LIBRO I: LEISHA 2008

Con energia e insonne vigilanza avanzate e dateci vittorie.

ABRAMO LINCOLN, al General Maggiore Joseph Hooker, 1863

1

Erano rigidamente seduti sulle sue antiche poltrone stile Eames, due persone che non volevano trovarsi lì, quanto meno una che non voleva e una che era risentita per la riluttanza dell’altra. Per il Dottor Ong non si trattava di cosa nuova. Nel giro di due minuti fu sicuro: era la donna quella che opponeva una silenziosa e accanita resistenza. Lei avrebbe perduto. L’uomo l’avrebbe invece scontata in seguito, attraverso piccole cose, per lungo tempo.

— Presumo che lei abbia già effettuato i necessari controlli relativi alla solvibilità — disse Roger Camden con espressione gradevole. — Quindi occupiamoci subito dei dettagli, d’accordo, dottore?

— Certamente — rispose Ong. — Perché non comincia a elencarmi tutte le modifiche genetiche a cui siete interessati per il bambino?

La donna si spostò improvvisamente nella poltrona. Era sulla ventina inoltrata, chiaramente una seconda moglie, ma aveva già un aspetto sbiadito, come se tenere il passo con Roger Camden la stesse logorando. Ong non stentava a crederlo. La signora Camden aveva capelli bruni e occhi castani; la sua pelle era di una tonalità scura che sarebbe risultata graziosa se le sue guance avessero mostrato un briciolo di colore. Indossava un cappotto marrone, né di gran moda né dozzinale, e scarpe che avevano un vago aspetto ortopedico. Ong lanciò un’occhiata ai propri appunti per controllare il suo nome: Elizabeth. Avrebbe giurato che le persone lo scordavano di frequente.

Accanto a lei, Roger Camden irradiava una vitalità nervosa: un uomo di mezz’età, la cui testa a forma di proiettile non si armonizzava con il taglio di capelli curato e il completo italiano in seta, da uomo d’affari. Ong non ebbe bisogno di consultare la propria documentazione per ricordare le informazioni relative a Camden. Una caricatura della testa a forma di proiettile era stata la vignetta di prima pagina dell’edizione della mattina precedente del "Wall Street Journal": Camden aveva messo a segno un colpo magistrale con un investimento su un atollo-dati oltre frontiera.

Ong non era certo di cosa fosse un investimento su un atollo-dati oltre frontiera.

— Una bambina — disse Elizabeth Camden. Ong non si era aspettato che fosse lei a parlare per prima. La voce della donna rappresentò un’ulteriore sorpresa, inglese britannico di alta classe. — Bionda. Occhi verdi. Alta. Slanciata.

Ong sorrise. — I fattori esteriori sono i più facili da ottenere e sono certo che voi lo sappiate già. Tutto quello che possiamo fare per la snellezza è fornire una disposizione genetica in quella direzione. Il modo in cui nutrirete la bambina, ovviamente…

— Sì, sì, è ovvio — disse Roger Camden. — Adesso parliamo di intelligenza. Grande intelligenza. E senso di temerarietà.

— Mi dispiace, signor Camden, non si conoscono ancora abbastanza bene i fattori di personalità per consentire genet…

— Stavo solamente sondando il campo — lo interruppe Camden con un sorriso che Ong ritenne volesse indicare allegria.

Elizabeth Camden aggiunse: — Abilità musicale.

— Ancora una volta, signora Camden, tutto ciò che possiamo garantire è una disposizione alla musicalità.

— È sufficiente — commentò Camden. — La gamma completa di correzioni per qualunque problema di salute collegato ai geni, ovviamente.

— Ovviamente — disse il dottor Ong. Nessuno dei due clienti parlò. Per il momento si trattava di una lista relativamente modesta, dati i soldi di Camden; la maggior parte dei clienti doveva essere convinta a eliminare tendenze genetiche contraddittorie, sovraccarico di alterazioni o aspettative irrealistiche. Ong restò in attesa. La tensione pizzicava nell’aria come un forte calore.

— E nessun bisogno di dormire — aggiunse Camden.

Elizabeth Camden voltò violentemente la testa di lato per guardare fuori dalla finestra.

Ong prese un fermacarte magnetico dalla scrivania. Cercò di rendere la propria voce gradevole. — Posso chiederle come sia venuto a sapere dell’esistenza di questo programma di modifica genetica?

Camden sogghignò. — Non ne sta negando l’esistenza. L’apprezzo molto per questo, dottore.

Ong cercò di contenersi. — Posso chiederle com’è venuto a sapere dell’esistenza del programma?

Camden infilò una mano nella tasca interna della giacca. La seta era spiegazzata e arricciata: corpetto e abito erano di classe differente. Ong rammentò che Camden era uno Yagaista, amico intimo di Kenzo Yagai in persona. Camden consegnò a Ong un foglio di carta: dati tecnici del programma.

— Non si preoccupi di andare a caccia della falla nei sistemi di sicurezza della sua banca dati, dottore. Non la troverà. Se però può servirle da consolazione, non ci riuscirà nessun altro. Ora. — Si sporse in avanti all’improvviso. Il suo tono cambiò. — So che lei ha creato venti bambini che non hanno alcun bisogno di dormire che, per il momento, diciannove di loro sono in perfetta salute, intelligenti e psicologicamente normali. In effetti, sono migliori di quelli normali: sono tutti insolitamente precoci. Il più grande ha già quattro anni e sa leggere in due lingue. So che lei sta pensando di mettere sul mercato questa modificazione genetica nel giro di qualche anno. Tutto quello che io voglio è un’opportunità di acquistarla per mia figlia adesso. A qualsiasi prezzo lei intenda chiedermi.

Ong si alzò in piedi. — Non mi è possibile discutere direttamente con lei dell’argomento, signor Camden. Né il furto dei nostri dati…

— Che non è stato un furto… il vostro sistema ha sviluppato una bolla di rigurgito spontaneo nel canale pubblico. Avrebbe una difficoltà del diavolo a provare che è avvenuto altrimenti…

…né l’offerta di acquistare questa particolare modifica genetica ricade nella mia sola area di competenza. Tutt’e due le cose devono essere discusse con il consiglio d’amministrazione dell’Istituto.

— Ma certo, ma certo. Quando portò parlare anche con loro?

— Lei?

Camden, ancora seduto, sollevò lo sguardo su di lui. A Ong sovvenne che esistevano soltanto pochi uomini in grado di mantenere uno sguardo così sicuro di sé trovandosi mezzo metro sotto il livello degli occhi altrui. — Certamente. Mi piacerebbe avere l’opportunità di sottoporre la mia offerta a chiunque possegga la reale autorità per accettarla. Si tratta soltanto di un buon affare.

— Non è solamente una transazione commerciale, signor Camden.

— Non è nemmeno solamente pura ricerca scientifica — ribatté Camden. — Siete un’azienda a scopo di lucro. Con determinate agevolazioni fiscali concesse soltanto a imprese che si adeguano a determinate leggi di concorrenza leale.

Per un minuto Ong non riuscì a comprendere che cosa intendesse dire Camden. — Leggi di concorrenza leale…

— …promulgate per proteggere fornitori di minoranza. So che non si è mai arrivati a utilizzarle in processo a favore di clienti, eccetto che nel caso di speculazioni immobiliari relative a installazioni di energia-Y. Ma si potrebbe arrivare in tribunale, dottor Ong. Le minoranze hanno diritto alle stesse offerte di prodotti delle non minoranze. So perfettamente che l’Istituto potrebbe non gradire un processo in tribunale, dottore. Nessuna delle vostre famiglie genetiche sottoposte al test-beta è negra o ebrea.

— Un processo… ma lei non è negro né ebreo!

— Io faccio parte di una minoranza diversa. Polacco-americana. Il nome originale era Kaminsky. — Camden si alzò in piedi, alla fine. Sorrise calorosamente. — Ascolti, è ridicolo! Lo sa lei e lo so anch’io, e tutti e due sappiamo che festa sarebbe per i giornalisti. Lei sa anche che non voglio perseguirla con un processo ridicolo solo per utilizzare la minaccia di pubblicità prematura e negativa per ottenere quello che desidero. Non voglio fare alcuna minaccia, mi creda. Voglio solamente per mia figlia questo meraviglioso vantaggio che lei ha scoperto. — Il suo volto cambiò, mostrando un’espressione che Ong non avrebbe mai creduto possibile su quei particolari lineamenti: malinconia. — Dottore, sa quante cose in più avrei potuto realizzare se non avessi dovuto dormire in tutta la mia vita?

Elizabeth Camden commentò seccamente: — Adesso dormi a mala pena.

Camden abbassò lo sguardo su di lei come se si fosse dimenticato della sua presenza. — Be’, no, certo, mia cara, non adesso. Ma quando ero giovane, al college. Sarei stato in grado di terminare il college e nello stesso tempo di mantenere… Comunque, adesso tutto questo non ha più alcuna importanza. Ciò che importa, dottore, è che io, lei e il consiglio di amministrazione arriviamo a un accordo.

— Signor Camden, adesso la pregherei di lasciare il mio ufficio.

— Intende dire, prima che lei perda la pazienza per la mia presunzione? Non sarebbe il primo. Mi aspetto che venga indetta una riunione per la fine della prossima settimana: quando e dove lo dirà lei, ovviamente. Comunichi semplicemente i dettagli alla mia segretaria personale, Diane Clavers. Qualunque sia il momento più adatto per lei.

Ong non li accompagnò alla porta. Le tempie gli pulsavano per la pressione. Sull’arco della porta, Elizabeth Camden si voltò. — Che cosa è successo al ventesimo?

— Come?

— Al ventesimo bambino. Mio marito ha detto che diciannove di loro sono normali e in perfetta salute. Che cosa è successo al ventesimo?

La pressione si fece più forte, più calda. Ong sapeva che non avrebbe dovuto rispondere, che Camden probabilmente conosceva già la risposta anche se sua moglie non era al corrente di nulla; sapeva anche che lui, Ong, avrebbe risposto comunque; sapeva che si sarebbe rammaricato amaramente, in seguito, per la mancanza di autocontrollo.

— Il ventesimo bambino è morto. I suoi genitori si sono dimostrati instabili. Si sono separati durante la gravidanza, e la madre non è riuscita a sopportare il pianto di ventiquattro ore di un neonato che non dorme mai.

Elizabeth Camden sgranò gli occhi. — Lo ha ucciso?

— Per errore — rispose brevemente Camden. — Ha scosso il piccino un po’ troppo duramente. — Corrugò la fronte fissando Ong. — Bambinaie, dottore. A turni. Avreste dovuto scegliere solamente genitori sufficientemente ricchi da potersi permettere bambinaie a turni.

— Ma è terrificante! — esplose la signora Camden, e Ong non fu in grado di stabilire se si riferisse alla morte del bambino, alla mancanza di bambinaie o alla superficialità dell’Istituto. Ong chiuse gli occhi.

Quando se ne furono andati, prese dieci milligrammi di cyclobenzaprina-III. Per la schiena… solamente per la schiena. La vecchia ferita ricominciava a procurargli dolore. In seguito, rimase per parecchio tempo in piedi davanti alla finestra, tenendo ancora in mano il fermacarte magnetico, avvertendo la pressione attenuarsi alle tempie, sentendosi calmare. Sotto di lui, il lago Michigan lambiva pacificamente la riva; la polizia aveva portato via tutti i senzatetto in una retata appena la sera precedente e quelli non avevano ancora avuto il tempo di ritornare. Restavano solamente i loro avanzi gettati nei cespugli del parco adiacente alle sponde: coperte sfrangiate, giornali, sacchetti di plastica come patetici stendardi calpestati. Era illegale dormire nel parco, illegale entrarvi senza un permesso da residenti, illegale essere senza casa e senza residenza. Mentre Ong guardava, alcuni guardiani del parco, in uniforme, iniziarono metodicamente ad arpionare giornali e a infilarli in bidoni motorizzati.

Ong sollevò il ricevitore del telefono per chiamare il presidente del consiglio di amministrazione dell’Istituto Biotech.


Quattro uomini e tre donne stavano seduti attorno al lucido tavolo in mogano della sala conferenze. "Dottore, avvocato, capo indiano" pensò Susan Melling, passando con lo sguardo da Ong a Sullivan e quindi a Camden. Lei sorrise. Ong colse il sorriso e le lanciò un’occhiata gelida. Asino pomposo. Judy Sullivan, l’avvocato dell’Istituto, si voltò per parlare a bassa voce con l’avvocato di Camden, un uomo magro e nervoso che aveva l’aspetto di essere una proprietà. Il proprietario, Roger Camden, il capo indiano in persona, era l’individuo con l’aria più felice dell’intera sala. Il piccolo uomo letale… che cosa occorreva per diventare così ricchi partendo dal nulla? Lei, Susan, non lo avrebbe mai saputo di certo… irradiava eccitazione. Era raggiante, sfolgorante, così diverso dai soliti futuri genitori che Susan ne rimase affascinata. Generalmente i prossimi papà e mamme, in particolar modo i papà, sedevano lì con la tipica espressione di chi si trova a una fusione aziendale. Camden sembrava essere a una festa di compleanno.

E lo era, in effetti. Susan gli sorrise e restò compiaciuta quando lui ricambiò il suo sorriso. Un ghigno da lupo, ma con una sfumatura di soddisfazione che poteva essere definita soltanto innocente. Com’era a letto? Ong corrugò la fronte con atteggiamento maestoso e si alzò per parlare.

— Signore e signori, penso che siamo pronti per cominciare. Forse è opportuno iniziare con le presentazioni. Il signor Roger Camden e la signora Camden sono, ovviamente, i nostri clienti. Il signor John Jaworski, l’avvocato del signor Camden. Signor Camden, questa è Judith Sullivan, capo dell’ufficio legale del nostro Istituto; Samuel Krenshaw rappresenta il direttore dell’Istituto, il dottor Brad Marsteiner che sfortunatamente non è potuto essere qui, oggi, e la dottoressa Susan Melling che ha sviluppato la modificazione genetica che agisce sul sonno. Qualche punto legale che può interessare entrambe le parti…

— Lasci perdere il contratto per un minuto — lo interruppe Camden. — Parliamo della questione riguardante il sonno. Mi piacerebbe fare qualche domanda.

Susan chiese: — Che cosa vorrebbe sapere? — Gli occhi di Camden spiccavano azzurrissimi nel volto dai lineamenti privi di spigolosità: non era come lei se lo era aspettato. La signora Camden, che mancava apparentemente sia di un nome di battesimo sia di un avvocato, visto che Jaworski era stato presentato come avvocato di suo marito ma non suo, sembrava astiosa oppure impaurita, era difficile stabilire quale delle due cose,

Ong disse con espressione acida: — Allora forse dovremmo cominciare con una breve presentazione della dottoressa Melling.

Susan avrebbe preferito un botta e risposta per vedere che cosa le avrebbe chiesto Camden. Tuttavia aveva seccato troppo Ong durante la seduta. Obbediente, si alzò.

— Permettetemi di iniziare con una breve descrizione del sonno. I ricercatori sanno da lungo tempo che esistono tre tipi di sonno. Uno è il "sonno a onde lente" caratterizzato sull’EEG da onde delta. Il secondo è il "sonno a rapidi movimenti oculari" o sonno REM, che è un tipo di sonno molto più leggero e maggiormente caratterizzato da sogni. Insieme, questi due formano il "nucleo del sonno". Il terzo tipo di sonno è il "sonno opzionale", così definito perché sembra che le persone possano andare avanti senza di esso e non subire alcun effetto negativo; coloro che dormono poco non ne hanno affatto e dormono naturalmente solo tre o quattro ore per notte.

— Come me — disse Camden. — Mi sono allenato a farlo. Non potrebbero riuscirci tutti?

Sembrava che, dopo tutto, avrebbero condotto un dialogo a botta e risposta. — No. Il meccanismo del sonno vero e proprio è parzialmente flessibile, ma non allo stesso modo per tutti. I nuclei del rafe sulla zona pontina cerebrale…

Ong la interruppe: — Non penso che abbiamo bisogno di dettagli a questo livello, Susan. Atteniamoci alle cose basilari.

Camden disse: — I nuclei del rafe regolano l’equilibrio fra i neurotrasmettitori e i peptidi che portano all’impulso di dormire, vero?

Susan non poté farne a meno: sogghignò. Camden, il finanziere implacabile, tagliente come un laser, stava lì seduto cercando di apparire solenne, un bambinetto di terza elementare in attesa di vedere apprezzati i propri compiti. Ong aveva un’espressione sgradevole. La signora Camden distolse lo sguardo, fissando fuori dalla finestra?

— Sì, è giusto, signor Camden. Ha effettuato anche lei delle ricerche?

Camden replicò: — Si tratta di mia figlia - e Susan trattenne il respiro. Quando era stata l’ultima volta che aveva udito una tale nota di riverenza nella voce di qualcuno? Tuttavia, nessuno nella stanza sembrò notarlo,

— Benissimo — proseguì Susan. — Allora lei sa già che il motivo per cui le persone dormono è l’impulso a dormire che si forma nel cervello. Nel corso degli ultimi vent’anni la ricerca ha stabilito che si tratta dell’unico motivo. Né il sonno a onde lente né il sonno REM servono a funzioni che non possano essere eseguite mentre il corpo e il cervello sono svegli. Durante il sonno avvengono moltissime cose che tuttavia possono avere luogo altrettanto bene durante la veglia, se vengono effettuate opportune modifiche ormonali.

"Il sonno ha fornito un’importante funzione evolutiva. Una volta che il Clem pre-mammifero aveva finito di riempirsi lo stomaco e di schizzare sperma tutto attorno, il sonno lo manteneva immobile e lontano dai predatori. Il sonno rappresentava un aiuto per la sopravvivenza. Adesso, però, si tratta di un meccanismo superfluo, una vestigia, come l’appendice. Scatta ogni notte, ma il bisogno non esiste più. Così noi spegniamo l’interruttore alla fonte, nei geni."

Ong si contrasse. La odiava quando semplificava esageratamente in quel modo. Forse, invece, era l’allegria quella che lui odiava. Se quella presentazione fosse stata eseguita da Marsteiner non ci sarebbero stati i Clem pre-mammiferi.

— Che mi dice del bisogno di sognare? — chiese Camden.

— Non è una necessità. È un bombardamento aggiuntivo della corteccia cerebrale per mantenere il cervello in stato di semi allerta, nel caso in cui un predatore dovesse attaccare durante il sonno. La veglia lo fa anche meglio.

— Perché, allora, non avere direttamente veglia, dall’inizio dell’evoluzione?

L’uomo la stava mettendo alla prova. Susan gli rivolse un gran sorriso, godendo della sua impudenza, — Gliel’ho già detto. Una forma di sicurezza contro i predatori. Ma quando attacca un predatore moderno, diciamo un investitore su atolli-dati oltre frontiera, è più sicuro essere svegli.

Camden la incalzò: — Che mi dice dell’alta percentuale di sonno REM nei feti e nei neonati?

— Un altro postumo evolutivo. Il cervello si sviluppa perfettamente anche senza di esso.

— Che mi dice della riparazione neurale durante il sonno a onde lente?

— Avviene comunque, ma può avvenire anche durante la veglia, se il DNA è programmato in modo tale da consentirlo. Non c’è perdita di efficienza neurale, per quel che ne sappiamo.

— E per quanto riguarda la produzione dell’enzima della crescita umana in così alta concentrazione durante il sonno a onde lente?

Susan lo guardò con ammirazione. — Avviene anche senza il sonno. Le regolazioni genetiche la collegano ad altri cambiamenti nella ghiandola pineale.

— E gli…

— Gli effetti collaterali? — intervenne la signora Camden. Gli angoli della bocca le si rivolsero verso il basso. — Che mi dice dei maledetti effetti collaterali?

Susan si voltò verso Elizabeth Camden. Si era del tutto dimenticata che si trovasse lì. La donna più giovane fissò Susan, con gli angoli della bocca sempre abbassati.

— Sono contenta che me lo abbia chiesto, signora Camden, perché esistono degli effetti collaterali. — Susan fece una pausa: si stava divertendo. — Confrontati con i compagni della stessa età i bambini che non dormono, che non abbiano subito una manipolazione genetica del QI, sono più intelligenti, più abili nel risolvere problemi e più gioiosi.

Camden prese una sigaretta. Quell’abitudine sudicia e arcaica sorprese Susan. Si accorse quindi che si trattava di una posa deliberata: Roger Camden stava attirando l’attenzione su un atteggiamento ostentato per distogliere l’attenzione da quello che stava provando. Il suo accendino era d’oro, personalizzato con un monogramma, innocentemente vistoso.

— Lasci che mi spieghi meglio — proseguì Susan. — Il sonno REM bombarda la corteccia cerebrale con scariche neurali casuali provenienti dal midollo allungato: i sogni si creano perché la povera corteccia, assediata, si sforza terribilmente di dare un senso alle immagini e ai ricordi attivati. Per questa operazione utilizza moltissime energie. Senza quello spreco di energia i cervelli che non dormono si risparmiano il logorio e risultano migliori nella coordinazione degli input provenienti dalla vita reale. Di qui, la più alta intelligenza e la capacità di risolvere meglio i problemi.

"Inoltre i medici sanno da sessant’anni che gli antidepressivi, che sollevano l’umore di pazienti depressi, sopprimono interamente anche il sonno REM. Quello che è stato dimostrato negli ultimi dieci anni è che è ugualmente vero il contrario: sopprimendo il sonno REM le persone non si deprimono. I bambini privi di sonno sono allegri, sereni… gioiosi. Non esiste altro termine per descriverli."

— A quale costo? — chiese la signora Camden. Aveva mantenuto il collo rigido, ma i muscoli sulle mascelle continuavano a fremere.

— Nessun costo. Assolutamente nessun effetto collaterale negativo.

— Per il momento — ribatté seccamente la signora Camden.

Susan alzò le spalle. — Per il momento.

— Ma hanno soltanto quattro anni! I più grandi!

Ong e Krenshaw la stavano esaminando attentamente. Susan si accorse del momento in cui la Camden se ne rese conto: la donna sprofondò nuovamente nella poltrona, stringendosi addosso la pelliccia, con espressione vacua.

Camden non guardò la moglie. Produsse una nuvoletta di fumo di sigaretta. — Tutto ha dei costi, dottoressa Melling.

Alla donna piacque il modo in cui lui pronunciò il suo nome. — Generalmente sì. In particolare nella modificazione genetica. Ma, onestamente, in questo caso non siamo riusciti a trovarne alcuno, nonostante le ricerche. — Sorrise direttamente negli occhi di Camden. — È forse troppo credere che, per una volta, l’universo ci abbia dato qualcosa di interamente buono, che sia realmente un passo avanti, un vero beneficio privo di sanzioni nascoste?

— Non l’universo. L’intelligenza di persone come lei — rispose Camden, sorprendendo Susan più di quanto fosse accaduto in precedenza. Lo sguardo dell’uomo aveva bloccato quello di lei. Susan sentì qualcosa serrarle il petto.

— Penso — disse seccamente il dottor Ong — che la filosofia dell’universo vada oltre l’argomento che ci interessa, ora. Signor Camden, se non ha ulteriori domande di tipo medico da porre, potremo forse tornare alle questioni legali che la signora Sullivan e il signor Jaworski hanno evidenziato. Grazie, dottoressa Melling.

Susan annuì. Evitò di guardare di nuovo Camden, ma continuò a essere cosciente di cosa diceva, dell’espressione che aveva, del fatto che fosse lì.


La casa era approssimativamente come lei se l’era aspettata, un’immensa costruzione stile finto Tudor sul lago Michigan a nord di Chicago. Il terreno era fortemente boschivo fra il cancello di entrata e la casa, aperto, invece, fra la casa e l’acqua ondeggiante. Chiazze di neve punteggiavano l’erba assopita. Il Biotech aveva lavorato con i Camden per quattro mesi, ma questa era la prima volta che Susan si recava a casa loro,

Mentre si incamminava verso l’edificio, un’altra automobile le si avvicinò alle spalle. No, un camioncino, che proseguì svoltando sul vialetto curvo in direzione di un’entrata di servizio sul lato della casa. Un uomo suonò al campanello della porta di servizio, un secondo cominciò a scaricare dal fondo del camioncino un recinto da gioco per bambini avvolto nella plastica. Bianco, con coniglietti rosa e gialli. Susan chiuse brevemente gli occhi.

Camden le aprì personalmente la porta. Lei riuscì a scorgere lo sforzo dell’uomo per non apparire preoccupato. — Non saresti dovuta venire fin qui, Susan; sarei venuto io in città!

— No, non volevo che lo facessi, Roger. C’è anche la signora Camden?

— È in salotto. — Camden la condusse in una grande sala con un caminetto in pietra. Mobilio stile casa di campagna inglese e stampe di cani o navi tutte appese quaranta centimetri troppo in alto: l’arredamento doveva essere stato appannaggio di Elizabeth Camden. La donna non si alzò dalla poltrona quando Susan entrò.

— Permettetemi di essere concisa e veloce — disse Susan. — Non voglio prolungare la cosa per voi più di quanto non sia necessario. Abbiamo tutti i risultati dei test di amniocentesi, ultrasuoni e Langston. Il feto sta bene e mostra uno sviluppo normale, per essere di due settimane; nessun problema con l’impianto sulla parete uterina. Ma è venuta fuori una complicazione.

— Cosa? — disse Camden. Prese una sigaretta, guardò sua moglie e la ripose senza averla accesa.

Susan continuò serenamente: — Signora Camden, per puro caso il mese scorso entrambe le sue ovaie hanno rilasciato un ovulo. Ne abbiamo rimosso uno per l’operazione genetica. Per un ulteriore puro caso, anche il secondo è rimasto fertilizzato e impiantato. Lei ha due feti.

Elizabeth Camden si raggelò. — Gemelli?

— No — fece Susan. Si rese conto quindi di ciò che aveva detto. — Voglio dire, sì. Sono gemelli ma non identici. Solamente uno è stato alterato geneticamente. L’altro non risulterà più somigliante al primo di un qualsiasi fratello. È un cosiddetto bambino normale. E so che voi non volevate un cosiddetto bambino normale.

— No, non lo volevo — confermò Camden.

Elizabeth Camden ribatté: — Io lo volevo.

Camden le lanciò un’occhiata feroce che Susan non fu in grado di interpretare. Lui tirò fuori nuovamente la sigaretta e l’accese. Mostrava a Susan solamente il profilo e stava riflettendo intensamente; Susan dubitò che si rendesse conto della sigaretta o che l’avesse accesa. — Il bambino è danneggiato in qualche modo dalla presenza dell’altro?

— No — rispose Susan. — No, ovviamente no. Stanno semplicemente… coesistendo.

— È possibile abortirlo?

:- Non senza abortire tutti e due. La rimozione del feto inalterato provocherebbe cambiamenti nel rivestimento uterino che condurrebbero probabilmente a un rigetto spontaneo dell’altro. — Trasse un respiro profondo. — Ovviamente c’è questa opzione. Possiamo ricominciare la procedura da capo. Ma, come le avevo già detto, siete stati molto fortunati quando l’inseminazione in vitro è riuscita già al secondo tentativo. Ad alcune coppie occorrono otto o dieci tentativi. Se ricominciassimo da capo, il processo potrebbe risultare lungo.

Camden disse: — La presenza del secondo feto sta recando danno a mia figlia? Le sta sottraendo nutrimento o altro? Cambierà qualcosa per lei con l’avanzare della gravidanza?

— No. Esiste ovviamente la possibilità di una nascita prematura. Due feti occupano molto più spazio nell’utero e, se lo spazio si fa ridotto, la nascita può avvenire prematuramente. Ma il…

— Quanto prematuramente? Abbastanza da minacciare la sopravvivenza?

— Molto probabilmente no.

Camden continuò a fumare. Apparve un uomo alla porta. — Signore, una telefonata da Londra. James Kendall da parte del signor Yagai.

— Vengo subito. — Camden si alzò. Susan lo guardò esaminare il volto di sua moglie. Quando parlò, fu proprio a lei che si rivolse. — D’accordo, Elizabeth. D’accordo. — Lasciò la stanza.

Per un lungo momento le due donne rimasero sedute in silenzio. Susan si era accorta del disappunto: quello non era il Camden che si era aspettata di vedere. Si accorse anche che Elizabeth Camden la stava osservando divertita.

— Oh, sì dottoressa. È fatto così.

Susan non commentò.

— Completamente con il pieno controllo della situazione. Ma non questa volta. — Rise sottovoce, tutta eccitata. — Due. Lei… sa quale sia il sesso dell’altro.

— Tutti e due i feti sono femminili.

— Io volevo una bambina, sa? E adesso l’avrò.

— Allora porterà avanti la gravidanza?

— Oh, sì. Grazie per essere venuta, dottoressa.

Susan venne congedata. Nessuno l’accompagnò alla porta ma, quando stava per salire in automobile, Camden sfrecciò fuori dalla casa, senza cappotto. — Susan! Volevo ringraziarti. Per avere fatto tutta questa strada fin qui per comunicarci personalmente la notizia.

— Mi hai già ringraziato.

— Già. Be’. Sei sicura che il secondo feto non rappresenti una minaccia per mia figlia?

Susan disse deliberatamente: — Così come il feto alterato geneticamente non rappresenta una minaccia per quello concepito naturalmente.

Lui sorrise. Parlò con voce bassa e malinconica. — E pensi che questo dovrebbe importarmi altrettanto. Ma non è così. Perché mai dovrei fingere quel sentimento? Specialmente con te?

Susan aprì la portiera dell’auto. Non era ancora pronta, oppure aveva cambiato idea o qualcos’altro. A quel punto, però, Camden si chinò in avanti per chiudere la portiera e nei suoi modi non si notò nulla di incline al sentimento, nessun accenno di untuoso tentativo di ingraziarsela. — Farò meglio a ordinare un secondo recinto per giocare.

— Sì.

— E un secondo seggiolino per l’auto.

— Sì.

— Ma non una seconda balia per il turno di notte.

— Questo lo devi decidere tu.

— E tu. — Improvvisamente lui si chinò in avanti e la baciò in modo così cortese e rispettoso che Susan ne rimase sbalordita. Non l’avrebbero scioccata né lussuria né atteggiamento di conquista: questo invece sì. Camden non le diede l’opportunità di reagire: chiuse la portiera dell’auto e si incamminò nuovamente verso casa. Susan si diresse al cancello, con le mani che le tremavano sul volante, finché il divertimento non sostituì lo stupore: era stato un bacio deliberatamente distaccato, rispettoso, un enigma ben congegnato. E niente altro avrebbe potuto garantire altrettanto bene che ce ne sarebbe stato un altro.

Si chiese che nomi avrebbero dato i Camden alle figlie.


Il dottor Ong misurava a grandi passi il corridoio dell’ospedale in cui l’illuminazione era stata dimezzata di intensità. Dal reparto delle infermiere della Maternità un’infermiera avanzò di un passo come per fermarlo… era notte fonda, ben oltre il periodo delle visite… gli dette una bella occhiata in volto e svanì poi nuovamente all’interno della guardiola. Dietro l’angolo si trovava la vetrata che dava sulla nursery. Con suo grande dispetto, Susan Melling teneva il volto premuto contro il vetro. Con suo ulteriore dispetto, stava piangendo.

Ong si rese conto che non gli era mai piaciuta quella donna. Forse nessuna donna. Perfino quelle dotate di menti superiori non sembravano in grado di evitare di farsi fregare dalle loro emozioni.

— Guardi — disse Susan sorridendo un po’, asciugandosi il volto. — Dottore… guardi.

Al di là del vetro Roger Camden, con camice e mascherina, stava sollevando un neonato con la camicina bianca e una coperta rosa. Gli occhi azzurri di Camden… azzurri in modo quasi teatrale; un uomo non avrebbe mai dovuto avere occhi così appariscenti… scintillavano. La testa del neonato era ricoperta da una peluria bionda: aveva occhi enormi e la pelle rosata. Gli occhi di Camden da sopra la mascherina dicevano che nessun altro bambino aveva mai avuto quegli attributi.

Ong chiese: — Parto privo di complicazioni?

— Sì — rispose Susan Melling con un singulto. — È andato tutto perfettamente. Elizabeth sta bene. Sta dormendo. Non è magnifica? Quell’uomo possiede lo spirito più avventuroso che io abbia mai visto. — Si asciugò il naso su una manica; Ong comprese che era ubriaca. — Le ho mai detto che una volta sono stata fidanzata? Quindici anni fa, alla scuola di medicina. Ho rotto con lui perché stava diventando troppo comune, troppo noioso. Oh, Dio, non le dovrei raccontare queste cose, mi dispiace. Mi dispiace.

Ong si allontanò da lei. Al di là del vetro, Roger Camden depose la neonata in una piccola culla a rotelle. Il cartellino di riconoscimento su di essa diceva: NEONATA CAMDEN N° 1. 2.9 K.G. Un’infermiera del turno di notte guardò la scena con indulgenza.

Ong non aspettò per vedere Camden emergere dalla nursery o per sentire Susan Melling dire ciò che gli avrebbe detto. Ong andò a farsi chiamare l’ostetrico. Il rapporto della Melling, date le circostanze, non era completamente attendibile. Si trattava di un’occasione perfetta e senza precedenti per analizzare ogni dettaglio sull’alterazione genetica con un campione di confronto non alterato, e la Melling mostrava più interesse per le sue sdolcinate emozioni. Ong, ovviamente, avrebbe dovuto occuparsi personalmente del rapporto, dopo avere parlato con l’ostetrico. Era bramoso di ottenere ogni dettaglio e non solo sulla neonata dalle guance rosate che si trovava fra le braccia di Camden. Voleva sapere tutto sulla nascita della bambina nella culla a fianco: NEONATA CAMDEN N° 2. 2.5 KG. La bambina dai capelli scuri con il viso a chiazze rosse rannicchiata nella coperta rosa, addormentata.

2

Il primo ricordo di Leisha fu di linee fluttuanti che non erano li. Sapeva che non c’erano perché, quando lo allungò per afferrarle, il suo pugnetto restò vuoto. Si rese conto, successivamente, che le linee fluttuanti erano luce: raggi di sole che si inclinavano in strisce tra le tendine della sua stanza, tra gli scuri in legno della sala da pranzo, fra le grate incrociate della serra. Il giorno in cui comprese che il flusso dorato era luce rise forte per la pura gioia della scoperta, e Papà si voltò, smettendo di invasare fiori, e le sorrise.

L’intera casa era piena di luce. La luce riverberava dal lago, scorreva sugli alti soffitti bianchi, formava chiazze sui lucidi pavimenti in legno. Lei e Alice si muovevano in continuazione attraverso la luce, e a volte Leisha si fermava e tirava indietro la testa perché quella luce le inondasse il volto. Riusciva a sentirla, quasi fosse acqua.

La luce migliore, ovviamente, era quella della serra. Era lì che a Papà piaceva stare quando era a casa e non stava a far soldi. Papà invasava le piante e annaffiava gli alberi, fischiettando mentre Leisha e Alice correvano fra le tavole di legno cariche di fiori che emanavano meravigliosi profumi di terra; correvano dalla parte in ombra della serra dove crescevano i grandi fiori color porpora fino al lato a sole con i suoi spruzzi di fiori gialli, scorrazzando avanti e indietro, dentro e fuori dalla luce. — Sviluppo i fiori che mantengono la loro promessa — le diceva Papà. — Alice, sta’ attenta! Hai quasi fatto ribaltare quell’orchidea! — Alice, obbediente, smetteva di correre per un po’. Papà non diceva mai a Leisha di smettere di correre.

Dopo qualche tempo la luce se ne andava. Alice e Leisha facevano il bagno, e poi Alice si mostrava più tranquilla o capricciosa, Non voleva giocare con Leisha, nemmeno se Leisha le lasciava scegliere il gioco o prendere le bambole migliori. A quel punto, la Tata portava a letto Alice e Leisha parlava con Papà ancora un po’, finché lui non le diceva che doveva andare a lavorare nel proprio studio con tutte le carte che gli facevano fare soldi. Leisha provava sempre un istante di rammarico perché lui doveva andarsene per quel motivo, ma il momento non durava mai a lungo perché arrivava Mamselle e iniziava le lezioni di Leisha, che a lei piacevano molto. Era così interessante imparare le cose! Sapeva già cantare venti canzoni, scrivere tutte le lettere dell’alfabeto e contare fino a cinquanta. Nel momento in cui le lezioni erano terminate, la luce era tornata ed era tempo di colazione.

Quello della colazione era l’unico momento che a Leisha non piaceva. Papà era già andato in ufficio, e Leisha e Alice consumavano la colazione con la Mamma nella grande sala da pranzo. La Mamma era seduta, indossava una vestaglia rossa che a Leisha piaceva e non aveva lo strano odore o lo strano modo di parlare che la caratterizzavano più avanti, nella giornata; tuttavia la colazione non era divertente. La Mamma iniziava sempre con La Domanda.

— Alice, tesoro, come hai dormito?

— Bene, Mamma.

— Hai fatto dei bei sogni?

Per un lungo periodo la risposta di Alice fu no. Quindi un giorno disse: — Ho sognato un cavallo. Lo stavo cavalcando. — La Mamma batté le mani, baciò Alice e le dette un’ulteriore ciambellina. Da quel momento in poi, Alice ebbe sempre un sogno da raccontare alla Mamma.

Una volta Leisha disse: — Anch’io ho fatto un sogno. Ho sognato che la luce arrivava dalla finestra e mi avvolgeva come una coperta e poi mi baciava sugli occhi.

La Mamma appoggiò la tazza di caffè sulla tavola così bruscamente che il caffè si riversò fuori. — Non dirmi bugie, Leisha. Non hai fatto alcun sogno.

— Sì, invece — insistette Leisha.

— Solo i bambini che dormono possono sognare. Non dirmi bugie. Tu non hai sognato.

— Sì invece! Sì! — gridò Leisha. Riusciva quasi a vederlo: la luce che scorreva attraverso la finestra e le si avvolgeva attorno come una coperta dorata.

— Non tollererò una bambina bugiarda! Mi hai capito, Leisha… non lo tollererò!

— Sei tu la bugiarda! — gridò Leisha, sapendo che le parole non erano vere, odiandosi perché non erano vere ma odiando la Mamma ancor di più, e anche questo era sbagliato e c’era lì Alice seduta, paralizzata, con gli occhi sbarrati; Alice era terrorizzata ed era colpa di Leisha.

La Mamma chiamò con voce tagliente: — Tata! Tata! Porti immediatamente Leisha nella sua camera. Non può restare seduta in mezzo a persone civili se non riesce a trattenersi dal dire bugie!

Leisha cominciò a piangere. La Tata la portò fuori dalla sala. Leisha non aveva fatto nemmeno colazione. Tuttavia non era quello che le importava: ciò che riusciva a vedere mentre piangeva erano gli occhi di Alice, terrorizzati in quel modo, che riflettevano spezzoni di luce.

Leisha non pianse a lungo. La Tata le raccontò una storia e giocò con lei a "salta i dati", quindi arrivò anche Alice e la Tata le portò tutt’e due allo zoo di Chicago dove c’erano bellissimi animali da vedere, animali che Leisha non poteva aver sognato… e neanche Alice. Quando furono tornate a casa, la Mamma si era chiusa in camera; Leisha seppe che sarebbe rimasta lì per il resto della giornata con i bicchieri pieni di quella strana roba puzzolente e che non l’avrebbe più vista.

Quella notte, però, entrò nella camera di sua madre.

— Devo andare in bagno — disse a Mamselle. Mamselle le chiese: — Hai bisogno di aiuto? — forse perché Alice ne aveva ancora bisogno quando andava in bagno. Leisha invece no e ringraziò Mamselle. Restò seduta sul water per un minuto, anche se non le scappava nulla, così che quello che aveva detto a Mamselle non fosse una bugia.

Leisha avanzò in punta di piedi lungo il corridoio. Entrò dapprima nella camera di Alice. Accanto alla culla, in una presa a parete, riluceva una piccola lampadina. Nella camera di Leisha non c’erano culle. Leisha fissò la sorella attraverso le sbarre. Alice giaceva su un fianco con gli occhi chiusi. Le palpebre le tremolavano velocemente, come tendine mosse dal vento. Il collo e il mento di Alice sembravano abbandonati.

Leisha chiuse la porta con estrema cautela e andò nella camera dei genitori.

Loro non dormivano in una culla ma in un letto immenso, con tanto spazio fra loro due da poter accogliere altre persone. Le palpebre della Mamma non fremevano: giaceva sulla schiena producendo uno strano rumore col naso, hrrr-hrrr. Su di lei lo strano odore era davvero forte. Leisha si allontanò sempre in punta di piedi e si avvicinò a Papà. Aveva lo stesso aspetto di Alice, solo che aveva collo e mento che apparivano ancora più abbandonati, mostrava pieghe di pelle che ricadevano come la tenda che era caduta nel giardino. Leisha si spaventò vedendolo in quel modo. A quel punto, gli occhi di Papà si aprirono così improvvisamente che Leisha strillò.

Papà rotolò giù dal letto, prendendola in braccio, e lanciò un’occhiata veloce alla Mamma. Lei tuttavia non si mosse. Papà indossava solamente le mutande. Portò Leisha nel corridoio, dove stava giungendo di corsa Mamselle dicendo: — Oh, signore, mi dispiace, ha detto solo che doveva andare in bagno…

— Non si preoccupi — rispose Papà. — La porterò con me.

— No! — gridò Leisha, perché Papà aveva addosso solo le mutande, e il suo collo era sembrato così strano e la stanza puzzava a causa della Mamma. Tuttavia Papà la portò nella serra, la appoggiò su una panca, si avvolse attorno un pezzo di telo in plastica verde che serviva per coprire le piante e si sedette accanto a lei.

— Adesso dimmi: che cos’è successo, Leisha? Che cosa stavi facendo?

Leisha non rispose.

— Stavi guardando la gente che dorme, vero? — disse Papà e, poiché la sua voce era molto dolce, Leisha bofonchiò. — Sì. — Si sentì immediatamente meglio: era bello non mentire.

— Stavi guardando la gente che dorme perché tu non dormi ed eri curiosa, vero? Come George il Curioso del tuo libro?

— Sì — rispose Leisha. — Avevo capito che tu stavi a fare soldi nel tuo studio tutta la notte!

Papà sorrise. — Non tutta la notte. In parte. Poi però dormo, anche se non molto — Si mise Leisha sulle ginocchia. — Non ho bisogno di molto sonno, e quindi riesco a fare molte più cose di notte rispetto alla maggior parte della gente. Persone diverse hanno bisogno di una diversa quantità di sonno. E poche, pochissime, sono come te. Tu non ne hai bisogno affatto.

— Perché no?

— Perché tu sei speciale. Migliore delle altre persone. Prima che tu nascessi ho chiesto ad alcuni dottori che ti facessero così.

— Perché?

— Perché tu potessi fare tutto quello che vuoi e manifestare la tua individualità.

Leisha si mosse fra le sue braccia per poterlo fissare: quelle parole non significavano nulla per lei. Papà allungò una mano e toccò un fiore singolo che stava crescendo su un alto albero in vaso. Il fiore mostrava spessi petali bianchi come la panna che lui versava nel caffè e, nel centro, era leggermente rosato.

— Vedi, Leisha… questo albero ha prodotto questo fiore. Perché può. Solamente questo albero può fare questo genere di fiore stupendo. La pianta che sta appesa laggiù non può e nemmeno quelle altre. Soltanto questo albero: di conseguenza, la cosa più importante al mondo per questo albero è far sbocciare questo fiore. Il fiore rappresenta l’individualità dell’albero resa manifesta: cioè solo il fiore e niente altro. Niente altro ha importanza.

— Non capisco, Papà.

— Capirai. Un giorno.

— Ma io voglio capire adesso - disse Leisha, e Papà si mise a ridere deliziato e la strinse forte. L’abbraccio faceva stare bene, ma Leisha continuava a voler capire.

— Quando fai i soldi, è quella la tua indiv… quella cosa?

— Sì — disse Papà allegramente.

— Allora nessun altro può fare soldi? Come solo quell’albero può fare quel fiore?

— Nessun altro può farlo proprio nel modo in cui lo faccio io.

— Che cosa fai con i soldi?

— Compero delle cose per te. Questa casa, i tuoi vestiti, pago Mamselle per insegnarti, l’automobile in cui viaggiare.

— Che cosa fa l’albero con il fiore?

— Si gloria di esso — rispose Papà, il che non aveva alcun senso. — È la superiorità quello che conta, Leisha. L’eccellenza sostenuta dallo sforzo individuale. E questo è tutto ciò che conta.

— Ho freddo, Papà.

— Allora sarà meglio che ti riporti da Mamselle.

Leisha non si mosse. Toccò il fiore con un dito. — Voglio dormire, Papà.

— No, tesoro. Il sonno è solamente una perdita di tempo, vita sprecata. È una piccola morte.

— Alice dorme.

— Alice non è come te.

— Alice non è speciale?

— No. Tu lo sei.

— Perché non hai fatto speciale anche Alice?

— Alice si è fatta da sola. Non ho avuto l’opportunità di renderla speciale.

Quell’intera storia era troppo difficile. Leisha smise di accarezzare il fiore e scivolò giù dalle ginocchia del padre. Lui le sorrise. — La mia piccola interrogatrice. Quando crescerai troverai anche tu la tua eccellenza e si tratterà di un nuovo ordine, un modo di essere speciale che il mondo non ha mai conosciuto. Potresti essere perfino come Kenzo Yagai. Lui ha creato il generatore Yagai che fornisce energia al mondo.

— Papà, sei buffo tutto avvolto in quel telo di plastica per fiori. — Leisha si mise a ridere. Anche Papà rise. Lei, però, aggiunse: — Quando crescerò farò sì che la mia eccezionaiità trovi un modo per rendere speciale anche Alice — e il Papà smise di ridere.

La riportò da Mamselle, che le insegnò a scrivere il suo nome, cosa talmente eccitante che le fece dimenticare la sconcertante discussione con il padre. Erano sei lettere, tutte diverse e insieme formavano il suo nome. Leisha lo scrisse in continuazione, ridendo, e anche Mamselle rise. Successivamente, nella mattinata, Leisha ripensò alla chiacchierata col padre. Ci pensò spesso, rigirando le parole così poco familiari nella mente come piccoli sassi duri, ma la parte a cui pensò di più non era una parola. Era l’espressione corrucciata sul volto di Papà quando lei gli aveva detto che avrebbe usato la propria eccezionalità per rendere speciale anche Alice.


Ogni settimana la dottoressa Melling andava a trovare Leisha e Alice, a volte da sola, a volte con altre persone. Sia a Leisha sia ad Alice la dottoressa Melling piaceva molto perché rideva un sacco e aveva occhi brillanti e affettuosi. Spesso c’era anche Papà. La dottoressa Melling giocava con loro, prima con Alice e Leisha separatamente e poi insieme, Scattava loro fotografie e le pesava. Le faceva stendere su una tavola e appiccicava loro piccole cose metalliche sulle tempie, il che sembrava un po’ spaventoso ma non lo era, in realtà, perché c’erano sempre tanti macchinari da guardare e producevano tutti rumori interessanti mentre loro restavano stese lì. La dottoressa Melling era brava quanto Papà a rispondere alle domande. Una volta Leìsha aveva chiesto: — La dottoressa Melling è una persona speciale? Come Kenzo Yagai? — Papà aveva riso, lanciando un’occhiata alla dottoressa Melling, e aveva risposto: — Oh, decisamente sì.

Quando Leisha compì cinque anni, lei e Alice iniziarono a frequentare la scuola. L’autista di Papà le portava ogni giorno a Chicago. Erano in classi differenti e questo seccava moltissimo a Leisha. I bambini nella classe di Leisha erano tutti più grandi tuttavia, dal primo giorno, lei adorò la scuola, col suo affascinante equipaggiamento scientifico, i cassetti elettronici pieni di misteri matematici e gli altri bambini con cui cercare le nazioni sulle carte geografiche. Dopo metà anno era stata spostata in un’altra classe, in cui i bambini erano ancora più grandi, ma anche quelli si erano dimostrati carini con lei. Leisha cominciò a imparare il giapponese. Le piaceva dipingere i magnifici caratteri sulla spessa carta bianca. — La Sauley School è stata un’ottima scelta — disse Papà.

Ad Alice, invece, la Sauley School non piaceva affatto. Voleva andare a scuola con lo stesso pulmino giallo della figlia di Cook. Alla Sauley School piangeva e buttava tutti i disegni sul pavimento. Poi la Mamma era uscita dalla sua camera… Leisha non l’aveva vista per qualche settimana, anche se sapeva che invece Alice era stata con lei… e aveva gettato a terra alcuni candelieri che si trovavano sulla cappa del caminetto. I candelieri, che erano di porcellana, si erano rotti. Leisha era corsa a raccogliere i pezzi mentre la Mamma e Papà avevano continuato a gridarsi contro a vicenda, nell’atrio presso la grande scalinata.

— È anche mia figlia! E io dico che può andare!

— Non hai il diritto di dire proprio niente in proposito! Piagnucolosa ubriacona, il più marcio dei modelli possibili per entrambe. E io che pensavo di essermi preso un’elegante aristocratica inglese!

— Hai quello per cui hai pagato! Nulla! Non che tu abbia mai avuto bisogno di niente né da me né da nessun altro!

— Smettetela! — gridò Leisha. — Smettetela! — Ci fu silenzio nell’atrio. Leisha si tagliò le dita con i frammenti di porcellana: il sangue cominciò a colare sul tappeto. Papà le corse incontro e la prese in braccio. — Smettetela! — singhiozzò Leisha e non comprese quando suo padre le disse tranquillamente: — Tu devi smetterla, Leisha. Nulla di ciò che fanno loro dovrebbe toccarti. Devi essere almeno così forte.

Leisha nascose il volto sulla spalla del padre. Alice venne trasferita alla scuola elementare Carl Sandburg e prese a recarvisi con lo stesso pulmino giallo della figlia dei Cook.

Una settimana dopo, Papà disse loro che la Mamma si sarebbe dovuta ricoverare in un ospedale per smetterla di bere così tanto. Quando la Mamma fosse uscita, disse lui, sarebbe andata a vivere da un’altra parte per qualche tempo. Lei e Papà non erano felici. Leisha e Alice sarebbero rimaste con Papà e avrebbero visitato la Mamma ogni tanto. Comunicò loro queste cose con grande attenzione, cercando le parole più adatte alla verità. La verità era molto importante, Leisha lo sapeva già. Verità significava essere fedeli a se stessi, al proprio essere speciali. Alla propria individualità. Un individuo rispettava i fatti e quindi diceva sempre la verità.

La Mamma, Papà non lo disse ma Leisha lo sapeva lo stesso, non rispettava i fatti.

— Non voglio che la Mamma vada via — disse Alice. Cominciò quindi a piangere. Leisha pensò che Papà avrebbe preso in braccio Alice, ma lui non lo fece. Rimase semplicemente in piedi, guardandole tutt’e due.

Leisha abbracciò Alice. — Va tutto bene, Alice. Va tutto bene! Noi faremo in modo che vada tutto bene! Giocherò con te per tutto il tempo che non saremo a scuola e così non sentirai tanto la mancanza della Mamma!

Alice strinse forte Leisha. Leisha voltò la testa per non essere costretta a vedere il volto del padre.

3

Kenzo Yagai doveva arrivare negli Stati Uniti per una conferenza. L’argomento del discorso, che avrebbe tenuto a New York, Los Angeles e Chicago, con una replica a Washington in qualità di intervento speciale al Congresso, era "ulteriori implicazioni politiche dell’energia a basso costo". Leisha Camden, che aveva undici anni, gli sarebbe stata presentata personalmente dopo la conferenza di Chicago, come aveva organizzato suo padre.

La piccola aveva studiato la teoria della fusione a freddo a scuola, e il suo insegnante di studi generali aveva evidenziato i cambiamenti avvenuti nel mondo a causa delle applicazioni a basso costo del brevetto di Yagai su ciò che, fino alla sua scoperta, era stata una teoria irrealizzabile: la crescente prosperità del Terzo Mondo; gli spasimi mortali dei vecchi sistemi comunisti; il declino degli stati petroliferi; il rinnovato potere economico degli Stati Uniti. Il gruppo di studi di Leisha aveva preparato un servizio giornalistico, e lo aveva filmato con l’equipaggiamento professionale della scuola, su come viveva una famiglia americana del 1985 con l’energia ad alto costo e la fiducia nell’assistenzialismo dovuto alle tasse e su come viveva, invece, una famiglia del 2019 con l’energia a basso costo e la fiducia nel contratto come base di civiltà. Leisha era rimasta sconcertata da alcune parti della sua ricerca.

— Il Giappone considera Kenzo Yagai un traditore del paese — disse a suo padre durante la cena.

— No — rispose Camden — "alcuni" giapponesi lo pensano. Diffida sempre delle generalizzazioni, Leisha. Yagai ha brevettato e patentato l’energia-Y negli Stati Uniti perché qui esistevano, quanto meno, le braci morenti dell’iniziativa individuale. Grazie alla sua invenzione, il nostro intero paese è lentamente tornato verso la meritocrazia individuale e il Giappone è stato lentamente costretto a seguirlo.

— Tuo padre ha sempre creduto in questo — fece Susan. — Leisha, mangia i piselli. — Leisha mangiò i piselli. Susan e Papà erano sposati da meno di un anno: le faceva ancora un’impressione un po’ strana averla lì, ma era gradevole. Papà diceva che Susan rappresentava un valido apporto all’unità familiare: intelligente, motivata e allegra. Proprio come Leisha.

— Ricorda, Leisha — disse Camden — un uomo valido per la società e per se stesso non si basa su quello che pensa che altre persone dovrebbero fare, essere o sentire, ma su se stesso. Su quello che sa effettivamente fare e fare bene. La gente si scambia ciò che sa fare bene e tutti ne traggono beneficio. Lo strumento basilare della civiltà è il contratto. I contratti sono volontari e portano a un mutuo beneficio, al contrario della coercizione, che è sbagliata.

— Il forte non ha alcun diritto di prendere una qualsiasi cosa al debole usando la forza — disse Susan. — Alice, mangia anche tu i piselli, tesoro.

— Né il debole di prendere qualsiasi cosa con forza a chi è forte — proseguì Camden. — Ecco la base di quello che sentirai dire da Kenzo Yagai questa sera, Leisha.

Alice interruppe: — A me non piacciono i piselli.

Camden ribatté: — Al tuo corpo sì. Ti fanno bene.

Alice sorrise. Leisha si sentì alleggerire il cuore: Alice non sorrideva più frequentemente a tavola. — Il mio corpo non ha un contratto con i piselli.

Camden disse, con una certa impazienza: — Sì che ce l’ha. Il tuo corpo trae beneficio dai piselli. Adesso mangia.

Il sorriso di Alice svanì. Leisha abbassò lo sguardo sul proprio piatto. All’improvviso vide una via di fuga. — No, Papà, ascolta: il corpo di Alice trae beneficio, ma i piselli no! Non lo si può considerare un mutuo beneficio e quindi non è un contratto! Alice ha ragione!

Camden eruppe in una breve risata. Disse quindi a Susan: — Undici anni… undici. - Perfino Alice sorrise, e Leisha agitò il cucchiaio con espressione trionfante, mentre la luce scintillava sulla cavità danzando in un argenteo luccichio sulla parete opposta.

Nonostante tutto, Alice non ne volle sapere di andare a sentire Kenzo Yagai. Sarebbe andata a dormire a casa della sua amica Julie: si sarebbero messe i bigodini a vicenda. Cosa ancora più sorprendente, nemmeno Susan sarebbe andata. Lei e Papà si guardarono in modo un po’ strano sulla porta di casa, pensò Leisha, ma era troppo eccitata per degnare la cosa di eccessiva attenzione. Doveva andare a sentire Kenzo Yagai.

Yagai era un uomo piccolo, magro e scuro. A Leisha piacque subito la sua inflessione. Le piacque anche qualcosa di lui cui non riuscì immediatamente a dare un nome. — Papà — sussurrò nella penombra dell’auditorium — è un uomo gioioso.

Papà la abbracciò nell’oscurità.

Yagai parlò di spiritualità e di economia. — La spiritualità di un uomo, che è solamente la sua dignità come uomo, poggia sui suoi sforzi. Dignità e valore non si acquisiscono automaticamente per natali aristocratici: dobbiamo guardare semplicemente alla storia per rendercene conto. Dignità e valore non si acquisiscono automaticamente grazie a ricchezze ereditate. Un grande erede può dimostrarsi un ladro, uno scialacquatore, un uomo crudele, uno sfruttatore, una persona che lascia il mondo molto più povero di quanto non l’abbia trovato. Né dignità e valore vengono acquisiti automaticamente con l’esistenza di per sé. Esiste anche un omicida multiplo, ma risulta di valore negativo per la sua società e, nella frenesia di uccidere, non possiede alcuna dignità.

"No, l’unica dignità, l’unica spiritualità ha origine da quello che un uomo è in grado di realizzare con i propri sforzi. Deprivare un uomo della possibilità di realizzarsi e di commerciare con altri ciò che lui realizza, equivale a deprivarlo della sua dignità spirituale di uomo. Ecco il motivo per cui, nel nostro tempo, il comunismo ha fallito. Ogni coercizione, ogni azione di forza per togliere a un uomo i suoi sforzi per realizzarsi, provoca danneggiamento spirituale e indebolisce una società. Coscrizione, furto, frode, violenza, assistenzialismo, mancanza di rappresentazione legislativa: "tutto" deruba un uomo della sua possibilità di scegliere, di realizzare per proprio conto, di scambiare i risultati delle sue realizzazioni con altri. La coercizione è un inganno. Non produce nulla di nuovo. Solamente la libertà… la libertà di realizzare, la libertà di commerciare i risultati dei propri sforzi… crea un ambiente adeguato alla dignità e alla spiritualità dell’uomo.

Leisha applaudì con tale foga da farsi male alle mani. Recandosi dietro le quinte con suo padre pensò che era in grado a mala pena di respirare. Kenzo Yagai!

Le quinte però erano più affollate di quanto non si fosse aspettata. C’erano telecamere dappertutto. Papà disse: — Signor Yagai, posso presentarle mia figlia Leisha? — e le telecamere avanzarono chiudendo velocemente… su di lei. Un uomo giapponese sussurrò qualcosa all’orecchio di Kenzo Yagai e lui esaminò Leisha più attentamente. — Oh, sì.

— Guarda da questa parte, Leisha — gridò qualcuno, e lei lo fece. Una telecamera robotizzata zoomò in una ripresa talmente ravvicinata al suo volto che Leisha indietreggiò di un passo, spaventata. Papà parlò con voce davvero tagliente a qualcuno, quindi a qualcun altro.

Le telecamere non si mossero. Una donna si inginocchiò improvvisamente davanti a Leisha e protese un microfono verso di lei. — Che effetto fa non dormire mai, Leisha?

— Come?

Qualcuno si mise a ridere. Non si trattava di una risata gradevole. — Geni di allevamento…

Leisha avvertì una mano sulla spalla. Kenzo Yagai l’afferrò molto saldamente e la trascinò via dalle telecamere. Immediatamente, come per magia, una linea di uomini giapponesi si formò alle spalle di Yagai, aprendosi soltanto per lasciar passare Papà. Dietro la linea, i tre si mossero in direzione di un camerino, e Kenzo Yagai chiuse la porta.

— Non devi permettere loro di infastidirti, Leisha — le disse col suo meraviglioso accento. — Mai. C’è un antico proverbio orientale: "I cani latrano ma la carovana prosegue". Non devi mai permettere che la tua carovana individuale venga rallentata dal latrare di cani rozzi e invidiosi.

— Non lo farò — disse Leisha con un sospiro, ancora non del tutto sicura di cosa significassero quelle parole, sapendo che avrebbe avuto tempo in seguito per comprenderle, per parlarne con Papà. Per il momento era abbacinata da Kenzo Yagai in carne e ossa, l’uomo che stava cambiando il mondo senza usare la forza, senza fucili, commerciando soltanto i suoi speciali sforzi individuali. — Nella mia scuola studiamo la sua filosofia, signor Yagai.

Kenzo Yagai guardò Papà, e quest’ultimo disse: — È una scuola privata. La studia però anche la sorella di Leisha, un po’ superficialmente, nel sistema scolastico pubblico. Piano, piano, Kenzo, ma arriverà. Arriverà. — Leisha notò che lui non disse il motivo per cui Alice non si trovava lì con loro, quella sera.

Tornati a casa, Leisha rimase seduta per ore nella sua camera a ripensare a tutto ciò che era accaduto. Quando Alice rientrò da casa di Julie la mattina successiva, Leisha le corse incontro. Alice tuttavia sembrava infuriata per qualcosa.

— Alice… cosa c’è?

— Non pensi che io debba già sopportare anche troppo a scuola? — le gridò Alice. — Tutti lo sanno, ma almeno finché sei stata zitta non è stato eccessivamente importante! Avevano smesso di prendermi in giro! Perché lo hai fatto?

— Fatto che cosa? — chiese Leisha, sconcertata.

Alice le gettò qualcosa: l’edizione mattutina di un giornale stampato su carta più sottile di quella usata dai sistemi Camden. Il giornale si aprì cadendo ai piedi di Leisha. La ragazzina fissò la propria immagine, larga tre colonne, con Kenzo Yagai. Il titolo diceva: YAGAI E IL FUTURO. CI SARÀ SPAZIO PER IL RESTO DI NOI? L’INVENTORE DELL’ENERGIA-Y A COLLOQUIO CON LA FIGLIA "SENZA SONNO" DEL MEGAFINANZIERE ROGER CAMDEN.

Alice dette un calcio al giornale. — Ieri sera è apparsa anche in tivù… in tivù. Io faccio una faticaccia per non sembrare boriosa o viscida, e tu esci e mi combini una cosa simile! Adesso Julie non mi inviterà probabilmente più al suo pigiama-party la settimana prossima! — Sfrecciò su per l’ampia scalinata curva verso la sua camera.

Leisha abbassò lo sguardo sul giornale. Udì nella testa la voce di Kenzo Yagai: "I cani latrano ma la carovana prosegue". La ragazzina fissò la scalinata vuota. A voce alta, disse: — Alice… ti stanno davvero bene i capelli arricciati in quel modo.

4

— Voglio incontrare il resto di loro — disse Leisha. — Perché me ne hai tenuta lontano così a lungo?

— Non ti ho tenuta affatto lontano da loro — rispose Camden. La non offerta non equivale al rifiuto. Perché non saresti dovuta essere tu a chiedere? Adesso sei tu quella che lo vuole.

Leisha lo guardò. Aveva quindici anni, all’ultimo anno della Sauley School. — Perché non me lo hai offerto?

— Perché avrei dovuto farlo?

— Non lo so — disse Leisha. — Ma mi hai dato tutto il resto.

— Inclusa la libertà di chiedere quello che vuoi.

Leisha cercò la contraddizione e la trovò. — Non ti ho chiesto la maggior parte delle cose che mi hai fornito per la mia istruzione, perché io non sapevo abbastanza da poter chiedere e tu, come adulto, sì. Non mi hai mai offerto, tuttavia, l’opportunità di incontrare alcuno degli altri mutanti insonni…

— Non usare quel termine — replicò Camden tagliente.

— …quindi o pensavi che non fosse una cosa essenziale per la mia istruzione oppure dovevi avere qualche altro motivo per non volere che io li incontrassi.

— Sbagliato — ribatté Camden. — Esiste una terza possibilità: che io pensi che sia essenziale per la tua istruzione, che io voglia che tu lo faccia, ma che questo problema abbia fornito un’opportunità per approfondire l’educazione all’iniziativa personale aspettando che fossi tu a chiedere.

— D’accordo — fece Leisha in tono di moderata sfida: sembrava essersi creato un forte atteggiamento di sfida fra loro due, ultimamente, senza alcun buon motivo. La ragazza si inquartò nelle spalle. Spinse in avanti il seno che da poco aveva cominciato a farsi pronunciato. — Adesso lo sto chiedendo. Quanti Insonni ci sono, chi sono e dove sono?

Camden rispose: — Se usi quel termine "gli Insonni", vuole dire che hai già letto qualcosa per conto tuo. Quindi sai con tutta probabilità che siete in milleottantadue negli Stati Uniti fino a questo momento, altri in paesi stranieri, la maggior parte nelle più grandi aree metropolitane. Ce ne sono settantanove a Chicago, per lo più bambini piccoli. Solamente diciannove sono più grandi di te.

Leisha non negò di avere già letto quelle cose. Camden si sporse in avanti nella poltrona dello studio per scrutarla. Leisha si chiese se non avesse bisogno di occhiali. Ormai i capelli dell’uomo erano completamente grigi, radi e rigidi, come solitari ciuffi di saggina. Il "Wall Street Journal" lo indicava fra i cento uomini più ricchi d’America; il "Women’s Wear Daily" sottolineava che lui era l’unico miliardario del paese a non frequentare la società delle Feste internazionali, dei balli di beneficenza e delle segreterie sociali. Il jet di Camden lo portava a riunioni di affari in tutto il mondo, al consiglio di amministrazione dell’Istituto di Economia Yagai e in pochissimi altri luoghi. Nel corso degli anni era divenuto sempre più ricco, più isolato, più cerebrale. Leisha provò un’ondata del vecchio affetto.

Si gettò di lato su una poltrona in pelle con le gambe lunghe e sottili che pendevano da sopra il bracciolo. Si grattò distrattamente una puntura di zanzara che aveva sulla coscia. — Benissimo, allora, mi piacerebbe incontrare Richard Keller. — Abitava a Chicago ed era l’Insonne beta-test più vicino alla sua età. Il ragazzo aveva diciassette anni.

— Perché lo chiedi a me? Perché non ci vai e basta?

Leisha pensò di avvertire una nota di impazienza nella voce del padre. Gli piaceva che fosse lei a esplorare per prima le situazioni, per poi parlarne con lui in seguito. Tutt’e due le parti erano importanti.

Leisha si mise a ridere. — Sai una cosa, Papà? Sei prevedibile.

Anche Camden si mise a ridere. Nel bel mezzo della risata arrivò Susan. — Non lo è di sicuro. Roger, che mi dici del meeting a Buenos Aires di giovedì? Ci vai o no? — Visto che lui non rispose, la voce della donna si fece più stridula. — Roger? Sto parlando con te!

Leisha distolse lo sguardo. Due anni prima Susan aveva abbandonato il campo della ricerca genetica per gestire la casa e l’agenda di Camden; prima di allora aveva cercato strenuamente di fare tutt’e due le cose. A Leisha sembrava che Susan, da quando aveva lasciato la Biotech, fosse cambiata. Aveva un tono di voce più duro. Insisteva molto di più perché Cook e il giardiniere seguissero le sue istruzioni alla lettera, senza deviare. La sua chioma bionda era divenuta una rigida scultura di onde color platino.

— Ci vado — rispose Roger.

— Be’, grazie per avermi quanto meno risposto. Devo andare?

— Se desideri.

— Desidero.

Susan lasciò la stanza. Leisha si alzò e si stiracchiò. Le sue gambe lunghe si alzarono sulla punta dei piedi. Era bello stiracchiarsi, allungarsi, sentire la luce del sole proveniente dalle ampie finestre inondarle il volto. Sorrise a suo padre e lo trovò a fissarla con un’espressione che non si aspettava.

— Leisha…

— Cosa c’è?

— Vai a trovare Keller. Ma stai attenta.

— A cosa?

Camden, però, non le rispose.


La voce al telefono era stata indifferente. — Leisha Camden? Si, so chi sei. Giovedì alle tre? — La casa era modesta, un edificio coloniale di trent’anni in una tranquilla strada dei sobborghi dove i bambini piccoli sulle biciclette potevano essere osservati e controllati dalla finestra. Pochi tetti avevano più di una cellula a energia-Y. Gli alberi, vecchi e immensi aceri canadesi, erano magnifici.

— Entra — disse Richard Keller.

Non era più alto di lei, era robusto e aveva una brutta acne. Probabilmente non aveva subito altre alterazioni genetiche oltre quella relativa al sonno, immaginò Leisha. Aveva folti capelli scuri, fronte bassa e sopracciglia nere e cespugliose. Prima che chiudesse la porta, Leisha lo vide fissare la sua automobile con autista parcheggiata nel vialetto accanto a una bicicletta arrugginita a dieci marce.

— Non posso ancora guidare — disse lei. — Ho solo quindici anni.

— Imparare è facile — commentò Richard. — Allora, mi vuoi dire perché sei qui?

Leisha gradì i modi diretti. — Per conoscere qualche altro Insonne.

— Vuoi dire che non ne hai mai incontrati? Nemmeno uno di noi?

— E tu vuoi dire che il resto di voi si conosce già? — La ragazza non se l’era aspettato.

— Vieni nella mia stanza, Leisha.

Lei lo seguì sul retro della casa. Sembrava non esserci nessun altro. La stanza di Richard era ampia e arieggiata, piena di computer e schedari. C’era un vogatore in un angolo: sembrava una versione più trascurata della camera di un qualsiasi brillante compagno di scuola della Sauley, solo che la mancanza di un letto la rendeva più spaziosa. Leisha si avvicinò al video del computer.

— Ehi, stai lavorando alle equazioni di Boesc?

— Una loro applicazione.

— Per che cosa?

— Schemi delle migrazioni dei pesci.

Leisha sorrise. — Già, andrebbe bene. Non ci avevo mai pensato.

Richard sembrò non sapere che farsene del suo sorriso. Fissò la parete, quindi il mento di lei. — Ti interessi degli schemi geologici? Dell’ambiente?

— Be’, no — confessò Leisha. — Non in particolare. Io andrò a studiare scienze politiche ad Harvard. Propedeutico a legge. Ovviamente, però, abbiamo studiato gli schemi geologici a scuola.

Finalmente lo sguardo di Richard le si scollò dal volto. Lui si passò una mano nei capelli scuri. — Siedi pure, se vuoi.

Leisha si sedette osservando, con ammirazione, i poster alle pareti che ondeggiavano dal verde al blu come correnti oceaniche.

— Mi piacciono molto. Li hai programmati da solo?

— Non sei affatto come ti avevo immaginato — disse Richard.

— Come mi avevi immaginato?

Lui non esitò. — Snob. Superba. Superficiale nonostante l’alto quoziente intellettivo.

Lei restò più ferita di quanto non si sarebbe aspettata.

Richard sbottò: — Sei una dei due unici Insonni veramente ricchi. Tu e Jennifer Sharifi. Ma lo sapevi già.

— No, non lo sapevo. Non avevo mai controllato.

Richard prese la sedia accanto a quella di lei, allungandosi davanti al corpo le gambe tozze in una posizione scomposta che non aveva nulla a che fare con il rilassamento. — È una cosa sensata, in realtà. Le persone ricche non fanno modificare geneticamente i figli perché siano superiori: ritengono che qualunque loro discendente sia già superiore. Secondo i loro valori. Le persone povere non se lo possono permettere. Noi Insonni proveniamo dall’alta classe media, niente più. Figli di professori, scienziati, gente che stima il cervello e il tempo.

— Anche mio padre stima cervello e tempo — disse Leisha. — È il più grande sostenitore di Kenzo Yagai.

— Oh, Leisha, pensi che non lo sapessi già? Ti stai vantando con me o cosa?

Leisha disse con tono estremamente ponderato: — Io sto parlando con te. — Un istante dopo, tuttavia, si rese conto del turbamento per l’offesa che le si diffondeva sul volto.

— Mi dispiace - bofonchiò Richard. Balzò via dalla seggiola e cominciò a camminare a lunghi passi avanti e indietro dal computer. — Mi dispiace davvero. Ma io non… non capisco che cosa ci fai tu qui.

— Io sono sola - disse Leisha, sorpresa di se stessa. Sollevò lo sguardo verso di lui. — È vero. Sono sola. Davvero. Ho degli amici, Papà e Alice. Ma nessuno sa realmente, capisce realmente… che cosa? Non so nemmeno io quello che sto dicendo.

Richard sorrise. Quel sorriso gli cambiò interamente il volto, aprendo alla luce le sue superfici scure. — Io si. Oh, se lo so. Che fai quando ti dicono "che razza di sogno ho fatto la notte scorsa"?

— Già! — replicò Leisha. — Ma è una cosa di minore importanza. Più che tutto quando io dico "te lo controllo io questa notte", e assumono tutti quella espressione strana che significa "lo farà mentre io dormo".

— Ma anche questa è una cosa da poco — ribatté Richard. — È quando giochi a pallacanestro in palestra dopo cena, poi mangi qualcosa e poi dici "andiamo a fare una passeggiata al lago" e ti rispondono "adesso sono davvero stanco, vado a casa a letto".

— Ma questo è meno importante ancora — disse Leisha balzando in piedi. — E quando sei preso da un film e si arriva al punto cruciale e tutto è così maledettamente bello che tu scatti su e gridi "Sì! Sì!" e Susan dice: "Leisha, credi davvero che nessuno oltre te abbia mai goduto di qualcosa?".

— Chi è Susan? — chiese Richard.

L’atmosfera si infranse. Non fino in fondo, però. Leisha riuscì a dire "la mia matrigna" senza provare un grande disagio per ciò che Susan aveva promesso di essere e ciò che invece era diventata. Richard era in piedi a qualche centimetro da lei, le sorrideva in quel modo gioioso, la comprendeva e, all’improvviso, Leisha si sentì avvolgere da un sollievo così forte che si diresse da lui e gli gettò le braccia al collo, irrigidendole solo quando si accorse dello scatto del ragazzo. Leisha cominciò a singhiozzare, lei che non piangeva mai.

— Ehi — disse Richard. — Ehi.

— Brillante — rispose Leisha, ridendo. — Commento brillante.

La ragazza si accorse dell’imbarazzo nel sorriso di lui. — Vuoi vedere le curve relative alla migrazione dei pesci?

— No — disse Leisha con un singulto, e lui continuò ad abbracciarla, dandole goffi colpetti sulla spalla, dicendole, senza usare parole, che lì era a casa.

Camden l’aspettò alzato benché fosse passata la mezzanotte. Aveva fumato molto. Disse con voce pacata attraverso l’aria azzurrina: — Ti sei divertita, Leisha?

— Sì.

— Ne sono felice — replicò lui; spense l’ultima sigaretta e salì le scale per andare a letto: lentamente, irrigidito, aveva quasi settant’anni ormai.


Si recarono insieme ovunque per circa un anno: a ballare, a nuotare, ai musei, a teatro, in biblioteca. Richard la presentò agli altri, un gruppo di dodici ragazzi fra i quattordici e i diciannove anni, tutti intelligenti e diligenti. Tutti Insonni.

Leisha imparava.

I genitori di Tony Indivino, come i suoi, avevano divorziato. Tony, quattordici anni, viveva con sua madre, però, che non aveva desiderato particolarmente un figlio Insonne, mentre suo padre, che lo aveva voluto, si era fatto un’automobile sportiva rossa e una giovane amante che progettava poltrone ergonomiche a Parigi. A Tony non era permesso di dire a nessuno, parenti, compagni di scuola, che era Insonne. — Penseranno che sei uno scherzo di natura — gli diceva sua madre, distogliendo lo sguardo dal volto del figlio. L’unica volta che Tony le disobbedì e disse a un amico che lui non dormiva mai, sua madre lo picchiò. Quindi traslocò in un quartiere diverso. Lui aveva nove anni.

Jeanine Carter, slanciata e dalle gambe lunghe quasi come quelle di Leisha, si stava preparando per le Olimpiadi di pattinaggio su ghiaccio. Si allenava dodici ore al giorno, tempo che ancora nessun Dormiente alle superiori si sarebbe potuto permettere. Al momento, nessun giornale si era impossessato della storia. Jeanine temeva che, se l’avessero resa pubblica, in qualche modo non le avrebbero permesso di gareggiare.

Jack Bellingham, come Leisha, avrebbe iniziato il college a settembre. A differenza di Leisha, tuttavia, aveva già iniziato la sua carriera. L’esercizio della legge doveva aspettare fino al conseguimento del diploma in legge; per effettuare investimenti invece erano necessari solamente i soldi. Jack non possedeva un gran che, ma le sue precise analisi finanziarie moltiplicarono i 600 dollari messi da parte con lavoretti estivi in 3.000 grazie a investimenti sul mercato azionario, quindi in 10.000 e, a quel punto, ebbe abbastanza da potersi qualificare per le speculazioni sui fondi informativi. Jack aveva quindici anni, non era grande abbastanza per potere effettuare investimenti legali, le transazioni avvenivano tutte a nome di Kevin Backer, il più anziano degli Insonni, che abitava ad Austin. Jack disse a Leisha: — Quando sono arrivato all’ottantaquattro per cento di profitto nel giro di due trimestri consecutivi, gli analisti dati mi hanno beccato. Solo una sbirciatina. Be’, è anche il loro mestiere, anche se le cifre nel complesso sono modeste. Sono gli schemi, che interessano loro. Se si prenderanno la briga di effettuare controlli incrociati nelle banche dati e scopriranno che Kevin è un Insonne non cercheranno di impedirci di investire, in un modo o nell’altro?

— Questa è paranoia — rispose Leisha.

— No, non lo è — ribatté Jeanine. — Leisha, tu non sai.

— Vuoi dire perché io sono stata protetta dalle coccole e dai soldi di mio padre? — fece Leisha. Nessuno sorrise: erano abituati tutti a confrontare le loro idee apertamente, senza velate allusioni. Senza sogni.

— Sì — rispose Jeanine. — Tuo padre sembra una persona davvero in gamba e ti ha cresciuta con il principio che le realizzazioni non devono essere messe in catene… Cristo Santo, è uno yagaista. Benissimo, d’accordo. Siamo contenti per te. — Lo disse senza alcun sarcasmo. Leisha annuì. — Ma il mondo non è sempre così. Ci odiano.

— Mi sembra un’affermazione troppo forte — intervenne Carol. Non è odio.

— Be’, forse — rispose Jeanine. — Ma loro sono diversi da noi. Noi siamo migliori e loro, naturalmente, sono risentiti.

— Non vedo proprio che cosa ci sia di naturale in questo — disse Tony. — Perché non dovrebbe essere altrettanto naturale ammirare ciò che è migliore? Noi lo facciamo. C’è forse qualcuno di noi che sia risentito contro Kenzo Yagai per la sua genialità? Oppure contro Nelson Wade, il fisico? O Catherine Raduski?

— Non siamo risentiti perché noi siamo migliori — ribatté Richard.

— Quello che dovremmo fare sarebbe avere una nostra società — disse Tony. — Perché dovremmo consentire alle loro regolamentazioni di limitare le nostre oneste e naturali realizzazioni? Perché a Jeanine dovrebbe essere impedito di pattinare contro di loro e a Jack di investire sulle stesse basi soltanto perché sono Insonni? Alcuni di loro sono più brillanti di altri. Alcuni hanno maggiore perseveranza. Be’, noi abbiamo una maggiore capacità di concentrazione, una maggiore stabilità biochimica e una maggiore disponibilità di tempo. Non tutti gli uomini sono stati creati uguali.

— Sii onesto, Jack: a nessuno è stato ancora impedito nulla — disse Jeanine.

— Ma lo sarà.

— Aspetta — intervenne Leisha. Era profondamente scossa per la conversazione. — Voglio dire, sì, per molti versi siamo migliori. La tua citazione però è stata a sproposito, Tony. La Dichiarazione di Indipendenza non dice che tutti gli uomini sono creati uguali in quanto ad abilità. Si tratta di diritti e di potere: significa che tutti sono uguali per la legge. Non abbiamo più diritto a una società separata, o a essere liberi dalle limitazioni della società, di qualsiasi altra persona. Non esiste alcun altro modo per commerciare liberamente i risultati dei nostri sforzi, a meno che le stesse regole contrattuali non si applichino a tutti.

— Parli come una vera yagaista — disse Richard, stringendole la mano.

— Ne ho abbastanza di discussioni da intellettuali — disse Carol ridendo. — Ce ne siamo occupati per ore. Siamo in spiaggia, per l’amor del cielo. Chi vuole venire a nuotare con me?

— Io — esclamò Jeanine. — Forza, Jack.

Si alzarono tutti, spazzolandosi la sabbia dai vestiti togliendo gli occhiali da sole. Richard aiutò Leisha ad alzarsi ma, appena prima che si tuffassero in acqua, Tony le appoggiò una mano sottile sul braccio. — Solo un’altra domanda, Leisha. Riflettici su. Se le nostre realizzazioni saranno migliori di quelle della maggior parte delle altre persone e se commerceremo con i Dormienti quando sarà di mutuo beneficio, senza fare distinzioni fra forti e deboli… che obbligo avremo nei confronti di coloro che sono così deboli da non avere nulla da scambiare con noi? Finiremo comunque per dare più di quanto non riceveremo: dovremo farlo anche quando non otterremo assolutamente nulla in cambio? Dovremo prenderci carico dei loro deformi, handicappati, malati, fannulloni e inetti con i prodotti del nostro lavoro?

— I Dormienti devono farlo? — ribatté Leisha.

— Kenzo Yagai direbbe di no. Lui è un Dormiente.

— Lui direbbe che ricevono i profitti del commercio contrattuale anche se non fanno parte direttamente del contratto. L’intero mondo è più sano e meglio rifornito grazie all’energia-Y.

— Venite! — gridò Jeanine. — Leisha, mi stanno buttando in acqua! Jack, smettila! Leisha, aiuto!

Leisha si mise a ridere. Appena prima di afferrare Jeanine, colse l’espressione sui volti di Richard e Tony: Richard era serenamente allegro, Tony infuriato. Con lei. Ma perché? Che cosa aveva mai fatto, eccetto discutere in favore della dignità e del commercio?

A quel punto Jack le gettò addosso dell’acqua, Carol spinse Jack nel caldo spruzzo e Richard fu lì con le braccia attorno a lei, ridendo.

Quando lei si tolse l’acqua dagli occhi si accorse che Tony se ne era andato.

Mezzanotte. — D’accordo — disse Carol. — Chi è il primo?

I sei ragazzi nella radura circondata da rovi si guardarono l’un l’altro. Una lampada a energia-Y, tenuta accesa, per creare un po’ di atmosfera, proiettava ombre inquietanti sui loro volti e sulle loro gambe nude. Attorno alla radura, gli alberi di Roger Camden si ergevano fitti e scuri formando una parete fra loro e la più vicina delle dépendance della casa, Era molto caldo. L’aria di agosto incombeva pesante, cupa. Avevano votato decidendo di non portare un campo-Y ad aria condizionata perché quello doveva essere un ritorno al primitivo, al pericoloso: che fosse primitivo.

Sei paia di occhi fissarono il bicchiere che Carol teneva in mano.

— Forza — disse lei. — Chi vuole bere? — Aveva una voce baldanzosa, aspra in modo teatrale. — È già stato abbastanza difficile recuperare questa roba.

— Ma come hai fatto? — chiese Richard, il membro del gruppo, a parte Tony, con le minori conoscenze familiari influenti e la minor quantità di denaro. — In forma liquida, come questa?

— L’ha presa Jennifer — disse Carol, e cinque paia di occhi si spostarono su Jennifer Sharifi la quale, da due settimane in visita a casa di Carol, li stava confondendo tutti. Era la figlia nata in America di una stella del cinema di Hollywood e di un principe arabo che avrebbe voluto fondare una dinastia di Insonni. La stella del cinema era una nota tossicodipendente e il principe, che aveva tratto la sua fortuna dal petrolio e l’aveva investita in energia-Y quando Kenzo Yagai stava ancora chiedendo le licenze per i primi brevetti, era morto. Jennifer Sharifi era più ricca di quanto non sarebbe diventata Leisha un giorno e infinitamente più smaliziata nel procurarsi le cose. Il bicchiere conteneva interleukin-1, uno stimolante del sistema immunitario, una delle molte sostanze che, come effetto collaterale, portava rapidamente il cervello a un sonno profondo.

Leisha fissò il bicchiere. Una sensazione calda le percorse la parte inferiore del ventre, non molto diversa da quella che provava quando lei e Richard facevano l’amore, Si accorse che Jennifer la stava guardando e arrossì.

Jennifer la turbava. Non per le ovvie ragioni per cui turbava Tony, Richard e Jack: i lunghi capelli neri, il corpo esile e slanciato in pantaloncini e reggiseno. Jennifer non rideva. Leisha non aveva mai conosciuto un Insonne che non ridesse e nemmeno uno che parlasse così poco, con tanta deliberata indifferenza. Leisha si trovò a rimuginare sulle reticenze di Jennifer Sharifi. Era una sensazione strana da provare nei confronti di un altro Insonne.

Tony disse a Carol: — Dallo a me!

Carol gli consegnò il bicchiere. — Ricorda, ne basta un piccolo sorso.

Tony sollevò il bicchiere portandolo alla bocca, si fermò e fissò gli altri da sopra il bordo con uno sguardo fiammeggiante. Bevve.

Carol riprese il bicchiere. Guardarono tutti Tony

Nel giro di un minuto, giaceva a terra, nel giro di due, i suoi occhi si chiusero nel sonno.

Non era come vedere i genitori, i fratelli, gli amici addormentati. Si trattava di Tony. Distolsero lo sguardo, evitarono a vicenda gli occhi degli altri. Leisha sentì il calore fra le gambe tirare e pizzicare in modo vagamente osceno. Non guardò Jennifer.

Quando arrivò il turno di Leisha, lei bevve lentamente, quindi passò il bicchiere a Richard. Sentì la testa pesante, come se fosse stata imbottita di stracci bagnati. Gli alberi al margine della radura si offuscarono. Anche la lampada portatile si offuscò: non era più brillante e nitida ma schiacciata, rigonfia; se l’avesse toccata avrebbe macchiato. Poi l’oscurità le avvolse il cervello, portandoselo via: portandole via la mente. — Papà! — Cercò di gridare, di afferrarlo, ma poi l’oscurità l’annullò.

In seguito ebbero tutti il mal di testa. Trascinarsi attraverso gli alberi nella tenue luce mattutina fu una tortura, frammista a una strana vergogna. Non si toccarono l’un l’altro. Leisha camminò il più lontano possibile da Richard.

Jennifer fu l’unica a parlare, — E così adesso sappiamo — disse, e la sua voce faceva trasparire una strana soddisfazione.

Occorse un giorno intero prima che le forti pulsazioni lasciassero il fondo del cranio di Leisha o la nausea il suo stomaco. Rimase a sedere da sola nella sua camera aspettando che le passasse la sofferenza e, nonostante il caldo, continuò a rabbrividire.

Non aveva nemmeno sognato nulla.


— Voglio che tu venga con me questa sera — disse Leisha per la decima o la dodicesima volta. — Partiamo tutt’e due per il college fra soli due giorni: è l’ultima occasione. Vorrei davvero che tu conoscessi Richard.

Alice stava sdraiata a pancia in giù sul letto. I suoi capelli, scuri e lucidi, le ricadevano sul volto. Indossava una costosa tuta di seta gialla firmata Ann Patterson, tutta sgualcita attorno alle ginocchia.

— Perché? Che te ne importa se conosco o no Richard?

— Perché sei mia sorella — disse Leisha. Sapeva bene che non doveva dire "la mia gemella". Nulla faceva infuriare più velocemente Alice.

— Non voglio. — Un attimo dopo il volto di Alice cambiò. — Oh, mi dispiace, Leisha, non volevo sembrare così arrogante. Ma… non voglio farlo.

— Non ci saranno tutti. Solamente Richard. E soltanto per un’oretta. Poi potrai tornartene qui e preparare le valigie per il Northwestern.

— Non andrò al Northwestern.

Leisha la fissò sbalordita.

Alice disse: — Sono incinta.

Leisha si sedette sul letto. Alice rotolò sulla schiena, si scostò i capelli dagli occhi e si mise a ridere. Le orecchie di Leisha si chiusero a quel suono. — Guardati — disse Alice. — Si direbbe che sei tu quella incinta. Ma non lo saresti mai, vero, Leisha? Non finché non fosse il momento giusto. Non tu.

— Come? — disse Leisha. — Abbiamo fatto mettere tutte due i diaframmi…

— Ho fatto togliere il diaframma — replicò Alice.

— Volevi restare incinta?

— Ce l’ho fatta maledettamente in fretta. E Papà non può fare assolutamente niente. Eccetto, ovviamente, tagliarmi completamente i viveri, ma non penso che lo farà: che ne dici? — Rise di nuovo. — Perfino a me?

— Ma Alice… perché? Non sarà solo per fare arrabbiare Papà!

— No — rispose Alice. — Anche se tu lo avresti pensato, vero? Perché voglio qualcosa da amare. Qualcosa di mio. Qualcosa che non abbia nulla a che fare con questa casa.

Leisha pensò a se stessa e ad Alice che correvano attraverso la serra, anni addietro, lei e Alice che sfrecciavano dentro e fuori i raggi di sole. — Non è stato tanto male crescere in questa casa.

— Leisha, sei una stupida. Non so come una persona tanto intelligente possa essere così stupida. Vattene dalla mia camera! Vattene fuori!

— Ma Alice… un bambino…

— Fuori! — strillò Alice. — Vattene ad Harvard! Vattene ad avere successo! Basta che ne te vai!

Leisha balzò giù dal letto. — Con piacere! Sei irrazionale, Alice. Non pensi al futuro, non fai progetti, un bambino… — Ma non era mai stata capace di rimanere infuriata. La rabbia le scivolò via, lasciandole vuota la mente. Guardò Alice, che, improvvisamente, le tese le braccia. Leisha vi si rifugiò.

— Sei tu la bambina — disse Alice con aria stupefatta. — Lo sei davvero. Sei così… non saprei dire. Sei una bambina.

Leisha non disse nulla. Le braccia di Alice davano una sensazione di caldo, di unione, di due bambine che correvano avanti e indietro dalla luce del sole. — Ti aiuterò io, Alice, se non lo farà Papà.

Alice la allontanò repentinamente — Non ho bisogno del tuo aiuto.

Alice si alzò in piedi, Leisha si sfregò le braccia vuote con le dita che grattavano i gomiti opposti. Alice sferrò un calcio al baule aperto e vuoto nel quale avrebbe dovuto riporre la roba da portare al Northwestern, e poi il volto le si aprì all’improvviso in un sorriso, un sorriso che costrinse Leisha a distogliere lo sguardo. La ragazza si inquartò nelle spalle aspettandosi altre offese. Ma tutto quello che Alice le disse con voce dolcissima fu: — Divertiti ad Harvard.

5

Le piacque moltissimo.

Alla prima vista della Massachusetts Hall, più antica degli Stati Uniti di un mezzo secolo, Leisha provò qualcosa che le era del tutto mancato a Chicago: età. Radici. Tradizione. Toccò i mattoni in cotto della Biblioteca Widener, le teche in vetro del Museo Peabody come se fossero il graal. Non era mai stata particolarmente sensibile al mito o al dramma: il tormento di Giulietta le appariva artificiale, quello di Willy Loman semplicemente inutile. Solamente la lotta di Re Artù per creare un miglior ordine sociale l’aveva interessata. In quel momento, tuttavia, camminando sotto gli immensi alberi autunnali, colse improvvisamente il barlume di una forza che era in grado di abbracciare intere generazioni, tesori lasciati per fornire istruzione e conquiste che i benefattori non avrebbero mai visto, uno sforzo individuale che percorreva e modellava i secoli a venire. Si fermò e guardò il cielo attraverso le foglie, gli edifici resi ancor più solidi dal loro scopo. In quei momenti pensava a Camden, che aveva piegato la volontà di un intero istituto di ricerca genetica per creare lei secondo l’immagine che lui aveva voluto.

Nel giro di un mese aveva dimenticato tutte quelle megameditazioni.

Il carico di lavoro era incredibile, perfino per lei. La Sauley School aveva incoraggiato l’approfondimento individuale a un ritmo personalizzato; Harvard sapeva che cosa voleva da lei, e ai propri ritmi. Nei vent’anni precedenti, sotto la guida accademica di un uomo che in gioventù aveva assistito con dispiacere alla dominazione economica giapponese, Harvard era divenuta controversa di un ritorno all’apprendimento severissimo di fatti, teorie, applicazioni, risoluzione dei problemi ed efficienza intellettuale. La scuola accettava solamente un candidato su duecento provenienti da tutto il mondo. La figlia del Primo Ministro inglese non aveva superato il primo anno ed era stata rispedita a casa.

Leisha aveva una camera singola in un dormitorio nuovo: la scelta dell’alloggio per studenti era stata fatta perché lei aveva passato tantissimi anni isolata a Chicago ed era bramosa di conoscere altre persone, la scelta della camera singola era dovuta al fatto che non avrebbe disturbato nessuno pur lavorando tutta la notte. Durante il secondo giorno di permanenza, un ragazzo che proveniva dal corridoio le entrò salterellando nella camera e si appollaiò sul margine della sua scrivania.

— E così tu sei Leisha Camden.

— Sì.

— Sedici anni.

— Quasi diciassette.

— Pronta a sbaragliarci tutti, a quanto ho capito, senza nemmeno provarci.

Il sorriso di Leisha svanì. Il ragazzo la fissò da sotto sopracciglia abbassate e aggrottate. Stava sorridendo e aveva uno sguardo tagliente. Da Richard, Tony e gli altri Leisha aveva imparato a riconoscere la rabbia che si presentava sotto forma di disprezzo.

— Sì — disse freddamente Leisha — lo farò.

— Ne sei certa? Con i tuoi bei capelli da ragazzina e il tuo cervello mutante da ragazzina?

— Oh, lasciala in pace, Hannaway — intervenne un’altra voce. Un ragazzo alto, biondo, così magro che le sue costole sembravano increspature sulla sabbia, stava lì in jeans e a piedi nudi, asciugandosi i capelli bagnati. — Non ti stanchi mai di andare in giro a fare l’idiota?

— E tu? — ribatté Hannaway. Si alzò dalla scrivania e si diresse verso la porta. Il biondo si spostò dalla sua traiettoria. Leisha vi si piazzò.

— Il motivo per cui otterrò risultati migliori di te — disse in modo equilibrato — è che posseggo determinati vantaggi che tu non hai. Inclusa la possibilità di non dormire. Quando poi ti avrò superato nelle prestazioni, sarò felice di aiutarti a studiare per gli esami in modo che li possa superare anche tu.

Il biondo che si stava asciugando i capelli si mise a ridere. Hannaway invece rimase immobile e, nei suoi occhi, comparve un’espressione che portò Leisha a indietreggiare. Lui la superò e uscì a precipizio.

— Ben fatto, Camden — disse il biondo. — Se lo meritava.

— Ma io parlavo sul serio — ribatté Leisha. — Lo aiuterò a studiare.

Il biondo abbassò l’asciugamano e la fissò. — È vero, eh? Parlavi proprio sul serio.

— Certo! Perché tutti continuano a metterlo in dubbio?

— Bene — disse il ragazzo, — Io non lo metto in dubbio. Potrai aiutare me se mi troverò nei pasticci. — Improvvisamente sorrise. — Ma non mi succederà.

— Perché no?

— Perché io sono bravo in tutto esattamente come te, Leisha Camden.

La ragazza lo esaminò. — Tu non sei uno di noi. Non sei un Insonne.

— Non ho bisogno di esserlo. So quello che sono in grado di fare. Fare, essere, creare, commerciare.

Lei disse entusiasta: — Sei uno yagaista!

— Ovviamente. — Lui le porse la mano. — Stewart Sutter. Che ne dici di un fishburger nello Yard?

— Fantastico — rispose Leisha. Uscirono insieme, parlando in modo eccitato, Quando le persone la fissavano lei cercava di non notarlo. Si trovava lì. Ad Harvard. Con tanto spazio davanti a sé, tempo, per imparare e per stare con gente come Stewart Sutter che l’accettava e la sfidava.

Durante tutte le ore in cui lui era sveglio.


Fu completamente assorbita dagli studi. Roger Camden l’andò a trovare una volta, passeggiò nel campus insieme con lei, ascoltandola, sorridendo. L’uomo si sentiva più a proprio agio di quanto Leisha non si fosse aspettata: conosceva il padre di Stewart Sutter e il nonno di Kate Addams. Parlarono di Harvard, affari, Harvard, l’Istituto Economico Yagai, Harvard. — Come sta Alice? — chiese una volta Leisha, ma Camden le rispose che non lo sapeva; aveva traslocato e non lo voleva vedere. Lui le aveva fissato una rendita tramite il proprio avvocato. Mentre diceva quelle cose il suo volto rimase sereno.

Leisha si recò al "Ballo del rientro a casa" con Stewart, che doveva diplomarsi anche lui per il propedeutico di legge, ma che era due anni avanti a Leisha, Passò un fine settimana a Parigi con Kate Addams e altre due amiche, prendendo il Concorde III. Ebbe una discussione con Stewart sulla metafora della superconduttività e sulla possibilità di applicarla allo yagaismo, un litigio stupido che tutti e due sapevano quanto fosse stupido ma che ebbero ugualmente e, in seguito, divennero amanti. Dopo le goffe esplorazioni sessuali con Richard, lei trovò Stewart abile, esperto e lo vide sorridere debolmente quando le insegnò come ottenere un orgasmo sia per proprio conto sia con lui. Leisha era abbagliata. — È così gioioso - disse, e Stewart la guardò con una tenerezza che lei sapeva essere parzialmente confusione, ma non capiva il perché.

Agli esami di metà semestre lei ottenne i voti più alti, della classe delle matricole. Dette giusta ogni risposta per ogni singola domanda dei questionari. Lei e Stewart uscirono a bere una birra per festeggiare e, quando tornarono, trovarono la camera di Leisha distrutta. Il computer era fracassato, le banche dati ripulite, le copie stampate e i libri bruciati in un cestino dei rifiuti di metallo. I suoi vestiti erano stati lacerati, la scrivania e la cassettiera fatte a pezzi. L’unica cosa intatta, perfetta, era il letto.

Stewart disse: — Non è assolutamente possibile che tutto questo sia stato fatto in perfetto silenzio. Tutti sul piano devono avere sentito; che diavolo, anche al piano di sotto. Qualcuno parlerà con la polizia. — Nessuno lo fece. Leisha restò seduta sul bordo del letto, abbacinata, guardando i resti dell’abito lungo del Ballo. Il giorno successivo, Dave Hannaway le lanciò un lungo e ampio sorriso.

Camden volò da lei, livido dalla rabbia. Le affittò un appartamento a Cambridge con impianto di sicurezza elettronico e assunse una guardia del corpo di nome Toshio. Dopo che se ne fu andato, Leisha licenziò la guardia del corpo ma tenne l’appartamento. Offriva a lei e Stewart una maggiore intimità, che utilizzavano per discutere all’infinito sulla situazione. Leisha sosteneva che si trattava di un’aberrazione, di immaturità.

— Ci sono sempre state le persone piene di odio, Stewart. Odio contro gli ebrei, odio contro i negri, odio contro gli immigranti, odio contro gli yagaisti che hanno più iniziativa e dignità degli altri. Io non sono altro che l’ultimo oggetto di odio. Non si tratta di qualcosa di nuovo né di qualcosa di rimarchevole. Non significa una specie di scisma profondo fra Insonni e Dormienti.

Stewart si alzò a sedere sul letto e allungò la mano per prendere i panini che si trovavano sul comodino. — Ah, no? Leisha, tu sei un tipo di persona completamente diversa. Più adatta a livello evoluzionistico, e non solamente per sopravvivere ma per prevalere. Gli altri oggetti di odio che hai citato erano tutti privi di potere nelle loro società. Occupavano posizioni inferiori. Tu, al contrario… tutti e tre voi Insonni di Legge ad Harvard fate parte del Law Review. Tutti quanti. Kevin Baker, il più vecchio di voi, ha già fondato un’impresa di software per biointerfacciamenti di grande successo e sta facendo un sacco di soldi. Ogni Insonne sta ottenendo risultati superbi, nessuno mostra problemi di tipo psicologico, tutti sono sani: e la maggior parte di voi non è ancora nemmeno adulta. Quanto odio pensi che vi troverete a subire quando arriverete ai gradini più alti della finanza, degli affari e delle poche cariche giuridiche e di politica nazionale?

— Passami un panino — disse Leisha. — Ecco la prova che ti sbagli: tu stesso. Kenzo Yagai. Kate Addams. Il professor Lane. Mio padre. Ogni Dormiente che popola il mondo dell’onesto commercio e dei contratti di mutuo beneficio. E si tratta della maggior parte di voi, o quanto meno la maggior parte di voi che vale la pena considerare. Tu credi che la competizione fra i più capaci conduca ai più vantaggiosi commerci per tutti, forti e deboli. Gli Insonni stanno fornendo contributi veri e concreti alla società in moltissimi campi. Questo deve avere maggior peso del disagio che possiamo creare. Per voi abbiamo valore. Voi lo sapete.

Stewart spazzolò via le molliche dalle lenzuola. — Sì. Io lo so. Gli yagaisti lo sanno.

— Gli yagaisti gestiscono il mondo degli affari, della finanza e anche quello accademico. Quanto meno lo faranno. In una meritocrazia dovrebbero. Tu sottovaluti la maggioranza della gente, Stew. L’etica non si limita a quelli in prima fila.

— Spero che tu abbia ragione — rispose Stewart. — Perché, sai, mi sono innamorato di te.

Leisha appoggiò il sandwich.

— Gioia — le mormorò Stewart fra i seni — tu sei la gioia.

Quando Leisha tornò a casa per il giorno del Ringraziamento, parlò a Richard di Stewart. Lui restò ad ascoltarla a labbra serrate.

— Un Dormiente.

— Una persona - ribatté Leisha. — Una persona buona, intelligente, laboriosa!

— Sai che cosa hanno fatto i tuoi buoni, intelligenti e laboriosi Dormienti, Leisha? Jeanine è stata esclusa dalla squadra olimpica di pattinaggio. "Alterazione genetica, analoga ad abuso di steroidi per creare un vantaggio contrario allo spirito sportivo." Chris Devereaux ha lasciato Stanford. Gli hanno sfasciato il laboratorio, distrutto il lavoro di due anni sulle proteine nella formazione della memoria. La compagnia di software di Kevin Baker sta combattendo contro una campagna pubblicitaria negativa che si basa, ovviamente, sul fatto che i bambini usino software progettato da menti non umane. Corruzione, schiavitù mentale, influenze sataniche: l’intero bagaglio di trucchetti da caccia alle streghe. Svegliati, Leisha!

Entrambi udirono le sue parole. I minuti si trascinarono. Richard stava in piedi come un pugile, in equilibrio sui talloni, a denti serrati. Alla fine disse, con grande pacatezza: — Lo ami?

— Sì — rispose Leisha. — Mi dispiace.

— È una tua scelta — commentò freddamente Richard. — Che cosa fai mentre dorme? Lo stai a guardare?

— Lo fai sembrare una perversione!

Richard non aggiunse nulla. Leisha trasse un profondo respiro. Parlò quindi rapidamente ma con equilibrio, in uno sfogo controllato: — Mentre Stewart dorme io lavoro. Proprio come te. Richard… non fare così. Non avevo intenzione di ferirti. E non voglio perdere il gruppo. Credo fermamente che i Dormienti appartengano alla nostra stessa specie. Intendi punirmi per questo? Intendi aggiungere altro odio? Intendi dirmi che non posso appartenere a un mondo più ampio che include tutte le persone oneste e valide, che dormano o no? Intendi dirmi che la divisione più importante è dovuta alla genetica e non alla spiritualità economica? Intendi costringermi a una scelta artificiale, noi o loro?

Richard prese in mano un braccialetto. Leisha lo riconobbe: glielo aveva regalato lei durante l’estate. La voce del ragazzo era tranquilla. — No, non si tratta di una scelta. — Giocherellò con le catenelle d’oro per qualche istante, quindi la guardò. — Non ancora.


Per le vacanze estive, Camden camminava ormai più lentamente. Prendeva una medicina per la pressione e una per il cuore. Lui e Susan, disse a Leisha, stavano per divorziare. — È cambiata, Leisha, dopo che l’ho sposata. L’hai visto anche tu. Era indipendente, produttiva e felice e poi, dopo qualche anno, ha smesso di fare tutto ed è diventata una bisbetica. Una bisbetica piagnucolona. — Lui scosse la testa con genuino sconcerto. — Hai visto anche tu il cambiamento.

Leisha l’aveva visto. Le venne in mente un ricordo: Susan che guidava lei e Alice in "giochi" che erano in realtà test controllati di prestazione cerebrale, con i capelli che le danzavano in ciocche attorno agli occhi scintillanti. Alice aveva amato Susan, allora, esattamente quanto Leisha.

— Papà, voglio l’indirizzo di Alice.

— Te l’ho già detto ad Harvard, non ce l’ho — rispose Camden. Spostò il peso sulla sedia, gesto impaziente di un corpo che non si sarebbe mai aspettato di logorarsi. In gennaio Kenzo Yagai era morto di cancro al pancreas: Camden aveva preso male la notizia. — Le passo una rendita tramite un legale. Lo ha voluto lei.

— Allora voglio l’indirizzo del legale.

L’avvocato, un uomo dall’aspetto spento di nome John Jaworski, si rifiutò di dire a Leisha dove si trovasse Alice. — Non vuole essere trovata, signorina Camden. Desiderava una rottura completa.

— Non da me — ribatté Leisha.

— Sì — disse Jaworski, e nei suoi occhi balenò qualcosa, qualcosa che lei aveva scorto per l’ultima volta nel volto di Dave Hannaway.

La ragazza volò ad Austin prima di ritornare a Boston, presentandosi con un giorno di ritardo alle lezioni. Kevin Baker la riconobbe all’istante e cancellò un incontro con l’IBM. Lei gli disse.di cosa aveva bisogno e lui passò subito l’incarico ai suoi migliori impiegati che lavoravano sulle reti di dati, senza spiegare loro il perché. Nel giro di due ore lei aveva l’indirizzo di Alice recuperato dai file dell’archivio elettronico di Jaworski. Era stata la prima volta, si rese conto Leisha, che si era rivolta a uno degli Insonni per ottenere aiuto e le era stato dato immediatamente. Senza che le venisse chiesto niente in cambio.

Alice si trovava in Pennsylvania. Il fine settimana successivo Leisha affittò un’aeromobile con autista: aveva imparato a guidare ma solo auto da strada, per il momento. Si recò a High Ridge, sui Monti Appalachi.

Si trattava di un rifugio isolato, a trentacinque chilometri circa dall’ospedale più vicino. Alice viveva con un uomo di nome Ed, un falegname silenzioso di vent’anni più vecchio di lei, in una baracca nei boschi. La casupola era dotata di acqua ed elettricità ma di nessuna rete televisiva. Nella luce dell’inizio di primavera la terra era nuda e spoglia, solcata da fratture ghiacciate. Apparentemente Alice ed Ed non stavano lavorando a nulla. Alice era all’ottavo mese di gravidanza.

— Non ti voglio qui — disse a Leisha. — Perché sei venuta?

— Perché sei mia sorella.

— Dio, ma guardati! Si indossa questa roba ad Harvard? Stivali del genere? Ti sei data alla moda, Leisha? Sei sempre stata troppo impegnata e intellettuale per interessartene.

— Che cos’è questa storia, Alice? Perché qui? Che stai facendo?

— Sto vivendo — rispose Alice. — Lontana dal caro Papà, lontana da Chicago, lontana dalla distrutta e alcolizzata Susan: lo sapevi che beve? Proprio come la Mamma. Lui fa questo effetto sulla gente. Ma non su di me. Io sono fuori. Mi chiedo se tu lo farai mai…

— Fuori? Qui?

— Io sono felice — disse Alice con rabbia. — La vita non dovrebbe essere questo? Non è la meta del tuo grande Kenzo Yagai? La felicità attraverso lo sforzo individuale?

Leisha pensò di dire che non riusciva proprio a vedere quale sforzo stesse facendo Alice. Non lo disse. Un pollo corse attraverso il giardinetto della casupola. Dietro, le montagne si stagliavano in uno strato dopo l’altro di foschia azzurrina. Leisha pensò a come dovesse essere quel luogo in inverno, tagliato fuori dal mondo in cui le persone si sforzavano di raggiungere mete, imparavano, cambiavano.

— Sono contenta che tu sia felice, Alice.

— Davvero?

— Sì.

— Allora sono contenta anch’io — replicò Alice con un tono di sfida. Un istante dopo, abbracciò repentinamente Leisha, con forza, con l’immenso e duro gonfiore del suo ventre schiacciato fra di loro. I capelli di Alice avevano un dolce profumo, come quello dell’erba fresca alla luce del sole.

— Verrò a trovarti ancora, Alice.

— Non farlo — disse Alice.

6

MUTANTE INSONNE IMPLORA CHE VENGA INVERTITA L’ALTERAZIONE GENETICA sbandierava un titolone al supermercato. "VI PREGO, FATEMI DORMIRE COME LA GENTE VERA!" IMPLORA UNA BAMBINA.

Leisha digitò il suo numero di credito e premette il pulsante del chiosco dei giornali per prendere una copia, anche se, solitamente, ignorava i tabloid elettronici. Il titolo appariscente continuava a girare attorno al chiosco. Un impiegato del supermercato smise di accatastare scatole sugli scaffali e cominciò a osservarla. Bruce, la guardia del corpo di Leisha, fissò l’impiegato.

Leisha aveva ventidue anni, era all’ultimo anno di Legge ad Harvard, redattore del "Law Review", chiaramente prima nella classe di laureandi. I tre contendenti a lei più prossimi erano Jonathan Cocchiara, Len Carter e Martha Wentz. Tutti Insonni.

Nel suo appartamento si mise a sfogliare il giornale. Entrò quindi nella rete del Gruppo gestita da Austin. I file contenevano nuovi articoli sulla bambina, con commenti di altri Insonni, ma, prima che lei potesse richiamarli, Kevin Baker si inserì personalmente in linea, a voce.

— Leisha, sono contento che tu abbia chiamato. Stavo per chiamarti io.

— Com’è la situazione di questa Stella Bevington, Kev? Qualcuno ha già controllato?

— Randy Davies. È di Chicago ma non penso che tu lo abbia mai conosciuto: è ancora alle scuole superiori. Abita a Park Ridge, Stella a Skokie. I genitori della piccola non hanno voluto parlare con lui, in effetti sono stati piuttosto offensivi… ma è riuscito comunque a vedere Stella faccia a faccia. Non sembra un caso di maltrattamento, solamente di comune stupidità: i genitori volevano un bambino genio, hanno risparmiato e lesinato, e adesso non sanno gestire il fatto che lo sia. Le gridano di dormire, abusano di lei a livello emotivo quando li contraddice, ma per il momento nessuna violenza.

— L’abuso di tipo emotivo è processabile?

— Non penso che ci vogliamo muovere in quella direzione, per adesso. Due di noi si terranno in stretto contatto con Stella, lei ha un modem e non ha parlato ai genitori della rete, e Randy l’andrà a trovare tutte le settimane.

Leisha si morse un labbro. — Una schifezza di tabloid dice che ha sette anni.

— Sì.

— Forse non dovrebbe essere lasciata lì. Io sono residente nell’Illinois, potrei esporre una denuncia per maltrattamento da qui se Candy ha troppi impegni in agenda al momento… — Sette anni.

— No. Lasciamo decantare la cosa. Probabilmente Stella non avrà problemi. Lo sai.

Era vero. Quasi tutti gli Insonni si mantenevano sereni, indipendentemente dall’opposizione che proveniva dallo strato più ottuso della società. Si trattava, inoltre, solamente dello strato stupido, considerò Leisha, una piccola minoranza anche se vociante. La maggior parte delle persone avrebbe potuto adeguarsi e in effetti lo avrebbe fatto, alla crescente presenza degli Insonni, quando fosse stato lampante che quella presenza prevedeva non soltanto crescente potere ma anche crescenti benefici per l’intero paese.

Kevin Baker, ormai ventiseienne, aveva fatto una fortuna con microchip talmente rivoluzionari che l’Intelligenza Artificiale, un tempo solamente un sogno dibattuto, si faceva di anno in anno più vicina alla realizzazione. Carolyn Rizzolo aveva vinto il premio Pulitzer per il teatro con l’opera Luci del Mattino. Aveva ventiquattro anni. Jeremy Robinson aveva compiuto un lavoro significativo nelle applicazioni della superconduttività quando era ancora diplomando a Stanford. William Thaine, redattore del "Law Review" quando Leisha era arrivata il primo anno ad Harvard, svolgeva ora la libera professione. Non aveva mai perduto una causa. Aveva ventisei anni e i casi stavano diventando importanti. I suoi clienti stimavano il suo valore più della sua età.

Ma non tutti reagivano in quel modo.

Kevin Baker e Richard Keller avevano fondato una rete dati che legava gli Insonni in uno stretto gruppo, costantemente al corrente delle lotte personali gli uni degli altri. Leisha Camden finanziava le battaglie legali, i costi dell’istruzione degli Insonni i cui genitori erano meno abbienti, il sostegno di bambini in situazioni emotive disgraziate. Rhonda Lavelier si era diplomata come assistente sociale in California e, quando era possibile, il Gruppo manovrava le cose in modo tale che i giovani Insonni che erano stati tolti alle rispettive famiglie venissero assegnati a Rhonda. Il Gruppo contava per il momento su tre avvocati abilitati: nel giro di un anno ne avrebbe avuti altri quattro, autorizzati alla pratica legale in cinque stati diversi.

L’unica volta che non erano stati in grado di ottenere legalmente l’affidamento di un bambino Insonne sottoposto a maltrattamenti, lo avevano rapito.

Timmy DeMarzo, quattro anni. Leisha si era opposta all’azione. Aveva discusso del caso a livello morale e prammatico, per lei si trattava in effetti della stessa cosa, e quindi, se credevano nella loro società, nelle sue leggi fondamentali e nella loro capacità di appartenervi in qualità di individui produttivi che commerciavano liberamente, dovevano rimanere legati alle leggi contrattuali della società. Gli Insonni erano, nella maggior parte, yagaisti. Avrebbero già dovuto saperlo. Se l’FBI li avesse presi, i tribunali e la stampa li avrebbero crocifissi.

Non vennero presi.

Timmy DeMarzo: non era stato nemmeno abbastanza grande da richiedere aiuto via rete, gli Insonni erano venuti a conoscenza della sua situazione tramite l’analisi automatica dei dati della polizia che Kevin faceva effettuare alla sua compagnia. Era stato rapito dal giardinetto sul retro della sua stessa casa a Wichita. Aveva vissuto l’anno precedente in un camper isolato nel Nord Dakota, ma non esisteva posto sufficientemente isolato per un modem. Veniva seguito da una madre adottiva cui era stato affidato che era irreprensibile a livello legale e aveva vissuto lì per tutta la vita. La donna era cugina di secondo grado di un Insonne, una persona allegra e grassoccia con un cervello molto più acuto di quanto non indicasse il suo aspetto esteriore. Era una yagaista. Non esisteva alcuna registrazione del bambino su alcuna banca dati: non quella delle Imposte, non quella di una scuola, nemmeno negli scontrini computerizzati della drogheria locale. Il cibo specifico per il bambino veniva inviato mensilmente con un camion di proprietà di un Insonne di State College in Pennsylvania. Dieci membri del Gruppo erano al corrente del rapimento, su un totale di 3.428 Insonni nati negli Stati Uniti. Di questi ultimi, 2.691 facevano parte del Gruppo tramite la rete. Altri 701 erano ancora troppo piccoli per poter utilizzare un modem. Soltanto 36 Insonni, per svariati motivi, non facevano parte del Gruppo.

Il rapimento era stato organizzato da Tony Indivino.

— È di Tony che volevo parlarti — disse Kevin a Leisha. — È ripartito alla carica. Questa volta fa sul serio. Sta acquistando terreni.

La ragazza ripiegò il tabloid facendolo piccolo piccolo e lo appoggiò con estrema cura sul tavolino. — Dove?

— Monti Allegheny. Nel sud dello stato di New York. Moltissima terra. Adesso sta facendo costruire le strade. In primavera i primi edifici.

— Lo sta ancora finanziando Jennifer Sharifi? — Erano passati sei anni da quando avevano bevuto interleukin nel bosco, ma quella sera era ancora vivida nei ricordi di Leisha, così come il ricordo di Jennifer Sharifi.

— Sì. Lei ha i soldi per farlo. Tony sta cominciando ad avere un seguito, Leisha.

— Lo so.

— Chiamalo.

— Lo farò. Tienimi informata su Stella.

Leisha lavorò fino a mezzanotte al "Law Review", quindi fino alle quattro del mattino per preparare le lezioni. Dalle quattro alle cinque si occupò di questioni legali per il Gruppo. Alle cinque chiamò Tony, ancora a Chicago. Aveva terminato la scuola superiore, aveva frequentato un semestre alla Northwestern e, durante le vacanze di Natale, era finalmente esploso contro sua madre che lo costringeva a vivere come un Dormiente. Secondo il parere di Leisha, l’esplosione non era mai terminata.

— Tony? Sono Leisha.

— Le risposte sono sì, sì, no e vai all’inferno.

Leisha digrignò i denti. — Benissimo. Adesso dimmi anche le domande.

— Sei proprio sicuro che gli Insonni si debbano ritirare in una loro società autosufficiente? Jennifer Sharifi è disposta a finanziare un progetto di dimensioni pari all’edificazione di una piccola città? Non pensi che sia un tradimento di tutto quello che potrebbe essere realizzato con una paziente integrazione del Gruppo nella società? E che mi dici delle contraddizioni insite nel vivere in una città rigidamente armata e tuttavia di contrattare con il mondo esterno?

— Io non ti direi mai di andare all’inferno.

— Un urrà per te — ribatté Tony. Un istante dopo aggiunse: — Mi dispiace. Mi sembra di essere uno di loro.

— Non è la cosa giusta per noi, Tony.

— Grazie per non avere detto che non ce la farei mai.

Lei si chiese se non fosse possibile. — Non siamo una specie separata, Tony.

— Vallo a dire ai Dormienti.

— Tu esageri. Ci sono persone cariche di odio là fuori, ci sono sempre persone cariche d’odio, ma darsi per vinti…

— Non ci stiamo dando per vinti. Tutto quello che creiamo potrà essere commerciato liberamente: software, hardware, romanzi, informazioni, teorie, pareri legali. Potremo andare e venire, ma avremo sempre un luogo sicuro in cui tornare. Senza le sanguisughe che pensano che noi dobbiamo loro sangue perché siamo meglio di loro.

— Non è una questione di dovere qualcosa.

— Davvero? — ribatté Tony. — Vediamo di chiarire le cose, Leisha. Fino in fondo. Tu sei una yagaista: in che cosa credi?

— Tony…

— Dillo — ingiunse Tony, e nella sua voce lei udì il quattordicenne al quale era stata presentata da Richard. Nello stesso tempo, vide anche il volto di suo padre: non come era diventato, dopo l’operazione e il by-pass, ma come era stato quando lei era piccola, quando la teneva sulle ginocchia per spiegarle che lei era speciale.

— Credo nel commercio volontario che sia di mutuo beneficio. Credo che la dignità spirituale venga dal sostentare la propria vita con i propri sforzi personali e dal commerciare i risultati di tali sforzi in una mutua cooperazione con tutta la società. Credo che il simbolo di tutto ciò sia il contratto e che abbiamo bisogno gli uni degli altri per potere contare sugli scambi più proficui e utili.

— Benissimo — schioccò Tony. — E che mi dici dei mendicanti in Spagna?

— I cosa?

— Tu cammini lungo una strada in un paese povero come la Spagna e vedi un mendicante. Gli dai un dollaro?

— Probabilmente.

— Perché? Non ti sta dando nulla in cambio. Non ha nulla da scambiare.

— Lo so. Lo faccio per gentilezza. Per compassione.

— Vedi sei mendicanti. Dai a tutti un dollaro?

— Probabilmente — rispose Leisha.

— Lo faresti. Vedi cento mendicanti e non hai tutti i soldi di Leisha Camden. Daresti un dollaro a ognuno?

— No.

— Perché no?

Leisha cercò di non perdere la pazienza. Erano poche le persone che riuscivano a farle interrompere una telefonata: Tony era una di quelle. — Inciderebbe troppo sulle mie risorse. La mia vita ha il principale diritto alle risorse che mi sono guadagnata.

— D’accordo. Adesso rifletti su questo. All’Istituto Biotech, dove io e te abbiamo avuto inizio, cara pseudo-sorella, la dottoressa Melling proprio ieri ha…

— Chi?

— La dottoressa Susan Melling. Oh, Dio, lo avevo dimenticato completamente: era sposata con tuo padre!

— Ho perso le sue tracce — disse Leisha. — Non avevo mai pensato che sarebbe ritornata alla ricerca. Una volta Alice mi aveva detto… non importa. Che sta succedendo al Biotech?

— Due fattori cruciali, appena resi noti. Carla Dutcher ha effettuato le analisi genetiche del primo mese di gravidanza. Quella degli Insonni è una caratteristica genetica dominante. Nemmeno la prossima generazione del Gruppo dormirà.

— Lo sapevamo tutti — disse Leisha. Carla Dutcher era la prima Insonne al mondo rimasta incinta. Suo marito era un Dormiente. — Tutto il mondo se lo aspettava.

— Ma per la stampa sarà una festa. Vedrai. I Mutanti si riproducono! Nuova razza impegnata per dominare la prossima generazione di bambini!

Leisha non si sentì di negarlo. — E il secondo fatto?

— È triste, Leisha. Abbiamo appena subito la nostra prima perdita.

Lo stomaco le si serrò. — Chi?

— Bernie Kuhn. Seattle. — Lei non lo conosceva. — Un incidente stradale. Sembra tutto abbastanza normale: ha perso il controllo in una curva a gomito quando hanno ceduto i freni. Guidava soltanto da pochi mesi. Aveva diciassette anni. La cosa significativa, tuttavia, è che i genitori hanno donato il suo cervello e il suo corpo al Biotech e al reparto di patologia della Medical School di Chicago. Lo faranno a pezzi per poter dare la prima occhiata approfondita su quello che può fare l’insonnia prolungata sul corpo e sul cervello.

— È giusto — commentò Leisha. — Povero ragazzo Ma che cosa temi che possano trovare?

— Non so. Non sono un dottore. Tuttavia, qualsiasi cosa sarà, se le persone cariche di odio potranno usarla contro di noi, lo faranno.

— Sei paranoico, Tony.

— Impossibile. Gli Insonni hanno personalità più calme e più orientate alla realtà rispetto alla norma. Non hai letto la documentazione?

— Tony…

— Che succede se cammini per quella strada in Spagna, e cento mendicanti vogliono un dollaro ciascuno, e tu dici di no, e loro non hanno niente da darti in cambio, ma sono così marci di rabbia per quello che tu hai che ti danno una botta in testa e ti strappano tutto, quindi ti picchiano selvaggiamente per pura invidia e disperazione?

Leisha non rispose.

— Forse intendi dirmi che non si tratta di uno scenario umano, Leisha? Che non succede mai?

— Succede — rispose Leisha con voce piatta. — Ma non così spesso.

— Stronzate. Leggi più storia. Leggi più giornali. Ma il punto è questo: che cosa devi ai mendicanti? Che cosa fa un buon yagaista che crede nei contratti di mutua utilità con gente che non ha niente da scambiare e sa solamente prendere?

— Non vorrai…

— Cosa, Leisha? Nei termini più obbiettivi che riesci a trovare, che cosa dobbiamo ai bisognosi non produttivi e arraffoni?

— Quello che ho detto al principio. Gentilezza. Compassione.

— Anche se loro non la ricambiano? Perché?

— Perché… — Lei si interruppe.

— Perché? Perché esseri umani rispettosi della legge e produttivi dovrebbero qualcosa a coloro che né producono molto né rispettano leggi giuste? Quale giustificazione di tipo filosofico o economico o spirituale esiste per dovere loro qualche cosa? Sii onesta quanto so che sei.

Leisha appoggiò la testa fra le ginocchia. La domanda stava aperta come un baratro davanti a lei, ma non cercò di scantonare.

— Non so. So solo che lo facciamo.

— Perché?

La ragazza non rispose. Un istante dopo, lo fece Tony per lei. La sfida intellettuale era sparita dalla sua voce. Disse, in tono quasi tenero: — Vieni a vedere in primavera il luogo per il Rifugio. Per allora gli edifici saranno in costruzione.

— No — rispose Leisha.

— Mi piacerebbe che lo facessi.

— No. Ritirarsi armati non è la strada giusta.

Tony disse: — I mendicanti stanno diventando sempre più pericolosi, Leisha, con la crescita della ricchezza degli Insonni. E non parlo solo di soldi.

— Tony… — iniziò lei, e poi si interruppe. Non riusciva a pensare a cosa dire.

— Non camminare per molle strade armata solo del ricordo di Kenzo Yagai.


In marzo, un marzo freddissimo con il vento che sferzava il fiume Charles, Richard Keller giunse a Cambridge. Leisha non lo vedeva da tre anni. Non le aveva inviato alcun messaggio tramite la rete del Gruppo per comunicarle il suo arrivo. Lei si stava affrettando verso il vialetto che conduceva al suo appartamento cittadino, avvolta fino agli occhi in una sciarpa di lana rossa per proteggersi dal freddo, e lo trovò lì a bloccare la porta. Alle spalle di Leisha, la guardia del corpo si irrigidì.

— Richard! Bruce, è tutto a posto, è un vecchio amico.

— Salve, Leisha.

Era appesantito, aveva un aspetto più solido, le spalle più larghe di quanto lei non ricordasse. Il volto, tuttavia, era quello di Richard, più vecchio ma immutato: sopracciglia scure e folte, capelli scuri e ribelli. Si era fatto crescere la barba.

— Sei bellissima — le disse.

Una volta entrati, la ragazza gli offrì una tazza di caffè. — Sei qui per affari? — Leisha aveva saputo dalla rete del Gruppo che lui aveva terminato il master e aveva eseguito un lavoro imponente di biologia marina nei Caraibi, ma che lo aveva lasciato un anno prima ed era scomparso dalla rete.

— No. Gita di piacere. — Sorrise improvvisamente, quel vecchio sorriso che gli apriva i lineamenti scuri. — Me ne sono dimenticato per lungo tempo. Appagamento, sì. Siamo tutti bravissimi nell’appagamento che deriva dal lavoro intenso. Ma il piacere? Gli sfizi? I capricci? Quando è stata l’ultima volta che hai fatto qualcosa di sciocco, Leisha?

Lei gli sorrise. — Ho mangiato zucchero filato sotto la doccia.

— Davvero? Perché?

— Per vedere se si sarebbe sciolto in appiccicosi disegni rosa.

— Lo ha fatto?

— Sì. Ne ha fatti di deliziosi.

— Ed è stata l’ultima cosa sciocca che hai fatto? Quando è successo?

— L’estate scorsa — rispose Leisha e si mise a ridere.

— Be’, la mia è più recente. La sto facendo adesso. Mi trovo qui a Boston senza altro motivo oltre lo spontaneo piacere di rivederti.

Leisha smise di ridere. — È un tono un po’ intenso per un piacere spontaneo, Richard.

— Già — continuò lui, sempre intensamente. Lei riprese a ridere. Lui no.

— Sono stato in India, Leisha. Anche in Cina e in Africa. Soprattutto per pensare. Per osservare. Inizialmente ho viaggiato come un Dormiente, senza attirare l’attenzione. Poi mi sono messo in marcia per incontrare gli Insonni di India e Cina. Ce n’è qualcuno, sai, i cui genitori sono stati disposti a venire fin qui per l’operazione. Nel complesso vengono accettati e lasciati in pace. Ho cercato di comprendere perché paesi disperatamente poveri, quanto meno secondo i nostri standard — laggiù l’energia-Y è disponibile fondamentalmente solo nelle grandi città — non hanno difficoltà nell’accettare la superiorità degli Insonni mentre gli americani, che godono di una prosperità maggiore rispetto a qualunque altro momento nella storia, continuano ad accumulare risentimento.

Leisha disse: — Sei riuscito a comprenderlo?

— No. Ma ho capito qualcos’altro, osservando tutte quelle comunità, villaggi e kampong. Noi siamo eccessivamente individualisti.

Leisha venne pervasa dal disappunto. Vide il volto di suo padre: "L’eccellenza è ciò che conta, Leisha. L’eccellenza sostenuta dallo sforzo individuale". La ragazza allungò la mano per prendere la tazza di Richard. — Vuoi dell’altro caffè?

Lui le bloccò il polso e la fissò in volto, — Non fraintendermi, Leisha. Non sto parlando di lavoro, Noi siamo eccessivamente individualisti per quanto riguarda il resto della nostra vita. Troppo emotivamente razionali. Troppo soli. L’isolamento uccide più del libero flusso delle idee. Uccide la gioia.

Non le lasciò andare il polso. Leisha lo fissò negli occhi, in profondità che non aveva mai scorto prima di allora. Aveva la sensazione di guardare nel pozzo di una miniera, che dava le vertigini e terrorizzava, sapendo che sul fondo poteva trovarsi oro oppure oscurità. O tutt’e due.

Richard le disse a voce bassa. — Stewart?

— È finita da parecchio. Una storia da studenti. — Stentò a riconoscere la voce come propria.

— Kevin?

— No, mai… siamo solamente amici.

— Non ne ero sicuro. Qualcun altro?

— No.

Le lasciò il polso. Leisha lo scrutò timidamente. Lui si mise improvvisamente a ridere. — Gioia, Leisha. — Un’eco risuonò nella sua mente ma lei non riuscì a identificarla, e quindi sparì, e anche lei si mise a ridere, una risata ariosa, spumeggiante, zucchero filato rosa in estate.


— Leisha, torna a casa. Ha avuto un altro attacco di cuore.

La voce di Susan Melling al telefono era stanca. Leisha chiese: — Quanto grave?

— I dottori non ne sono certi. Quanto meno sostengono di non esserlo. Ti vuole vedere. Puoi lasciare gli studi?

Era maggio, l’ultima volata verso gli esami finali. Le bozze del "Law Review" erano in ritardo. Richard aveva intrapreso un nuovo tipo di affari, consulente marino per i pescatori di Boston afflitti da improvvisi e inesplicabili spostamenti delle correnti oceaniche, e stava lavorando venti ore al giorno. — Verrò — rispose Leisha.

Chicago era più fredda di Boston. Gli alberi erano solo parzialmente gemmati. Sul lago Michigan, a riempire le immense finestre orientali della casa di suo padre, le creste bianche delle ondine sollevavano spruzzi gelidi. Leisha si accorse che Susan era tornata ad abitare nella casa: sul comò di Camden c’erano le sue spazzole, le sue riviste erano appoggiate sulla credenza nell’atrio.

— Leisha — disse Camden. Appariva vecchio. La pelle grigiastra, le guance incavate, lo sguardo frenetico e sconcertato di uomini che avevano considerato la potenza come aria, indivisibile dalle loro vite. Nell’angolo della stanza, su una poltroncina dell’Ottocento, stava seduta una donna robusta dai capelli scuri.

— Alice.

— Salve, Leisha.

— Alice. Ti ho cercata… — La cosa sbagliata da dire. Leisha aveva cercato ma senza un grande impegno, scoraggiata dalla consapevolezza che Alice non voleva essere trovata. — Come stai?

— Sto bene — rispose Alice. Sembrava distaccata, gentile, molto diversa dall’Alice infuriata di sei anni prima, nelle brulle colline della Pennsylvania. Camden si spostò dolorosamente sul letto. Guardò Leisha con occhi che, lei notò, non erano affatto offuscati nel loro limpido azzurro.

— Ho chiesto ad Alice di venire. E anche a Susan. Susan è arrivata qualche tempo fa. Sto morendo, Leisha,

Nessuno lo contraddisse. Leisha, conoscendo il rispetto dell’uomo per i fatti, rimase in silenzio. L’amore le bruciava in petto.

— John Jaworski ha il mio testamento. Non lo potete impugnare in alcun punto. Volevo dirvi personalmente, tuttavia, che cosa c’è scritto. Durante gli ultimi pochi anni ho venduto, liquidato. La maggior parte dei miei possedimenti è disponibile subito. Ho lasciato ad Alice un decimo, un decimo a Susan, un decimo a Elizabeth e il resto a te, Leisha, perché sei l’unica che possiede l’abilità individuale per utilizzare il denaro nel suo pieno potenziale per ottenere realizzazioni.

Leisha spostò violentemente lo sguardo su Alice che la fissò di rimando con la sua strana e distaccata calma. — Elizabeth? Mia… madre? È viva?

— Sì — rispose Camden.

— Mi avevi detto che era morta! Anni e anni fa!

— Sì. Ho pensato che per te fosse meglio così, Lei non apprezzava quello che tu eri, era gelosa di quello che potevi diventare. E non aveva nulla da darti. Non avrebbe fatto altro che causarti problemi emotivi.

"Mendicanti in Spagna…"

— È stato un errore, Papà. Hai sbagliato. Lei è mia madre… — Non riuscì a terminare la frase.

Camden non esitò. — Non penso proprio di essermi sbagliato. Ma adesso sei adulta. Puoi andarla a trovare, se lo desideri.

Continuò a fissarla con i suoi brillanti occhi incavati, mentre attorno a Leisha l’aria palpitava e si lacerava. Suo padre le aveva mentito. Susan l’osservò attentamente, con un debole sorriso sulle labbra. Era forse felice di vedere Camden cadere nella stima di sua figlia? Era forse sempre stata così gelosa della loro relazione, di Leisha…

Stava pensando come Tony.

La riflessione la rese più stabile. Continuò tuttavia a fissare Camden che a sua volta continuò a guardarla in modo implacabile, inamovibile, un uomo sicuro di avere ragione, perfino sul letto di morte.

La mano di Alice le si appoggiò sul gomito, la voce di Alice fu così bassa che solamente Leisha fu in grado di sentirla. — Adesso ha finito di parlare, Leisha. Fra qualche tempo ti sentirai di nuovo bene.


Alice aveva lasciato il figlio in California insieme a quello che era suo marito da due anni, Beck Watrous, un imprenditore edile che aveva conosciuto mentre serviva ai tavoli in una località turistica nelle Isole Artificiali. Beck aveva adottato Jordan, il figlio di Alice.

— Prima che conoscessi Beck ho passato un periodo davvero difficile — disse Alice con la sua voce distaccata. — Sai che quando ero incinta di Jordan sognavo realmente che nascesse Insonne? Come te. Lo sognavo tutte le notti, e tutte le mattine mi svegliavo e mi veniva la nausea per un bambino che sarebbe diventato una stupida nullità come me. Sono rimasta con Ed per altri due anni. Nei Monti Appalachi, ricordi? Sei venuta a trovarmi lì una volta. Quando mi picchiava ero felice. Avrei voluto che Papà fosse lì a guardare. Almeno Ed mi toccava.

Leisha produsse uno strano rumore in gola.

— Alla fine me ne sono andata perché avevo paura per Jordan. Mi sono trasferita in California e non ho fatto altro che mangiare per un anno. Sono arrivata fino a ottantasei chili. — Secondo un calcolo di Leisha, Alice era alta poco più di un metro e sessanta. — Poi sono tornata a casa per venire a trovare la mamma.

— Non me lo hai mai detto — disse Leisha. — Sapevi che era viva e non me lo hai detto.

— Passa metà del suo tempo ricoverata in qualche centro per disintossicarsi dall’alcol — ribatté Alice con brutale semplicità. — Non ti avrebbe ricevuto anche se tu avessi voluto. Però ha voluto incontrare me, mi si è gettata addosso tutta sdolcinata perché ero la sua "vera" figlia e poi mi ha vomitato sul vestito. Ho indietreggiato, ho guardato il vestito e mi sono resa conto che era da vomitare, tanto era orrendo. Deliberatamente orrendo. Lei ha cominciato a strillare su come Papà le avesse rovinato la vita, su come avesse rovinato la mia, e tutto per te. E sai che cosa ho fatto io?

— Cosa? — chiese Leisha. Aveva la voce tremante.

— Sono volata a casa, ho bruciato tutti i miei vestiti, ho trovato un lavoro, mi sono iscritta al college, ho perso ventitré chili e ho mandato Jordan alla terapia del gioco.

Le sorelle rimasero sedute in silenzio. Al di là della finestra il lago era scuro, non illuminato né da luna né da stelle. Fu Leisha che si scosse improvvisamente e Alice che le dette una pacca sulla spalla.

— Dimmi… — Leisha non riusciva a pensare che cosa volesse che le venisse raccontato, ma desiderava sentire la voce di Alice nell’oscurità, la voce di Alice per come era diventata, gentile e distaccata, non più danneggiata dalla dannosa esistenza di Leisha. La sua stessa esistenza un danno. — Parlami di Jordan. Adesso ha cinque anni, vero? Com’è?

Alice voltò la testa per fissare pacatamente gli occhi di Leisha. — È un bambino comune e felice. Assolutamente comune.


Camden morì la settimana successiva. Dopo il funerale, Leisha cercò di avere un incontro con sua madre al Centro Brookfield per alcolizzati e drogati. Elizabeth Camden, le venne detto, non voleva vedere nessuno a parte la sua unica figlia, Alice Camden Watrous.

Susan Melling, vestita di nero, portò Leisha all’aeroporto. Susan parlò in modo disinvolto, determinato, degli studi di Leisha, di Harvard, del "Law Review". Leisha le rispose a monosillabi, ma Susan non si dette per vinta, ponendo domande, insistendo con pacatezza sulle risposte: quando avrebbe dovuto sostenere Leisha gli esami di abilitazione alla professione legale? Dove stava effettuando colloqui per un posto di lavoro? Gradatamente, Leisha cominciò a perdere il torpore che aveva provato dal momento in cui la bara di suo padre era stata calata nel terreno. Si rese conto che l’insistente interrogatorio di Susan rappresentava una gentilezza.

— Lui ha sacrificato un sacco di persone — disse improvvisamente Leisha.

— Non me — ribatté Susan. — Solo per qualche tempo, quando ho lasciato il mio lavoro per svolgere il suo. Roger non rispettava molto il sacrificio.

— Aveva torto? — chiese Leisha. La domanda le uscì fuori con una sfumatura di disperazione che non aveva avuto intenzione di darle.

Susan sorrise con espressione triste. — No. Non aveva torto. Non avrei mai dovuto lasciare la ricerca. Mi è occorso moltissimo tempo per tornare in me, dopo di allora.

"Ha questo effetto sulle persone", sentì Leisha nella propria testa. Susan? Oppure Alice? Per una volta, non riuscì a ricordarlo chiaramente. Vide suo padre nella vecchia serra, ormai vuota, che invasava e rinvasava i fiori esotici che aveva amato.

Leisha si sentiva stanca. Si trattava di affaticamento muscolare da stress, lo sapeva: venti minuti di riposo l’avrebbero rimessa a posto. Le bruciavano gli occhi per le lacrime a cui non era abituata. Appoggiò la testa contro il sedile dell’auto e chiuse gli occhi.

Susan portò l’automobile nel parcheggio dell’aeroporto e spense il motore. — C’è qualcosa che voglio dirti, Leisha.

Leisha aprì gli occhi. — Sul testamento?

Susan sorrise a denti stretti. — No. Penso che tu non abbia alcun problema su come lui ha diviso le sue proprietà, vero? Ti sembra ragionevole. Ma non si tratta di questo. Il gruppo di ricerca del Biotech e del Chicago Medical ha terminato le analisi sul cervello di Bernie Kuhn.

Leisha si girò per guardare in faccia Susan. Si allarmò per la complessità dell’espressione della donna. Comprendeva determinazione, soddisfazione, rabbia e qualcos’altro che Leisha non riuscì a decifrare.

Susan continuò: — Pubblicheremo i risultati la prossima settimana, sul "New England Journal of Medicine". La rete di sicurezza è stata incredibilmente serrata, nessuna fuga di notizie per la stampa popolare. Ma io voglio dirti adesso, personalmente, che cosa abbiamo trovato. Così che tu possa essere preparata.

— Vai avanti — disse Leisha. Sentì il petto stringersi in una morsa.

— Ricordi quando tu e gli altri ragazzi Insonni avete preso l’interleukin-1 per provare che effetto facesse dormire? Quando avevi sedici anni?

— Come hai fatto a saperlo?

— Voi ragazzi venivate controllati in modo ben più stretto di quanto tu non pensi. Ricordi il mal di testa che hai avuto?

— Sì. — Lei, Richard, Tony, Carol, Brad e Jeanine. Dopo l’espulsione da parte del Comitato Olimpico, Jeanine non aveva mai più pattinato. In quel periodo faceva la maestra d’asilo a Butte nel Montana.

— Quello di cui voglio parlare è l’interleukin-1. Almeno in parte. Si tratta di una di un intero gruppo di sostanze che potenziano il sistema immunologico. Esse stimolano la produzione di anticorpi, l’attività dei globuli bianchi nel sangue e di un gran numero di altri immunostimolatori. Nelle persone normali vengono prodotte scariche di IL-1 durante le fasi del sonno a onde lente. Una delle domande che noi ricercatori ci siamo posti ventotto anni fa era stata: i bambini Insonni che non avranno queste scariche di IL-1 si ammaleranno più spesso?

— Io non mi sono mai ammalata — commentò Leisha.

— Sì, invece. Varicella e tre influenze di secondaria importanza verso la fine del quarto anno di vita — ribatté con precisione Susan. — Ma, nel complesso, vi siete dimostrati tutti decisamente sani. E così a noi ricercatori era rimasta la teoria alternativa a quella dell’immunostimolazione prodotta dal sonno: che l’emissione di attività immunologica esistesse in qualità di controparte rispetto a una maggiore vulnerabilità del corpo alla malattia durante il sonno, connessa in qualche modo alle fluttuazioni della temperatura corporea nel sonno REM. In altre parole il sonno causava la vulnerabilità immunologica che i pirogeni endogeni come la IL-1 combattevano. Il problema era il sonno, la stimolazione del sistema immunologico era la soluzione. Senza il sonno non sarebbe esistito alcun problema. Mi segui?

— Sì.

— È ovvio. Domanda stupida. — Susan scostò i capelli dal volto. Si stavano facendo grigi sulle tempie. Sotto l’orecchio destro si notava una piccola macchia scura dovuta all’età.

— Nel corso degli anni abbiamo raccolto migliaia, forse centinaia di migliaia di tomografie a emissione fotonica singola dei cervelli di voi ragazzi, oltre a un infinito numero di EEG, campioni di fluido cerebrospinale e tutto il resto. Ma non siamo mai stati in grado di vedere realmente all’interno dei vostri cervelli, di sapere effettivamente che cosa avvenisse lì dentro. Finché Bernie Kuhn è andato a sbattere contro quel terrapieno.

— Susan — disse Leisha — parla chiaro. Lascia perdere ulteriori fronzoli.

— Non invecchierete.

— Cosa?

— Oh, a livello estetico, un poco: rilasciamenti dovuti alla forza di gravità, forse. Ma l’assenza dei peptidi del sonno e tutto il resto agisce sui sistemi immunologico e di rigenerazione dei tessuti in modi che noi non comprendiamo. Bernie Kuhn aveva un fegato perfetto. Polmoni perfetti, cuore perfetto, linfonodi perfetti, pancreas perfetto, midollo allungato perfetto. Non soltanto sani o giovani: perfetti. È presente un potenziamento della rigenerazione dei tessuti che deriva chiaramente dall’operazione del sistema immunitario ma che è radicalmente diverso da qualsiasi cosa avessimo mai potuto sospettare. Gli organi non mostrano alcuna usura, nemmeno quel minimo che ci si aspetterebbe in un diciassettenne. Si riparano da soli, perfettamente, in continuazione… in continuazione.

— Per quanto tempo? — sussurrò Leisha.

— Chi diavolo lo sa? Bernie Kuhn era giovane. Forse esiste un qualche meccanismo di compensazione che interviene a un dato punto, e voi collasserete semplicemente tutti, come un’intera e fottuta galleria di Dorian Gray. Ma non penso che sia così. Non penso nemmeno che possa andare avanti per sempre: nessuna rigenerazione dei tessuti è in grado di farlo. Ma andrà avanti per molto, moltissimo tempo.

Leisha fissò i riflessi offuscati sul parabrezza dell’auto. Vide il volto di suo padre contro la seta azzurra della bara, circondata da rose bianche. Il suo cuore, non rigenerato, aveva ceduto.

Susan riprese: — Il futuro è solamente ipotetico su questo punto. Sappiamo che le strutture peptidiche che stimolano l’impulso a dormire nelle persone normali assomigliano alle componenti delle pareti cellulari batteriche. Forse esiste una connessione fra il sonno e la ricettività patogena. Non lo sappiamo. Ma l’ignoranza non ha mai fermato i tabloid. Volevo prepararti perché verrete chiamati superuomini, homo perfectus, e chissà cos’altro. Immortali.

Le due donne rimasero sedute in silenzio. Alla fine Leisha disse: — Lo comunicherò agli altri. Sulla nostra rete. Non ti preoccupare per la sicurezza. La rete del Gruppo è stata progettata da Kevin Baker: nessuno scopre quello che non vogliamo.

— Siete già così bene organizzati?

— Sì.

La bocca di Susan si mise a masticare. La donna distolse lo sguardo da Leisha. — Faremo meglio a entrare. Rischi di perdere l’aereo.

— Susan…

— Sì?

— Grazie.

— Non c’è di che — rispose Susan e, nella sua voce, Leisha udì ciò che aveva visto in precedenza nella sua espressione e che non era stata in grado di identificare: era nostalgia.


"Rigenerazione dei tessuti. Molto, moltissimo tempo", cantava il sangue nelle orecchie di Leisha durante il volo verso Boston. "Rigenerazione dei tessuti". E, alla fine: "immortale". No, quello no, si disse severamente. Quello no. Il sangue non l’ascoltò.

— Certo che lei sorride un bel po’ — le disse l’uomo che le stava seduto accanto in prima classe, un uomo d’affari che non l’aveva riconosciuta. — Viene da una grossa festa a Chicago?

— No. Da un funerale.

L’uomo sembrò scioccato, quindi disgustato. Leisha guardò fuori dal finestrino il terreno lontano sotto di lei. Fiumi come microcircuiti, campi come ordinate tessere da schedario. E, sull’orizzonte, bianche nuvole vaporose come ammassi di fiori esotici, boccioli in una serra inondata di luce.


La busta non era più spessa di quelle che contenevano volantini, ma un volantino spedito con l’indirizzo scritto a mano rappresentava per tutti e due una tale rarità che Richard si sentì nervoso. — Potrebbe essere esplosivo. — Leisha guardò la lettera appoggiata sulla credenza dell’ingresso. SIG. LIESHA CAMDEN. Lettere in stampatello, ortografia scorretta.

— Sembra la scrittura di un bambino — disse lei.

Richard era in piedi, a testa bassa, con le gambe leggermente divaricate: la sua espressione, tuttavia, era solamente affaticata. — Forse deliberatamente come quella di un bambino. Loro potrebbero aver calcolato che saresti stata più aperta nei confronti di un bambino.

— "Loro"? Richard, stiamo diventando paranoici fino a questo punto?

Lui non fece una piega alla domanda. — Sì. Per come stanno le cose.

Un settimana prima il "New England Journal of Medicine" aveva pubblicato l’articolo preciso ed equilibrato di Susan. Un’ora dopo, le notìzie televisive e in rete erano esplose in speculazioni, drammaticità, indignazione e paura. Leisha e Richard, insieme con tutti gli Insonni della rete del Gruppo, avevano analizzato e registrato ognuna delle quattro componenti in cerca di una reazione dominante: speculazioni ("gli Insonni potrebbero vivere per secoli e questo potrebbe condurre a queste conseguenze…"); drammaticità ("se un Insonne sposerà solamente Dormienti, potrebbe avere il tempo sufficiente per una decina di matrimoni e svariate decine di figli, un modello di famiglia mista in modo sconcertante…"); indignazione ("manomettere le leggi della natura ha solo portato fra noi delle persone cosiddette innaturali che vivranno con l’ingiusto vantaggio del tempo: tempo per acquisire più parenti, più potere, più proprietà di quanto il resto di noi potrebbe mai immaginare…"); e paura ("quanto tempo passerà prima che la Superrazza prenda il sopravvento?").

— Sono tutte paure, di un genere o di un altro — commentò alla fine Carolyn Rizzolo, e la rete del Gruppo interruppe le analisi differenziate.

Leisha stava affrontando gli esami finali dell’ultimo anno di legge. Ogni giorno veniva seguita da commenti, nel campus, lungo i corridoi e nelle classi; ogni giorno li dimenticava nelle estenuanti sessioni d’esame, in cui tutti gli studenti erano ridotti allo stesso stato di postulanti rispetto alla grande università. In seguito, temporaneamente spossata, ritornava a casa a piedi, silenziosamente, da Richard e dalla rete del Gruppo, conscia degli sguardi delle persone per la strada, conscia della sua guardia del corpo, Bruce, che camminava impettita fra lei e loro.

— La cosa si placherà — disse Leisha. Richard non le rispose.

La città di Salt Springs, in Texas, promulgò un’ordinanza locale secondo cui nessun Insonne poteva ottenere una licenza per la vendita di alcolici, basandosi sul fatto che gli statuti dei diritti civili si fondavano sulla clausola della Dichiarazione di Indipendenza "tutti gli uomini sono creati uguali" e gli Insonni non erano chiaramente inclusi. Non c’erano Insonni nel giro di quasi centocinquanta chilometri attorno a Salt Springs, e nessuno aveva richiesto una nuova licenza per la vendita di alcolici da dieci anni, ma la storia era stata raccolta dalla United Press e dalla Data-Net News e in ventiquattro ore erano apparsi editoriali infuocati, pro e contro la questione, in tutta la nazione.

Vennero promulgate altre ordinanze locali. A Pollux, in Pennsylvania, agli Insonni poteva essere negato l’affitto di un appartamento perché il loro prolungato stato di veglia avrebbe aumentato la normale usura della proprietà del padrone di casa e l’ammontare delle bollette della luce. A Cranston Estates, in California, gli Insonni vennero esclusi dalla gestione di commerci operanti 24 ore su 24: "concorrenza sleale". La Contea Irochese, nello stato di New York, impedì loro di fare parte delle giurie della contea, sostenendo che una giuria comprendente membri Insonni, con la loro idea distorta del tempo, non potesse costituire "una giuria di pari".

— Tutti questi statuti saranno rigettati dalle Corti Supreme — disse Leisha. — Ma Dio! Che spreco di soldi e di tempo per iscrivere a ruolo le cause! — Una parte della sua mente notò che il suo tono, quando aveva pronunciato la frase, era stato quello di Roger Camden.

Lo stato della Georgia, in cui determinati atti sessuali fra adulti consenzienti rappresentavano ancora un crimine, dichiarò il rapporto sessuale fra un Insonne e un Dormiente reato di terzo grado, paragonandolo a quello del rapporto sessuale con animali.

Kevin Baker aveva studiato un software che analizzava, ad alta velocità, le reti delle agenzie di stampa, evidenziando tutte le notizie che riguardavano discriminazione o assalti contro gli Insonni, ordinandoli poi per genere. I file erano disponibili nella rete del Gruppo. Leisha li lesse e quindi chiamò Kevin. — Non puoi creare un programma parallelo per estrapolare notizie in nostra difesa? Adesso abbiamo una visione distorta.

— Hai ragione — convenne Kevin, un po sconcertato. — Non ci avevo pensato.

— Pensaci — replicò Leisha, con espressione tetra. Richard, che la stava osservando, non disse nulla.

Quello che la sconvolgeva di più erano i racconti sui bambini Insonni. Schivati a scuola, maltrattati verbalmente dai fratelli, attaccati dai bulli del quartiere, soggetti al confuso risentimento di genitori che avevano voluto un bambino eccezionale ma che non si erano accordati per averne uno che avrebbe potuto vivere per secoli. La direzione scolastica di Cold River, nell’Iowa, aveva votato per escludere i bambini Insonni dalle classi convenzionali perché il loro apprendimento accelerato "creava sentimenti di inadeguatezza in altri, interferendo con l’istruzione di questi ultimi". Il consiglio aveva reso disponibili fondi perché gli Insonni potessero ottenere insegnanti a casa. Fra il personale docente non ci furono volontari. Leisha cominciò a passare lo stesso tempo alla rete del Gruppo con i bambini, per parlare con loro tutta la notte, di quello che passava a studiare per gli esami di abilitazione alla professione legale, in programma per luglio.

Stella Bevington smise di utilizzare il modem.

Il secondo programma di Kevin catalogò gli editoriali che spronavano alla correttezza nei confronti degli Insonni. Il consiglio scolastico di Denver mise da parte fondi per un programma in cui i bambini particolarmente dotati, inclusi gli Insonni, potessero utilizzare il loro talento e portare avanti un lavoro di gruppo insegnando a bambini ancora più piccoli. Rive Beau, in Louisiana, elesse l’Insonne Danielle du Cherney nel Consiglio Cittadino, anche se Danielle aveva solo ventidue anni ed era tecnicamente troppo giovane per presentarsi. La prestigiosa ditta di ricerca medica di Halley-Hall dette grande risalto all’assunzione di Cristopher Amren, Insonne con un dottorato di ricerca in fisica cellulare.

Dora Clarq, Insonne di Dallas, aprì una lettera indirizzata a lei e l’esplosivo al plastico le staccò un braccio.

Leisha e Richard fissarono ancora la busta sulla credenza dell’ingresso. La carta era spessa, color panna, ma non costosa, come quella fatta di massiccia carta di giornale tinta nelle sfumature del vello. Non c’era indirizzo del mittente, Richard chiamò Liz Bishop, Insonne che si stava diplomando in criminologia nel Michigan. Non aveva mai parlato con lei in precedenza, nemmeno Leisha lo aveva fatto, ma la ragazza si inserì immediatamente in rete e spiegò loro come aprire la busta; se avessero preferito, invece, sarebbe arrivata lei in aereo e l’avrebbe fatto personalmente. Richard e Leisha seguirono le sue istruzioni sulla detonazione a distanza nella cantina nell’appartamento cittadino. Non esplose nulla. Quando la lettera fu aperta, loro la estrassero e la lesserò:


Cara Signorina Camden,

lei è stata molto gentile con me e mi dispiace farlo ma mi licenzio. Ai sindacati mi fanno passare una vita d’inferno anche se non ufficialmente, ma lei sa come vanno queste cose. Se fossi in lei non andrei al sindacato per cercare un’altra guardia del corpo, cercherei di trovarmene una privatamente. Ma stia attenta. Le ripeto, mi dispiace, ma anche io devo vivere.

Bruce


— Non so se ridere o piangere — commentò Leisha. — Noi che ci siamo procurati tutto questo equipaggiamento, passando ore a prepararci per questa situazione in modo che non detonasse esplosivo…

— Non che io avessi da fare un gran che d’altro — rispose Richard. In seguito all’ondata di sentimenti anti-Insonni, tutti i suoi clienti per consulenze marine meno due, vulnerabili rispetto al mercato e quindi rispetto all’opinione pubblica, avevano cancellato le commissioni.

La rete del Gruppo, ancora accesa sul terminale di Leisha, trillò di segnali di emergenza sovrapposti. Leisha fu la prima ad arrivare. Era Tony Indivino.

— Leisha, ho bisogno del tuo aiuto legale, se me lo darai. Stanno cercando di farmi causa per il Rifugio. Ti prego, prendi l’aereo e vieni qui.


Il Rifugio non era altro che crudi solchi bruni nel terreno di tarda primavera. Era situato sui monti Allegheny nella zona meridionale dello stato di New York, antiche colline arrotondate dal tempo e ricoperte di pini e noci americani. Una superba strada conduceva dal paese più vicino, Conewango, al Rifugio. Bassi edifici a manutenzione zero, la cui struttura era semplice ma aggraziata, si ergevano a diversi stadi di completamento. Jennifer Sharifi, senza sorridere, andò incontro a Leisha e Richard. Non era molto cambiata in sei anni, ma i suoi lunghi capelli neri erano spettinati e gli occhi scuri spalancati per la tensione. — Tony vuole parlare con voi, ma prima mi ha chiesto di mostrarvi il posto.

— Che cosa c’è che non va? — chiese tranquillamente Leisha.

Jennifer non cercò nemmeno di eludere la domanda. — Dopo. Prima date un’occhiata al Rifugio. Tony ha un immenso rispetto della tua opinione, Leisha: vuole che tu veda ogni cosa.

I dormitori comprendevano ognuno cinquanta camere con sale comuni per cucinare, pranzare, rilassarsi e lare il bagno e una conigliera di uffici separati, studi e laboratori per lavorare. — Li chiamiamo "dormitori" comunque, a dispetto dell’etimologia — disse Jennifer e perfino in quell’osservazione, che fatta da chiunque altro sarebbe risultata giocosa, Leisha colse la peculiare combinazione della solita deliberata calma di Jennifer con la tensione di quel momento.

Leisha restò impressionata, a dispetto di se stessa, per la completezza dei progetti di Tony per vite che sarebbero state allo stesso tempo comunitarie e intensamente private. C’era una palestra, un piccolo ospedale.

— Per la fine del prossimo anno avremo diciotto medici dell’Associazione medica americana, sai, e quattro stanno pensando di trasferirsi qui. — Un ambulatorio, una scuola e una fattoria per la coltivazione intensiva.

— La maggior parte degli alimenti arriverà dall’esterno, ovviamente, così come la maggior parte del lavoro per le persone, anche se ne svolgeranno il più possibile da qui, tramite rete. Non ci stiamo staccando dal mondo, stiamo solo creando un luogo sicuro dal quale poter commerciare. — Leisha non rispose.

A parte gli impianti per la produzione energetica, energia-Y ad automantenimento, Leisha rimase maggiormente impressionata dalla pianificazione umana. Tony aveva interessato Insonni appartenenti virtualmente a ogni campo di cui avrebbero avuto bisogno sia per prendersi cura di se stessi sia per trattare con il mondo esterno. — Avvocati e contabili vengono per primi — disse Jennifer. — Questa è la nostra prima linea di difesa per salvaguardare noi stessi. Tony ammette che le più moderne battaglie per il potere vengono combattute nei tribunali e nei consigli di amministrazione.

Ma non tutte. Da ultimo, Jennifer mostrò loro i progetti per la difesa fisica. Per la prima volta, il suo corpo teso sembrò rilassarsi leggermente.

Era stato compiuto ogni sforzo per bloccare gli aggressori senza far loro del male. Un sistema di sorveglianza elettronica circondava integralmente i duecento chilometri quadrati che Jennifer aveva acquistato. Alcune contee erano più piccole di così, pensò Leisha, abbacinata. Se infranto, si attivava un campo di forza settecento metri all’interno della cancellata a energia, colpendo con scosse elettriche chiunque si fosse trovato a piedi. — Ma soltanto all’esterno del campo. Non vogliamo che alcuno dei nostri piccoli venga ferito — disse Jennifer. Un’irruzione effettuata da veicoli privi di uomini a bordo o da robot sarebbe stata identificata da un sistema che localizzava qualsiasi oggetto mobile in metallo, superiore a una certa massa, che si fosse spostato all’interno del Rifugio. Qualsiasi oggetto metallico semovibile che non fosse dotato di uno speciale dispositivo di segnalazione progettato da Donald Pospula, un Insonne che aveva brevettato importanti componenti elettronici, risultava sospetto.

— Ovviamente, non siamo equipaggiati contro un attacco aereo o contro un assalto armato diretto — dis se Jennifer. — Ma non ce ne aspettiamo: ci attendiamo soltanto persone cariche di odio automotivato.

Leisha toccò con un dito la copia cartacea degli impianti di sicurezza. La preoccupavano. — Se non possiamo integrarci nel mondo… Libero scambio dovrebbe implicare libero movimento.

Jennifer ribatté rapidamente: — Solo se il libero movimento implica libere menti. — E, a causa del suo tono, Leisha sollevò lo sguardo. — Ho qualcosa da dirti, Leisha.

— Cosa?

— Tony non è qui.

— E dov’è?

— Nella prigione della contea di Cattaraugus, a Conewango. È vero che ci stiamo scontrando con la lottizzazione del piano regolatore riguardo al Rifugio!Piano regolatore! In questo posto isolato! Ma c’è dell’altro, una cosa che è accaduta questa mattina Tony è stato arrestato per il rapimento di Timmy De Marzo.

La stanza si offuscò. — FBI!

— Sì.

— Come… come hanno fatto a scoprirlo?

— Qualche agente è riuscito, alla fine, a risolvere il caso. Non ci hanno detto come. Tony ha bisogno di un avvocato, Leisha. Bill Thaine si è già dichiarato disponibile, ma Tony vuole te.

— Jennifer, non darò gli esami per la libera professione che a luglio!

— Lui dice che aspetterà. Nel frattempo, sarà Bill ad agire in qualità di suo legale. Passerai l’esame?

— Certamente. Ma ho già un lavoro in attesa con Morehouse, Kennedy Anderson a New York… — Si interruppe. Richard la stava fissando con espressione dura, Jennifer imperscrutabile. Leisha disse pacatamente: — Come si dichiarerà?

— Colpevole — rispose Jennifer. — Con… come si dice legalmente? Circostanze attenuanti.

Leisha annuì. Aveva temuto che Tony si fosse voluto dichiarare innocente: altre bugie, sotterfugi, orride linee di condotta. La sua mente ripassò velocemente circostanze attenuanti, precedenti, sentenze precedenti. Avrebbero potuto usare Clements contro Voy.

— Adesso Bill è da lui, in prigione — disse Jennifer. — Vuoi che ti ci porti io? — Formulò la domanda come una sfida.

— Sì — rispose Leisha.

A Conewango, sede della contea, non fu loro concesso di vedere Tony. William Thaine, in qualità di suo avvocato, poteva entrare e uscire liberamente. Leisha, non ancora ufficialmente avvocato, non poteva andare da nessuna parte. Questo venne comunicato loro da un uomo che si trovava nell’ufficio del Procuratore distrettuale, il cui volto rimase immobile mentre parlava e che sputò a terra, dietro alle loro spalle, quando si voltarono per andarsene, anche se questo lo lasciò con un bello sputo sul pavimento del tribunale.

Richard e Leisha ritornarono all’aeroporto con l’automobile noleggiata per prendere il volo per Boston. Durante il tragitto, Richard disse a Leisha che sarebbe partito. Si sarebbe trasferito al Rifugio, subito, prima ancora che fosse del tutto in funzione, per dare una mano nella progettazione e nella costruzione degli edifici.


Leisha passò la maggior parte del tempo nell’appartamento in città, studiando ferocemente per gli esami di abilitazione o controllando i bambini Insonni tramite la rete del Gruppo. Non aveva assunto una nuova guardia del corpo per sostituire Bruce, il che la rendeva riluttante a uscire spesso: la riluttanza, a sua volta, la faceva infuriare con se stessa. Una o due volte al giorno analizzava gli stralci sulle notizie elettroniche di Kevin.

C’erano segni di speranza. Il "New York Times" pubblicò un editoriale, che ebbe ampia risonanza nel servizio di informazioni elettroniche:

PROSPERITÀ E ODIO:
UNA CURVA LOGICA CHE PREFERIREMMO NON VEDERE

Gli Stati Uniti non sono mai stati un paese che stima molto la calma, la logica e la razionalità. Abbiamo, in quanto popolo, la tendenza a etichettare queste cose come "fredde". Abbiamo, in quanto popolo, la tendenza ad ammirare sentimenti e azione: esaltiamo nelle nostre storie e nei nostri memoriali non tanto la creazione della Costituzione, quanto la sua difesa a Iwo Jima; non le realizzazioni intellettuali di un Linus Pauling ma la passione eroica di un Charles Lindbergh; non gli inventori delle monorotaie e dei computer che ci uniscono ma i compositori dei violenti canti di ribellione che ci dividono.

Un aspetto peculiare di questo fenomeno è che esso diventa più forte nei periodi di prosperità. Quanto meglio stanno i nostri concittadini, tanto più grande si fa il loro disprezzo per il calmo ragionamento che li ha portati fin lì e più appassionato il loro indulgere nelle emozioni. Considerate, nel secolo scorso, gli eccessi goderecci dei ruggenti anni Venti e lo sdegno contro la classe dirigente degli anni Sessanta. Considerate, nel nostro secolo, la prosperità senza precedenti fornitaci dall’energia-Y… e poi considerate che Kenzo Yagai, se si eccettuano i suoi seguaci, è stato visto come un avido e insensibile logico, mentre la nostra adulazione nazionale va allo scrittore neonichilista Stephen Castelli, all’attrice "sentimentale" Brenda Foss e al temerario tuffatore nel condotto a gravità Jim Morse Luter.

Ma soprattutto, mentre riflettete su questo fenomeno nelle vostre case a energia-Y, considerate l’attuale ondata di sentimenti irrazionali diretta contro gli "Insonni" dal momento della pubblicazione delle scoperte realizzate in collaborazione dall’Istituto Biotech e dalla Medical School di Chicago riguardanti la rigenerazione dei tessuti negli Insonni.

La maggior parte degli Insonni è intelligente. La maggior parte di essi è calma, se con quella parola molto bistrattata si definisce il dirigere le proprie energie sulla risoluzione dei problemi, piuttosto che sul reagire in modo eccessivamente emotivo rispetto agli stessi problemi. Perfino la vincitrice del premio Pulitzer, Carolyn Rizzolo, ci ha donato una sbalorditiva opera di idee, non di passionalità sanguinaria. Tutti loro mostrano un’inclinazione naturale verso le conquiste, un’inclinazione dovuta all’incontestabile spinta fornita dal terzo di tempo in più, durante le loro giornate, per poter conquistare. Le loro realizzazioni vengono effettuate, nella maggior parte dei casi, nei campi di tipo logico piuttosto che in quelli di tipo emotivo: computer, legge, finanza, fisica, ricerca medica. Sono razionali, metodici, calmi, intelligenti, allegri, giovanili e, potenzialmente, molto longevi.

E nei nostri Stati Uniti che godono di una prosperità senza precedenti sono sempre più odiati.

L’odio che abbiamo visto fiorire così ampiamente nel corso degli ultimi pochi mesi proviene realmente, come molti sostengono, "dall’ingiusto vantaggio" che hanno gli Insonni rispetto al resto di noi nell’assicurarsi posti di lavoro, promozioni, soldi e successo? Si tratta davvero di invidia per la fortuna degli Insonni? O si tratta piuttosto di qualcosa di più pernicioso, radicato nella nostra tradizione di azione americana stile colpo-in-canna: odio del logico, del tranquillo, del riflessivo? Odio, di fatto, della mente superiore?

Se così fosse, forse dovremmo riflettere profondamente sui fondatori di questo paese: Jefferson, Washington, Paine, Adams… cittadini dell’Era della Ragione, tutti. Questi uomini hanno creato il nostro equilibrato e ordinato sistema di leggi proprio per proteggere la proprietà e le conquiste prodotte dagli sforzi individuali di menti equilibrate e razionali. Gli Insonni potrebbero rappresentare il nostro test interno più severo sulla solidità del nostro credo nella legge e nell’ordine. No, gli Insonni non furono "creati uguali", ma il nostro atteggiamento nei loro confronti dovrebbe essere esaminato con un’attenzione uguale alla nostra più sobria giurisprudenza. Potrebbe non piacerci quello che scopriremo sulle nostre reali motivazioni, ma la nostra credibilità come popolo può dipendere dalla razionalità e dall’intelligenza dell’esame.

Tutt’e due queste qualità sono state piuttosto ridotte nella reazione pubblica alle scoperte della ricerca del mese scorso.

La legge non è teatro. Prima di scrivere leggi che riflettono sentimenti drammatici e appariscenti dobbiamo essere molto sicuri di comprendere la differenza.


Leisha rimase compiaciuta a fissare deliziala lo schermo, sorridendo. Chiamò il "New York Times" e chiese chi avesse scritto l’articolo. La centralinista, cordiale quando rispose al telefono, si fece scostante. Il "Times" non avrebbe fornito quell’informazione "senza previa investigazione interna".

Questo non poté abbattere il suo buon umore. Prese a turbinare nell’appartamento, dopo essere rimasta giorni interi seduta alla scrivania o davanti al video L’entusiasmo pretendeva azione fisica. Lavò i piatti, prese in mano libri. C’erano dei vuoti nel mobilio nei punti dai quali Richard aveva preso cose che gli appartenevano; tranquillizatasi un poco, spostò i mobili per colmare i buchi.

Susan Melling le telefonò per parlarle dell’articolo sul "Times": chiacchierarono con affetto per qualche minuto. Quando Susan riagganciò, il telefono squillò nuovamente,

— Leisha? La tua voce è sempre uguale. Sono Stewart Sutter.

— Stewart. — Lei non lo aveva più visto da quattro anni. La loro storia d’amore era durata per due anni poi si era dissolta, non tanto per qualche motivo doloroso quanto, piuttosto, per la pressione esercitata su tutti e due dagli studi. In piedi accanto al telefono, sentendo la sua voce, Leisha provò improvvisamente la sensazione delle mani di lui sul suo seno nel lettino del dormitorio: quanti anni erano passati prima che lei avesse trovato un buon uso per un letto. Le mani fantasma divennero quelle di Richard, e un dolore improvviso la trafisse.

— Ascolta — le disse Stewart — ti chiamo perché ho un’informazione che penso dovresti conoscere. Sosterrai gli esami per l’abilitazione alla professione la settimana prossima, vero? E poi hai un posto in prova presso Morehouse, Kennedy Anderson.

— Come fai a sapere tutte queste cose, Stewart?

— Pettegolezzi da lavandaie. Be’, non proprio. Ma la comunità legale di New York, quanto meno quella parte, è più ristretta di quanto non pensi. E tu sei un elemento piuttosto in vista.

— Già — commentò Leisha in modo neutrale.

— Nessuno ha il minimo dubbio che tu possa non passare l’esame. Vengono tuttavia avanzati dei dubbi sul lavoro con Morehouse e Kennedy. Ci sono due soci anziani, Alan Morehouse e Seth Brown, che hanno cambiato idea dopo quel… casino. "Pubblicità negativa per la compagnia", "far diventare la legge un circo", bla, bla, bla. Conosci la storia. Ma hai anche due potenti sostenitori, Ann Carlyle e Michael Kennedy, il vecchio in persona. È una gran mente. Comunque, volevo che fossi al corrente per capire esattamente com’è la situazione e sapere su chi contare nella lotta senza quartiere.

— Grazie — fece Leisha. — Stew, perché ti interessa che io ottenga o no il lavoro? Perché dovrebbe importarti?

All’altro capo del filo ci fu silenzio. Stewart disse quindi a voce molto bassa: — Non siamo tutte teste di cavolo qui fuori, Leisha. La giustizia importa ancora ad alcuni di noi. Così come il merito.

Leisha si sentì pervadere da una luce, una bolla di luce di allegria.

Stewart continuò: — Hai grande sostegno, qui, anche per quella stupida battaglia del piano regolatore riguardante il Rifugio. Potresti non accorgertene, ma é così. Ciò che stanno cercando di mettere in piedi quelli della Commissione dei Parchi… ma vengono solamente usati come fronte. D’altra parte, lo sai già. Comunque, quando si arriverà in tribunale, avrai tutto l’aiuto di cui ci sarà bisogno.

— Il Rifugio non è affatto opera mia. Per niente.

— No? Be’, allora per voi, come gruppo.

— Grazie. Dico davvero. Come stai?

— Bene. Sono diventato papà.

— Sul serio? Maschio o femmina?

— Una bambina. Una magnifica piccola civetta di nome Justine che mi fa impazzire. Mi piacerebbe che tu conoscessi mia moglie, Leisha.

— Piacerebbe anche a me — rispose Leisha.

Passò il resto della notte a studiare per gli esami di abilitazione. La bolla rimase dentro di lei. Riconobbe esattamente che cos’era: gioia.

Sarebbe andato tutto bene. Il contratto, non ancora scritto, fra lei e la sua società, la società di Kenzo Yagai, la società di Roger Camden, avrebbe tenuto. Con dissensi e lotte e, sì, anche con odio. Pensò improvvisamente ai mendicanti di Spagna di Tony, infuriati contro i forti perché loro non lo erano. Già, ma avrebbe tenuto.

Lo credeva fermamente.

Davvero.

7

Leisha sostenne gli esami per l’abilitazione alla libera professione in luglio. Non le sembrarono difficili. In seguito, tre compagni di corso, due uomini e una donna, si sentirono in dovere di parlare con Leisha in modo falsamente casuale finché lei non fu salita al sicuro su un taxi il cui conducente evidentemente non conosceva né lei né i cartelli di stop. I tre erano tutti Dormienti. Un paio di matricole, giovanotti biondi e ben rasati dai visi lunghi e la sciocca arroganza della stupidità dei ricchi, adocchiarono Leisha e sogghignarono. La compagna di corso di Leisha sogghignò di rimando.

Leisha aveva un volo per Chicago la mattina successiva. Alice l’avrebbe raggiunta lì. Dovevano ripulire la grande casa sul lago, disporre delle proprietà personali di Roger e mettere in vendita l’immobile. Leisha non aveva avuto tempo per farlo prima.

Ricordò suo padre nella serra, con un antico cappello piatto che aveva recuperato da qualche parte, mentre invasava orchidee, gelsomini e fiori della passione.

Quando il campanello della porta suonò, la ragazza sobbalzò: non riceveva quasi mai visite. Con ansia, accese il videocitofono: forse si trattava di Jonathan o Martha, tornati a Boston per farle una sorpresa, per festeggiare. Perché non aveva pensato in anticipo a una specie di festeggiamento?

Richard stava fissando in alto la telecamera. Aveva pianto.

Lei spalancò la porta. Richard non accennò nemmeno a entrare. Leisha vide che ciò che la telecamera aveva riportato come dolore in realtà era qualcosa d’altro: lacrime di rabbia.

— Tony è morto.

Leisha protese la mano, alla cieca. Richard non la prese.

— Lo hanno ucciso in prigione. Non le autorità: gli altri prigionieri. Nel cortile della ricreazione. Assassini, stupratori, saccheggiatori, la feccia della terra; hanno pensato di avere il diritto di uccidere lui perché era diverso.

A quel punto, Richard afferrò il braccio di Leisha con tale violenza che qualcosa, qualche osso, si mosse sotto la carnee le premette contro un nervo. — Non solo diverso, migliore. Perché lui era migliore, perché tutti noi lo siamo, solo che, maledizione, non ci ribelliamo e non lo gridiamo a causa di qualche sentimento mal riposto, per i loro sentimenti… Dio!

Leisha liberò il braccio e lo sfregò, intorpidito, fissando sbigottita il volto contorto di Richard.

— Lo hanno picchiato a morte con un tubo di piombo. Nessuno sa nemmeno come abbiano fatto a procurarsi un tubo di piombo. Lo hanno picchiato sulla nuca, poi lo hanno rivoltato e…

— Smettila! — intimò Leisha. La parola venne fuori in un gemito.

Richard la guardò. Nonostante le grida, la violenta presa sul suo braccio, Leisha ebbe la confusa impressione che quella fosse la prima volta in cui lui l’avesse realmente vista. Continuò a sfregarsi il braccio, guardandolo a occhi sbarrati, terrorizzata.

Lui disse pacatamente: — Sono venuto per portarti al Rifugio, Leisha. Dan Jenkins e Vernon Bulriss sono nell’auto qui davanti. Noi tre ti porteremo fuori a forza, se necessario. Ma tu verrai, vero? Lo capisci da sola, no? Non sei al sicuro, qui, con la tua importanza e il tuo fisico che dà nell’occhio. Sei un bersaglio naturale, semmai ne è esistito uno. Dobbiamo costringerti? O riesci finalmente a capire da sola che non abbiamo altra scelta? Quei bastardi non ci hanno lasciato altra scelta se non il Rifugio.

Leisha chiuse gli occhi. Tony, quattordicenne, in spiaggia. Tony, con occhi feroci e scintillanti, il primo ad allungare la mano verso il bicchiere di interleukin-1. Mendicanti in Spagna.

— Verrò.


Leisha non aveva mai conosciuto un tale furore. La terrorizzò, presentandosi a ondate durante tutta la lunga notte, ritirandosi e poi tornando sempre. Richard la tenne stretta fra le braccia; rimasero seduti tutti e due con le schiene appoggiate contro la parete della libreria, ma il fatto che lui l’abbracciasse non riuscì a fare alcuna differenza. In salotto, Dan e Vernon parlavano a voce bassa.

A volte, la rabbia esplodeva in grida, e Leisha udiva se stessa e pensava: "Non ti conosco". A volte, si trasformava in pianto, a volte, in racconti su Tony, su tutti loro. Né le grida né il pianto né il parlare riuscirono a sollevarla.

Il pianificare l’aiutò, un poco. Leisha parlò a Richard, con voce fredda e dura che non riconobbe, del viaggio per chiudere la casa di Chicago. Vi doveva andare per forza: Alice si trovava già lì. Se Richard, Dan e Vernon avessero messo Leisha sull’aereo e Alice la fosse andata a prendere al termine del volo con guardie del corpo del sindacato, non avrebbe corso eccessivi pericoli. Poi avrebbe potuto cambiare il biglietto di ritorno per Boston con uno per Conewango e recarsi con Richard al Rifugio.

— La gente sta già arrivando — le disse Richard. — Jennifer Sharifi sta organizzando tutto, oliando i rifornitori Dormienti con tanti di quei soldi che loro non riescono a resistere. Che ne farai di questo appartamento in città, Leisha? I mobili, il computer e i vestiti?

Leisha si guardò attorno nel familiare studio. Libri di legge rossi, verdi e marrone, allineati lungo le pareti sebbene la maggior parte delle informazioni che contenevano fosse presente anche nei computer. Una tazza di caffè era appoggiata su un foglio stampato posto sulla scrivania. Di fianco, si trovava la ricevuta che lei aveva richiesto al tassista quel pomeriggio, un frivolo souvenir del giorno in cui aveva superato gli esami di abilitazione: aveva pensato di farlo incorniciare. Sopra la scrivania c’era un ritratto olografico di Kenzo Yagai.

— Che marcisca pure tutto quanto — disse Leisha.

Il braccio di Richard le si strinse attorno.


— Non ti ho mai vista in questo stato — le disse Alice con voce sommessa. — C’è sotto qualcosa che va al di là del ripulire la casa, vero?

— Vediamo di andare avanti — rispose Leisha. Strappò via un abito dall’armadio del padre. — Vuoi qualcosa di questa roba per tuo marito?

— Non gli andrebbe bene.

— I cappelli?

— No — rispose Alice. — Leisha… che cos’hai?

— Vediamo di finire! — La ragazza tirò via con violenza tutti gli abiti dall’armadio di Camden, li accatastò sul pavimento, scribacchiò PER AGENZIA DI BENEFICENZA su un pezzetto di carta e lo fece cadere in cima alla pila. Silenziosamente, Alice iniziò ad aggiungervi capi di vestiario dal comò, sul quale era già stato attaccato un foglietto con la scritta ASTA PATRIMONIALE.

Le tende erano state già tirate via in tutta la casa: Alice lo aveva fatto il giorno precedente. Aveva anche arrotolato i tappeti. Il tramonto balenava di rosso sui nudi pavimenti in legno.

— Che vuoi fare della tua vecchia camera? — chiese Leisha. — Cosa vuoi prendere?

— Ho già etichettato tutto — disse Alice. — Giovedì verrà quello dei traslochi.

— Bene. C’è altro?

— La serra. Sanderson ha continuato ad annaffiare tutto, ma non sapeva esattamente quali piante ne avessero bisogno, e così parecchie di esse sono…

— Licenzia Sanderson — disse seccamente Leisha. — Le piante esotiche possono anche morire. Oppure falle mandare a un ospedale, se preferisci. Stai solo attenta a quelle che sono velenose. Avanti, occupiamoci dello studio.

Alice si sedette lentamente su un tappeto arrotolato al centro della camera da letto di Camden. Si era tagliata i capelli: Leisha pensò che il taglio fosse orribile, ciuffi scuri sfrangiati attorno al volto largo. La ragazza aveva anche acquistato altro peso. Stava cominciando ad assomigliare alla loro madre.

Alice chiese: — Ti ricordi della sera in cui ti ho detto che ero incinta? Appena prima che tu partissi per Harvard?

— Occupiamoci dello studio!

— Ti ricordi? — insistette Alice. — Per l’amor del cielo, per una volta tanto non puoi stare anche a sentire gli altri, Leisha? Devi assomigliare così tanto a Papà in ogni singolo minuto?

— Non sono Papà!

— Col cavolo che non lo sei. Sei esattamente come lui ti ha fatto. Ma non è questo il punto. Ti ricordi quella sera?

Leisha scavalcò il tappeto e uscì dalla porta. Alice rimase semplicemente seduta. Un minuto dopo Leisha rientrò. — Me lo ricordo.

— Eri quasi in lacrime — continuò implacabilmente Alice. La sua voce era calma. — Non ricordo nemmeno esattamente il perché. Forse perché, dopo tutto, non sarei andata al college. Ma ti ho abbracciata e per la prima volta da anni… anni, Leisha… ho sentito che eri veramente mia sorella. A dispetto di tutto: il vagare in giro tutta notte e le discussioni da esibizionista con Papà, la scuola speciale e le artificiali gambe lunghe e i capelli biondi. Tutte queste stronzate. Sembravi avere bisogno che io ti abbracciassi. Sembravi avere bisogno di me. Sembravi avere bisogno.

— Che vorresti dire? — chiese Leisha. — Che puoi sentirti davvero vicina alla gente solo se questa è nei guai e ha bisogno di te? Che puoi essere una sorella per me solo se ho qualche tipo di dolore, se soffro per qualche ferita aperta? È questo il legame che esiste fra voi Dormienti? "Proteggimi mentre sono in stato di incoscienza, sono menomato esattamente come te"?

— No — disse Alice. — Io sto dicendo che tu sai essere una sorella solo se stai soffrendo.

Leisha la fissò sbigottita. — Sei una stupida, Alice.

Alice rispose tranquillamente: — Lo so. Al tuo confronto lo sono. Lo so.

Leisha scosse violentemente la testa. Si vergognava di quello che aveva appena detto, eppure era la verità, sapevano tutt’e due, che era la verità e tuttavia la rabbia le regnava ancora dentro come un oscuro vuoto, informe e bruciante. Il peggio era costituito dalla parte informe. Senza una struttura non poteva esistere azione; senza azione, la rabbia continuava a bruciarle dentro, soffocandola.

Alice continuò: — Quando avevo dodici anni Susan mi regalò un abito per il nostro compleanno. Tu eri via da qualche parte per una di quelle gite di studio di due giorni che la tua scuola di lusso organizzava costantemente. L’abito era di seta, azzurro tenue con pizzo antico. Molto bello. Io ero emozionatissima non soltanto perché era bellissimo ma anche perché Susan lo aveva comperato per me, mentre per te aveva preso del software. Il vestito era mio. Era, pensai io, me. - Nell’oscurità che si stava addensando Leisha era a mala pena in grado di distinguere le fattezze tarchiate e insignificanti di lei. — La prima volta che l’ho indossato un ragazzo mi ha detto: "Hai rubato il vestito a tua sorella, Alice? L’hai fregato mentre lei stava dormendo?" Poi si è messo a ridere come un matto, nel modo in cui facevano sempre.

— Ho buttato via il vestito. Non ho nemmeno spiegato a Susan la cosa, anche se penso che lei avrebbe capito. Tutto quello che era tuo era tuo e tutto quello che non era tuo era tuo lo stesso. Era il modo in cui Papà aveva organizzato le cose. Il modo in cui l’aveva scritto nei tuoi geni.

— Anche tu? — disse Leisha. — Non sei diversa dagli altri mendicanti invidiosi?

Alice si alzò dal tappeto. Lo fece lentamente, con comodo, spazzolandosi via la polvere dalla gonna spiegazzata, lisciando il tessuto stampato. Si avvicinò, quindi, e colpì Leisha sulla bocca.

— Adesso ti sei accorta che sono reale? — le chiese tranquillamente Alice.

Leisha si portò la mano sulla bocca. Sentì il sapore del sangue. Il telefono si mise a squillare, la linea personale di Camden, quella non riportata sugli elenchi. Alice si incamminò verso l’apparecchio, sollevò il ricevitore, ascoltò e lo porse tranquillamente a Leisha: — È per te.

Inebetita, Leisha lo prese.

— Leisha? Sono Kevin. Ascolta, è successo qualcosa. Mi ha chiamato Stella Bevington, al telefono, non tramite la rete del Gruppo; penso che i genitori le abbiano portato via il modem. Ho sollevato il ricevitore e lei si è messa a gridare: "Sono Stella! Mi stanno picchiando, lui è ubriaco…" poi è caduta la linea. Randy è andato al Rifugio. Che diavolo, ci sono andati tutti. Tu sei la più vicina a lei, la piccola è ancora a Skokie. Farai meglio ad arrivare lì in fretta. Hai delle guardie del corpo di fiducia?

— Sì — rispose Leisha, anche se non ne aveva. La rabbia, alla fine, prese forma. — Me ne occupo io.

— Non so come farai a tirarla fuori di li — disse Kevin. — Ti riconosceranno, sanno che lei ha chiamato qualcuno, potrebbero perfino averla ridotta senza sensi.

— Me ne occuperò io — ripeté Leisha.

— Occuparti di che? — chiese Alice.

Leisha la affrontò. Anche se sapeva che non avrebbe dovuto, disse: — Di quello che fa la tua gente. A uno di noi. Una bambina di sette anni che viene picchiata dai genitori perché è Insonne… perché è migliore di quanto non siate voi. — Corse lungo le scale e uscì verso l’automobile noleggiata con la quale era arrivata dall’aeroporto.

Alice corse giù insieme con lei. — Non la tua auto, Leisha. Possono rintracciare un’automobile noleggiata in un attimo. La mia.

Leisha si mise a gridare: — Se pensi di…

Alice spalancò violentemente la portiera della sua Toyota ammaccata, un modello così vecchio che i coni a energia-Y non erano nemmeno nascosti e pendevano come mascelle cadenti su entrambe le fiancate. Spinse Leisha sul sedile del passeggero, sbatté la portiera e si incastrò con forza dietro al volante. Le sue mani erano ferme. — Dove?

Leisha venne sopraffatta dall’oscurità. Abbassò la testa fra le ginocchia per quanto permettesse l’angusta Toyota. Erano passati due, no, tre giorni dall’ultima volta che aveva mangiato. Non aveva più ingoiato nulla dalla sera precedente agli esami per l’abilitazione. La sensazione di svenimento si attenuò, ma si impossessò nuovamente di lei non appena ebbe sollevato la testa.

Diede ad Alice l’indirizzo di Skokìe.


— Rimani indietro — disse Alice. — C’è una sciarpa nel portaoggetti. Indossala. Fai che ti copra il più possibile la faccia.

Alice aveva fermato l’auto sulla superstrada 42. Leisha fece: — Questo non è…

— È un posto di sorveglianza rapida. Dobbiamo dare l’impressione di essere protette, Leisha. A lui non dobbiamo dire nulla. Farò in fretta.

Nel giro di tre minuti ritornò con un omone che indossava un dozzinale abito scuro. Lui si premette sul sedile anteriore accanto ad Alice e non disse una sola parola. Alice non lo presentò.

La casa era piccola, un po’ trascurata con alcune luci accese al piano inferiore e nessuna a quello superiore. Le prime stelle brillavano a nord, lontano da Chicago. Alice disse alla guardia: — Esca dall’auto e rimanga fermo qui presso la portiera. No, più alla luce. E non faccia nulla a meno che io non venga in qualche modo attaccata. — L’uomo annuì. Alice si incamminò per il vialetto di ingresso. Leisha scattò fuori dal sedile posteriore e raggiunse la sorella a due terzi del percorso che portava al portone in plastica.

— Alice, che diavolo stai facendo? Sono io che devo…

— Abbassa la voce — intimò Alice, lanciando un’occhiata alla guardia. — Leisha, rifletti. Tu verresti riconosciuta. Qui, vicino a Chicago, con una figlia Insonne: questa gente ha visto tue fotografie sui rotocalchi per anni. Hanno visto tuoi olovideo ad ampia diffusione. Ti conoscono. Sanno che diventerai avvocato. Nessuno invece ha mai visto me. Io non sono nessuno.

— Alice…

— Per l’amor del cielo, ritorna in auto! — sibilò Alice, e bussò al portone d’ingresso.

Leisha si scansò dal vialetto, nascondendosi all’ombra di un salice. Un uomo aprì la porta. Aveva un’espressione completamente vacua.

Alice disse: — Assistenza Sociale Minori. Abbiamo ricevuto una telefonata da una bambina da questo numero. Mi faccia entrare.

— Non c’è nessuna bambina qui.

— Questa è un’emergenza a priorità assoluta — proseguì Alice. — Legge 186 sulla protezione dei minori. Mi faccia entrare!

L’uomo, ancora con l’espressione vacua, lanciò un’occhiata alla corpulenta figura accanto all’auto. — Ha un mandato di perquisizione?

— Non ne ho bisogno, in caso di emergenza a priorità assoluta. Se non mi farà entrare, andrà incontro a grane legali che nemmeno si può immaginare.

Leisha serrò le labbra. Nessuno ci avrebbe creduto, era un pomposo linguaggio legale. Il labbro le pulsò nel punto in cui Alice l’aveva colpita.

L’uomo si scansò di lato per lasciare entrare Alice.

La guardia cominciò a muoversi in avanti. Leisha esitò, quindi lo lasciò fare. L’uomo entrò insieme con Alice.

Leisha restò in attesa, da sola, nell’oscurità.

Nel giro di tre minuti uscirono, la guardia portava in braccio una bambina. Il volto largo di Alice riluceva, pallido, alla luce della veranda. Leisha balzò in avanti, aprì la portiera dell’auto e aiutò la guardia a deporre la bambina all’interno. La guardia aveva un’espressione corrucciata, un lento cipiglio sconcertato carico di diffidenza.

Alice disse: — Ecco qui. Questi sono cento dollari extra. Per tornare in città per suo conto.

— Ehi… — protestò la guardia, ma prese i soldi. Continuò a guardarle mentre Alice si allontanava.

— Andrà dritto filato alla polizia — disse Leisha disperata. Dovrà farlo altrimenti rischia di perdere la licenza.

— Lo so — rispose Alice. — Ma, a quel punto, noi saremo già fuori dall’auto.

— Dove?

— All’ospedale — rispose Alice.

— Alice, non possiamo… — Leisha non terminò. Si voltò verso il sedile posteriore. — Stella? Mi senti?

— Sì — confermò una vocina.

Leisha cercò a tastoni finché le dita non trovarono la luce per illuminare il sedile posteriore. Stella giaceva stesa sul sedile, col volto contorto dal dolore. Si teneva il braccio sinistro con il destro. Un singolo livido le macchiava il volto, al di sopra dell’occhio sinistro. Aveva i capelli rossi intrecciati e sporchi.

— Tu sei Leisha Camden — disse la bambina, e cominciò a piangere.

— Ha un braccio rotto — commentò Alice.

— Tesoro, riesci… — Leisha sentiva un groppo in gola e aveva difficoltà a pronunciare le parole — riesci a resistere finché non saremo arrivati da un dottore?

— Sì — rispose Stella. — Ma non mi riportate indietro!

— Non lo faremo — la rassicurò Leisha. — Mai. — Lanciò un’occhiata ad Alice e vide il volto di Tony.

Alice annunciò: — C’è un ospedale della comunità circa quindici chilometri a sud di qui.

— Come fai a saperlo?

— Ci sono stata, una volta. Per overdose — spiegò brevemente Alice. Guidava incurvata sul volante, col volto di una persona che sta pensando furiosamente. Anche Leisha stava pensando, cercando di scovare un modo per aggirare l’accusa di rapimento. Probabilmente non avrebbero potuto dire che la bambina le aveva seguite spontaneamente. Stella avrebbe indubbiamente cooperato ma, alla sua età e nelle sue condizioni, non era probabilmente sui iuris, la sua parola non avrebbe avuto alcun peso legale.

— Alice, non riusciremo nemmeno a farla entrare in ospedale senza fornire informazioni previdenziali. Verificabili in rete.

— Stammi a sentire — disse Alice, non a Leisha ma al di sopra della spalla in direzione del sedile posteriore — ecco quello che faremo, Stella. Io dirò che tu sei mia figlia e che sei scivolata da una grossa roccia su cui ti stavi arrampicando, quando ci siamo fermate per uno spuntino in un’area da pic-nic al margine della strada. Stiamo andando dalla California a Philadelphia per far visita alla nonna. Ti chiami Jordan Watrous e hai cinque anni. Hai capito, tesoro?

— Io ho sette anni — replicò Stella. — Quasi otto.

— Sei una bambina di cinque anni molto sviluppata. Fai il compleanno il 23 marzo. Pensi di farcela, Stella?

— Sì — rispose la bambina. Aveva una voce più forte.

Leisha fissò Alice. — E tu pensi di farcela?

— Certamente — ribatté Alice. — Sono la figlia di Roger Camden.


Alice, in parte sostenne, in parte portò in braccio Stella fino al Pronto Soccorso del piccolo ospedale comunitario. Leisha restò a guardare dall’automobile: la piccola donna tarchiata, il sottile corpo della bambina con il braccio rotto. Portò quindi l’auto di Alice nell’angolo più lontano del parcheggio, sotto la dubbia copertura di uno sparuto acero, e la chiuse a chiave. Si annodò la sciarpa attorno al volto.

Ormai il numero di targa dell’auto di Alice e il suo nome sarebbero stati in ogni banca dati della polizia e delle agenzie di autonoleggio. Le banche dati mediche erano più lente: spesso caricavano le informazioni dai distretti locali soltanto una volta al giorno, odiando l’interferenza governativa in quello che era ancora, nonostante un mezzo secolo di battaglia, un settore imprenditoriale privato. Probabilmente Alice e Stella non avrebbero avuto problemi in ospedale. Probabilmente. Ma Alice non avrebbe potuto noleggiare un’altra auto.

Leisha sì.

Ma i file di allerta nelle agenzie di autonoleggio su Alice Camden Watrous potevano, o no, includere il fatto che lei era la gemella di Leisha Camden.

Leisha esaminò le file di auto nel parcheggio. Una lussuosa Chrysler fiammante, un van Ikeda, una serie di Toyota e Mercedes di classe media, una Cadillac del ’99, riusciva a immaginare la faccia del proprietario se non l’avesse ritrovata, dieci o dodici utilitarie di scarso valore e l’aeromobile con il conducente in uniforme addormentato al volante. In più, un malconcio camioncino di campagna.

Leisha si avvicinò al camioncino. C’era un uomo che fumava seduto al volante. Lei pensò a suo padre.

— Salve — salutò Leisha.

L’uomo abbassò il finestrino ma non rispose. Aveva capelli scuri e unti.

— Vede quell’aeromobile laggiù? — fece Leisha. Cercò di far suonare la propria voce stridula, giovanile. L’uomo la fissò con indifferenza: da quell’angolazione non poteva essere in grado di vedere che il guidatore era addormentato. — È la mia guardia del corpo. Pensa che io sia dentro, proprio come mi ha detto mio padre, per farmi controllare questo labbro. — Riusciva ancora a sentire la bocca gonfia per il colpo di Alice.

— E allora?

Leisha sbatté un piede. — E allora io non voglio entrare. Lui è uno stronzo esattamente come mio padre. Io voglio uscire. Le darò 4000 crediti per il camioncino. In contanti.

Gli occhi dell’uomo si spalancarono. Gettò via la sigaretta e fissò nuovamente l’aeromobile. Le spalle del conducente erano larghe e l’auto era a una distanza tale che l’uomo avrebbe sentito eventuali grida.

— Tutto perfettamente legale — continuò Leisha, cercando di fare l’occhiolino. Sentiva le ginocchia indebolirsi.

— Fammi un po’ vedere i contanti.

Leisha indietreggiò dal camioncino in un punto in cui lui non la potesse raggiungere. Estrasse il denaro dal fermaglio che teneva sotto il braccio. Era abituata a portare con sé molti contanti: c’era sempre stato Bruce, o qualcuno come Bruce. C’era sempre stata sicurezza.

— Scenda dal camioncino sull’altro lato — disse Leisha — e blocchi la portiera alle sue spalle. Lasci le chiavi sul sedile in modo che io le possa vedere da qui, A quel punto, appoggerò i soldi sul tettuccio dove lei potrà vederli.

L’uomo si mise a ridere, emettendo un suono simile al rotolare di ghiaia. — Tipica piccola Dabney Engh, vero? È quello che insegnano alle debuttanti in società nelle scuole di lusso?

Leisha non aveva la minima idea di chi fosse Dabney Engh. Restò in attesa, osservando l’uomo che cercava di pensare a un modo per imbrogliarla e tentando di nascondere il proprio disprezzo. Pensò a Tony.

— D’accordo — acconsentì lui, e scivolò giù del camioncino.

— Blocchi la portiera!

L’uomo sogghignò, aprì nuovamente la portiera e la bloccò. Leisha appoggiò i soldi sul tettuccio, spalancò la portiera di guida, si catapultò all’interno, bloccò la serratura e tirò su il finestrino. L’uomo si mise a ridere. La ragazza inserì la chiave nel quadro, avviò il motore e si indirizzò verso la strada. Aveva le mani tremanti.

Passò lentamente attorno all’isolato per due volte. Quando tornò, l’uomo era sparito e il conducente dell’aeromobile era ancora addormentato. Si era chiesta se l’uomo non lo avrebbe svegliato, per pura cattiveria, ma non lo aveva fatto. Parcheggiò il camioncino e restò in attesa.

Un’ora e mezzo dopo, Alice e un’infermiera uscirono portando Stella in carrozzella all’ingresso del Pronto Soccorso. Leisha balzò fuori dal camioncino e gridò: — Arrivo, Alice! — agitando le braccia. Era troppo buio per vedere l’espressione di Alice: Leisha poteva solamente sperare che sua sorella non mostrasse un’aria seccata nel vedere il camioncino ammaccato, che non avesse detto all’infermiera di aspettare un’automobile rossa.

Alice disse: — Questa e Julie Bergadon, un’amica che ho chiamato mentre stavate rimettendo a posto il braccio di Jordan -. L’infermiera annuì, mostrando scarso interesse. Le due donne aiutarono Stella a salire nell’alta cabina del camioncino: non esisteva sedile posteriore. Stella aveva il gesso al braccio e sembrava narcotizzata.

— Come hai fatto? — chiese Alice mentre si allontanavano.

Leisha non rispose. Stava osservando un’aeromobile della polizia in atterraggio sul lato opposto del parcheggio. Due agenti ne uscirono e si incamminarono con passo deciso verso l’automobile serrata di Alice posta sotto l’acero striminzito.

— Mio Dio — disse Alice. Per la prima volta sembrò spaventata.

— Non ci rintracceranno — ribatté Leisha. — Non in questo camioncino. Puoi contarci.

— Leisha — la voce di Alice era bloccata dalla paura. — Stella è addormentata.

Leisha lanciò un’occhiata alla piccola, accasciata contro la spalla di Alice. — No. È in stato di incoscienza a causa degli antidolorifici.

— Va bene? È normale? Per… lei?

— Possiamo svenire. Possiamo perfino provare un sonno indotto da farmaci. — Tony, lei, Richard e Jeanine nel bosco a mezzanotte… — Non lo sapevi, Alice?

— No.

— Non sappiamo molto l’una dell’altra, vero?

Si diressero a sud in silenzio. Alla fine, Alice disse: — Dove la porteremo, Leisha?

— Non lo so. Da uno qualsiasi degli Insonni sarebbe il primo posto in cui la polizia andrebbe a controllare.

— Non puoi rischiare. Non per come stanno le cose — commentò Alice. Aveva un’aria stanca. — Ma tutti i miei amici sono in California. Non penso che potremo andare tanto avanti con questa bagnarola arrugginita senza essere fermate.

— Non andrebbe bene comunque.

— Che cosa dovremmo fare?

— Lasciami riflettere.

A un’uscita si trovava una cabina telefonica. Non sarebbe stata schermata come la rete del Gruppo. La linea aperta di Kevin sarebbe stata controllata? Probabilmente sì.

Indubbiamente, lo sarebbe stata la linea del Rifugio.

Il Rifugio. Tutti loro stavano andando lì o c’erano già, aveva detto Kevin. Rintanati, cercando di tenersi attorno gli erosi monti Allegheny come una tana piccola e sicura. Eccetto che per i bambini come Stella, che non potevano farlo.

Dove andare? Con chi?

Leisha chiuse gli occhi. Gli Insonni erano fuori discussione: la polizia avrebbe trovato Stella nel giro di poche ore. Susan Melling? Ma era stata la matrigna anche troppo in vista di Alice ed era cobeneficiaria del testamento di Camden: l’avrebbero interrogata quasi immediatamente. Non doveva essere nessuno riconducibile ad Alice. Poteva trattarsi solamente di un Dormiente che Leisha conoscesse e di cui si fidasse: e perché mai doveva esistere qualcuno che corrispondesse alla descrizione? Perché poi lei avrebbe dovuto mettere, così a rischio una tale persona?

Rimase a lungo nella buia cabina telefonica. Quindi si incamminò nuovamente verso il camioncino. Alice stava dormendo con la testa appoggiata contro il sedile. Una sottile linea di bava le scorreva lungo il mento. Il suo volto era pallido ed esangue nella luce malata del chiosco. Leisha ritornò alla cabina.

— Stewart? Stewart Sutter?

— Si?

— Sono Leisha Camden, È successa una cosa. — Gli raccontò la storia in modo preciso, con frasi essenziali, Stewart non la interruppe.

— Leisha… — iniziò Stewart, quindi si bloccò.

— Ho bisogno di aiuto, Stewart. — "Ti aiuterò io, Alice", "Non ho bisogno del tuo aiuto", sussurrò un vento al di sopra dell’oscuro campo accanto al chiosco, e Leisha rabbrividì. Udì nel vento l’acuto mugolare di un mendicante. Nel vento, la sua stessa voce.

— D’accordo — acconsentì Stewart. — Faremo così. Io ho una cugina a Ripley, nello stato di New York, appena al di là del confine con la Pennsylvania, proprio sulla strada che stai percorrendo tu, a est. Deve essere nello stato di New York: io sono abilitato per New York. Porta lì la bambina. Io chiamerò mia cugina e le dirò che stai arrivando. È una donna un po’ anziana, un’attivista, in gioventù. Si chiama Janet Patterson. Il paese è…

— Cosa ti rende così certo che sarà d’accordo a essere coinvolta? Potrebbe finire in galera. Anche tu.

— È stata in prigione così tante volte che non ci crederesti nemmeno. Proteste politiche che risalgono fino al Vietnam. Ma nessuno finirà in prigione. Mi pregio io di essere il tuo avvocato, per la cronaca. Farò dichiarare Stella sotto protezione statale. Non dovrebbe risultare troppo difficile con la documentazione dell’ospedale che avete ottenuto a Skokie. Quindi potrà essere trasferita in una casa di tutela a New York. Conosco il posto, la gente lì è gentile e onesta. Poi Alice…

— Stella è residente in Illinois. Non puoi…

— Certo che posso. Dopo le scoperte scientifiche sulla durata della vita degli Insonni, i legislatori sono stati indirizzati da stupidi membri di collegi elettorali terrorizzati, gelosi o semplicemente infuriati. Il risultato è un corpo di cosiddette leggi crivellate di contraddizioni, assurdità e vizi di forma. Nessuna di esse resisterà alla lunga, quanto meno lo spero, ma nel frattempo possono essere ben sfruttate. Posso usarle per creare per Stella il caso più maledettamente complesso che si sia mai visto, e nel frattempo lei non verrà riportata a casa. Ma questo non funzionerà per Alice. Avrà bisogno di un avvocato abilitato in Illinois.

— Ne abbiamo uno — disse Leisha. — Candace Holt.

— No, non un Insonne. Fidati, Leisha. Te ne troverò uno in gamba. C’è un ragazzo a… ma stai piangendo?

— No — rispose Leisha in lacrime.

— Oh, Dio — disse Stewart. — Che bastardi. Mi dispiace che tutto questo sia accaduto, Leisha.

— Non dispiacerti — rispose Leisha.

Quando ebbe ottenuto le indicazioni per arrivare dalla cugina di Stewart, la ragazza ritornò al camioncino. Alice era ancora addormentata, Stella ancora in stato di incoscienza. Leisha chiuse la portiera il più silenziosamente possibile. Il motore tossì e ruggì, ma Alice non si svegliò.

C’era una folla di persone lì con loro nell’angusto e oscuro camioncino: Stewart Sutter, Tony Indivino, Susan Melling, Kenzo Yagai, Roger Camden.

A Stewart Sutter lei disse: "Mi hai telefonato per informarmi della situazione da Morehouse e Kennedy. Stai rischiando la tua carriera e tua cugina per Stella. E non ci guadagnerai nulla, come Susan, quando mi ha parlato in anticipo del cervello di Bernie Kuhn. Susan che ha perduto la sua vita per il sogno di Papà e l’ha riconquistata con le sue sole forze. Un contratto che non prende in considerazione le due parti non è un contratto: lo sa anche uno studente del primo anno".

A Kenzo Yagai disse: "Il commercio non è sempre lineare. Le è sfuggito. Se Stewart mi dà qualcosa e io do qualcosa a Stella e fra dieci anni da ora Stella sarà una persona differente per quel motivo e darà qualcosa a qualcun altro ancora sconosciuto… si tratta di un’ecologia. Un’ecologia del commercio, sì, di cui ogni tassello è necessario, anche se non è legato contrattualmente. Un cavallo ha bisogno di un pesce? Sì".

A Tony disse: "Sì, ci sono mendicanti in Spagna che non scambiano nulla, non danno nulla, non fanno nulla. Ma non ci sono solo mendicanti in Spagna. Se ti ritiri dai mendicanti, ti ritiri dall’intero maledetto paese. E ti ritiri dalla possibilità dell’ecologia dell’aiuto. Ecco quello che voleva Alice, tutti quegli anni addietro nella sua stanza da letto. Incinta, terrorizzata, infuriata, gelosa, voleva aiutare me e io non gliel’ho lasciato fare perché non ne avevo bisogno. Adesso, però ho bisogno.

E lei ne aveva bisogno allora. I mendicanti hanno bisogno di aiutare come di essere aiutati".

Alla fine, era rimasto solamente Papà. Poteva vederlo, con gli occhi scintillanti che teneva nelle forti mani fiori esotici dalle foglie spesse. A Camden disse: "Avevi torto. Alice è speciale. Oh, Papà, quanto è speciale Alice! Avevi torto".

Non appena ebbe formulato questo pensiero, si sentì piena di leggerezza. Non della allegra bolla di gioia, non della severa chiarezza dell’analisi, ma di qualcosa d’altro: luce del sole, dolce attraverso le vetrate della serra da cui due bambine correvano dentro e fuori. Improvvisamente si sentì luminosa anche lei, non leggera ma traslucida, un mezzo attraverso il quale la luce del sole poteva passare chiaramente, nel suo viaggio verso qualche altro luogo.

Condusse la donna addormentata e la bambina ferita attraverso la notte, a est, verso il confine di stato.

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