema. Quanto meno, lei pensò che si trattasse dello stesso poema. Leisha non ne era più certa perché le risultava difficile concentrarsi sulle parole, non aveva mai apprezzato eccessivamente la poesia ma, anche se l’avesse fatto, avrebbe trovato difficile concentrarsi. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalle forme. Esse scivolavano dietro Drew, e lei cercava di seguirle con gli occhi, di scrutare attraverso lui per vederle, ma non vi riusciva. Lo sforzo era stancante. Quando le forme ondeggianti riemergevano dalle spalle di Drew, erano differenti. Lei si sporse in avanti per distinguere esattamente cosa fossero: le riconobbe.

Drew cominciò il poema per la terza volta. — "Perché, Margaret, sei afflitta per i dorati boschetti caduchi… "

Anche lei era afflitta, ma non per le foglie. Le forme scivolavano dentro e fuori dalla sua mente e, all’improvviso, Drew era sparito. Doveva essere bravo per aver programmato una cosa simile… e l’afflizione aumentò, riempiendola. Riconobbe una sagoma, alla fine: era suo padre. Roger. Stava nella vecchia serra della casa sul lago Michigan, la casa che era stata demolita ventisei anni prima. Stava tenendo in mano una pianta esotica, dai petali spessi e color bianco crema, con la parte centrale spruzzata di rosa, Lei emise un grido e lui le disse chiaramente: — Non hai fallito, Leisha. Non con il Rifugio, non nel cercare di rendere speciale anche Alice, non con Richard e non con la legge. L’unico fallimento è non usare le proprie capacità individuali, e tu le hai usate. Per tutta la vita. Hai tentato.

Leisha emise un piccolo grido e si alzò dalla poltrona. Si incamminò verso suo padre, e lui non svanì, nemmeno quando lei venne a trovarsi con lui direttamente sotto l’equipaggiamento per la proiezione olografica. Il fiore che aveva fra le braccia, tuttavia, svanì, e lui le prese le mani, dicendo gentilmente: — Tu sei stata il centro dei miei sforzi individuali — e Leisha scosse violentemente la testa. Aveva un fiocco azzurro fra i capelli: era nuovamente bambina. Entrò Mamselle con Alice, e Alice disse: — Non mi hai mai fatto torto, Leisha. Mai. Non c’è nulla da perdonare. — Quindi, sia Alice sia Roger scomparvero, e Leisha si trovò a correre in una foresta piena di raggi di sole, lance inclinate di luce verde e dorata che filtravano attraverso gli alberi. Stava ridendo, e nella luce c’era il calore delle piànte vive, la fragranza della primavera e il sapore del perdono. Leisha non si era mai sentita così libera e felice, come se stesse facendo esattamente ciò che aveva sempre avuto intenzione di fare. Rise ancora e corse più velocemente perché, alla fine del sentiero pieno di fiori e illuminato di luce solare, c’era sua madre che le tendeva le braccia, e rideva anche lei con il volto illuminato da un sentimento d’amore.

Aveva le guance rigate di lacrime. Stava seduta sulla poltrona nella stanza in mattoni cotti. Le luci erano state accese. Venne immediatamente assalita dalla nausea.

Drew chiese con entusiasmo: — Che cosa hai visto?

Leisha si piegò in due, combattendo contro il suo stomaco. Alla fine ansimò: — Cosa… hai fatto?

— Dimmi che cosa hai vistò. — Era inesorabile: un giovane artista.

— No!

— Allora è stato potente. — Si appoggiò all’indietro sulla carrozzella, sorridendo.

Leisha si raddrizzò lentamente, reggendosi allo schienale della poltrona. Il volto di Drew era trionfante. Lei disse con maggiore calma: — Che cosa hai fatto?

Lui rispose: — Ti ho fatto sognare.

Sognare. Dormire. Sei ragazzini nel bosco e una fialetta di interleukin-1… ma quella non era stata assolutamente la stessa cosa. Assolutamente.

Quella era stata come la notte in cui Alice si era presentata da lei nella camera d’albergo di Conewango, durante il processo a Jennifer Sharifi. La notte in cui Leisha aveva cessato di credere nella capacità della forza della legge di creare una comunità unica ed era stata, tremante, sull’orlo del…

Buio…

Il vuoto…

Quel sogno di Drew, però, era stato luce, non oscurità e, nello stesso tempo, la stessa cosa. Leisha ne era certa. Il margine di qualcosa di immenso e privo di leggi, di qualcosa che poteva ingoiare la luce minuscola e guardinga della ragione. Poi era giunta Alice. Attraverso la sconosciuta immensità, Alice aveva udito non si sa come Leisha, in un modo che non aveva nulla a che fare con l’attenta luce. "Lo sapevo", aveva sussurrato Alice. Si era recata direttamente da Leisha, contro ogni ragionevolezza.

E infine Drew, contro ogni ragionevolezza, aveva manipolato in qualche modo una parte sconosciuta della sua mente.

Drew spiegò con impazienza: — Inizia con una specie di ipnosi, ma di un tipo che raggiunge la zona della corteccia per fare appello all’universale collettivo… io le chiamo forme. Sono più di questo, ma non ho le parole per descriverle, Leisha, sai che non le ho mai avute. So soltanto che sono dentro di me e dentro chiunque altro. Io le tiro fuori, le chiamo fuori, così che riescono ad assumere delle forme proprie nei sogni di una persona. È una specie di sogno lucido, semidiretto, ma è anche più di questo. È nuovo. — Trasse un profondo respiro. — È mio.

Domande logiche la calmarono: — Semidiretto? Vuoi dire che tu hai determinato quello che io avrei sognato? — Ma non riuscì a mantenere quel tono distaccato. Stava provando troppe cose e non tutte belle. — Drew, è così che appare un sogno? È quello che fanno i Dormienti?

Lui scosse la testa. — No. Non spesso. Immagino; non so ancora che cosa ti sia successo realmente. Tu sei la prima, Leisha!

— Io ho… sognato mio padre. E mia madre.

Gli occhi di Drew scintillarono. — Bene, bene. Io stavo lavorando con le forme dei miei genitori. — Il suo giovane volto si incupì improvvisamente, perso in qualche ricordo privato che Leisha, altrettanto improvvisamente, non desiderò condividere. Sognare era troppo pubblico. Troppo irrazionale. Troppo un lasciarsi andare, un arrendersi. Se però era una resa alla luce, alla dolcezza… No. Non era realtà. I sogni erano una fuga, lo aveva sempre saputo, lei che non aveva mai sognato. I sogni erano un’evasione dal mondo reale esattamente come la pseudoscienza del Gruppo dei gemelli di Alice. Ma quello che aveva appena sperimentato grazie a Drew…

— Sono troppo vecchia per vedere il mio mondo rivoltato come un pedalino!

Drew si mise improvvisamente a sogghignare, un sorriso di tale puro trionfo, così privo di frustrazione o di arroganza, che Leisha ne restò abbacinata. Tuttavia, si aggrappò alla ragione, con forza. Gli disse: — Drew, gli altri quattro pazienti che hanno subito la tua stessa operazione in quella clinica messicana non hanno prodotto nulla del genere, non hanno subito alcun tipo di cambiamento, alcun… — non riuscì a trovare la parola.

— Ma non erano artisti — ribatté lui con l’assoluta convinzione del giovane rinato. — Io lo sono.

— Ma… — cominciò a dire Leisha. E non andò oltre perché Drew, ancora sorridente, ancora trionfante, si sporse in avanti sulla carrozzella e la baciò intensamente sulla bocca.

Leisha rimase seduta, immobile. Poteva sentire il proprio corpo rispondere, per la prima volta… dopo quanto tempo? Anni. I capezzoli le si indurirono, il ventre le si tese. Lui aveva un odore mascolino, di pelle e capelli maschili. La bocca di lei si aprì per conto proprio. Leisha si ritrasse con uno scatto.

— No, Drew!

— Sì!

Lei odiava dover rovinare il suo trionfo, la sua magnifica realizzazione: lei aveva "sognato". Ma su quello era sicura. — No.

— Perché no? — Drew si era fatto pallido, ma era inflessibile. Aveva le pupille dilatate.

— Perché io ho settantotto anni e tu ne hai venti. So che a te non sembra così, ma per la mia mente, la mia mente, tu sei un bambino. E lo sarai sempre per me.

— Perché io sono un Dormiente!

— No. Perché io ho vissuto cinquantotto anni che tu non hai vissuto.

— Non pensi che lo sappia? — disse Drew con fierezza.

— No. Non penso. Non hai idea di ciò che significhi. — Coprì la sua mano con la propria. — Penso a te come a un figlio, Drew. Un figlio. Non un amante.

Lui la fissò diritto negli occhi. — E che cosa ti ha detto il tuo sogno di madri, padri e figli da essere tanto terrificante?

Per un istante lei provò ancora le sensazioni del sogno e colse qualcosa al di là di esso, qualche lato oscuro del sentiero illuminato, del Roger sorridente con le mani piene di fiori esotici, dell’amorevole Elizabeth, come Elizabeth non era mai stata realmente, non con lei. Leisha non riusciva a vedere quel lato oscuro, ma esso era lì, nel profondo della sua mente, un modo di ordinare il mondo che non aveva nulla a che fare con le leggi, l’economia, l’integrazione politica o tutte le cose cui lei aveva dedicato la propria vita. Un modo non necessariamente peggiore, o migliore, ma diverso, "alieno". La visione fugace scivolò via.

— Mi dispiace, Drew. — Disse lei, con tutta la compassione possibile.

Mentre lasciava la stanza lui le disse tranquillamente alle spalle: — Migliorerò nella mia arte, Leisha. Tirerò fuori dell’altro dal tuo preconscio, ti mostrerò cose che non hai mai nemmeno… Leisha!

Lei non riuscì a rispondergli. Avrebbe solamente peggiorato le cose. Uscì e chiuse delicatamente la porta.

Quella sera, quando Leisha aveva riflettuto su come discutere con lui, cosa dirgli per mettere lo sconvolgente episodio sotto una prospettiva razionale, Stella le disse che Drew aveva fatto le valigie e se ne era andato.


Miri si mise seduta al proprio posto nella Cupola del Consiglio. Era un posto nuovo, aggiunto alla sala per il suo sedicesimo compleanno, la quindicesima sedia imbullonata al pavimento attorno al lucido tavolo in metallo. Da quel momento in poi, il 51 per cento delle azioni possedute dalla famiglia Sharifi sarebbe stato ripartito in sette blocchi uguali. L’anno successivo, quando Tony avesse assunto il proprio incarico, ce ne sarebbero stati otto. La sedia scricchiolò leggermente quando Miri vi si sedette,

— Il Consiglio del Rifugio è orgoglioso di dare il benvenuto a Miranda Serena Sharifi in qualità di membro votante — esordì formalmente Jennifer. I consiglieri applaudirono. Miri sorrise. Sua nonna aver va alleggerito per un momento la tensione nella stanza, tanto densa che le sue correnti si sarebbero potute tracciare su una matrice Heller. Miri guardò tutto attorno alla tavola con occhi bassi: da tempo, per abitudine, chinava la testa visto che, allo specchio, questo sembrava minimizzare i suoi tremori e le sue contrazioni. La madre di Miri applaudì senza guardarla direttamente. Il padre le sorrise con quella espressione di rassegnata malinconia che ormai aveva sempre negli occhi. La bellissima zia Najla, incinta di un altro Super, fissò Miri con ferma determinazione.

I consiglieri con mandato a termine sorrisero, ma lei non li conosceva a sufficienza per sapere che cosa significassero i loro sorrisi. Si chiese se non fossero gelosi del suo improvviso potere. Lo statuto del Rifugio, lei lo aveva scoperto in biblioteca, era ben più generoso con i membri della famiglia di quanto non lo fosse qualsiasi altra azienda familiare sulla Terra. Nell’olocanale "drammi" sembrava che la più usuale procedura comunitaria sulla Terra fosse che i giovani figli maschi uccidessero i padri che gestivano imperi commerciali, ranch o società orbitali, per acquistare potere. Poi, apparentemente, si sposavano le giovani terze mogli dei padri morti. Era un sistema sociale così sconvolgente e barbarico che Miri aveva concluso non potesse essere realmente il modo in cui i mendicanti gestivano le cose: dovevano apprezzare i loro "drammi" per esaminare situazioni che non avevano alcuna relazione con la realtà. Era un’idea talmente sciocca che, per la seconda volta, aveva lasciato perdere disgustata i drammi ed era tornata ai canali di sesso.

— Abbiamo un ordine del giorno molto denso — disse Jennifer con la sua voce aggraziata. — Consigliere Drexler, può iniziare con il rapporto sulle finanze?

Il rapporto sulle finanze, di routine e in attivo, non fece nulla per allentare la tensione. Miri, inosservata, cominciò a studiare un volto dopo l’altro, mantenendo la fronte bassa. C’era qualcosa che non andava assolutamente bene. Cosa?

I capi dei comitati agricoli, legali, giudiziari e medici lessero i loro rapporti. Hermione arricciò una ciocca dei capelli color del miele (quando era stata l’ultima volta che Miri aveva toccato i capelli di sua madre? Anni addietro) attorno a un dito, passò il ricciolo a un secondo dito e continuò così. Gira, gira. Najla si passò una mano sul ventre gonfio. Il consigliere Devore, un giovanotto sottile dai grandi occhi dolci, sembrava seduto sui carboni ardenti.

Alla fine annunciò Jennifer: — C’è un’altra voce del rapporto medico che ho chiesto al consigliere Devore di sottoporre alla discussione generale. Come la maggior parte di voi sa, c’è stato un incidente. — Improvvisamente, Jennifer abbassò la testa, e Miri si accorse, sbalordita, che la nonna aveva bisogno di qualche istante per poter andare avanti. Miri era abituata a pensare a lei come a una persona invulnerabile.

— Tabitha Selenski, della Kanyon International, stava riparando un ingresso di un convertitore di potenza nell’Edificio Commerciale Tre e ha preso una scarica elettrica che… I suoi tessuti in generale si stanno rigenerando, molto lentamente. Parti del suo sistema nervoso sono tuttavia così rovinate che non c’è più nulla da rigenerare. Non sarà mai più completamente cosciente, anche se possiede una coscienza parziale, più o meno al livello che potrebbe avere un animale. Avrà bisogno di assistenza costante, anche per operazioni basilari quali il cambiamento dei pannolini, l’alimentazione e la degenza. Inoltre non sarà mai più un membro produttivo della comunità.

Jennifer guardò uno alla volta i membri del Consiglio. Le stringhe di Miri si annodarono in reti orrende. Essere impotente, dipendente da altri per tutto, un salasso del tempo e delle risorse altrui senza dare nulla in cambio…

Un mendicante.

Comprese quale fosse il problema e il suo stomaco si contrasse.

— Quando ero bambina, conoscevo un tempo una donna sulla Terra — disse Jennifer. — La madre di un’amica. Dopo la mia amica, la donna aveva avuto un altro bambino affetto da un grave disturbo neurologico. Come parte del cosiddetto trattamento, alla madre era richiesto di muovergli gambe e braccia nel ritmico movimento del gattonare, cercando di imprimergli quegli schemi nel cervello e di stimolare in questo modo uno sviluppo cerebrale. Doveva farlo per un’ora sei volte al giorno. Fra una seduta e l’altra, dava da mangiare al bambino, lo lavava, ne risucchiava gli escrementi dal colon, faceva suonare determinate cassette per stimolarne i sensi, gli faceva il bagno e gli parlava ininterrottamente per sessioni di tre ore e mezzo a un intervallo regolare nel corso delle ventiquattro ore. Un tempo, la donna aveva suonato il pianoforte per professione, ma non lo toccava nemmeno più. Quando il bambino aveva raggiunto i quattro anni, i dottori avevano aggiunto altre pratiche al trattamento. Quattro volte al giorno la madre doveva portare il bambino in carrozzina attorno al giardino per quindici minuti esatti, incontrando gli stessi oggetti nello stesso ordine ma con differenti condizioni climatiche, ancora una volta per costruire un certo tipo di schemi di risposta nel cervello. La mia amica la aiutava, ma, dopo interi anni di questo impegno, odiava perfino tornare a casa. Ciò valeva anche per il marito della donna che, alla fine, non tornò a casa affatto. Nessuno dei due era presente il giorno in cui la madre sparò al bambino e a se stessa.

Jennifer fece una pausa. Prese in mano un foglio di carta. — Il Consiglio ha una petizione del marito di Tabitha Selenski in cui lui chiede di porre fine alle sue sofferenze. Dobbiamo decidere adesso.

La consigliera Letty Rubin, una giovane donna dal volto spigoloso che sarebbe potuto uscire da un tornio, disse con veemenza: — Tabitha è ancora in grado di sorridere, di rispondere un pochino. Sono andata a farle visita e lei ha cercato di sorridere al suono della mia voce! Ha diritto alla sua vita, per come essa è ora!

Jennifer rispose: — Anche il bambino della madre della mia amica riusciva a sorridere. Il vero problema è: abbiamo il diritto di sacrificare la vita di qualcun altro per assistere la sua?

— Non dovrebbe trattarsi del sacrificio di una vita! Se ci dividessimo l’assistenza in turni, diciamo, di due ore, il carico sarebbe diviso fra talmente tante persone che nessuno risulterebbe realmente sacrificato.

Will Sandaleros intervenne: — Il principio rimane. La pretesa da parte di un debole nei confronti del forte a causa della propria debolezza. Una pretesa da mendicante che sostiene che i frutti del lavoro di una persona appartengono a chiunque non possa lavorare personalmente. O non voglia. Non ammettiamo che la debolezza abbia un diritto di tipo morale sulla capacità.

Il consigliere Jamison, un tecnico vecchio quasi come la nonna di Miri la cui unica modificazione genetica era l’insonnia, scosse la testa. Aveva un volto lungo e comune con un mento bitorzoluto. — Si tratta di una vita umana, consigliere Sandaleros. Un membro della nostra comunità. La comunità non dovrebbe garantire pieno sostegno ai propri membri?

Will ribatté: — Ma che cosa rende membri di una comunità? È automatico? Una volta che ci si è affiliati si è inclusi a vita? Questo porta alla patologia costituzionale. Oppure essere membro di una comunità significa che si continua attivamente a sostenere la comunità e a contribuirvi attivamente? Per esempio, la sua compagnia assicurativa, consigliere Jamison, continuerebbe a includere un sottoscrittore nella lista clienti se quello smettesse di pagare i premi?

Jamison restò in silenzio.

Letty Rubin esclamò: — Ma una comunità non è come un contratto di affari! Deve significare qualcosa di più!

La voce di Jennifer tagliò seccamente le sue ultime parole. — Quello che dovrebbe significare è che Tabitha Selenski non dovrebbe volere essere un peso per la sua comunità. Dovrebbe avere i principi e la dignità di non voler continuare una cosiddetta vita da mendicante, il che significa che avrebbe dovuto inserire nel suo testamento la clausola standard di terminazione della vita.

"Io l’ho fatto, Will l’ha fatto, tu l’hai fatto, Letty. Visto che Tabitha non lo ha fatto, ha abbandonato i principi di questa comunità e si è dichiarata non più membro".

Ricky Sharifi disse: — L’autoconservazione è un impulso innato, mamma.

Jennifer ribatté: — Gli impulsi innati possono essere modificati per il bene della civiltà. Succede sempre. La fedeltà sessuale, le leggi formali per appianare le dispute, i tabù sull’incesto: che cosa sono se non modificazioni imposte a forza per il bene di tutti? Gli impulsi innati sarebbero di uccidere per vendetta o di fottere fino a far schizzare il cervello tutte le volte che ci viene il bisogno.

Miri fissò sbalordita sua nonna. Mai, mai aveva sentito Jennifer usare un linguaggio simile. I discorsi di sua nonna erano sempre formali, quasi pedanti. Un istante dopo si accorse che era stata una scelta deliberata, teatrale, e provò un po’ di disgusto, seguito da un rinnovato conato di vomito. Sua nonna non stava puntando soltanto sulle argomentazioni che aveva per convincere il Consiglio a uccidere Tabitha Selenski.

Uccidere.

Le stringhe presero a turbinarle nella testa.

Jean-Michel Devore disse con espressione nervosa: — Che cosa sono gli Insonni se non modificazioni di impulsi innati?

Jennifer gli sorrise.

Najla Sharifi propose: — La chiave sta nella definizione di comunità. Io penso che su questo siamo tutti d’accordo. La nostra definizione sembra includere determinate caratteristiche, come l’insonnia, determinate abilità e determinati principi. Che cosa è fondamentale? Che cosa facoltativo?

— È un buon punto da cui partire — commentò con approvazione Will Sandaleros.

Jennifer disse: — Un membro della comunità deve possedere tutte e tre le cose. La caratteristica dell’insonnia, l’abilità di contribuire alla comunità invece che dissanguarla e i principi per stimare il bene reale della comunità al di là delle proprie preferenze immediate. Chiunque non possegga questi tre requisiti non soltanto è troppo differente da noi, ma è anche un pericolo attivo. — Si sporse in avanti, con i palmi delle mani piatti sul tavolo. — Credetemi, io lo so.

Seguì un breve silenzio.

In quel silenzio, Hermione sentenziò tranquillamente: — Chiunque pensi in modo troppo differente da noi non è realmente membro della nostra comunità.

La testa di Miri scattò su. La ragazzina fissò la madre, che non ricambiò lo sguardo. Tutte le stringhe nella testa di Miri si ribaltarono su se stesse, lentamente, capovolgendosi. Per un istante non riuscì a respirare.

Ma sua madre voleva intendere chiunque pensasse in modo differente rispetto ai principi…

Parole di due dozzine di linguaggi vennero intessute nelle sue stringhe: Harijan. Proscrizione. Bui doi. Inquisiciòn. Kristalnacht. Gulag.

— U-una c-c-comunità d-d-d — non riusciva, per l’emozione, a tirar fuori quelle maledettissime parole — d-d-divisa sulle c-cose f-f-fondamentali s-s-si d-d-distruggerà.

— Questo è il motivo per cui non ci dobbiamo dividere in abili e parassiti — concluse velocemente Jennifer.

— N-n-n-non è q-q-q-quello che i-intendevo d-d-dire i-i-io!

Discussero per cinque ore. Solamente Najla, con la schiena dolorante per la gravidanza, uscì, lasciando al marito la propria delega. Alla fine, il voto terminò nove a sei: Tabitha Selenski doveva abbandonare la comunità. Poteva, se suo marito l’avesse voluto, essere trasferita sulla Terra, fra i mendicanti.

Miri aveva votato con la minoranza. Così, con sua grande sorpresa, aveva fatto suo padre. La decisione della maggioranza la sconvolse anche se, ovviamente, vi si sarebbe adeguata. Al Rifugio era dovuto il suo appoggio. Si sentiva confusa, tuttavia, e voleva discutere tutto con Tony, come soltanto loro potevano fare, nella piena profondità e ampiezza di tutti i riferimenti incrociati e le associazioni ternarie delle stringhe di significato. Il programma informatico di Tony era un successo. I Super ormai lo usavano costantemente per comunicare fra loro, scambiandosi massicci edifici codificati di significato senza le costanti barriere del linguaggio. Si affrettò per andare da Tony. Fuori della Cupola del Consiglio suo padre la fermò. Ricky Keller aveva gli occhi incavati. Miri pensò che, vedendolo seduto accanto alla madre nel Consiglio, la maggior parte delle persone avrebbe concluso che era Jennifer la più giovane. Con il passare di ogni anno, i modi di Ricky si facevano più gentili. Appoggiandole una mano sulla spalla, le disse: — Vorrei tanto che tu avessi conosciuto mio padre, Miri.

— T-t-tuo p-p-padre? — Nessuno parlava mai di Richard Keller. A Miri era stato raccontato del processo: quello che l’uomo aveva fatto a Jennifer, sua moglie, era mostruoso.

— Penso che, sotto molti aspetti, tu sia come lui, a dispetto del tuo essere Super. L’eredità genetica è più complessa di quanto non sappiamo, indipendentemente dalla nostra astuzia. Non sta tutta in cromosomi quantificabili.

Lui si allontanò. Miri non seppe se sentirsi compiaciuta od offesa. Richard Keller, il traditore del Rifugio. La gente diceva solitamente che lei era come sua nonna "una donna dalla mente fortissima". Gli occhi di suo padre, tuttavia, erano stati dolci sotto la loro malinconia. Miri fissò la sua figura incurvata che si stava allontanando.

Il giorno dopo, Tabitha Selenski morì per un’iniezione letale. Circolava la voce insistente che Tabitha si fosse iniettata personalmente la dose, ma Miri non ci credeva. Se Tabitha fosse stata in grado di farlo, il Consiglio non avrebbe votato come aveva fatto. Tabitha era stata quasi un vegetale. Quella era la verità. Lo aveva detto la nonna di Miri.

Загрузка...