8.

Si muoveva ancora. Il sussulto delle braccia (piccole, come le zampe anteriori di una lucertola, contro la massa del corpo, ma modellate come braccia e mani umane) era ritmico, un riflesso senza scopo. Braccia umane, braccia di donna, e quelle erano mammelle, appuntite come le mammelle d’una scrofa, tra le braccia e più in basso, sul ventre, dove, mentre le convulsioni pulsanti del corpo continuavano, la ferita appariva e riappariva e riappariva ancora, e l’elsa della spada sporgeva dalla piaga. Irena, sulle mani e sulle ginocchia, si acquattò ancora di più e vomitò sulle rocce e sulla polvere. Quando fu in grado di farlo, cominciò a trascinarsi via strisciando, per allontanarsi dall’essere morente e dal lezzo del ventre squarciato. Ma Hugh giaceva sotto quella cosa, e come poteva lasciarlo là? Ma anche lui era morto o moribondo, e lei aveva paura, non poteva far nulla. Non riusciva neppure a tenersi in piedi. Continuava a tremare e a emettere un suono bizzarro come «Ao, ao». Quando si fu trascinata vicino alle braccia sussultanti, così vicino da vedere le viscere che scivolavano all’interno della ferita, e Hugh riverso sul dorso, inchiodato sotto l’enorme zampa grinzosa e il corpo, non riuscì neppure ad afferrarlo. Non poteva trascinarlo fuori. Doveva smuovere il drago, cercare di spingerlo via. Quando appoggiò le mani contro il fianco corrugato, lanciò un urlo.

Era freddo, un freddo di morte. Era inerte e rigido e le convulsioni lo scuotevano automaticamente. Lei spinse, a testa bassa e ad occhi chiusi, piangendo. Il drago si mosse un poco, ondeggiò sotto la sua spinta, rotolò lentamente sul dorso, liberando il corpo di Hugh che giaceva in un viscidume di muco e di sangue. I sottili avambracci bianchi adesso erano levati in aria. I loro sussulti, più fiochi e più rapidi, lei li scorgeva solo con la coda dell’occhio mentre si acquattava vicino a Hugh. Lui giaceva sul dorso, con le due gambe piegate da una parte, la faccia cancellata da una maschera di sangue. Cercò di ripulirgli il volto con le mani, di liberargli le narici e la bocca, perché lui respirava, un respiro ansimante e superficiale, a intervalli; ma Hugh giaceva immobile e il suo volto era freddo. Il drago gli era caduto addosso e gli era rimasto addosso troppo e aveva agghiacciato e soffocato la sua vita. Era schiantato. Se fosse riuscita a tirarlo fuori da quell’orrore, il sangue e gli intestini scoppiati e la bianca mole sussultante che lei non voleva guardare, se fosse riuscita a trascinarlo altrove e a pulirlo e ad accendere un fuoco e a scaldarlo, a scaldarsi tutti e due! Ma non poteva muoverlo. Se lui aveva la schiena lesionata, avrebbe rischiato di ucciderlo, tentando di spostarlo. Non osava neppure muovergli le gambe, per timore che fossero fratturate.

— Cosa devo fare? — chiese piagnucolando, a voce alta, e si sentì la lingua arida e gonfia. Aveva avuto sete per molto tempo, per molte miglia prima che arrivassero alla grotta, per molte ore, mentre Hugh procedeva con quell’andatura costante e implacabile, senza fermarsi mai, spronato o attratto, e lei non poteva far altro che restare con lui perché sapeva che nessuno di loro ce l’avrebbe mai fatta a uscire da quel paese, da solo. E la strada aveva continuato a salire, e non avevano più incontrato ruscelli, ed erano arrivati alla grotta. Ma si sentiva la bocca come gesso arido, e doveva esserci acqua da qualche parte. Si accoccolò sui calcagni, guardando con gli occhi offuscati lo spiazzo pietroso davanti allo squarcio buio della caverna, i pendii nudi e le pareti a picco che la sovrastavano, le cime degli alberi e le creste aldilà della gola. Non voleva guardare la cosa bianca, ma il tremito degli avambracci era sempre all’orlo della sua visuale; era quasi cessato, un brivido ricorrente. Lei cercò di pulirsi le mani sulle pietre, perché erano viscose e incrostate dal putridume e dal fango. Sentì il respiro mozzarsi nella gola di Hugh. Lui mosse le mani e tossì, un piccolo suono fragile, come un bambino. Le labbra si mossero, e poco dopo aprì gli occhi. In un primo momento erano opachi, ma quando lei gli si rannicchiò accanto e disse il suo nome, la guardò, e Irena vide gli occhi azzurri, l’anima viva.

— Puoi muoverti, Hugh? Puoi metterti seduto?

Il respiro gli sibilava nel petto.

— Sfiatato — disse, con un filo di voce.

— Bene. C’eri finito sotto. Se ce la fai a muoverti, potremo allontanarci un po’. Io non riesco a muoverti.

— Grasso — disse lui. — Aspetta.

Chiuse gli occhi, e poco dopo li riaprì, strinse le labbra, e si puntellò sui gomiti, con la testa reclinata sul petto. — Coraggio — disse, a lei o a se stesso. — Così — gli disse lei, tenendogli la spalla, — così. — Lui si sollevò sulle ginocchia con un sobbalzo. Poi rimase un po’ in quella posizione. Sembrava non avere coscienza del luogo in cui si trovava, non vedeva la cosa morta che rabbrividiva accanto a lui; adesso non poteva andare oltre il proprio corpo. Quando cercò di alzarsi in piedi, Irena poté aiutarlo, infilandogli la spalla sotto il braccio, come una gruccia. Lui era molto pesante, barcollava, e non vedeva. Lo guidò, a passo lento e vacillante, intorno al corpo del drago, attraverso lo spiazzo, fra gli alberi radi che crescevano accanto alla parete della caverna. La pista continuava. Quasi subito svoltò bruscamente a sinistra e verso il basso, scendendo così ripida che Hugh non riuscì a reggersi in piedi. Almeno s’erano allontanati dalla grotta. Irena intendeva farlo mettere seduto o sdraiato lì, sul sentiero, mentre andava in cerca di acqua, quando sentì il suono dell’acqua corrente; e pensò che aveva sempre sentito quel mormorio, mentre erano sullo spiazzo pietroso davanti alla grotta. Condusse Hugh, che trascinava i piedi, intorno alla svolta del sentiero. La pista scendeva tra le alte felci. Più sopra, l’acqua scorreva in una pellicola trasparente sui macigni, l’attraversava, e spariva tra le felci e il muschio, giù per il fianco della montagna. — Qui — disse lei. Appena ebbe smesso di sorreggerlo, Hugh si lasciò cadere di nuovo in ginocchio, poi carponi. — Sdraiati — gli disse, e lui si lasciò scivolare sul fianco tra le felci.

Lei bevve e si lavò le mani e la faccia nel rivoletto limpido, e porse a Hugh l’acqua nel cavo delle mani, un sorso per volta, il massimo che poteva fare. Cercò di farlo mettere a sedere per potergli togliere la giubba. Hugh non collaborò. — È tutta coperta di sangue e… e intestini, Hugh, puzza…

— Ho freddo — disse lui.

— Ho una coperta, un mantello. È asciutto, ti terrà caldo.

La resistenza di lui non era conscia; e insistendo, lei gli tolse la giubba di pelle. Hugh gridò due volte di dolore mentre Irena cercava di sfilargliela, e lei pensò che avesse la spalla rotta o slogata, o il braccio ferito; ma lui disse abbastanza chiaramente: — Tutto bene. — Il petto della camicia era di un rosso-bruniccio pallido e viscoso; Irena gli tolse anche quell’indumento. Non gli vedeva addosso nessuna ferita. Le spalle, le braccia e il petto erano massicci, lisci e forti, bianchissimi in quel luogo semibuio tra le felci. Lo avvolse nel mantello rosso, e dopo avergli lavato la camicia la usò per ripulirgli meglio la faccia e la gola e le mani; poi la sciacquò di nuovo, risanata dall’acqua, dal suo contatto, dalla sua chiara freschezza. Quando lo lasciò stare, Hugh restò immobile a giacere, ad occhi chiusi. Il respiro era ancora superficiale, ma calmo. Irena gli rimase seduta accanto, tenendogli la mano sulla mano, per confortarlo e per confortare se stessa.

L’immensa gola sottostante era immota e silenziosa. Tutta la montagna taceva, se si escludeva la piccola musica costante della sorgente.

Era un bel luogo, quell’angoletto sul bordo del sentiero: le felci, i macigni, il velo lucente dell’acqua, i fermi rami scuri degli abeti. Irena alzò lo sguardo. Il sentiero aveva descritto una brusca svolta: dovevano essere direttamente al disotto dello spiazzo pietroso e dell’imboccatura della grotta. La sorgente doveva sgorgare più in basso del fondo della grotta. E lì usciva alla luce. Erano di fronte all’antro, ma erano più lontani, l’avevano superato. Non pensi mai a passare oltre il drago, si disse Irena. Pensi soltanto a raggiungerlo. Ma cosa accade, dopo?

Ricominciò a piangere, silenziosamente, senza soffrire. Le lacrime le scorrevano lungo le guance in un velo, come l’acqua di fonte. Pensò alle braccia orribili e patetiche, alle bianche mammelle appuntite; appoggiò il volto tra le braccia e pianse. Sono passata oltre la tana del drago e non posso tornare indietro. Devo andare avanti. Era la mia patria, la luce alla finestra, il fuoco nel focolare, là ero una figlia, la figlia, ma è finito. Ora sono soltanto la figlia del drago e la figlia del re, quella che deve proseguire sola, e andare avanti, perché non c’è una casa dietro di me.

L’acqua cantava, minuta e intrepida. Alla fine, Irena si raggomitolò per dormire. Quel luogo era umido; il contatto delle felci era freddo, il suolo madido. Non riusciva a scaldarsi. Lì vicino non c’era nulla che servisse per accendere un fuoco, e lei si sentiva troppo stanca, ora che s’era parzialmente rilassata, per andare a raccogliere legna e preparare il fuoco. Hugh dormiva profondamente. S’era girato quasi bocconi, e si stringeva addosso le braccia per riscaldarsi. Un angolo del mantello rosso s’era impigliato nelle felci e s’era liberato. Irena s’infilò lì sotto, si mise con la schiena contro la schiena di Hugh. Non servì a nulla. Si girò e gli passò un braccio sul fianco, sotto il lembo del mantello. Così c’era più caldo, c’era un conforto. Si addormentò come una pietra.

Si svegliò, e per un poco rimase così, lambita dal calore, cullata dal ritmo blando del respiro di Hugh e del proprio respiro, completamente tranquilla. I ricordi cominciarono a prendere forma, insinuandosi come gli angoli e i ciottoli del letto del ruscello; ancora una volta lei scese correndo lo stretto, ripido sentiero verso l’imboccatura dell’antro, gridando la sua sfida, e ancora una volta, e scivolò sulle rocce e cadde… e si levò a sedere, districandosi dalle pieghe del mantello rosso. Per un poco rimase così, ancora insonnolita, e girò lo sguardo intorno, sulle felci e sul rivoletto, gli alberi giù nella gola, le profondità azzurre e le linee lontane della catena, il cielo senza colore. Si trascinò al ruscelletto e si rannicchiò per bere dove l’acqua s’increspava sulla curva di un macigno grigio, e si lavò la faccia e la nuca per schiarirsi la mente; e poi proseguì lungo il sentiero e lo abbandonò, addentrandosi fra i rami per orinare. Quando ritornò, Hugh si era seduto, avvoltolato nel mantello, aggobbito. I folti, ruvidi capelli biondi, induritisi quando lei aveva cercato di lavarli per liberarli dal sangue, gli stavano ritti in testa; la barba era folta e ispida sul mento; appariva pesante e stravolto. Quando gli domandò come stava, impiegò molto tempo a rispondere. — Bene — disse. — Freddo.

Lei estrasse pane e carne dall’involto. Gli offrì la sua parte, ma Hugh non sporse la mano dal mantello per prenderli. Si aggobbì ancora di più, desolato. — Adesso no — disse.

— Su, avanti. Non hai mangiato per tutto… ieri, quando è stato.

— Non ho fame.

— Almeno bevi un po’.

Lui annuì, ma non si mosse per andare a bere al rivoletto. Dopo un poco disse: — Irena.

— Sì — disse lei, masticando la carne affumicata. Aveva una fame tremenda, e già adocchiava la razione che lui non aveva toccato.

— Il… Dove…

— Lassù — disse Irena, indicando il pendio alberato sopra la sorgente. Lui alzò lo sguardo, irrequieto.

— È…

— Era morto.

Hugh rabbrividì; Irena vide il fremito scuoterlo in tutto il corpo. Le faceva pena, ma in quel momento lei pensava soprattutto al cibo. — Mangia qualcosa — disse. — È buono. Fra non molto dovremo rimetterci in cammino. Se te la senti.

— In cammino — ripeté lui.

Irena addentò un pezzo di pane secco e duro. — Via. Fuori. Alla porta.

Lui non disse nulla. Prese una striscia di carne affumicata, la masticò svogliatamente, poi desistette. Andò al rivoletto, a bere. Si muoveva con impaccio, e impiegò un po’ di tempo per abbassarsi in modo da poter bere. Bevve a lungo, e finalmente si alzò, laboriosamente, stringendosi intorno alle spalle il mantello rosso. — Ho bisogno della mia camicia o di qualcosa — disse.

— Vedi se è asciutta. Ho dovuto lavarla. E anche la giubba.

Hugh si guardò i jeans, irrigiditi e anneriti dalle striature di sangue coagulato, e deglutì. — Giusto. Dov’è? — Vide la camicia che lei aveva steso ad asciugare su una grande felce, e si liberò del mantello per indossarla. Irena lo guardava, osservando la bellezza delle massicce braccia lucide e della gola. La pietà e l’ammirazione la pervasero. Disse: — Hai ucciso il drago, Hugh.

Lui finì di abbottonarsi la camicia, e dopo un minuto si girò verso di lei. Tra i macigni grigi e le felci arcuate, stava immobile, e lei stava immobile tra la roccia e le felci; e si guardarono.

— Tu mi hai preceduto — disse Hugh, lentamente, rivivendo il momento alla svolta del sentiero più in alto. — Sei scesa correndo… hai gridato: «Vieni fuori». Come… Perché l’hai fatto?

— Non so. Ero stanca di avere paura. Mi sono infuriata. Quando ho visto la grotta. Quando l’ho vista, ho saputo che lei era là dentro, e che tu saresti entrato per cercarla, saresti entrato e non saresti più uscito, e non ho potuto sopportarlo. Ho dovuto farla uscire.

Hugh infilò nei jeans le falde della camicia, rabbrividendo a ogni movimento.

— Hai detto «lei» — mormorò.

— Infatti. — Irena non voleva parlare delle mammelle e delle braccia esili.

Hugh scosse la testa, con aria nauseata e un pallore crescente. — No, era… La ragione per cui ho dovuto ucciderlo… — disse, e poi tese la mano brancolando per cercare un appoggio, e si alzò vacillando.

— Non importa. È morto.

Lui restò immobile, distogliendo il viso, guardando il ruscelletto.

— La spada è…

— La cintura e il fodero sono qui fra le felci, da qualche parte. La spada è… — Irena doveva avere la stessa aria nauseata, perché lui l’interruppe: — Non la voglio.

— Hugh, credo che dovremmo proseguire. Io voglio andare. Se ti senti abbastanza bene.

— Che cosa mi è successo?

— Ti è caduto addosso.

Hugh trasse un profondo respiro; il suo viso era sbigottito.

— Non ti senti qualcosa di rotto? Niente?

— Sono illeso. Non riesco a scaldarmi.

— Dovresti mangiare.

Lui scosse la testa.

— Allora forse possiamo andare. Qui è umido. Forse camminando ti scalderai.

— Giusto — disse lui, avvicinandosi al punto dove avevano dormito tra le felci. Irena si organizzò: legò il pacco dei viveri e la giacca di pelle ancora bagnata per poterli portare più facilmente, e diede a Hugh il mantello rosso. — Mettilo bene, vedi, si allaccia al collo. Io porterò la tua giubba, così, finché si asciugherà. — Lui si muoveva tanto goffamente che Irena gli chiese: — La spalla va bene?

— Sì. È il fianco, credo di essermi incrinato qualcosa.

— Ce la fai a camminare? — chiese lei bruscamente, allarmata.

— Passerà quando mi sarò scaldato. — Hugh aveva un tono di scusa.

— Non so dove siamo — disse lei.

Rimasero fermi sul sentiero, appena oltre il nastro sottile e il mormorio del rivoletto che l’attraversava e scendeva tra felci e muschio e radici d’alberi, giù per la montagna.

— L’unico modo per sapere con certezza dove andiamo sarebbe ritornare indietro, ripercorrere tutta la pista. — Irena indicò con un gesto la direzione della caverna, lassù. — Oltre l’antro, e ritornare al Gradino Alto, e ridiscendere fino alla città e alla strada del sud.

— No — disse Hugh.

— Bene — disse lei, con grande sollievo ma senza poterlo ammettere. — Neanch’io lo desidero. È stato un viaggio spaventosamente lungo. Ma non so dove sia la porta, rispetto a qui.

— Se scendiamo — disse lui, — forse ritroveremo il senso dell’asse, la direzione.

— Sta bene. Se quello sul quale ci troviamo è il lato sud della montagna, questo sentiero conduce a est. Se possiamo procedere verso est o sud-est, dovremmo attraversare il Terzo Fiume, più o meno ai piedi della montagna. E seguire il Terzo Fiume fino alla strada, e poi continuare fino alla porta. Dovrebbe essere molto più breve che fare di nuovo tutto il giro.

Hugh annuì; e lei si avviò, giù per il sentiero, sotto gli esili, fitti abeti. La rincuorava camminare, la rincuorava la decisione di non tornare indietro; aveva avuto paura che lui volesse tornare indietro. — Vai senza guardarti indietro…

Le figure bianche stavano silenziose sulla strada semibuia, ormai da molto tempo e per sempre immutabili.

Il sentiero era stretto e sassoso, e scendeva dolcemente. Era piacevole camminare, sciogliendo i crampi e gli indolenzimenti delle braccia e delle gambe, e respirare era agevole. Per tutto quel percorso interminabile dal Gradino Alto alla grotta, per tutto quel giorno o tutti quei giorni di paura e di marcia, lei non aveva potuto respirare normalmente: c’era stata una pressione sui polmoni, dal basso in alto. Adesso sentiva che respirare era un piacere profondo come quello di bere l’acqua fresca. Io respiro, io sono il respiro; sono così, sono così. Cammino, procedo sulla terra, sono la terra, il respiro; e alla base di tutto questo, la gioia.

Avevano percorso molta strada quando il sentiero giunse in fondo alla gola. Lì c’era un crepuscolo buio, e un ruscello silenzioso scorreva sotto gli arbusti inclinati e le felci, un guado indistinto e sdrucciolevole. Hugh attraversò lentamente. Lei vide che non camminava con scioltezza. Vide che da questa parte della gola il sentiero tornava indietro, puntando verso ovest.

Se era ovest.

Tutta la sicurezza l’abbandonò in quel luogo scuro e scivoloso. Se si erano spinti più lontano di quanto lei avesse immaginato, e se l’antro del drago era sul lato occidentale della montagna, allora tutto il suo orientamento era sbagliato. Erano in un territorio del quale non sapeva nulla. Anirotembre, la terra dietro la montagna: quel nome era tutto ciò che loro ne avevano detto. Se c’erano cittadine e villaggi, non ne avevano mai parlato. Cos’aveva detto una volta Hugh, dell’ovest? Qualcosa a proposito del mare. Non andava bene. Doveva decidere cosa fare. La pista che stavano percorrendo poteva essere un cerchio. Era la stessa pista che avevano seguito da quando avevano lasciato il Gradino Alto, era la strada del drago. Poteva continuare zigzagando tra i burroni e salire e scendere le pendici intorno alla montagna e ritornare finalmente al Gradino Alto. Giorni di cammino, forse, e già Hugh stava là a testa china, lieto di fermarsi. Era inutile camminare in cerchio. Dovevano abbandonare il sentiero del drago, e uscire.

— Credo che forse dovremmo lasciare la pista a questo punto — disse Irena, parlando a voce bassa, perché quel luogo profondo incuteva soggezione. — Dobbiamo cercare di continuare verso est.

Lui alzò gli occhi verso i pendii bui. — Sarà difficile mantenere una direzione qualunque, se lasciamo la pista.

— Il fiume scorre verso est. Credo. Possiamo seguirlo.

— D’accordo.

— È solo una mia impressione che sia l’est — disse lei, seccamente. — Non lo so.

— È impossibile saperlo. — Lui la giustificò, senza discutere. — Non arriverei mai da nessuna parte — disse, guardandola attraverso l’aria scura. — Non da solo.

— Allora avanti — disse lei. — Può darsi. Purché questo fiume scorra nella direzione giusta.

— Non è un fiume, è un ruscello — disse lui, amabilmente.

— Io li chiamo tutti fiumi. Vuoi riposare un po’?

— No. Il terreno è troppo umido. Andiamo avanti.

Era snervante lasciare di proposito il sentiero per scegliere l’assenza di ogni sentiero, come se conoscessero il percorso. Almeno, all’inizio non fu difficile procedere. Gli alberi, da questa parte della gola, erano quasi tutti vecchi, grossi abeti, senza molto sottobosco in mezzo, quando lasciarono il letto del ruscello. I pendii erano erti. Ben presto, Irena si augurò di poter sollevare un po’ la gamba destra. Ma avanzavano abbastanza svelti, e lì c’era più luce.

Il ruscello cominciò a scendere più ripido. Irena non cercò di tenersi vicino all’acqua, ma salì fino al dosso, dove era più facile camminare e la direzione era la stessa della corrente. Aveva sperato di poter vedere più avanti per un tratto, dall’alto del dosso, ma come sempre gli alberi erano troppo fitti. Era stata una sciocchezza, abbandonare il sentiero? Forse, ma non sarebbe tornata indietro. Potevano soltanto rischiare. Lei aveva fame. Sembrava troppo presto per fermarsi, fino a quando ripensò al luogo sotto la grotta, dove avevano dormito… ore prima, molto più indietro, sulla montagna. Si voltò e disse: — Vorrei fare una sosta — a Hugh che la seguiva pesantemente. Lui si fermò subito. Si guardò intorno e additò un tratto pianeggiante di terreno fra le radici di due grandi alberi fronzuti: e si avviarono da quella parte. Lui portava il mantello rosso, che di spalle gli dava l’aria di una vecchia, ma di fronte lo faceva apparire maestoso. Trovarono radici comode per sedersi, e Irena slegò e aprì l’involto dei viveri. — Penso che dovremmo tenerci leggeri, questa volta, e la prossima volta che ci fermeremo, mangeremo di più. Hai molta fame?

— Non ho fame.

— Mangia qualcosa, comunque.

Irena preparò porzioni che le sembravano vergognosamente scarse, ripose il resto e cominciò a mangiare. Credeva di masticare lentamente per far durare di più il cibo, ma finì subito, finì prima che Hugh fosse arrivato a metà. Lui non toccò neppure il pane. Irena lo guardò, a disagio. Era pallido, ma l’aria sciupata era dovuta soprattutto alla barba lunga. Non aveva un’espressione stravolta. Anzi, sembrava tranquillo e contento, mentre guardava fra gli alberi. Poi, sentendo evidentemente lo sguardo di lei, si voltò. — Tu lavori, o studi, o che altro? — le chiese.

In un primo momento la domanda le sembrò così pazzesca e insensata che lei non seppe rispondere, lì, perduta sulla montagna del drago. Poi l’impulso che aveva spinto Hugh si affermò anche in lei, e non vide più nulla di strano in ciò che le chiedeva. — Lavoro. Mott Zerming. Faccio le commissioni.

— Come?

— Le commissioni. Hanno una quantità di sussidiarie e di affiliate, in città, e una quantità di corrispondenza e di promemoria e di disegni e tutto il resto (si occupano anche d’ingegneria) e a loro conviene servirsi di gente che li porti ai vari uffici, piuttosto che usare la posta. È un’azienda molto grande. Ma è ancora su scala locale, e Mr. Zerming la dirige ancora personalmente. Preferisce servirsi di persone con macchina propria. Però ho tutta la benzina gratis.

— Pazzesco — disse lui, in tono d’approvazione. — Così te ne vai sempre in giro in macchina?

— In certi casi è più facile andare a piedi, agli uffici del centro. Oppure prendere l’autobus. Certi giorni guido dalla mattina alla sera. È abbastanza strano. A me piace, perché sono indipendente e lo faccio a modo mio. Detesto fare le cose quando è qualcun altro a dirmi come devo fare.

— È il guaio di tanti lavori.

— Il guaio di questo è che per la verità è un lavoro da ragazzini. Un po’ irreale… sai bene. In realtà non fai mai niente. Corri e corri e non approdi mai a nulla.

— Cosa ti piacerebbe fare?

— Non so. Questo non mi dispiace, sai, va benissimo. È un lavoro. Ma credo che quello che una persona fa veramente sia diverso. Dovrebbe essere diverso. Come una fattoria. O l’insegnamento. O occuparsi dei bambini. Ma non fa per me. Bisogna avere un po’ di terreno e un trattore. Oppure prendere un diploma d’insegnante o di puericultrice o qualcosa del genere.

— Potresti andare a una scuola serale — disse lui, pensosamente. — E lavorare di giorno. Almeno per cominciare. Se…

— Si direbbe che tu ci hai pensato molto. Oppure dovresti andare a un’università speciale?

— Per che cosa?

— Per diventare bibliotecario, hai detto.

Hugh la guardò di nuovo, uno sguardo lento. — Giusto — disse; e Irena comprese, con certezza indiscutibile che aveva riconosciuto qualcosa che era stato represso e disprezzato, aveva fatto qualcosa di assolutamente, definitivamente giusto. Non sapeva cosa fosse, ma l’effetto la rallegrò. — Pazzesco — disse. Tutti quei libri. Cosa te ne faresti, comunque?

— Non so — disse lui. — Leggerli?

Il sorriso di Hugh era bonario. Lei rise. I loro occhi s’incontrarono, deviarono. Rimasero per un po’ in silenzio.

— Se almeno fossi sicura che stiamo andando veramente verso est, sarebbe così bello!… Ti senti bene, adesso?

— Benone.

Lui parlava sempre quietamente, ma lei sentiva la risonanza della voce smorzata: forse era una bella voce, fatta per cantare.

— Mi fa un male d’inferno qui — commentò lui, con un certo stupore, tastandosi il fianco sinistro, con delicatezza.

— Fammi vedere. . — Non è niente.

— Beh, fammi vedere. Mi è sembrato che ti muovessi un po’ rigido, da quella parte.

Lui cercò di alzare la camicia, ma non riuscì a sollevare il braccio sinistro. Sbottonò la camicia. Era imbarazzato, e lei cercò di comportarsi con il distacco di un medico. All’altezza del gomito, al limite della cassa toracica, c’era una macchia neroverdastra, grande come il coperchio d’un barattolo di caffè. — Mio Dio, — disse lei.

— Che cos’è? — chiese lui, apprensivo; non poteva vederla bene.

— Un livido, credo. — Irena pensò all’impugnatura della spada che sporgeva dal ventre dell’essere bianco. Si rattrappì istintivamente, a quel pensiero. — Da quando il… da quando ti è caduto addosso. — Tutto intorno alla chiazza la pelle era giallastra, e c’erano altri lividi e striature più cupe che salivano verso lo sterno. — Non mi sorprende che ti faccia male — disse lei. Sentì il calore dell’ematoma sui polpastrelli, prima di toccarlo lievemente.

Lui le prese la mano. Irena pensò di avergli fatto male e alzò la testa per guardarlo. Non si mossero; lei gli stava inginocchiata accanto, lui sedeva con un ginocchio rialzato.

— Mi hai detto di non toccarti mai — disse Hugh, con voce rauca.

— Questo è stato prima.

La bocca di lui s’era ammorbidita e allentata, il volto era intento, profondamente serio, come lei l’aveva visto una volta soltanto. Aveva visto sulle facce di altri uomini la stessa maschera, che li rendeva tutti eguali, e aveva nascosto il suo volto. Adesso, senza paura, un po’ sgomenta ma incuriosita, lo scrutò, e gli toccò la bocca e l’incavo della tempia, accanto all’occhio, delicatamente come aveva toccato il livido nero, ansiosa di conoscere quella sofferenza e quel desiderio. Hugh la trasse a sé, ma goffamente e timidamente, fino a quando lei alzò entrambe le braccia, e si sentì diventare molle e guizzante come l’acqua. Poi lui la tenne e montò su di lei, sopraffacendola; eppure la forza di lei conteneva la forza di lui.

Quando entrò in lei, giunsero insieme al culmine, e poi giacquero insieme, fusi e mescolati, petto contro petto, il respiro frammisto, fino quando lui si erse di nuovo dentro di lei, e lei si chiuse su di lui, sospinti entrambi dal lungo palpito della gioia.

Lui giaceva con gli occhi chiusi e la testa girata, nudo per tre quarti, con i jeans abbassati. Lei toccò la lunga linea splendida dal fianco alla gola, guardò i peli serici e biondi, stranamente innocenti, nel cavo dell’ascella. — Sei freddo — disse, e riuscì a tirare il mantello rosso su tutti e due. — Sei bella — disse lui, mentre le sue mani cercavano di descrivere quella bellezza in carezze, ma senza fretta, con tenerezza sonnolenta. Giaceva con la faccia contro la spalla di lei. Semiaddormentata, lei vide le fronde immobili degli abeti contro il cielo quieto. Il conforto che si davano l’un l’altro era grande, ma era l’unico che potevano avere. Il terreno era duro. Lo sentiva rabbrividire nel sonno. Si scostò da lui. Lui protestò, mormorando il suo nome, ripiombando per un minuto nel sonno.

Irena si rivestì, rabbrividendo un poco a sua volta, e quando lui si svegliò, gli fece mettere la giubba di pelle, che finalmente era abbastanza asciutta, e sopra il mantello. — È lo shock che ti fa sentir freddo — disse lei.

— Lo shock di che cosa? — chiese Hugh, con un sorriso placido.

— Taci. Ti fa sentir freddo… lo shock da lesioni.

— Credo che abbiamo scoperto come scaldarci.

— Sì, d’accordo, ma non possiamo arrivare alla porta standocene qui a fare l’amore, Hugh.

— Non so se potremo arrivarci camminando — disse lui. — Almeno potremo goderci le soste — aggiunse, e poi la guardò per assicurarsi di non averla offesa, di non aver turbato il suo pudore. Il pudore di lui, la sua vulnerabilità, le sembravano del tutto ammirevoli. Lei era molto più cruda, pensò, e se la giudicava doveva disapprovarla; ma lui non la giudicava. Non veniva a lei con giudizi, o con una collocazione, o un nome, o un uso per lei. Veniva a lei senza altro che la forza e il bisogno.

La stava guardando. Le disse: — Irena, sai, è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata. Lei annuì, incapace di rispondere.

— Credo che dovremmo proseguire — disse lui. Si tastò il fianco sinistro con un’espressione pensierosa e disgustata. — Vorrei che passasse.

— Ci vorrà un po’. È un livido tremendo.

Lui la stava guardando di nuovo, incerto; poi, risolutamente, si avvicinò, le toccò i capelli e la guancia e la baciò… in modo non esperto e non molto appassionato; ma era il loro primo bacio. Più del bacio, a lei piaceva il tocco della grossa mano. Voleva dirgli che era bello e che le piaceva, ma dire certe cose non le riusciva mai bene.

— Stai abbastanza calda? — chiese lui. — Tutti gli abiti li ho io.

— Mi scaldo sempre camminando.

Lui attese che lei si avviasse, senza fingere di sapere dove dovevano andare. Lei s’incamminò, con un nuovo slancio di sicurezza, lungo la cresta, continuando il percorso a fianco del fiumicello, nella direzione che era decisa a chiamare est.

Camminarono a passo regolare, senza parlare, per un lungo tratto. La cresta, un lungo, esile sperone della montagna, s’incurvava un po’ verso sinistra; il dosso saliva e si abbassava, ma l’inclinazione complessiva era sempre in discesa. I boschi, sulla cresta, erano radi, e rendevano agevole il cammino, e c’erano lunghi tratti scoperti dove era piacevole camminare sulla corta erba secca e bruniccia, lontano dal cupo baldacchino dei rami. Finalmente, lo sperone cominciò a scendere più ripido, e poi a precipizio. Poiché non riuscirono a trovare un percorso più facile, dovettero scendere aggrappandosi alle radici, a volte lasciandosi scivolare. Si rialzarono sul fondo, nel letto del fiume, un burrone scosceso, ammantato di fitta vegetazione. Subito scesero al ruscello, per bere.

Irena risalì la sponda fangosa, verso un tratto sgombro formato dalla caduta di un grosso albero, e restò lì a riflettere. Il ruscello aveva circa la stessa ampiezza del Terzo Fiume. Se era il Terzo Fiume, bastava che lo seguissero, per incrociare la strada del sud… Ma quello non era il Terzo Fiume. Era lo stesso ruscello che avevano seguito dalla sorgente, la fonte tra le felci, sotto l’antro del drago. Scorreva verso est o sud-est, giù dalla montagna, in quella gola. Il Terzo Fiume scorreva verso ovest, aldilà della montagna. Quello doveva essere un affluente; avrebbe incontrato il Terzo Fiume, in qualche punto. Scorreva verso sinistra, e il Terzo Fiume doveva scorrere verso destra, da quella parte, se lei in quel momento era rivolta verso sud…

Irena cercò di calcolare: se i fiumi scorrevano in direzioni opposte, verso che punto cardinale era rivolta? Sentì un nome alla gola. I nomi della bussola, nord, ovest, sud, est, erano parole prive di significato. Qualunque direzione lei guardasse poteva essere il sud. O poteva essere il nord.

Hugh la raggiunse. — Pronta per una pausa? — le chiese. Le posò una mano sulla spalla. Lei si ritrasse istintivamente da quel contatto.

Subito lui si allontanò, attraversando la piccola radura. Sedette, con la schiena contro il tronco massiccio dell’albero caduto, e chiuse gli occhi.

Quando Irena andò a sedersi accanto a lui, le disse: — Forse dovremmo mangiare qualcosa.

Lei aprì l’involto e tirò fuori i viveri rimasti. Erano più di quanto avesse pensato: certamente sarebbero bastati ancora per un giorno. Questo le diede il coraggio per dire: — Non so dove siamo.

— Non l’abbiamo mai saputo, vero? — disse lui, impassibile. Poi, con uno sforzo visibile, si mosse, aprì gli occhi, fece domande e diede suggerimenti. Discussero l’opportunità di seguire ancora quel ruscello, poiché prima o poi doveva gettarsi in uno dei fiumi più grandi.

— Oppure, se andiamo nella direzione sbagliata, arriveremo al mare — disse lui, scherzando; ma la sua voce si spense, all’ultima parola.

— L’altra possibilità sarebbe svoltare a sinistra, qui — disse Irena, masticando una seconda striscia di carne affumicata e sentendosi rianimata da quel nutrimento. — Perché continuo a pensare che non stiamo andando abbastanza verso est. E finché restiamo sulla montagna non siamo perduti completamente… almeno sappiamo dov’è la montagna.

— Ma non ci avviciniamo alla porta.

— Lo so. Ma la montagna è l’unico vero punto di riferimento che abbiamo. Dato che abbiamo perso il senso della collocazione della porta.

— Lo so. È tutto eguale. Come quando avevo superato la porta. Credo… credo di aver paura che sia accaduto di nuovo. La porta non c’è più. Non possiamo trovare nulla.

— A me non è mai accaduto — disse lei, in tono di sfida. — E non mi accadrà. Non resterò qui.

Lui stava sospingendo gli aghi d’abete per formare disegni sul suolo, accanto all’albero caduto.

— Questa è tua — disse lei, sforzandosi di distogliere gli occhi dall’altra razione di carne.

— Non ho fame.

Dopo un po’, lei chiese: — Non lo fai per lasciarlo a me, o qualcosa del genere, vero?

— No — disse lui, candidamente, stupito; sorrise, alzando la testa verso di lei. — Non ho voglia di mangiare, ecco tutto. Se l’avessi, per te non resterebbe niente.

— Non puoi digiunare e continuare a camminare così.

— E invece sì. Vivo del mio grasso, come un cammello.

Lei si accigliò. Avrebbe voluto avvicinarsi di più e toccarlo, i capelli ruvidi e le stanche guance irsute, la mano grande, potente e tuttavia infantile; ma glielo impedì il ricordo di essersi sottratta di scatto al suo tocco pochi minuti prima. Avrebbe voluto confutare l’autodenigrazione di lui, ma non sapeva cosa dire.

Gli occhi di Hugh erano chiusi o si stavano chiudendo: s’era appoggiato all’indietro, contro l’albero caduto. Lei non disse nulla, chiusa in un senso di timidezza e di profonda depressione. Quando gli lanciò un’altra occhiata, era addormentato, con la faccia molle, la mano abbandonata sulla coscia.

Avrebbero dovuto proseguire. Dovevano proseguire. Non potevano mettersi a sedere o a dormire, altrimenti non sarebbero mai giunti alla porta. — Hugh — disse Irena. Lui non la sentì. Poi la sua ansia si dissolse nella pura, appassionata tenerezza dalla quale era sorta. Si accostò a lui, lo spinse gentilmente per farlo sdraiare. Lui si svegliò. — Dormi — sussurrò lei. Hugh obbedì. Sedette accanto a lui, per un po’. E mentre stava seduta, ascoltò il suono del ruscello vicino, al quale prima non aveva prestato attenzione. Li scorreva tranquillo, fluendo dolcemente sulla sabbia o sul fango, in un mormorio lievissimo. Irena cominciò a rendersi conto della propria stanchezza. Prese il mantello rosso, che lui non aveva più indossato da quando aveva cominciato a scaldarsi nella giubba di pelle, e lo stese su entrambi come una coperta, poi si adagiò contro Hugh, e si addormentò.

Quando si svegliarono entrambi erano indolenziti, lenti, riluttanti. Irena ridiscese l’argine per bere al ruscello. Si lavò le mani e la faccia, e l’acqua fresca era così gradevole, e lei si sentiva così incrostata dalla sporcizia del viaggio; trovò una lanca poco profonda, più a valle, e si svestì e fece il bagno. L’intimidiva l’idea che Hugh la vedesse, e si rivestì in fretta. Lui scese l’argine più verso monte, dove era basso, e s’inginocchiò pesantemente per bere. — Fai una nuotata. Io l’ho fatta — gridò Irena, abbottonandosi la camicia e rabbrividendo piacevolmente.

— Troppo freddo.

— Hai ancora freddo? — chiese lei, raggiungendolo sulla riva, tra il fango e le felci.

— Sempre.

— È stato… il drago… Era freddo. L’ho sentito.

— Voglio solo rivedere la luce del sole — disse lui. Nella sua voce c’era un suono disperato che la spaventò.

— Ne usciremo, Hugh. Non…

— Da che parte? — domandò lui, alzandosi. Si aggrappò a un arbusto nodoso che sporgeva dall’argine, per raddrizzarsi.

— Seguiamo il ruscello, credo.

— Bene. Non ho voglia di scalare la montagna — disse lui, sforzandosi di scherzare.

Irena gli prese la mano. Era fredda come la pietra… Fredda per l’acqua, pensò: ma quel tocco freddo l’aveva sconvolta, rendendola incapace di accettare una spiegazione razionale. Aveva paura per lui. Lo guardò in viso e disse il suo nome.

Lui incontrò i suoi occhi, guardandola come se la vedesse con un desiderio inesprimibile. Le posò la mano destra sui capelli e l’attirò a sé. Era una muraglia, una fortezza, un baluardo, e mortale, fragile, più facile da ferire che da risanare; uccisore d’un drago, figlio del drago; figlio del re, pover’uomo, povera, effimera anima ignara. Il desiderio di lui si ergeva e le pulsava contro il ventre; ma le braccia la stringevano con un desiderio ancora più grande, un desiderio al quale la vita non può dare il compimento. Lei lo tenne stretto a sé, e rimasero così, insieme.

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