5.

Era come se fosse stato cieco e lei fosse venuta a lui, e i suoi occhi si fossero rischiarati per vederla. Vedendo lei, vedeva il mondo per la prima volta; non vi è nessun altro modo di vedere. Ogni atto e ogni oggetto avevano un significato, ora, perché quando lei l’aveva toccato, quel tocco gli aveva insegnato il linguaggio della vita. Nulla era cambiato, ma adesso aveva senso. Mele, tre per ventinove, e il budino in scatola era in offerta speciale a ottantanove per la prima confezione da sei, benissimo, ma quelli erano i numeri e le parole, e adesso lui comprendeva le equazioni, la grammatica: la bellezza del mondo. Le facce, prima non le aveva mai viste, perché aveva avuto paura di guardare la bellezza del mondo. La gente stava in coda davanti alla sua cassa, irrequieta e docile, obbediente alla fame, alla propria fame, alla fame dei figli. Le creature mortali devono mangiare, e quindi erano lì, in fila, e spingevano i carrelli. Così sarebbero venuti per morire. Erano molto fragili. Erano stizzosi e odiosi quando erano stanchi e il loro denaro non poteva procurar loro quel che volevano, e neppure ciò di cui avevano bisogno; sentiva la loro collera, ma non lo faceva più infuriare e non lo spaventava, perché ora tutte le cose contenevano l’idea di lei e ne venivano trasfigurate. Il viso di un bimbetto portato oltre la cassa da una madre stanca, la dignità e la pazienza di quella faccetta e la pesante grazia inconsapevole del braccio materno, gli davano l’impulso di gridare, come se si fosse tagliato o scottato la mano. Le cose ferivano. Lui era stato insensibile. L’anestetico aveva esaurito l’effetto, lui era vivo, sentiva la sofferenza. Ma nella sofferenza, la ragione della sofferenza era la gioia. Sotto ogni parola che diceva o udiva, in tutto ciò che vedeva e faceva, c’era il nome di lei, e intorno al nome, come un’aureola, un’armatura di luce, la gioia incrollabile.

Guardava tutte le donne bionde che venivano nel supermercato. Nessuna aveva capelli come i suoi, morbidi e pallidi, finemente arricciati come un vello, ma lui le guardava con tenerezza e simpatia perché le assomigliavano almeno nel fatto di essere bionde. Ma non poteva esserci una donna come lei, lì. Nessuna donna, lì, poteva parlare la sua lingua. La sua voce era chiara e dolce. L’ultimo giorno, dei tre che aveva trascorso nella piccola città sulla montagna, lei aveva indossato un abito verde, morbido e aderente, che modellava il corpo snello e tornito. Aveva i polsi e il collo delicati e candidi. In lei, tutte le altre donne erano belle, ma non c’era nessuna come lei. Non era possibile, perché lei era sola, là nell’altra terra, dove l’anima diventava se stessa.

Nei libri, gli uomini dicevano che potevano morire per una donna così e così. Hugh aveva sempre pensato che fosse molto poetico ma che non avesse senso, che fosse soltanto un modo di dire. Adesso capiva che significava esattamente ciò che diceva. Sentì in sé il desiderio, la smania di dare tanto all’amata da non lasciare più nulla, dare tutto, tutto. Proteggerla e difenderla, servirla, morire per lei… il pensiero era insopportabilmente dolce; Hugh trattenne di nuovo il respiro come se un coltello l’avesse trafitto, quando gli venne quel pensiero.

— Non sarai mica diventato un seguace di quel Swami Maha-Jiji o come si chiama, vero, Buck?

Lui rise.

— Hai la stessa aria che hanno loro, quelli dell’Hare Krishna — disse Donna.

Lo prendeva in giro con simpatia, e lui non poteva resistere a lungo. Le disse tutto quel che poteva, del miracolo. — Ho conosciuto una ragazza — disse. Donna esclamò: — Lo sapevo! — con gioia e soddisfazione. Ma naturalmente voleva saperne di più, e lui si rammaricò di aver parlato. Era un errore. Non poteva parlare, lì, di nulla che riguardasse la terra crepuscolare. Non esisteva un modo per dirlo. — Ho conosciuto una ragazza — non era vero. La verità era che aveva visto una principessa, che l’amava, che avrebbe dato la vita per lei. Come poteva capirlo, Donna?

Donna era buona. Sembrava rendersi conto che era pentito di averle detto qualcosa, e smise di punzecchiarlo, persino di fargli domande. Ma quando lo guardava c’era un luccichio nei suoi occhi, un gaio bagliore di complicità. Lui non voleva vederlo. Donna era a posto, Donna era una gran brava persona, ma come poteva, una come lei, comprendere quello che gli era accaduto?… la stranezza, il mistero, la tragica paura; la bella donna in pericolo che lui amava in silenzio, il silenzio dell’adorazione, il silenzio dell’immutabile crepuscolo delle foreste di quel mondo.

Il mondo del giorno e della notte fu piuttosto strano, per tutta la settimana. Hugh aveva previsto che l’impazienza di ritornare alla piccola città sulla montagna rendesse dura l’attesa, ma non era così. Anzi, assaporava e tesaurizzava quei giorni quando, al lavoro o mentre tornava a casa a piedi, o in casa, poteva covare il pensiero della sua principessa e lasciare che il nome di lei gli riempisse la mente, anziché starsene goffo e ammutolito in sua presenza, incapace di parlarle, tentando di intuire ciò che lei diceva.

Non andò al ruscello, le mattine di quella settimana. Aveva paura di rischiare, di trovare la porta chiusa. Non si fidava di se stesso. Perché era stato così stupido, perché aveva continuato oltre la soglia che non c’era, proseguendo e proseguendo quando sapeva che il sentiero non conduceva in nessun posto? Se, appena aveva visto che la porta non era aperta, fosse ritornato subito alla Città della Montagna e avesse chiesto aiuto alla ragazza, si sarebbe risparmiato quell’incubo, la camminata interminabile, quando aveva detto a se stesso che se avesse continuato a procedere sarebbe «uscito», e il panico l’aveva sopraffatto quando aveva creduto di aver perduto la strada, e il terrore, e la fame. Era stato tutto stupido e inutile, e l’aveva lasciato così esausto che adesso trovava le giornate lavorative lunghe e faticose, per tutta la settimana, non solo, ma diffidava di se stesso, e di quel luogo.

— È proprio qui che non ho paura — aveva detto alla ragazza (nella casa di Allia, nella lunga sala con le finestre piene del chiaro crepuscolo), ma adesso non era più vero. Adesso conosceva un po’ il rischio che avrebbe potuto correre, tornando lì. E sapeva anche che conosceva solo un po’ quel rischio. Là c’era pericolo; e non poteva essere certo che avrebbe agito in modo razionale. Tenendo conto di questo e dell’inaffidabilità della porta, gli sembrava giusto valutare non più del cinquanta per cento le probabilità di ritornare indietro. Riteneva che facesse parte dell’equilibrio tra i due luoghi, e l’accettava. Era l’occasione, il servizio che desiderava. Ma comunque, finché era lì nel mondo comune, con le solite possibilità illusone e nulla di più grande del normale da affrontare, si sarebbe goduto la luce del giorno.

Nei confronti di sua madre provava la compunzione, la pazienza dolente della slealtà potenziale, forzata solo dall’implacabile stizzosità di lei. Lei non gli perdonava nulla. Il suo ritorno con un paio d’ore di ritardo, domenica pomeriggio, aveva fatto piovere su di lui l’accusa che non meritava nessuna fiducia. Lui lo capiva, ma non comprendeva perché il suo sfinimento inequivocabile (spiegato malamente con la scusa che «si era perduto in una scorciatoia») avesse destato in lei ostilità e disprezzo. — Ti sei perduto nei boschi? Perché eri andato nei boschi? Se non sai badare a te stesso è una cosa stupida, stupida, stupida. Quelli come te dovrebbero andare in palestra. Non sei adatto, come giovane esploratore. Che cosa stai cercando di dimostrare? — E avanti e avanti, parlando con un’irritazione irrefrenabile, sembrava, che lo induceva a pensare che non fosse il suo ritorno in quello stato a infuriarla, ma piuttosto il fatto che fosse ritornato. Ma non aveva senso.

Da un po’ di tempo, lei usciva tre o quattro sere la settimana, qualche volta fino a mezzanotte, per le sue sedute con Durbina. Molti altri che avevano interesse per lo spiritismo s’erano uniti a loro. Mrs. Rogers aveva dimostrato di avere doti medianiche: sapeva produrre la scrittura automatica senza andare in trance. Grazie al suo dono, ora stavano intrattenendo una vivace conversazione, o una corrispondenza, con una delle incarnazioni passate di Durbina, una sacerdotessa di Iside. Il tavolino del soggiorno dei Rogers era carico di libri sull’antico Egitto, presi a prestito da Durbina o, per quanto fossero costosi, comprati nuovi. Quando la sacerdotessa di Iside contraddiceva un’affermazione d’uno dei libri, o correggeva la traduzione errata di un geroglifico, Mrs. Rogers era trionfante. A volte, quando rientrava a casa, parlava eccitatissima di quel che era successo durante la seduta; ma appena Hugh cercava di rispondere, lei ridiscendeva sulla terra. — Naturalmente, a te queste cose non interessano — rispondeva, qualunque cosa lui avesse detto o domandato. Hugh vedeva che lei era felice, insieme a quella gente che ammirava e apprezzava le sue doti medianiche, e che si sentiva rifiorire. Ma non riusciva a portare a casa con sé la serenità e la felicità. I suoi nuovi interessi, anzi, accrescevano la sua diffidenza e il suo malcontento. Hugh non riusciva a far nulla che l’accontentasse. Se sua madre faceva il bucato si lamentava rabbiosamente delle calze spaiate, delle camicie con il colletto sporco e le macchie d’erba, delle magliette non rigirate nel modo giusto; ma se era lui a fare il bucato, lei lo rifaceva perché non l’aveva fatto bene. Se le portava a casa qualcosa dal supermercato perché era in offerta speciale o era un buon affare, lei diceva che era «roba vecchia», e la lasciava a muffire nel frigo fino a quando lui la buttava via. Quando erano in casa entrambi, sua madre gli faceva sentire che le dava sempre fastidio, ma non accennava a modificare la pretesa di trovarlo lì ogni volta che rientrava. Se usciva metà delle sere della settimana, si risentiva della sua presenza ma la esigeva; come avrebbe fatto, quando lui fosse ritornato…? Ma il fatto era che sarebbe andato. Di fronte a quella certezza le esigenze irriducibili di sua madre finirono per diventare insignificanti. La sua sgarberia e la sua impazienza lo ferivano, ma non profondamente; la volontà di Hugh s’era distolta da lei. Nessuna coltellata poteva raggiungerlo dove lui camminava pensando ad Allia.

Era il caldo, si diceva; tutti diventavano insofferenti, quando faceva così caldo.

Visse quasi sempre in silenzio i lunghi giorni di quella settimana. La notte non dormiva profondamente: c’erano molti sogni e risvegli, e più di una volta, nelle ore piccole, si alzava e andava alla finestra per un po’, a guardare le stelle o la prima, alta luce dell’alba.

Il venerdì Donna, che aveva i sabati liberi, gli chiese che cosa avrebbe fatto in quei giorni di vacanza, e lui rispose, come aveva deciso: — Andrò a fare una gita a piedi con certa gente che conosco. — Donna gli rivolse quell’occhiata fuggevole, di sottecchi, che sembrava sottintendere che, amando una donna, aveva meritato l’approvazione di tutto l’universo femminile, rappresentato da Donna… se era approvazione. Ma poi lei lo guardò in faccia e cambiò espressione. Gli posò la mano sul braccio. — Fai in modo che non ti succeda niente, Buck — gli disse.

— E cosa può succedermi?

— Non lo so! — disse lei, come se fosse stupita delle proprie parole, e rise.

Ma il suo sguardo e le sue parole e il tocco della mano dura e grassoccia, dalle unghie laccate di rosso, furono per lui come un talismano, l’assicurazione che in effetti c’era una persona preoccupata per lui, anche se invano, tramite l’intuizione che lui era nei guai o in pericolo.

Se le doti medianiche di sua madre la portavano a vedere la stessa cosa, lei gliene faceva una colpa, come testimonianza di slealtà, e non glielo perdonava.

Venerdì sera le disse che aveva intenzione di star fuori tutta domenica notte. Era ciò che aveva temuto, per tutta la settimana. Recitò, mormorando, il discorsetto che aveva preparato, sulla gita che intendeva fare con alcuni amici nel parco statale a nord della città, prendendo il primo autobus domenica mattina, per dormir fuori la domenica notte e ritornare lunedì pomeriggio. Sua madre non disse nulla. Tenne gli occhi sullo schermo del televisore, mentre lui parlava, e Hugh non poté essere certo che l’avesse ascoltato. Sebbene il peso vivo del rimorso gli rendesse difficile respirare, finì di parlare, e poi tacque, senza fare domande, senza permettersi di chiedere una conferma, un’autorizzazione, l’approvazione che desiderava, che aveva sempre desiderato, che non aveva mai ottenuto e che non avrebbe ottenuto mai. Ma non poteva permettersi neppure di andare in collera, e un po’ più tardi, quando il programma che piaceva a sua madre terminò e lei dovette alzarsi per spegnere il televisore, le chiese con la massima naturalezza possibile come era andata la seduta della sera prima. Sua madre non rispose. Prese un libro su Akhenaton e sedette a leggerlo, senza guardarlo e senza parlargli. Hugh cercò di convincersi che quel silenzio era più facile da sopportare di una tirata, ma mentre restava seduto in soggiorno con lei, cercando di leggere Time, si accorse che stava cominciando a tremare, come se avesse freddo. Si alzò e andò in camera sua. Lei non rispose, quando le augurò «Buona notte».

Di solito, sua madre restava a letto il sabato mattina, ma quel giorno si alzò e se ne andò in macchina prima che si alzasse Hugh. Lui andò al lavoro come al solito. Fu una giornata pesante, dato che precedeva due festività. Sua madre non era a casa, quando rientrò. Cenò da solo. Lei arrivò alle dieci e mezzo, agile, cupa, un po’ in disordine nell’abito di cotone stampato. Non rispose al suo saluto e si avviò subito nel corridoio, verso la sua camera.

— Mamma — disse Hugh, e c’era una certa autorità appassionata nella sua voce perché lei si fermò, anche se non si voltò a guardarlo. Il silenzio stava tra loro come una muraglia.

— È inutile che mi chiami così — disse lei, in tono chiaro e asciutto, e andò nella sua stanza e chiuse la porta.

Chi posso chiamare così? pensò lui. Aveva la sensazione che gli fosse stato sottratto qualcosa, qualcosa dal suo corpo; premette le braccia contro le costole per difendersi. Non c’è nessuno che possa chiamare padre, pensò, e adesso non c’è nessuno che possa chiamare madre. Che scherzo, sono nato senza genitori. È inutile, ha ragione lei. E tutto il resto, la terra crepuscolare, la città, Allia… neppure quello è reale. Roba da bambini. Ma io non sono un bambino. I bambini hanno un padre e una madre. Io no, non li ho. Non ho niente e non sono niente. Rimase lì, nel corridoio, pensando che quella era la verità. E in quel momento ricordò, fisicamente, con il suo corpo e non con la mente, il tocco della mano di Donna sul suo braccio, il colore dello smalto delle unghie, il suono della sua voce: — Fai in modo che non ti succeda niente, Buck. — Allora voltò le spalle alla porta di sua madre, tornò in cucina e nella sua camera, a preparare quello che gli sarebbe servito l’indomani mattina: gli abiti che avrebbe indossato, e un pacchetto di pane, salame e frutta per la lunga camminata fino alla montagna.


Si svegliò alle tre, e poi di nuovo alle quattro. Si sarebbe alzato subito per andare, ma era inutile partire così presto, perché aveva detto alla ragazza di aspettarlo alla porta per le sei. Si girò e cercò di riaddormentarsi. Il crepuscolo dell’alba nella stanza, una chiarità fioca e priva d’ombre, era come la luce dell’altra terra. La sveglia ticchettava accanto al letto. Hugh guardò il quadrante bianchiccio, con le sue lancette che si muovevano verso il basso. Non c’erano orologi, là. Non erano ore. Non era il fluire del fiume del tempo a muovere le lancette dell’orologio: erano mosse dal meccanismo. Vedendole muovere, gli uomini dicevano: Il tempo passa, passa, ma si lasciavano ingannare dagli orologi costruiti da loro stessi. Siamo noi che passiamo attraverso il tempo, pensò Hugh. Camminiamo, procediamo lungo i ruscelli, i fiumi; qualche volta possiamo attraversarne uno… Rimase così, quasi sognando, fino alle cinque. Quando la sveglia ridotta al silenzio scattò, lui si alzò, e sentì il pavimento fresco sotto le piante dei piedi. Due minuti dopo era vestito e usciva di casa.

Arrivò alla porta prima delle sei. La ragazza lo stava aspettando.

Non sapeva ancora con certezza come si chiamava. Quando la gente del crepuscolo pronunciava il suo nome, suonava come Rayna o Dana; lei l’aveva corretto, quando aveva detto Rayna, ma non aveva compreso bene la correzione. «La ragazza», la chiamava quando pensava a lei, e quella parola aveva un colore di oscurità e di collera e il suono del ruscello che scorreva. Era là, in piedi, accanto al roveto, nella luce azzurrina, calda e polverosa del primo mattino, sotto le fronde rade degli alberi del bosco della porta. Alzò la testa, quando lo sentì arrivare. Il suo volto olivastro non si addolcì; ma tese la mano, con la palma rivolta verso l’alto e macchiata di porpora, offrendogli una manciata di more. — Sono ormai mature — disse, e gliele versò nella mano. Erano piccole, dolci del lungo caldo d’agosto.

— Hai provato la porta? — chiese lui.

Lei colse qualche altra mora e lo raggiunse sul sentiero, offrendogliele. — Era chiusa. — Andò un poco più avanti, e guardò il sentiero che scendeva nel tunnel di cespugli.

— Ora c’è.

— Avanti, Finnegan, tocca a me — disse Hugh, seguendola. — Ecco qua. — Ma si fermò sulla soglia tra le due terre e si voltò, come non aveva mai fatto prima, a guardare la luce del giorno; le foglie polverose, l’azzurro del cielo inondato di sole tra le fronde, lo svolazzare di un uccellino da un ramo all’altro. Poi si voltò e seguì la ragazza nel crepuscolo.

Dopo che si fu inginocchiato per la prima, rituale bevuta al ruscello, vide che la ragazza aveva fatto lo stesso. Era inginocchiata sulla sporgenza di roccia e guardava l’acqua corrente, in una posa che non era quella convenzionale della preghiera o dell’adorazione; ma Hugh sapeva, dal suo atteggiamento, che quell’acqua era sacra per lei come per lui. Dopo un po’ lei si voltò e si alzò. Attraversarono il ruscello e procedettero insieme nella terra della sera. Lei andava avanti, in silenzio. La foresta divenne completamente silenziosa, quando perdettero la voce dell’acqua. Non un filo di vento agitava le foglie.

Dopo la notte agitata, Hugh si sentiva stordito, ed era contento di avanzare nella foresta senza parlare, senza pensare, seguendo il passo deciso e regolare della ragazza. Tutti i pensieri e tutte le emozioni s’erano eclissati. Camminava. Ancora una volta, sentiva che avrebbe potuto continuare così, camminando a passo sciolto sotto gli alberi immobili, con l’aria fresca della foresta sul viso, all’infinito. Si abbandonava all’immagine senza paura. Quando aveva superato la porta, quando si era sperduto, era stato atterrito dall’idea di poter continuare e continuare sotto gli alberi, nel crepuscolo, senza cambiamenti, senza fine: ma ora che seguiva l’asse e procedeva nella direzione giusta, era interamente sereno. E vedeva Allia al termine del viaggio infinito, come una stella.

La ragazza s’era fermata e lo stava aspettando sul sentiero, una figura piccola e solida, jeans e camicia azzurra a quadrettoni, il viso tondo e deciso. — Ho fame, vuoi fermarti a mangiare?

— È ora? — chiese lui, vagamente.

— Siamo quasi al Terzo Fiume.

— Sta bene.

— Hai portato qualcosa?

Hugh non riusciva a mettere a fuoco la propria mente. Solo quando lei ebbe scelto il posto dove sedersi, presso il sentiero, accanto a un affluente, un rivoletto che scorreva parallelo alla strada, Hugh reagì alla domanda e si offrì di dividere il pane e la carne che aveva portato. Lei aveva con sé panini, formaggio, uova sode, e un sacchetto di piccoli pomodori, un po’ ammaccati ma tentatori nel loro rosso vivo e innocente, in quel luogo di penombra dove tutti i colori erano smorzati e non sbocciavano i fiori. Lui mise le sue provviste accanto a quelle della ragazza; poi prese un pomodoro dalla parte di lei, e la ragazza prese una fetta di salame dalla sua; quindi si spartirono tranquillamente il cibo. Lui mangiò molto più di lei; aveva una gran fame, ma poiché mangiava più in fretta, finirono più o meno contemporaneamente.

— La città sulla montagna ha un nome? — le chiese. Si sentiva finalmente sveglio, ma molto rilassato, mentre attaccava l’ultimo pezzo di pane e salame.

Lei pronunciò un paio di parole, o una parola molto lunga nella lingua di quella terra. — Significa soltanto Città della Montagna. È come la chiamo io, quando penso in inglese.

— Anch’io lo facevo, credo. Come… Una volta hai dato un nome a questo posto. Tutto quanto. — Hugh indicò con il panino tutti gli alberi, tutto il crepuscolo, i fiumi avanti e indietro.

— Lo chiamo il mio paese. — Gli occhi della ragazza lampeggiarono, diffidenti, con un’espressione di sfida.

— Ma non è nella loro lingua.

— No. — Dopo un po’ lei disse, controvoglia. — È tratto da una canzone.

— Che canzone?

— Una volta, all’assemblea della scuola, è venuto un cantante folk e l’ha cantata, e mi è rimasta impressa nella mente. Non ne capivo neppure la metà, è in scozzese o qualcosa del genere. — La voce della ragazza era quasi rabbiosa.

— Cantala — chiese sottovoce Hugh.

— Non ricordo metà delle parole — disse lei, e poi, distogliendo gli occhi e abbassando la testa, cantò:

Quando il fiore è in boccio

e la foglia è sull’albero,

l’allodola col suo canto

mi guiderà al mio paese.

La voce era come quella di una bambina, come la voce di un uccello, inattesa, chiara e dolce. La voce e la melodia nostalgica fecero rizzare i capelli in testa a Hugh, gli offuscarono gli occhi, lo pervasero di un tremito di terrore o di gioia. La ragazza aveva alzato il viso verso di lui, fissandolo con gli occhi divenuti scuri. Hugh si accorse che aveva teso la mano verso di lei per interrompere il canto, eppure non voleva che smettesse, non aveva mai sentito una canzone così dolce.

— Non era… non è giusto cantare qui — disse lei, sussurrando. Si guardò intorno, poi tornò a guardare lui. — Non l’avevo mai fatto. Non ci ho mai pensato. Ballavo. Ma non avevo mai cantato… sapevo…

— Va benissimo — disse Hugh, stordito. — Va benissimo così.

Erano entrambi immoti, e ascoltavano il fievole mormorio del ruscello e l’immenso silenzio della foresta, ascoltavano come se attendessero una risposta.

— Scusami, è stata una sciocchezza — bisbigliò lei alla fine.

— Tutto a posto. Forse dovremmo proseguire.

Lei annuì.

Hugh mangiò ancora un pomodoro mentre impacchettavano gli avanzi. Anche questa volta lei lo precedette: gli sembrava giusto, perché conosceva la strada molto meglio di lui. La seguì al sentiero assiale, che lei chiamava la strada del sud. Dietro di loro e davanti a loro, a sinistra e a destra, c’era la grande quiete, e la luce chiara e profonda della sera non cambiava mai.

Quando ebbero finalmente attraversato l’ultimo dei tre ruscelli ed ebbero incominciato la prima ripida ascesa, Hugh si accorse che continuava a guadagnare rispetto alla ragazza, invece di restare dietro di lei, circa alla stessa distanza. Lei aveva rallentato il passo, o adesso era più irregolare.

Sulla cresta di una collina, dalla quale si scorgevano, attraverso uno schermo di rade betulle pallide, la mole e la massa della montagna che torreggiava in alto e avanti, come una tenebra, lei si fermò. Raggiungendola con un paio di lunghi passi, Hugh disse: — Vorrei riprendere fiato — perché era stata una lunga, ripida salita, e pensava che lei fosse stanca e non volesse ammetterlo.

La ragazza girò verso di lui il volto scavato come un teschio.

— Non lo senti? — Hugh riusciva appena a sentire la voce.

— Che cosa?

Il cuore gli era sobbalzato nel petto, e batteva inquieto. Lei scosse la testa. Fece un piccolo gesto frettoloso in direzione della muraglia scura della montagna.

— C’è qualcosa davanti a noi…?

— Sì — disse lei, inspirando l’aria.

— Ci blocca la strada?

— Non so. — Le battevano i denti, mentre parlava. Era rattrappita, aggobbita come una vecchia.

Hugh disse, a voce alta: — Senti, io voglio arrivare alla città. — Non era irato con la ragazza, ma con la sua paura. — Lascia che vada avanti prima io.

— Non possiamo andare avanti.

— Io devo andare avanti.

Lei scosse la testa, disperata.

Deciso a resistere a quel panico irragionevole, Hugh le posò gentilmente la mano sul braccio e cominciò a dire: — Possiamo farcela… — Ma lei si sottrasse al contatto come se la sua mano fosse un ferro rovente, e il viso contratto si oscurò per la collera. Disse, con forza: — Non toccarmi mai!

— D’accordo — disse lui, con una fulminea reazione di disprezzo. — Non ti toccherò. Calmati. Dobbiamo andare avanti. Ci stanno aspettando. Avevo detto che sarei venuto. Vieni!

Si avviò per primo. Per salvare il proprio orgoglio non si voltò a vedere se lo seguiva; ma continuò ad ascoltare, giù per la lunga discesa, il suono lieve dei passi di lei. Quando il sentiero riprese a salire, si girò. Sapeva cosa significava aver paura, lì. La ragazza gli stava piuttosto vicino, e non indugiava, non si lasciava distanziare. Il suo volto era come un pugno chiuso sotto il nero groviglio dei capelli. Tra le cime degli alberi il vento produceva un suono come il mare sentito a grande distanza, il mare che si stendeva lontano, lontano, lontano a ovest, sulla sinistra, nella direzione dell’oscurità. Tra la notte e il giorno proseguirono sul lungo sentiero. Continuava e continuava, e se lei non lo avesse seguito, Hugh si sarebbe fermato. Il pendio della montagna non aveva fine, e lui cominciava a sentirsi stanco. Non si era mai sentito così stanco in vita sua, era una debolezza in tutto il corpo, un languore che forse sarebbe stato piacevole se soltanto lui avesse potuto sedere, sdraiarsi, fermarsi a riposare. Era faticoso proseguire, e sarebbe stato molto più facile procedere in discesa.

— Hugh!

Lui si voltò, e si guardò intorno frastornato per un po’, prima di vederla. Non era dietro di lui, ma più in alto, sul pendio, tra gli abeti scuri. Era un luogo buio, e il cielo era chiuso dai rami che s’incontravano e dalle balze rocciose.

— Da questa parte — mormorò lei.

Hugh si accorse che lei era sul sentiero. Lui era sceso obliquamente tra gli alberi, giù verso valle.

I pochi passi per ritornare sul sentiero furono una fatica.

— Comincio a stancarmi — disse, con voce tremante.

— Lo so — mormorò lei. Sembrava che avesse pianto; aveva il volto gonfio e chiazzato. — Resta sul sentiero.

— D’accordo. Vieni.

Al termine del pendio, sotto gli abeti, il percorso diventava pianeggiante, ma non più facile, perché crescevano la stanchezza, la pesantezza, il desiderio di sdraiarsi. Lei gli stava accanto, adesso; c’era spazio per camminare affiancati. Quando era diventato così largo, il sentiero, quando era diventato una strada? Adesso lei lo forzava ad accelerare l’andatura. Hugh cercava di non farsi distanziare. Non era giusto. Non le aveva messo fretta, quando lei non ce l’aveva fatta.

— Ecco…

Il baluginio nell’ampia, fredda sera: luce dei fuochi, luce delle lampade. La paura e la stanchezza erano soltanto ombre gettate da quel bagliore giallo, ombre che cadevano dietro di loro sulla strada.

Entrarono nella città. Poi, tra le prime case, si fermarono.

La ragazza gli stava a fianco, con il viso stanco e gonfio inclinato all’indietro in un atteggiamento di sfida. — Vado alla locanda — disse.

Hugh cercò di scrollarsi di dosso l’intontimento. Adesso che era lì, dove tendevano tutti i suoi desideri, si sentiva pesante, goffo, fuori posto. Non aveva il coraggio di andarsi a presentare alla grande casa, e non sapeva dove altro andare. — Credo che ci verrò anch’io — disse.

— Ti stanno aspettando al maniero.

— Al che cosa?

— Il maniero? Non è così che chiamano la residenza di un nobile? È la casa del Nobile Horn. Dove sei stato l’altra volta.

Il tono era brusco, irridente. Perché se la prendeva con lui, dopo che avevano percorso insieme quella strada dura e difficile? Non poteva fidarsi di lei. Le piaceva vedergli fare la figura dello stupido. Bene, quello era un desiderio facilmente realizzabile.

— Arrivederci — disse Hugh, e svoltò verso la prima via laterale che saliva la collina.

— Una strada più avanti. Quella a gradini — disse la ragazza, e proseguì verso la mole della locanda, con i tetti aguzzi e le finestre sporgenti, simile a un galeone.

Lui la seguì, passò oltre la locanda, svoltò a sinistra, su per la scala a gradini. L’aria odorava di fumo di legna, ed era come aspirare l’autunno tutto di un fiato; una voce infantile chiamava, lontano, dove la piccola città, più in basso, si perdeva nei pascoli pallidi. C’era uno strano rumore, nel cortile dalla bassa recinzione, accanto all’ultima casa della via: oche che soffiavano, notò Hugh quando vide i grossi uccelli bianchi che l’adocchiavano. C’erano uccelli e bestie, lì nella città, c’erano voci, ma nessuna voce cantava. Le oche soffiavano e si agitavano. Sebbene lui fosse arrivato dove aveva desiderato venire, era stanco e infreddolito, un freddo che non era causato dal vento o dall’aria, ma che veniva da dentro di lui, dal midollo delle ossa e dalle viscere, un freddo cavernoso di stanchezza.

Passò sotto la cancellata di ferro e in mezzo ai prati e giunse alla grande casa, con i tetti scuri sotto il cielo serotino: due finestre gettavano una luce tenue sul vialetto. Alzò il picchiotto modellato come una testa d’ariete e bussò.

Il vecchio servitore aprì la porta, e Hugh sentì il proprio nome pronunciato come lo dicevano lì, in modo strano, tutto insieme come un’unica parola, proferito con energia e in tono di benvenuto. Il vecchio si affrettò a precederlo per le gallerie buie, e aprendo la porta di una stanza dalle pareti cremisi e illuminata dalla luce del fuoco, lo annunciò gioiosamente con quello stesso nome, splendido e parzialmente familiare: — Hiuradjas!

Allia era lì, nella stanza risplendente. Si alzò, lasciando cadere il lavoro che stava facendo, e gli andò incontro, tendendogli le mani. I capelli chiari erano sollevati dal movimento del suo corpo. Non esiste un modo per attendersi la bellezza o per meritarla. Hugh le prese le mani. Avrebbe voluto cadere ai suoi piedi. Non conosceva la lingua, ma il tono diceva: — Sei il benvenuto, il benvenuto! Finalmente sei tornato!

Lui disse: — Allia — e lei sorrise di nuovo.

Gli chiese qualcosa. L’espressione degli occhi azzurri e il tono della voce erano così gentili e preoccupati che Hugh disse: — È stato faticoso, venire, è stato spaventoso… sono stanco… — Ma dal gesto di lei comprese che gli stava semplicemente chiedendo se voleva sedersi, e sedette, grato. Poi si alzò di nuovo perché era entrato il Nobile Horn, il quale lo accolse con cordialità e con qualcosa d’altro che in un primo momento lui non riconobbe: rispetto. Quell’uomo anziano, chiamato «Nobile», chiaramente abituato all’autorità personale, mostrava verso di lui non deferenza, non semplice cortesia, ma il riguardo dell’eguaglianza: come se appartenessero alla stessa famiglia. Come se Horn parlasse a una qualità che era in lui e che lui stesso ignorava, ma che il vecchio conosceva e onorava.

L’amichevolezza di Allia, sebbene timida e manierata, era molto meno sobria di quella del padre. L’unica conversazione che potevano sostenere era una sorta di lezione di lingua. Gaiamente, lei indicava e agitava la mano e faceva smorfie, e rideva dei propri equivoci e degli errori di lui. Tuttavia, anche in lei Hugh sentiva un atteggiamento nei suoi confronti che non voleva chiamare rispetto ma che non osava chiamare amore; al massimo, poteva ammettere di fronte a se stesso che sembrava provare per lui simpatia, ammirazione… perché? Che cosa aveva fatto? Niente? Come poteva apprezzarlo per ciò che era? Impossibile. Eppure nello sguardo dolce e franco e nella voce, e persino nelle risate con cui accoglieva i suoi errori c’era la sfumatura grave dell’ammirazione. Un’ammirazione come quella che provava per lei, ma a lei era dovuta. Tutto ciò che Allia era e faceva era ammirevole, bellissimo. Se lui doveva essere ammirato, poteva esserlo solo per un cortese anticipo. Non gli era dovuto nulla. Ma per meritare, per guadagnare ciò che lei gli dava immeritatamente, per essere l’uomo che lei credeva, avrebbe fatto qualunque cosa.

Cenarono in una lunga sala, a lume di candela. Hugh era così stanco che il pasto passò in una confusione di luce e di calore. Quando fu solo nella sua camera si sentì ubriaco di stanchezza. La stanza, dove aveva dormito le tre notti del suo primo soggiorno, lo sorprese con la profonda familiarità: le pareti dipinte d’azzurro sbiadito e d’oro quasi consumato, il letto di quercia, gli alari dai pomelli d’ottone, erano piacevoli da ritrovare come se li avesse conosciuti per tutta la vita. Sebbene non le somigliasse affatto, la stanza gli ricordava una camera che gli era rimasta impressa per molti anni, una mansarda nella prima casa in cui era vissuto, la casa della madre di suo padre. Il suo letto, allora, era accanto alla finestra affacciata sui campi verdescuri e sulle colline azzurre della Georgia. Quello era un altro paese, tanto tempo fa. Qui, le alte finestre erano ornate di tende. Un fuocherello ardeva, quasi silenzioso, nel piccolo camino. Il letto era alto e duro, le lenzuola fredde, pesanti, seriche. In quel letto, mentre l’occhio dorato del fuoco brillava tra le ciglia socchiuse, non vi erano sogni. C’era soltanto il sonno, l’ampia, fluttuante oscurità del sonno. E mentre gli si abbandonava, tutti i pensieri, le distinzioni della luce, gli impulsi della volontà scivolarono lontano da lui; solo per il momento udì, nell’oscurità, una voce esile come quella di un uccello,

Quando il fiore…

Hugh si girò e affondò la testa fra le braccia, scacciando la canzone, giù, alla sorgente. Era fuori posto, lì, dove nessun fiore sbocciava e dove nessuna foglia cadeva, e nessuna voce cantava. Ma lì c’era Allia, e gli tendeva le mani mentre lui sprofondava lieto nella tenebra.

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