2.

Forse adesso la porta era sempre chiusa, chiusa per sempre, scomparsa. Andare al bosco di Pincus, e al luogo dove doveva essere, e vedere la stupida luce del giorno, i macchioni polverosi, il fosso, e poi la recinzione di filo spinato attraverso il primo pendio della collina, senza il sentiero che scendeva, senza la porta… era inutile continuare a insistere. La prima volta che l’aveva trovata chiusa, due anni prima, lei s’era fermata lì, dove avrebbe dovuto essere, e le aveva ordinato di aprirsi, le aveva comandato di esistere. Ed era ritornata il giorno dopo e quello successivo, e s’era accovacciata e aveva pianto. Poi, dopo una settimana, era ritornata ancora, e la porta c’era, e lei era entrata, così, facilmente. Ma non poteva esserne sicura. Probabilmente non ci sarebbe stata. Non aveva neppure tentato, per mesi; era stupido continuare a tentare. La faceva sentire sciocca, come una bambina che giocasse a nascondino senza nessuno con cui giocare. Ma la porta c’era. Lei la varcò ed entrò nel crepuscolo.

Avanzò, socchiudendo gli occhi, insospettita, camminando come se temesse che il terreno le potesse venire strappato sotto i piedi come un tappeto. Poi si lasciò cadere carponi e baciò la terra, premendovi contro la guancia, come una lattante. — Così — sussurrò, — così. — Si alzò, e tese le braccia verso il cielo, poi andò in riva al ruscello, s’inginocchiò, si lavò rumorosamente la faccia e le mani e le braccia, bevve, rispose al canto sonoro e incessante dell’acqua: — Così ci sei, così ci sono, così. — Sedette a gambe incrociate sulla roccia sporgente, immobile, e chiuse gli occhi per contenere la sua gioia.

Era trascorso tanto tempo, ma nulla era cambiato; non cambiava mai nulla. Lì era il «sempre». Lei doveva fare quel che faceva sempre quand’era una ragazzina di tredici anni, quando aveva trovato per la prima volta il luogo dell’inizio, prima ancora di attraversare il fiume; poteva fare le cose che faceva allora, il culto del fuoco e la danza interminabile, la volta che aveva sepolto le quattro pietre sotto l’albero grigio, più a monte. Dovevano essere ancora là. Nulla le avrebbe spostate. Quattro pietre disposte in quadrato, una bianca, una grigiazzurra, una gialla, una bianca, e le ceneri delle sue offerte; e la statua lignea che lei aveva intagliato, al centro. Era stata una sciocchezza, un’idea da bambina. Anche le cose che la gente faceva in chiesa erano sciocche. C’erano ragioni per farle. Lei avrebbe danzato la danza interminabile, se ne avesse avuto voglia; avrebbe continuato a danzarla; aveva quella caratteristica, non finiva mai. Quello era il luogo dove lei faceva ciò che voleva. Era il luogo dove era se stessa. Era a casa, a casa… No, ma era sulla via di casa, finalmente; ora poteva andare, ora sarebbe andata, attraverso il triplice fiume e avanti, verso la montagna scura, a casa.

Si alzò sulla roccia sporgente, e con le braccia allargate, le mani incurvate come se reggessero sonagli o bacili di fiamma o d’acqua, danzò sulla pietra, in rapidi movimenti ondeggianti, danzò per la spiaggia, per il guado… e si arrestò.

In un cerchio di pietre, sulla sabbia, pochi metri più a valle rispetto al guado, c’erano le ceneri di un fuoco.

E accanto, utensili e pacchi, seminascosti sotto i rami chini di un ontano. Plastica, acciaio, carta.

Senza far rumore, lei avanzò d’un passo. Le ceneri erano ancora calde, e si sentiva l’odore acre del legno bruciato.

Nessuno veniva lì. Nessuno, mai. Quel luogo era soltanto suo. La porta era per lei, il sentiero era per lei sola. Chi, standosene nascosto, aveva assistito alla sua danza, e aveva riso? Si voltò per cercare, rigida, per sfidare il nemico, «Vieni avanti, vieni fuori!», quando, con una scossa di paura assoluta che le tolse completamente il fiato, vide l’enorme braccio pallido tendersi brancolando verso di lei, sull’erba…

…e mentre vedeva la cosa mostruosa, comprese che cos’era, e scorse un sacco a pelo marrone, qualcuno in un sacco a pelo sull’erba, accanto ai cespugli. Ma la scossa era stata così violenta che lei si lasciò cadere accosciata, dondolandosi leggermente, fino a quando riprese il fiato e il biancore abbandonò i limiti della sua visuale. Poi, cautamente, si alzò di nuovo e scrutò attraverso l’orlo erboso del greto. Poteva dire soltanto che il sacco a pelo era immobile. Se avesse mosso un altro passo, in quel punto, avrebbe calpestato la sabbia soffice e vi avrebbe lasciato un’orma. Si ritrasse sulla pietra sporgente, poi passò sull’erba, e girò dietro gli arbusti di sambuco fino a quando poté vedere chiaramente l’intruso. Una bianca faccia pesante, resa inespressiva dal sonno, la bocca semiaperta, i capelli chiari in disordine, il lungo rilievo del sacco a pelo che sembrava un sacco di rifiuti, come sterco di cane sul suolo del suo luogo amatissimo, il terreno che lei aveva baciato, il suo paese.

Rimase immobile come il dormiente. Poi, all’improvviso, si voltò e a passi rapidi e leggeri, silenziosi nelle scarpe da tennis, raggiunse il guado, attraversò, passando di pietra in pietra, sopra le acque gaie, salì sull’altra sponda e si avviò sulla strada del sud, procedendo all’andatura dei viandanti, non una corsa o un trotto, ma un passo svelto, regolare, leggero che aumentava rapidamente le distanze. Mentre camminava guardava diritto davanti a sé, e per un lungo tratto, per molto tempo, non vi furono pensieri nitidi nella sua mente, solo il contraccolpo del terrore e della collera e, quando questo scomparve, il vuoto arido che conosceva troppo bene, comunque lo si chiamasse, e che forse era angoscia.

Non c’era nessun luogo dove andare, nessun luogo dove stare. Persino lì non c’era pace, non c’era posto.

Ma la direzione che percorreva le diceva stai andando a casa. La sua pelle toccava l’aria del suo paese, i suoi occhi guardavano le foreste del crepuscolo. Il ritmo del passo, dei pendii in salita, dei pendii in discesa, i fiumi, i lunghi ritmi della terra acquietavano l’angoscia, colmavano finalmente il vuoto. Più si addentrava nel crepuscolo e più apparteneva ad esso, interamente, fino a quando ogni pensiero dell’intruso nel luogo dell’inizio si smorzò, e la sua mente si sintonizzò su ciò che le stava intorno, mentre proseguiva verso la meta. Le foreste s’incupirono, il percorso divenne più scosceso. Era trascorso molto tempo dall’ultima volta che era venuta alla Città della Montagna.

E la via era lunga. Lei dimenticava sempre quanto fosse lunga e faticosa. Quando aveva trovato la via per la prima volta, usava interrompere il viaggio con una dormita al Terzo Fiume, ai piedi della montagna. Fin da quando aveva compiuto i sedici anni, era sempre riuscita a raggiungere Tembreabrezi in un’unica tappa; ma era dura, su per i ripidi pendii scuri, su, su, avanti, sempre più lontano di quanto lei ricordasse. Aveva i piedi doloranti, le gambe stanche e una gran fame, quando finalmente arrivò alla strada sgombra e alla lunga curva. Ma quella era la vera gioia, giungere lì esausta, bramosa di cibo e di calore e di riposo, lieta in cuor suo di vedere le finestre illuminate sul fianco freddo della montagna e contro il cielo, e di sentire l’odor di fumo dei fuochi, l’odore che fin dall’inizio del tempo sussurra, Hai lasciato i luoghi desolati, stai tornando a casa. E udire le voci che pronunciavano il suo nome.

— Irena! — gridò la piccola Aduvan, sulla via davanti al cortile della locanda, dapprima sbalordita e poi prorompendo in un sorriso e in un grido rivolto alle sue compagne di gioco: — Irena tialohadji! — Irena è ritornata!

Irene abbracciò la bambina e la fece roteare nell’aria fino a quando strillò, e le quattro piccole gridarono tutte, con le loro voci dolci ed esili, per farsi abbracciare e sollevare saltellando intorno a lei finché Palizot si affacciò dal cortile per vedere qual era la causa del chiasso, e si fece avanti asciugandosi le mani sul grembiule, calma, dicendo: — Entra, entra, Irena. Vieni da così lontano, sarai stanca. — Così aveva accolto Irene la prima volta che era giunta alla Città della Montagna, a quattordici anni, affamata, sporca, stanca, impaurita. Allora lei non conosceva la lingua, ma aveva compreso ciò che le diceva Palizot: Entra, piccola, vieni a casa.

Il fuoco ardeva nel grande camino della locanda. Un profumo appetitoso di cipolle, cavoli e spezie pervadeva le stanze. Tutto era com’era stato, come doveva essere, con un paio di migliorie da ammirare: i pavimenti erano coperti da stuoie di paglia rossiccia, anziché da sabbia sparsa sul legno nudo. — È molto bello, è più caldo — disse Irene, e Palizot, compiaciuta ma critica: — Non so ancora quanto dureranno. Ci vuole un po’ di luce qua dentro, oltre al fuoco. Sofir! È arrivata Irena! Resterai un po’ con noi, levadja?

Bambina, significava quella parola, cara bambina; lì aggiungevano «adja» anche ai nomi, trasformandoli in vezzeggiativi. A Irene faceva piacere, quando Palizot la chiamava così. Annuì, poiché aveva già deciso di trascorrere lì dodici giorni, una notte soltanto dall’altra parte della soglia. Stava cercando di scegliere le parole per una domanda, e non le trovò subito, perché erano trascorsi mesi dall’ultima volta che aveva parlato quella lingua. — Palizot. Dimmi. Da quando sono stata qui… è venuto qualcuno dalla strada del sud?

— Non è venuto nessuno, da nessuna strada — disse Palizot, una strana risposta, in tono calmo e grave. Poi Sofir salì dalle cantine, con le ragnatele sui folti capelli neri, un uomo dalla voce di baritono, modellato con le stesse dimensioni dal petto al fianco, così che sarebbe stato possibile dividerlo in sezioni rotonde, come un tronco d’albero; abbracciò Irene, le strinse le mani, tuonando gioiosamente: — È passato tanto tempo, Irenadja, tanto tempo, ma sei tornata!

Le assegnarono la sua stanza preferita, e Irene aiutò Sofir a portar su la legna per il camino. Sofir preparò e accese subito il fuoco per riscaldare e arieggiare la stanza; sembrava che non fosse stata usata per diverso tempo. Non c’erano altri ospiti alla locanda. In sé, la cosa non era insolita, ma Irene cominciò a notare altri indizi che pochi viaggiatori e poco traffico venivano alla locanda. I grossi boccali di peltro per la birra, appesi in fila lungo la parete, non erano stati usati di recente, a giudicare dall’aspetto, per una chiassosa serata tra mercanti o per il benvenuto a un gruppo di compratori di stoffe arrivati dalle pianure. Irene andò a vedere quante bestie c’erano nella stalla; ma non ce n’era nessuna, e le mangiatoie erano vuote. Sebbene Sofir fosse un ottimo cuoco, a cena le vivande erano grossolane, e non erano accompagnate dal suo squisito pane di grano, ma solo dalla polenta scura ricavata dai cereali che crescevano lì sulla montagna. Intorno a Sofir e Palizot c’era un’atmosfera di difficoltà o di costrizione; ma non dicevano nulla, direttamente, dei loro magri affari, e Irene si sentì incapace di chieder loro qualcosa. Per loro era ancora «la bambina», gradita e circondata di premure perché non era responsabile delle loro avversità e delle loro preoccupazioni. Perciò, per lei, il soggiorno presso quei due era sempre stato una festa del cuore; e non sapeva come cambiare, anche se avesse voluto. E come sempre, loro parlavano solo di cose senza importanza; l’importante era il loro affetto.

Dopocena, alcuni abitanti della piccola città vennero lì per passare la serata. Sofir si mise al banco del grande stanzone d’ingresso, per servire gli uomini. Le donne raggiunsero Palizot accanto al fuoco, nella comoda stanza accanto alla cucina. Bevevano la birra di produzione locale e chiaccheravano; la vecchia Kadit trangugiò un quarto di pinta d’acquavite di mele. Irene aveva preso un boccale molto piccolo di birra, che era fortissima, e aiutava Palizot a cucire una coperta a mosaico di stoffe. Detestava il cucito; ma quel lavoro insieme a Palizot era un vecchio piacere, una delle cose cui pensava con nostalgia, dall’altra parte della soglia: i pezzetti di lana dai colori delicati, la luce del fuoco e la luce della lampada, il viso lungo, serio e mite di Palizot, le voci sommesse delle donne e la risata sbuffante di Kadit, il brusio e il borbottio degli uomini che parlavano nell’altra stanza, la sonnolenza, il silenzio della grande, vecchia casa e il silenzio delle vie della città, e delle foreste, al di là delle vie.

Quando le lampade venivano accese, e le tende e le imposte chiuse, sembrava sempre che fuori fosse notte. Irene non aprì gli scuretti della finestra della sua camera fino a quando si alzò, dopo aver dormito tutta la notte; e il crepuscolo immutabile sembrava la semioscurità di un mattino d’inverno. Era così che ne parlavano gli abitanti della città: dicevano mattino, mezzogiorno, notte. Imparando la loro lingua, Irene aveva appreso quelle parole, ma non sempre le giungevano indiscusse sulle labbra. Che significato potevano avere, lì? Ma non poteva chiederlo a Palizot o a Sofir, o a Trijiat, la madre di Aduvan, o alle altre donne cui era affezionata; le sue domande non suonavano chiare; tutti ridevano e dicevano: — Il mattino viene prima di mezzogiorno, e la sera viene dopo, bambina! — Erano sempre divertiti dalle sue difficoltà linguistiche, e pronti ad aiutarla, ma non a porre in dubbio le loro certezze. Non c’era nessuno, nella Città della Montagna, che fosse in grado di parlare di quelle cose, tranne il Padrone. Perciò lei aveva deciso di chiedergli perché lì non c’erano né il giorno né la notte, perché il sole non sorgeva mai eppure non si vedevano mai le stelle: com’era possibile? Ma non glielo aveva mai chiesto. Quali erano le parole che significavano sole e stella, nella sua lingua? E se lei avesse detto — Perché qui non è mai notte o giorno? — avrebbe fatto la figura della stupida, perché giorno significava la veglia e notte significava il sonno, e lì si svegliavano e lavoravano e dormivano come tutti quelli dall’altra parte. Irene avrebbe potuto cominciare a spiegare: — Nel posto da dove sono venuta c’è un fuoco rotondo nel cielo. — Ma innanzi tutto, sarebbe stato come il linguaggio di un cavernicolo d’un film, e in secondo luogo (e questa era la cosa più importante) lei non parlava mai del posto da cui veniva. Fin dall’inizio, dalla prima volta che aveva varcato la soglia, la prima volta che aveva attraversato il Primo Fiume, la prima volta che era giunta alla Città della Montagna, aveva compreso che in un luogo non si parlava mai dell’altro. Non dicevi mai da dove venivi, a meno che te lo chiedessero. E nessuno lo chiedeva mai, nell’uno o nell’altro territorio.

Irene era convinta che il Padrone sapesse qualcosa dell’esistenza della porta. Forse sapeva anche molto di più: e sebbene lei non lo ammettesse chiaramente di fronte a se stessa, credeva che in effetti il Padrone sapesse molto più di lei, e che le avrebbe spiegato tutto, se glielo avesse chiesto. Ma non osava chiederglielo. Non era ancora il momento. Sapeva ancora così poco, del suo paese, conosceva solo la strada del sud, e la piccola città, gli abitanti della città e i loro commerci e i dissidi e gli scherzi e le arti e i pettegolezzi e le usanze, che non si stancava mai d’imparare, e la loro lingua, che parlava correntemente e che tuttavia talvolta non comprendeva affatto. Sempre, fuori dal centro benigno del focolare, si stendevano il crepuscolo e il silenzio, l’inspiegato, l’inesplorato. Lei era sempre stata contenta che fosse così. S’era augurata che lì non fosse cambiato nulla. Ma questa volta, fin dalla prima sera, al primo focolare, aveva sentito che il cerchio s’era spezzato. Non era più sicuro. Per quanto lei lo desiderasse, per quanto lo desiderassero gli altri, lei non era più una bambina.

Dopo colazione andò a far visita a Trijiat, e poi accompagnò Aduvan e il fratellino dal calzolaio, dall’altra parte della città, per lasciare da risuolare le scarpe più belle della loro madre. La bambina chiaccherò per tutta la strada, e il piccino trillava come un grillo. Avevano la testa piena di una storia di fantasmi o qualcosa del genere che qualcuno gli aveva raccontato, e continuavano a chiedere a Irene se non aveva avuto paura, quando era salita su per la montagna. Virti corse avanti, si nascose dietro un portico, balzò fuori verso di lei, lanciando suoni terrificanti come un grillo isterico, e lei lanciò doverose grida di sgomento e di orrore. — Devi cadere! — disse Virti, ma Irene rifiutò di cadere. Dopo aver sbrigato la commissione, lasciò i bambini dalla loro nonna, e lasciò la strada principale della cittadina, dirigendosi verso la più ripida delle vie selciate che salivano il fianco della collina; era così erta che a volte si spezzava in gradini, come una persona prorompe in risatine o singhiozzi, e poi riprendeva l’ascesa fino a un’altra crisi convulsa di scalini. In alto c’era il muro del giardino del maniero, e la porta ad arco spiccava bellissima contro il cielo limpido. Svoltando a destra prima di raggiungere la porta, Irene si soffermò un momento, e alzò lo sguardo verso la casa del Padrone.

Una dozzina di abbaini e di tetti spioventi tagliavano netti angoli scuri nel cielo; le finestre e i bovindi a molti vetri non erano mai allo stesso livello, ed era impossibile contare i piani della casa, se non per la presenza di tre grandi travi attraverso la facciata. La porta era massiccia, suddivisa in dodici pannelli. Mentre alzava il picchiotto d’ottone per batterlo sul disco lucido, Irene ricordò che aveva sognato molte volte quella porta, dall’altra parte.

Fimol, la governante, eretta e imperturbabile nella veste grigia dal collo alto, le maniche lunghe e la lunga gonna, aprì la porta pesante e fece entrare la visitatrice nella casa del Padrone. Fimol non sorrideva mai, e Irene aveva sempre soggezione di lei. Notò, quasi con un senso di slealtà, mentre la seguiva, che i capelli di Fimol erano imbiancati, che la figura impettita era esile, la figura di una donna fragile e anziana. Entrarono nella grande sala.

Era il centro della casa, quella stanza dall’alto soffitto. Di fronte alla lunga parete rivestita da pannelli di quercia c’erano dodici grandi finestre dai vetri al piombo affacciati sul giardino a gradinate. I pochi mobili erano di quercia scolpita, i tappeti erano di produzione locale, cremisi, arancione e marrone, e riscaldavano la stanza anche quando le candele non erano accese e c’era solo il limpido, costante crepuscolo che entrava dalle finestre. A ognuna delle due estremità della sala c’era un enorme camino di pietra; e sopra ognuno di essi, sopra l’ampio focolare e la mensola, era appeso un ritratto: una dama rigida e malinconica fissava attraverso la sala, con i tondi occhi neri, il suo signore, che nascondeva la mano destra storpiata all’interno della giacca e le rivolgeva una smorfia cupa.

Alla destra del camino più lontano, presso la porta che dava nei suoi uffici, il Padrone stava conversando con il tagliapietre, Gahiar. Quando vide Irene entrare insieme alla governante, la fissò con quella cupa smorfia ancestrale; poi la sua espressione cambiò; si staccò da Gahiar e attraversò la lunga sala, tendendo le mani. — Irena! Sei arrivata! — Era l’accoglienza che lei aveva immaginato spesso, nelle sue fantasticherie; ma non se l’era aspettata, e non si era mai chiesta cosa sarebbe venuto dopo.

Il Padrone, o sindaco, di Tembreabrezi era un uomo scarno e olivastro con il naso aquilino e gli occhi scuri. Portava calzoni neri di stoffa tessuta in casa, un po’ stinti sul tono ruggine e accuratamente rammendati, e il panciotto e la giacca della stessa stoffa. Era un uomo aspro, un uomo cupo. Lei lo aveva amato dalla prima volta che l’aveva visto. Il Padrone la condusse nel suo ufficio, dove c’era il fuoco acceso, e le tende erano chiuse, come per scacciare il grigiore d’una giornata invernale. Le offrì una sedia; e aiutata dalla dignità dei propri abiti, una gonna rossoscura e una camicetta tessuta in casa che Palizot teneva sempre in serbo per lei, Irene sedette senza goffaggine. Il Padrone restò accanto all’alto scrittoio dove lavorava in piedi (era un uomo che raramente si faceva vedere seduto) e volse su di lei lo sguardo intenso. Irene trasse un profondo respiro e tacque, con le mani in grembo.

— È passato molto tempo, Irena.

— Non potevo venire.

— La strada…?

— Non riuscivo a trovare… — E non riusciva neppure a trovare le parole necessarie. — Il posto — disse, e poi, ricordando che chiamavano così l’arco di pietra all’ingresso del maniero, soggiunse: — La porta. Era chiusa.

— Non potevi camminare sulla strada? — disse lui; non era spazientito dall’impaccio di lei, ma attento, in modo quasi ossessivo.

— Quando ho… quando ho potuto raggiungere la strada, sono riuscita a percorrerla. Ma all’inizio… — Irene s’impappinò di nuovo.

— Avevi paura.

La voce del Padrone era gentile; lei non l’aveva mai sentito parlare così gentilmente.

— Quando ho varcato la porta. Era trascorso tanto tempo. E là, nel luogo dell’inizio, accanto al fiume, c’era…

Il Padrone disse una parola, quasi in un sussurro. Era la parola che il piccolo Virti aveva gridato, quando giocava a fare il mostro e lei non aveva voluto cadere, e Aduvan l’aveva rimproverato. Stai zitto, non dirlo, e i due bambini erano apparsi sovreccitati, sul punto di piangere. Un enorme, pallido braccio deforme proteso sull’erba…

— Un uomo — disse Irene. — Uno straniero.

Il Padrone ascoltava, intento, vigile.

— Uno straniero, come me. Non come me, ma… — Lei non conosceva altro modo per dirlo. Il Padrone, che evidentemente aveva compreso, annuì.

— Hai parlato con lui?

— No. Dormiva. Sono passata oltre. Non volevo… Avevo paura… — S’impappinò di nuovo. Non poteva spiegare il suo primo istante di panico. Sicuramente, lui avrebbe compreso perché una donna sola poteva aver ragione d’aver paura d’uno sconosciuto. Ma non seppe esprimere la rabbia che provava ora, rievocando la sua paura, e ricordando lo sconosciuto, il grosso dormiente, la lettiera di rifiuti di plastica, il senso di profanazione e di pericolo. Strinse le mani in grembo, con forza, e lottò con le parole che cercava, imponendosi di parlare. — Se lui ha trovato la porta, forse altri la troveranno. C’è… c’è tanta, tanta gente, là…

Se anche il Padrone comprendeva cosa intendesse lei con «là», la sua unica reazione fu un cupo cipiglio.

— Devi difendere le tue mura, Padrone! — disse Irene, disperatamente. Avrebbe voluto dire «frontiera» ma non conosceva quella parola, nella lingua di lui, né altre parole che significassero «confine» o «recinzione», eccettuata quella che indicava un muro di legno o di pietra.

Lui annuì. Ma disse: — Non ci sono muri, Irena. E ora, per noi, non vi sono più strade.

Il tono della voce la fece ammutolire. Il Padrone si volse verso lo scrittoio e dopo qualche istante continuò, con la stessa quiete forzata: — Non possiamo percorrere le strade. Sono chiuse. Tu sai che alcune ci sono chiuse da lungo tempo. La strada del sud, la tua strada… sai che non la usiamo. — Irene non l’aveva saputo, e lo fissò senza comprendere. — Ma avevamo i pascoli estivi e il Gradino Alto, e tutte le strade orientali, e quella del nord. Ora non li abbiamo più. Nessuno viene da Tre Fontane, o dai villaggi ai piedi delle colline. Neppure un mercante. Non viene nulla dalle pianure. Non giungono notizie dalla Città del Re. Per qualche tempo abbiamo potuto andare verso ovest, su per la montagna, lungo i sentieri, ma ora non più. Tutte le porte di Tembreabrezi sono sbarrate.

Non c’erano porte da sbarrare. Soltanto la via che conduceva alla strada del sud e alla strada del nord, e i sentieri che salivano e scendevano la montagna, a est e a ovest, tutti aperti, senza porte e senza barriere.

— È il Re a dire che non potete usare le strade? — chiese Irene, in preda alla frustrazione, incapace di comprendere; e poi si allarmò dell’avventatezza con cui aveva interrogato il Padrone. Imparare la lingua di lui, dopotutto, non era stato come imparare lo spagnolo alle medie superiori, la casa la casa, el rey il re… La parola rediai, che lei interpretava come «re», non significava necessariamente re, o ciò che lei intendeva per «re»; non aveva modo di sapere cosa volesse dire, se non sentendola usare, e non veniva usata spesso, tranne quando parlavano della Città del Re. Forse erano stati quell’anno di spagnolo e la sillaba iniziale, «re», a indurla a concludere che la parola avesse quel significato. Non poteva essere sicura. Temeva di aver detto qualcosa di stupido, di sacrilego. Il viso scuro del Padrone era rivolto dall’altra parte, e Irene vide che teneva le mani contratte sullo scrittoio.

Forse lui non aveva neppure udito la domanda. — Questo straniero — disse, voltandosi ma senza guardarla, con voce molto bassa, ma aspra. Esitò a sua volta.

— Potrebbe essere stato… un errore… ha sbagliato strada… — Un vagabondo, avrebbe voluto dire Irene, un intruso che si è accampato lì per passare la notte, senza notare nulla di speciale in quel luogo, e forse non ha attraversato nessuna soglia, e il giorno dopo se ne andrà, probabilmente chiederà un passaggio per andare in città, e forse se ne è già andato, questo non è il suo posto. Avrebbe voluto dire tutto ciò, anche se non poteva. Ormai era sicura che era vero. Era la verità che lei voleva e che, lo capiva benissimo, anche il Padrone voleva, perché la comprendeva e considerava la possibilità con sollievo evidente. Forse non era convinto, ma lei gli aveva dato una speranza di cui aveva bisogno. Il Padrone la guardò, finalmente, e sorrise. Il suo sorriso era raro, molto breve, e dolce. — Non osavo sperare che tu tornassi, Irena — disse sottovoce. Se lei avesse parlato, avrebbe potuto dire soltanto: — Ti ho sempre amato. — Ma non poteva, e non era necessario. Lui conosceva il proprio potere. Era il Padrone.

— Rimarrai con noi? — le chiese.

Intendeva dire per sempre? Il tono era controllato; Irene non era sicura.

— Più a lungo che potrò. Ma dovrò tornare indietro.

Lui annuì.

— E poi, quando tenterò di venire di nuovo qui, se la porta sarà di nuovo chiusa…

— Per te si aprirà, credo.

Gli occhi del Padrone erano strani, bui come caverne: qualunque cosa dicesse, quell’espressione introversa non cambiava.

— Ma perché…

— Perché? Quando conosci la risposta, la domanda non esiste, quando non c’è risposta, non c’è mai stata una domanda. — Sembrava un proverbio, e la voce di lui era secca e un po’ beffarda; era così che le aveva sempre parlato, e il ritorno a quel tono la confortò.

— Quella è la tua strada — disse il Padrone.

Si girò di nuovo verso lo scrittoio e soggiunse, quasi con indifferenza: — La strada del sud e quella del nord.

— Potrei andare a nord? Se c’è qualcosa che non va… Potrei andare a cercare aiuto… portare un messaggio…?

— Non so — disse lui, lanciandole una breve occhiata; ma c’era un balenio di lode o di trionfo sul suo viso; e quella luce restò con lei, dopo che il Padrone, secondo le tranquille usanze della sua casa, l’ebbe condotta a salutare sua madre e a conversare con lei, e dopo che se ne fu andata a trascorrere con Trijiat il resto della giornata. Per la prima volta, pensò Irene, voleva qualcosa da lei. C’era qualcosa che poteva dargli, se avesse scoperto che cos’era. Si era avvicinata molto, quando aveva parlato di andare a nord. Lui aveva subito cambiato argomento, ma non prima che lei avesse scorto quel guizzo di gioia o di lode.

Se almeno avesse potuto comprenderlo meglio! Doveva prendere sul serio ciò che diceva semi-beffardamente a proposito delle domande e delle risposte: Lui, e lei, e tutti quanti, lì, erano soggetti alle leggi del luogo, leggi assolute come la legge di gravità, altrettanto difficili da eludere, altrettanto difficili da spiegare. Le aveva detto, se pure Irene aveva ben compreso, che nessuno degli abitanti poteva lasciare la città: una legge o un potere lo impediva. Ma era possibile che lei, dato che poteva venire a Tembreabrezi, fosse anche in grado di lasciarla. O forse aveva inteso dire che, poiché proveniva dall’esterno di quella terra, era esente dalle sue leggi e non era tenuta a obbedire? Era questo che aveva inteso? Ma lei gli avrebbe obbedito. Lui era la sua legge. Se av.esse potuto accontentarlo; se avesse scoperto ciò che voleva! Se lui avesse chiesto, in modo che lei potesse dare…

Quello fu il suo soggiorno più lungo nella Città della Montagna. Un tempo, le sue visite erano frequenti ma brevi; adesso che poteva trascorrere una settimana o due (una notte o un weekend, oltre la porta), se voleva, la porta era quasi sempre chiusa. Aveva sempre desiderato di trovarla aperta, di varcarla. Adesso era lì, insediata alla locanda, e come sempre lavorava con Sofir e Palizot, faceva visita ai suoi amici e giocava con i loro bambini. Tutti, come sempre, la facevano accomodare a tavola se stavano mangiando, la facevano lavorare con loro, se stavano lavorando, la facevano sentire subito a casa sua. Era stata la cosa più bella, un tempo, ed era ancora una gioia. Ma non le bastava più. Adesso le sembrava che vi fosse un elemento di falsità, di finzione. La pace che sentiva lì, l’impressione di essere a casa sua, era autentica per loro, ma non per lei. Lei veniva e poi se ne andava di nuovo, e non faceva veramente parte della loro vita. Non avevano bisogno che li aiutasse a lavorare. Non avevano bisogno di lei.

A meno che, come aveva indicato il Padrone (ma l’aveva fatto davvero?) lei potesse aiutarli, non venendo lì, non restando lì, ma andando oltre.

Nessuno, tranne il Padrone, aveva ancora detto che qualcosa non andava; perciò, in un primo momento, Irene non vi fece gran caso. Poi, quando notò che in effetti nessuno veniva in città e nessuno la lasciava, che portavano le greggi solo ai pascoli più vicini, che scarseggiavano il sale e la farina di frumento, che quando Trijiat perse il suo ago da cucito rimase sconvolta e lo cercò per giorni… quando notò questo e quello, comprese che quanto aveva detto il Padrone era vero: tutte le strade erano chiuse. Ma perché? Da chi, da che cosa? Un paio di volte cercò di parlarne, con Trijiat, con Sofir; e quelli evitarono di rispondere, Sofir con una risata priva di significato, Trijiat con tanta paura che Irene comprese che non avrebbe più potuto affrontare l’argomento. Era un tabù, o un timore così profondo che non potevano parlarne. Non parlavano d’altro che delle attività della giornata, e fingevano che non vi fosse nulla di strano. E quella era la falsità che percepiva, il disagio. Avevano bisogno di aiuto, ma non volevano ammetterlo.

Come sarebbe stato il viaggio oltre Tembreabrezi, verso nord, giù alle pianure?

Un paio di anni prima, durante una lunga domenica dall’altra parte, Irene era andata con Sofir e il vecchio Homim, il mercante, e i suoi uomini e un convoglio di minuscoli asinelli carichi di stoffe, prima a un villaggio a nord, a un giorno di cammino oltre il dosso della montagna, e poi fino a una piccola città chiamata Tre Fontane, ai piedi delle colline a nord-est; erano rimasti là due giorni per commerciare, e poi erano ritornati, sei giorni di viaggio in tutto. Irene ricordava dove la strada per Tre Fontane svoltava verso est, e la strada del nord proseguiva diritta, verso un passo buio. Quanto erano più in basso le pianure, rispetto a quel punto? E quanto era lontana, attraverso le pianure, la Città di cui parlavano? Irene non ne aveva idea: molti giorni di cammino, senza dubbio, ma lei avrebbe potuto portare con sé i viveri, e sicuramente ci sarebbero stati villaggi e cittadine lungo la via, e quindi avrebbe potuto attraversare le lunghe pianure crepuscolari e giungere alla Città e chiedere aiuto per Tembreabrezi. Se quelli avrebbero mandato gli aiuti. O forse anche a lei era proibito percorrere le strade? Ma non avevano il diritto di proibirglielo. Se il Padrone le avesse chiesto di andare, sarebbe andata.

Lui non la mandò a chiamare. Irene divenne impaziente e irrequieta. Non capiva i suoi amici, che continuavano a lavorare e non parlavano mai di quel che non andava, come malati di cancro che dicessero «Sto benissimo, sto benissimo,» come sua madre che diceva sempre «Tutto va per il meglio»; non voleva pensare a questo, lì, e si risentiva d’essere costretta a pensarci. Perché non ne parlavano? Perché non facevano qualcosa? Che stavano aspettando?

Finalmente, il Padrone la convocò per un raduno in casa sua. Era già stata invitata altre volte a quei raduni. Le transazioni d’affari venivano trattate soprattutto nella sala grande della locanda, ma le decisioni che riguardavano qualcosa di più del commercio venivano prese durante lunghe, pensose conversazioni nella sala dai due camini. Venivano uomini e donne; e non sempre, ma spesso, il Signore del Maniero, e i visitatori di altre città più ricchi e raffinati. La madre del Padrone, Dremornet, con i capelli bianchi e gli occhi scuri, sedeva maestosamente in una poltrona di velluto sotto il ritratto dell’antenato dal braccio deforme. Se gli ospiti non erano numerosi, si radunavano intorno a lei, lasciando libero l’altro camino per le conversazioni private; quando c’era molta gente, si formavano due gruppi, uno ad ogni estremità della sala. Quella sera, una cerchia tranquilla di donne e di giovani s’era raccolta intorno alla poltrona di velluto, mentre tre o quattro uomini anziani pontificavano con il Padrone davanti all’altro camino. Naturalmente, quella sera non c’erano forestieri, eccettuata Irene. Lei restò con il gruppo intorno alla madre del Padrone fino a quando lui si avvicinò, rivolgendo a entrambe un’occhiata che era un segnale. Era arrivato il Nobile Horn.

Dremornet raccolse la gonna e si alzò per ricevere il visitatore con una riverenza, poi le altre donne s’inchinarono. Il Nobile Horn era un uomo magro, grigio e impettito. Fece un breve inchino rigido. Neppure lo spettacolo di quella vecchia dama minuta e solenne che eseguiva una solenne riverenza spianò le rughe fredde del suo viso. La figlia, un passo dietro di lui, bionda e vestita di sete pallide, s’inchinò e sorrise pallidamente, poi passò oltre. La loro funzione, pensò Irene, era fare e ricevere inchini; erano figure rappresentative, titoli vuoti. Il padrone della città era quello che veniva chiamato Padrone, Dou Sark. Ma lì erano tipi all’antica, e seguivano le vecchie usanze, e quindi ritenevano necessario anche avere un nobile signore.

Il Padrone l’aveva guardata di nuovo, mentre passava, e ben presto lei lo seguì. Davanti al secondo camino gli abitanti della città, che avevano continuato a gracidare come ranocchi in uno stagno, adesso attendevano con aria solenne. Il Nobile Horn ascoltava senza espressione e in apparenza anche senza interesse qualcosa che gli stava dicendo il Padrone. La figlia s’era seduta, scegliendo tipicamente l’unico seggio scomodo della sala, un mobile rigido ed esile ricoperto di broccato sbiadito. Stava seduta eretta e immobile. Fra la sua insipidità di pastello e l’opaca freddezza di Horn, il viso del Padrone era scuro e luminoso come le braci del focolare.

— Il Padrone mi ha detto — fece il Nobile Horn rivolgendosi a Irene, e fece una pausa, guardandola come se la vedesse da molto lontano, da una torre lontana molte miglia e con le finestre offuscate che gli rendevano più difficile la visuale… — Sark mi ha detto che hai incontrato un altro viandante, sulla strada del sud.

— Ho visto un uomo. Non ho parlato con lui.

— Perché? — chiese il Nobile Horn, e fece una nuova pausa, mentre metteva insieme le sue parole lente e fredde. — Perché non hai parlato con lui?

— Dormiva. Era… non era di qui… — Irene sentiva l’impulso bruciante e convulso di parlare; si afferrò alla prima parola che le venne in mente. — Era un ladro.

Un’altra lunga pausa, quasi insostenibile. Gli occhi grigi del Nobile Horn, che le ricordavano finestre di torri, non la guardavano più; ma lui parlò di nuovo. — Questo come lo sai?

— Era… tutto. Il suo aspetto, la sua aria — disse Irene, e nell’udire il brusco tono difensivo della propria voce, si sentì pervadere dalla stessa subitanea rabbia vendicativa che aveva provato nel vedere l’intruso e che provava di nuovo ogni volta che pensava a lui. Che diritto aveva d’interrogarla, quel vecchio? La nobiltà e la signoria, al diavolo… erano solo parole diverse per esprimere la prepotenza.

— Dunque tu credi che l’uomo non sia… — Un lungo silenzio, come se Horn avesse esaurito definitivamente le parole. — … Che non possa essere lui, quello che…

— Non capisco.

— L’uomo che aspettiamo — disse Horn.

Allora Irene vide che tutti, lì accanto al focolare, la guardavano, e che le loro facce, le logore facce pesanti degli uomini anziani e dei vecchi, erano intente, imploranti… chiedevano la risposta desiderata, la parola di speranza.

Lei rivolse lo sguardo al Padrone per chiedergli aiuto, perché le dicesse che cosa doveva rispondere. Ma il volto dell’uomo era contratto, indecifrabile. Aveva scosso la testa, quasi impercettibilmente?

— L’uomo che aspettate — ripeté Irene. — Non capisco. Che cosa state aspettando? Perché aspettare? Posso andare io. — Guardò di nuovo il Padrone; i suoi occhi la fissavano, adesso, l’espressione, sebbene ancora guardinga, era più calda; Irene stava dicendo ciò che lui voleva. — Se nessuno di voi può percorrere le strade, mandate me. Posso portare un messaggio. Forse potrò portare un aiuto. Perché dovete attendere un altro? Ci sono io. Posso andare alla Città…

Volse lo sguardo dal Padrone al Nobile Horn, e si sentì gelare dall’espressione del vecchio.

— La via per arrivare alla Città è lunga — disse questi con la sua voce lenta e smorzata. — È un viaggio più lungo di quanto tu immagini. Ma il tuo coraggio trascende ogni elogio. Ti ringrazio, Irena.

Lei rimase confusa, frastornata, fino a quando il Padrone, aggrottando la fronte, la condusse via, e Irene comprese che il suo colloquio con il Signore della Montagna era concluso.


Sola nella sua stanza, di buon’ora, prima di partire, aprì le imposte e guardò il sognante crepuscolo sopra i tetti e i comignoli della città. Lei era ancora calda del tepore del letto, avrebbe voluto dormire più a lungo, avrebbe voluto restare più a lungo. Quando se ne fosse andata, la porta si sarebbe richiusa ancora una volta? Quando avrebbe potuto ritornare? Avrebbe mai potuto ritornare? La ragione per cui doveva andare era ignota, incomprensibile: ormai era assente da un’intera notte, e se non fosse ritornata all’appartamento per le sette del mattino sarebbe arrivata tardi al lavoro… Lavoro, casa, notte, mattina, tutto questo lì non aveva senso; erano parole prive di significato. Eppure, come la forza della paura che impediva agli abitanti della città di lasciare il loro luogo, per quanto fosse insensato era necessario obbedire. Poiché loro non potevano andare, doveva andare lei.

Come sempre, Palizot e Sofir si alzarono per far colazione in sua compagnia prima che se ne andasse, e Sofir le consegnò un involto di pane e formaggio perché lo portasse con sé nel lungo cammino verso la porta. Erano turbati, e non riuscivano a celare il loro turbamento. Irene vedeva che avevano paura per lei.

Si voltò indietro a guardare, alla svolta della strada. Le finestre della piccola città luccicavano di giochi riflessi d’oro nella distesa scura delle foreste che scendevano al fondovalle. Verso nord, al disopra del dosso della montagna, vide un’unica stella vivida brillare, e dopo un istante sparire, perduta, come il riflesso in una gocciola di pioggia o lo scintillio di un minuscolo frammento di mica nella sabbia.

Dopo aver attraversato il Fiume di Mezzo, Irene mangiò il pane e il formaggio che le aveva dato Sofir, e bevve l’acqua freddissima del fiume; riposò un poco, e avrebbe voluto dormire, ma non dormì, non poteva; e proseguì. Nulla la minacciava nella foresta, nulla la spaventava, ma non poteva riposare. Doveva andare avanti. Procedeva con il suo passo leggero e svelto, e finalmente giunse all’ultima altura, la cresta tra gli abeti dal tronco rossastro, scese il lungo pendio verso le macchie dei rododendri, e le attraversò, fino al luogo dell’inizio, la radura della porta… e vide, prima di traversare l’acqua, il cerchio annerito delle pietre, il sacco di plastica seminascosto sotto le felci, gli sgradevoli rifiuti del campo dell’intruso.

Prontamente, Irene si ritrasse tra i macchioni, e da quel riparo rimase a osservare per un po’. Dell’uomo non c’era traccia. I battiti del suo cuore rallentarono, il suo viso cominciò ad avvampare, le orecchie a risuonare un poco. Attraversò il fiume, si accostò al cerchio del focolare ormai freddo, e lo smantellò a calci, pietra dopo pietra, facendo ruzzolare le pietre nell’acqua. Raccolse lo zaino di plastica e il sacco a pelo e si girò verso il fiume; poi, sussurrando sottovoce «Fuori, vattene, vattene,» trascinò quella roba fuori, oltre la porta, su per il sentiero, e la scaricò nel mezzo del bosco di Pincus, ai piedi di un roveto, appena discosto dal sentiero. Poi, proseguì in fretta fino al limitare del bosco, raccattò nel fossato un cartello inchiodato a un palo, con la scritta DIVIETO DI CACCIA strappata via o marcita ormai da molto tempo, che i suoi occhi (se non la sua mente) avevano notato dodici giorni (od ore) prima, quando era passata di lì. Portando il cartello, tornò di corsa alla soglia. Solo quando l’ebbe varcata pensò — E se non avessi potuto passare? — ma senza brividi d’allarme retrospettivo. Era troppo incollerita per aver paura. Raccolse un pezzetto di legno carbonizzato dal focolare disperso, attraversò il fiume e sedette su un macigno, con il cartello sulle ginocchia. Meticolosamente, in nere maiuscole sul legno rugoso e sbiancato dalle piogge, scrisse in stampatello: VIETATO L’ACCESSO.

Piantò il cartello sull’alto dell’argine, dove avrebbe dominato l’intera radura agli occhi di chiunque arrivasse lì varcando la soglia. La base del palo affondò senza troppe difficoltà nel suolo sabbioso, ma tendeva a inclinarsi, e Irene stava prendendo un sasso per martellarlo e piantarlo più saldamente, quando un movimento, oltre l’acqua, attirò il suo sguardo. Restò immobile, poi alzò gli occhi attraverso il turbinare scintillante del fiume. L’uomo stava scendendo dalla soglia, e veniva diritto verso di lei. Tra loro non c’era altro che l’acqua.

L’uomo s’inginocchiò, sull’altra sponda, e abbassò la testa per bere. Soltanto allora Irene si rese conto che non l’aveva vista.

Era abbastanza vicina ai grandi cespugli di rododendri per potersi ritrarre e acquattare, in un unico, lungo movimento, fino a quando il bianco della sua camicia e del suo viso venne nascosto dal fogliame e dall’ombra. Quando cercò di nuovo l’uomo con lo sguardo, lui era in piedi, sull’altra riva del fiume, e fissava… fissava il cartello, naturalmente, il suo cartello, VIETATO L’ACCESSO! Il cuore le diede un tuffo, e la sua bocca si aprì in una risata ansimante e senza suono.

Così, in piedi, l’uomo era grande e grosso, massiccio, esattamente come le era apparso dentro il sacco a pelo. Quando finalmente si mosse, lo fece con passi pesanti, voltandosi per risalire sulla riva. Si fermò a fissare i punti dove prima stavano il suo focolare, il suo zaino, il suo sacco a pelo. Si mosse, si fermò, guardò. Infine si girò lentamente, volse le spalle e si diresse verso la porta, tra gli allori e il pino. Irene strinse le mani, trionfante. L’uomo si fermò di nuovo. Si voltò e tornò indietro, ridiscese e attraversò l’acqua, in una carica pesante e barcollante che lo portò di slancio sulla riva. Svelse il cartello, strappò la tavola dal palo, la spezzò sulla coscia, sporcandosi le mani bagnate di carbone, gettò a terra i pezzi e si guardò intorno. — Bastardi! — disse con voce impastata. — Subdoli bastardi!

— Altrettanto — disse la voce di Irene, e lei sentì le proprie gambe raddrizzarsi.

Subito l’uomo si voltò e venne verso di lei. Irene restò dov’era, perché le sue gambe rifiutavano di muoversi. — Vattene — gli disse. — Sgombra. Questa è proprietà privata.

Gli occhi sgranati si fissarono su di lei. L’uomo si fermò. Era massiccio. La faccia era bianca e inespressiva, ebete. La bocca diceva parole che lei non comprendeva.

L’uomo riprese ad avvicinarsi. Irene sentì la propria voce, ma non seppe che cosa diceva. Stringeva ancora in mano la pietra che aveva raccolto. Avrebbe cercato di ucciderlo, se l’avesse toccata.

— Non è necessario — disse lui con una voce tesa e rauca, una voce di ragazzo. S’era fermato. Le voltò le spalle e tornò indietro, attraversando goffamente l’acqua, risalì la riva, tagliò la radura, si avviò verso la soglia.

Irene rimase immobile a guardarlo.

L’uomo passò tra il pino e gli allori e proseguì. Era strano; lei non aveva mai guardato attraverso la porta, da questa parte? Il sentiero che saliva così erto e scuro verso la luce del giorno sembrava pianeggiante e scoperto, visto da lì, oltre l’acqua; non sembrava diverso dai sentieri della terra crepuscolare. Poteva scorgerlo per un lungo tratto, nella penombra sotto gli alberi, e poteva vedere l’uomo che lo percorreva, allontanandosi nella grigia luce immutabile.

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