PROLOGO

Sebbene la brezza della sera gli avesse congelato la schiena mentre camminava, essa non aveva ancora dato inizio alla sua incombenza notturna di spazzar via dalle viti e dai tronchi dei palmizi addossati sull’isola l’aria umida che il giorno aveva lasciato dietro di sé, e la faccia di Benjamin Hurwood luccicava di sudore già prima che il nero lo avesse guidato per dieci iarde all’interno della giungla. Hurwood sollevò il machete che stringeva nella sua — unica — mano sinistra, e scrutò inquieto nelle tenebre che sembravano addensarsi dietro la vegetazione illuminata dalla torcia intorno a loro e in alto, poiché le storie di cannibali e serpenti giganti che aveva udito gli parvero in quel momento perfettamente plausibili, ed era difficile, a dispetto delle recenti esperienze, affidare la propria incolumità alla collezione di code di bue e sacchetti e statuine che oscillavano dalla cintura dell’altro uomo. In quella primeva foresta pluviale non era di alcun aiuto pensarli come gardes, arrets e drogues piuttosto che come feticci, oppure pensare il suo compagno come un bocor piuttosto che come uno stregone o uno sciamano.

Il nero gesticolò con la torcia e si voltò a guardarlo, «A sinistra adesso,» disse in un accurato inglese, e poi aggiunse rapidamente in uno dei dialetti degradati di Haiti, «e cammina con cautela — piccoli corsi d’acqua hanno scavato sotto il sentiero in molti punti.»

«Cammina più lentamente, allora, così posso vedere dove metti i piedi,» replicò Hurwood, irritato, nel suo fluente francese da manuale. Si domandò quanto avesse sofferto il suo accento, fino a quel momento perfetto, per essere stato esposto durante l’ultimo mese a tante strane variazioni di linguaggio.

Il sentiero divenne più ripido, e ben presto dovette rinfoderare il machete al fine di avere la mano libera per afferrare rami e tirarlo su, e per un po’ il suo cuore palpitò in maniera così allarmante che pensò che sarebbe scoppiato, malgrado la drogue protettiva che il nero gli aveva dato. Dopodiché, raggiunsero il livello sovrastante la giungla e la brezza marina li investì, ed egli gridò al compagno di fermarsi per poter riprendere fiato nell’aria pura e bearsi della sua freschezza nei bianchi capelli bagnati e nella camicia zuppa.

La brezza strepitò e frusciò frai rami dei palmizi sottostanti, e attraverso un varco frai tronchi più distanziati intorno a lui egli poté vedere l’acqua — un segmento chiazzato di chiarore lunare della Lingua dell’Oceano, sul quale loro due avevano navigato dall’Isola di New Providence quel pomeriggio. Rammentò di aver notato quella prominenza sulla quale si trovavano, e di essersi interrogato su di essa, mentre lottava per mantenere la vela orientata secondo le indicazioni della sua scontrosa guida.

Isola di Andros, veniva chiamata sulle mappe, ma la gente alla quale negli ultimi tempi si era unito la chiamava Isle de Loas Bossals, che, aveva dedotto, significava Isola degli Spiriti (o, sembrava talvolta, degli Dei) Selvaggi (o, forse più esattamente, Maligni). Personalmente, pensava ad essa come alla spiaggia di Persefone, dove sperava di trovare, finalmente, almeno una finestra che desse nella casa dell’Ade.

Sentì un gorgoglio dietro di lui e si voltò in tempo per vedere la sua guida che tappava una delle bottiglie. Acuto, nell’aria limpida, poté sentire l’odore del rum. «Maledizione,» sbottò Hurwood, «quello è per gli spiriti.»

Il bocor fece spallucce. «Portato troppo,» spiegò. «Se è troppo, vengono troppi.»

L’uomo con un braccio solo non rispose, ma ancora una volta desiderò di averne saputo abbastanza — invece che quasi abbastanza — per poter fare tutto da solo.

«Siamo vicini,» disse il bocor, ficcando la bottiglia nella borsa di pelle che gli pendeva dalla spalla.

Ripresero la loro andatura regolare lungo il sentiero di terra umida, ma Hurwood ora avvertiva un cambiamento… un’attenzione rivolta a loro.

Anche il nero l’avvertì, e si voltò, indirizzandogli un sogghigno da sopra la spalla ed esponendo delle gengive bianche quasi come i suoi denti. «Hanno annusato il rum,» disse.

«Sei sicuro che non si tratta soltanto di poveri indiani?»

L’uomo che lo precedeva rispose senza voltarsi. «Dormono ancora. Sono i loa quelli di cui avverti lo sguardo.»

Sebbene sapesse che non c’era ancora nulla fuori dell’ordinario da vedere, l’uomo con un solo braccio si guardò intorno, e per la prima volta gli venne in mente che quel panorama non era davvero così incongruo — quei palmizi e quella brezza marina probabilmente non differivano di molto da quelli che potevano trovarsi nel Mediterraneo, e le isole Caraibiche dovevano essere molto simili a quell’isola dove, migliaia di anni prima, Ulisse eseguì quasi esattamente la stessa procedura che essi intendevano eseguire quella notte.


Fu soltanto dopo che raggiunsero la radura sopra la collina che Hurwood realizzò di avere avuto paura per tutto il tempo. Non c’era niente di apertamente sinistro nella scena — uno spiazzo sgombro e piatto con una capanna da un lato e, al centro della radura, quattro pali che sostenevano un piccolo tetto di paglia sopra una cassa di legno — ma Hurwood sapeva che c’erano due indiani Arawak drogati nella capanna, e un fosso profondo sei piedi e rivestito di tela cerata all’altro lato della piccola tettoia.

Il nero raggiunse la cassa sotto il riparo — il trono, o l’altare — e con grande cura si staccò alcune statuine dalla cintura e le dispose su di essa. S’inchinò, retrocedette, quindi si raddrizzò e si voltò verso l’altro uomo, che lo aveva seguito fino al centro della radura. «Sai cosa bisogna fare adesso?» domandò il nero.

Hurwood sapeva che quella era una specie di prova da superare. «Spargere il rum e la farina intorno al fosso,» disse, cercando di apparire disinvolto.

«No,» disse il bocor, «subito. Prima di questo.» C’era un chiaro sospetto nella sua voce, adesso.

«Oh, capisco cosa vuoi dire,» disse Hurwood, prendendo tempo mentre la sua mente correva. «Pensavo che quello fosse sottinteso.» Cosa mai intendeva dire l’uomo? Ulisse aveva fatto prima qualche altra cosa? No… niente che lui ricordasse, ad ogni modo. Ma naturalmente Ulisse era vissuto quando la magia era semplice… e relativamente incorrotta. Doveva essere questo… adesso era sicuramente necessaria una procedura protettiva, data l’azione così eclatante che doveva essere compiuta, per tenere a bada quei mostri che avrebbero potuto essere messi in agitazione. «Ti stai riferendo alle misure protettive.»

«Che consistono in cosa?»

Quali precauzioni venivano usate, quando la magia funzionava ancora parecchio nell’emisfero orientale? Pentagrammi e cerchi. «I segni per terra.»

Il nero annuì, ammansito. «Sì. Il verver.» Appoggiò con cura la torcia a terra, frugò nella sacca e ne cavò una piccola borsa, dalla quale tirò fuori un pizzico di cenere grigia. «Farina della Guinea, la chiamiamo,» spiegò, poi si accovacciò e cominciò a spargere quella sostanza per terra secondo una complicata forma geometrica.

L’uomo bianco si permise di rilassarsi un po’ dietro quel suo atteggiamento disinvolto. Quanto c’era da imparare da quella gente! Erano certamente dei primitivi, ma in contatto con un potere ancora vivo che, nei paesi più civilizzati, costituiva ormai solamente una verità storica deformata.

«Ecco,» disse il bocor, slacciandosi la sacca e lanciandogliela. «Serviti della farina e del rum… e ci sono anche dei canditi dentro. I loa hanno un debole per i dolci.»

Hurwood portò la sacca fino a quel fosso poco profondo — mentre la sua ombra proiettata dalla torcia si allungava davanti a lui fino al fitto fogliame che cingeva la radura — e la lasciò cadere a terra con un tonfo. Si chinò per prendere la bottiglia di rum, la stappò coi denti, si raddrizzò e camminò lentamente attorno al fosso versando a terra il liquore aromatico. Quando ebbe completato il cerchio, ne era rimasto ancora un poco, e lui lo bevve prima di gettare via la bottiglia. C’erano sacchetti di farina e canditi nella sacca, ed egli sparse anche questi intorno al fosso, sgradevolmente consapevole del fatto che quei movimenti erano simili a quelli di un contadino che irriga e semina un campo.

Un cigolio metallico lo fece voltare verso la capanna, e il gruppo che avanzava verso di lui sulla radura — era il bocor che si sforzava di spingere una carriola in cui erano stati spinti due corpi svenuti dalla pelle scura — risvegliò orrore e speranza dentro di lui. Fuggevolmente desiderò che non dovesse essere sangue umano, che bastasse il sangue di una pecora, com’era stato per Ulisse… ma serrò la mandibola e aiutò il bocor a scaricare i corpi a terra, in modo che le loro teste fossero sufficientemente vicine al fosso.

Il bocor prese un piccolo coltello per pelare, e lo tese all’uomo con un braccio solo. «Vuoi farlo tu?»

Hurwood scosse la testa. «Sono,» disse con voce rauca, «tutti tuoi.» Distolse lo sguardo e fissò intensamente la fiamma della torcia mentre il nero si accovacciava sui corpi, e quando, pochi momenti dopo, udì lo spruzzo e lo zampillo sulla tela cerata, chiuse gli occhi.

«Le parole adesso,» disse il bocor. Cominciò a salmodiare in un dialetto che mescolava il francese, la lingua del distretto di Mondongo in Africa, e quella degli indiani caraibici, mentre l’uomo bianco, gli occhi ancora chiusi, cominciò a salmodiare in antico ebraico.

La salmodia, che procedeva in un casuale contrappunto, divenne gradualmente più forte, come se stesse tentando di soffocare i suoni che adesso giungevano dalla giungla: suoni simili a risatine e pianti sussurrati, un canto che frusciava nei rami alti, un raschiare chitinoso come pelli abbandonate da serpenti strofinate assieme.

Ad un tratto le due litanie divennero identiche, e i due uomini si trovarono a parlare perfettamente all’unisono, sillaba per sillaba — sebbene il bianco stesse ancora parlando in antico ebraico e il nero nel suo peculiare miscuglio di linguaggi. Stupefatto della cosa, benché vi partecipasse, Hurwood avvertì i primi tremiti di un reale timore di fronte a quella coincidenza impossibilmente prolungata. Al di sopra dei fumi acri del rum versato e del tanfo rugginoso del sangue c’era, all’improvviso, un nuovo odore, l’odore di metallo surriscaldato della magia, sebbene adesso fosse più forte di quanto lo avesse mai avvertito in precedenza…

E poi, tutt’a un tratto, non furono più soli… infatti la radura era adesso affollata di ombre dalla forma umana che erano quasi trasparenti alla luce della torcia, anche se la luce era offuscata da parecchie di loro che la schermavano, e tutte quelle cose prive di sostanza si stavano accalcando in direzione del sangue e imploravano con vocine acute e pigolanti simili a quelle degli uccelli. I due uomini interruppero la salmodia.

Anche altre cose erano apparse, sebbene non attraversassero le linee di cenere che il bocor aveva tracciato intorno al perimetro della radura, ma si limitavano a scrutare attraverso i tronchi dei palmizi, e ad accovacciarsi sui rami. Hurwood vide un vitello con le orbite fiammeggianti, una testa sospesa a mezz’aria con uno spettrale pendolo di intestini nudi che pendevano dal suo collo, e, fra gli alberi, diverse piccole creature che sembravano più insetti che esseri umani; e mentre gli spiriti che stavano all’interno delle linee del verver continuavano a emettere uno stridore incessante, gli osservatori all’esterno erano tutti silenziosi.

Il bocor stava tenendo gli spiriti lontani dal fosso agitando con ampi gesti il piccolo coltello. «Presto!» ansimò. «Trova quello che vuoi!»

Hurwood raggiunse l’orlo del fosso e scrutò le creature diafane.

Sotto il suo sguardo alcune divennero un po’ più visibili, come strati di bianco d’uovo nell’acqua bollente. «Benjamin!» gridò una di esse, con la sottile voce stridente che saliva al di sopra del ciarlìo di fondo. «Benjamin, sono io, Peter! Sono stato testimone alle tue nozze, ricordi? Digli di lasciarmi bere!»

Il bocor guardò l’altro uomo con espressione interrogativa.

Hurwood scosse la testa, e il coltello del bocor balenò e divise in due lo spìrito supplicante; con un debole grido la cosa si dissolse come fumo.

«Ben!» stridette un’altra. «Che tu sia benedetto, figliolo, hai portato del nutrimento per tuo padre! Lo sapevo che…»

«No,» disse Hurwood. La sua bocca era una linea dritta mentre il coltello balenava di nuovo e un altro lamento si perdeva volando via nella brezza.

«Non posso trattenerli per sempre,» ansimò il bocor.

«Ancora un poco,» sbottò Hurwood. «Margaret!»

Ci fu un’agitazione e un coagularsi da un lato, e poi una forma simile a una ragnatela si fece avanti, galleggiando. «Benjamin, come hai fatto a venire qui?»

«Margaret!» Il grido di lui fu più di dolore che di trionfo. «È lei,» abbaiò al bocor. «Lascia che si avvicini.»

Il bocor interruppe il movimento oscillante del braccio e cominciò a tirare colpi a tutte le ombre, tranne che a quella indicata da Hurwood. Lo spettro si avvicinò al fosso, poi si offuscò, rimpicciolì e ridivenne chiaramente visibile in posizione inginocchiata. Allungò un braccio verso il sangue, poi si bloccò e si limitò a sfiorare l’impasto di rum e farina sul bordo. Per un momento la donna fu opaca alla luce della torcia, e la sua mano divenne abbastanza solida da far rotolare uno dei canditi per alcuni pollici. «Non dovremmo essere qui, Benjamin,» disse, con la voce adesso leggermente più risonante.

«Il sangue, prendi il sangue…» gridò l’uomo con un solo braccio, cadendo in ginocchio all’altro lato del fosso.

Senza emettere alcun suono la forma spettrale si ridusse in fumo e volò via, sebbene la fredda lama non si fosse neppure avvicinata a lei.

«Margaret!» gridò l’uomo, e si tuffò fra gli spettri ammassati sul fosso; essi si divisero davanti a lui come ragnatele stese fra gli alberi, e la sua mascella si serrò con uno schiocco contro il suolo duro. Il ronzio nelle orecchie gli impedì quasi di udire il coro delle voci sgomente degli spiriti che scemava nel silenzio.

Dopo alcuni momenti Hurwood si alzò a sedere e lanciò occhiate furtive intorno a sé. La luce della torcia era più vivida, ora che non c’erano più forme spettrali a filtrarla.

Il bocor lo stava fissando. «Spero che ne sia valsa la pena.»

Hurwood non rispose; si limitò ad alzarsi lentamente e faticosamente in piedi, strofinandosi il mento graffiato e scostandosi i capelli bianchi e umidi dalla faccia. I mostri stavano ancora in piedi, accovacciati e sospesi appena al di là delle linee di cenere; evidentemente nessuno di essi si era mosso, o aveva soltanto sbattuto le palpebre, durante l’intera faccenda.

«Vi siete divertiti, eh?» urlò Hurwood in inglese, agitando al loro indirizzo il suo unico pugno. «Devo tuffarmi un’altra volta nel fosso, solo perché non vi sentiate defraudati?» La sua voce stava diventando tesa e stridula, ed egli cominciò a sbattere rapidamente le palpebre mentre faceva un passo in direzione del limite della radura, indicando uno degli spettatori, un enorme maiale con un grappolo di teste di gallo che gli spuntava dal collo. «Ah, voi, signore,» proseguì Hurwood con una parodia di cordiale affabilità, «esprimeteci la vostra franca opinione. Avrei fatto meglio ad eseguire un gioco di prestigio? O, forse, con la faccia dipinta e il naso fìnto…»

Il bocor gli afferrò un gomito da dietro, lo fece voltare e lo fissò con espressione stupefatta e, in qualche modo, compassionevole. «Fermati,» disse, con gentilezza. «La maggior parte di essi non può sentire, e credo che nessuno di essi conosca l’inglese. Al sorgere del sole andranno via e potremo andarcene anche noi.»

Hurwood si liberò dalla stretta dell’altro uomo, tornò al centro della radura e si sedette, non lontano dal fosso e dai due cadaveri dissanguati. L’odore di metallo surriscaldato della magia era scomparso, ma la brezza non aveva dissipato molto il tanfo del sangue.

Il sole non sarebbe sorto prima di altre nove o dieci ore; e anche se fosse rimasto là fino a quel momento, certamente gli sarebbe stato impossibile dormire. La prospettiva della lunga attesa lo fece star male.

Ricordò la sentenza del bocor: «Spero che ne sia valsa la pena.»

Alzò lo sguardo verso le stelle e le sfidò con un sogghigno.

Cercate di fermarmi adesso, pensò, anche se la cosa potrà richiedermi degli anni. Ora so che è vero. Può essere fatta. Sì… dovessi anche far uccidere una dozzina di indiani per imparare, una dozzina di bianchi, una dozzina di amici… ne varrebbe ancora la pena.

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