Perché sono tornata?… La domanda si ripresentava con insistenza irritante, come il piagnucolio di un bimbo. Lei si ribellò, esasperata: Perché dovevo! E adesso doveva fare ciò che doveva essere fatto. Andò alla casa alla sommità della strada a gradini, e Fimol la fece entrare, e nella bella sala dai due camini lei attese, così tesa e apprensiva che tutto ciò che vedeva e udiva era stranamente vivido, sconnesso, e aveva una insignificanza primitiva e luminosa.
Il Padrone entrò nella stanza. Non come l’aveva visto lei l’ultima volta, aggobbito per il terrore, piagnucolante, accecato. No, niente di simile. Eretto, attento, calmo, e cupo: il Padrone. — Benvenuta, Irena — disse, e come sempre lei si sentì la lingua legata, si sentì incapace di resistere al suo ascendente, e ne provò sollievo. Lui è veramente così, posso dimenticare quell’altra faccia. È il mio Padrone!
Ma al di là di quell’impacciata, appassionata sottomissione, quasi attraverso una lastra di vetro, un’anima fredda osservava lui e se stessa. Quell’anima non serviva; e neppure giudicava. Osservava. Osservava lei scegliere il rigido scranno di broccato per sedersi, e chiedersi perché lo sceglieva. Osservava lui che camminava avanti e indietro nella sala, e vedeva che era lieto di voltarle le spalle.
I camini non erano accesi. L’aria della lunga sala era tranquilla, come all’interno d’una sottile conchiglia marina.
— Presto dovremo incominciare a macellare le pecore — disse il Padrone. — Non è più rimasto foraggio in tutti i prati bassi orientali. — I prati bassi erano i pascoli vicini alla città, usati normalmente solo nella stagione in cui nascevano gli agnelli. — Ma dato che i mercanti di sale non sono venuti, non potremo conservare molta carne. Un grande banchetto; il banchetto della paura…
Gli abitanti di Tembreabrezi non tenevano i greggi per la carne, bensì per la lana; la loro ricchezza era la splendida lana che tingevano e filavano e tessevano, e cedevano in cambio dei prodotti della pianura. — Il manto del Re l’abbiamo tessuto noi — li aveva sentiti dire Irene.
— Non potete far nulla? — chiese lei, sgomentata dall’idea che quelli uccidessero il loro orgoglio e il loro mezzo per vivere, le greggi di bestie bellissime, circospette e pazienti. Lei era stata sulla montagna con i pastori, molte volte; aveva tenuto tra le braccia gli agnellini appena nati.
— No — disse lui con la sua voce asciutta, volgendole le spalle e guardando dalle finestre affacciate sui giardini a terrazze della sua casa.
Irene si morse le labbra, perché la sua domanda aveva colpito il centro della vergogna del Padrone. Aveva visto, visto con i suoi occhi, che lui non poteva far nulla.
— Vi sono cose che avremmo potuto fare. Gli animali l’hanno sentito per primi. Avremmo dovuto ascoltarli. Le capre selvatiche sono passate di qui… le pecore non volevano salire al Gradino Alto: e tutto questo l’abbiamo visto. Sapevamo, ma non abbiamo fatto nulla. Io non ero il solo ad affermare che c’erano certe cose da fare. C’erano uomini che l’avevano detto prima di me. Che dovevamo pagare il prezzo e fare il patto. Ma le donnicciole gridavano, oh, no, questo non si deve fare, è disgustoso e inutile. Tutte le donnicciole, incluso il Signore della Montagna…
S’era voltato verso di lei. Aveva la luce alle spalle, e Irene non poteva scorgere i suoi lineamenti. La voce era asciutta e implacabile.
— Perciò abbiamo ascoltato il consiglio dei codardi. Ora siamo tutti codardi. E tutti indifesi. Anziché un solo agnello, tutti i greggi. Non un nostro figlio, ma questo ragazzo, questo stupido ragazzo che non sa parlare la nostra lingua. Lui deve liberarci! Il Nobile Horn era un uomo saggio, ma è passato molto tempo. Se almeno fossi andato alla Città la prima volta che ci ho pensato. Ma ho atteso per deferenza verso di lui…
Quelle ultime parole non significavano nulla per Irene. Ben poco di ciò che il Padrone aveva detto sembrava avere un senso, ma il tono vendicativo aveva spezzato la sua abitudine di timidezza. Gli chiese, senza esitazioni: — Che cosa vuoi dire? Come potrà liberarvi, lo straniero? — Quando lui non rispose, insistette: — Che cosa dovrà fare?
— Salire sulla montagna.
— Per fare che?
— Ciò che è venuto a fare. Così dice il Nobile Horn.
— Ma lui non sa perché è qui. Crede che lo sappiate voi. Lui non sa nulla. Persino io ho sentito la paura, nel venire qui, ma lui no.
— Un eroe è indifferente alla paura — disse il Padrone, in tono irridente.
Le venne un poco più vicino.
— Che cosa è che ci spaventa? — chiese lei con fermezza, sebbene ora avesse paura di lui. — Devi dirmi che cos’è.
— Non posso dirtelo, Irenadja.
Il viso del Padrone era cupo, congestionato, gli occhi ardenti. Sorrise. — Vedi quel ritratto? — disse, e Irene guardò per un momento nella direzione indicata, l’effigie dell’uomo con il volto contratto da una smorfia. — Era il padre di mio nonno. Era Padrone di Tembreabrezi, come lo sono io. Ai suoi tempi venne la paura. Lui non ascoltò i piagnucolii delle donnicciole, e andò, salì la montagna per fare il patto, con il prezzo in mano. E concluse il fatto, e le vie furono liberate. Ridiscese solo dalla montagna, e aveva la mano rattrappita, come la vedi lì. Dicevano che fosse bruciata. Ma mio nonno, che allora era un bambino, diceva che era fredda, a toccarla, fredda come legno putrido d’inverno. Ma lui pagò il prezzo per tutti!
— Quale prezzo? — chiese Irene, scossa dalla paura e dalla ripugnanza. — Che cosa aveva tenuto in mano… che cosa aveva toccato?
— Ciò che amava.
— Non capisco.
— Tu non hai mai capito. Chi sei, tu, per comprenderci?
— Io ti ho amato — disse lei.
— Faresti ciò che lui fece, per amor nostro? Andresti là, alla pietra piatta, ad attendere?
— Farei tutto ciò che potrei. Dimmi cosa devo fare!
Gli occhi del Padrone, adesso, bruciavano. Si avvicinò tanto che Irene sentì il calore irradiato dal suo volto.
— Vai con lui — le disse, in un sussurro. — Lo straniero. Horn lo manderà. Vai con lui. Conducilo al Gradino Alto, alla pietra, la pietra piatta. Conosci la strada. Puoi andare con lui.
— E poi?
— Lascia che lui faccia il patto.
— Con chi? Quale patto?
— Non posso dirtelo — rispose il Padrone, e il volto scuro arse e si contrasse. — Non so. Dici che ci hai amati. Se hai amato me, vai con lui.
Irene non riuscì a parlare, ma annuì.
— Tu ci salverai, Irena — mormorò il Padrone. Girò il viso come per baciarla, ma il tocco delle sue labbra era arido, lieve come una piuma, caldo, più un respiro che un tocco.
— Lasciami andare — disse lei.
Lui si ritrasse.
Irene non poteva parlare e non voleva guardarlo. Si voltò e percorse l’intera lunghezza della sala, fino alla porta. Lui non la seguì.
Irene non ritornò alla locanda, non andò a trovare Trijiat. Scese le strade ripide, sola, e uscì dall’estremità orientale della città, passando davanti alla bottega di Venno e alla casetta di Geba, fino al cortile del tagliapietre. Sedette sul blocco di granito, e sul muretto che fiancheggiava la strada, e sbriciolò tra le dita le piccole, eleganti pigne dei cedri, e pensò; ma più che un pensiero era una lunga angoscia, che doveva vivere come un musicista suona una melodia, dall’inizio alla fine. Spesso i suoi occhi si posavano sulla strada del nord, la strada che scendeva verso la Città del Re, la strada che non poteva percorrere.
Il giorno dopo fu chiamata al maniero. Portava il suo abito rosso, e il suo secondo paio di calze. Palizot cercò di prestargliene un paio nuovo, e le sue scarpe dalle suole sottili, perché «erano più adatte a una visita in casa del Nobile», ma Irene rifiutò, e se ne andò, ostinata e addolorata, nello stesso umore cupo e sofferente sotto il quale, come l’acqua fredda e profonda sotto i canneti d’una palude marina, stava la paura.
Non alzò gli occhi verso la vetta, quando andò dal cancello di ferro al maniero.
Come l’altra volta, il vecchio servitore la condusse nella galleria dalle molte finestre, e c’erano le stesse persone. Questa volta avevano vestito Hugh Rogers come uno di loro. Si rammaricò di non essere venuta lì con i suoi jeans e la camicia, per sfida, e nello stesso tempo si pentì di non aver accettato le scarpette e le calse a righe. Scrutò l’abbigliamento di Hugh; calzoni neri, aderenti, una pesante camicia di lino, un lungo giustacuore ornato di ricami scuri. Gli stavano bene. Era pesante ma proporzionato; la gola era bianca e massiccia, incorniciata dall’alto colletto aperto, e teneva la testa eretta. Le andò subito incontro e le parlò con goffa benevolenza. Era felice in quei begli abiti, con il vecchio che gli batteva la mano sulla spalla, e la figlia del vecchio che faceva la vezzosa con lui, e tutto il cibo e l’attenzione e l’amicizia che il suo cuore poteva desiderare, sicuro, e poi vai a fare l’impossibile, e tante grazie; è per questo che sei venuto, no?
C’era anche il Padrone, e parlava con il vecchio Hobim e altri due abitanti della cittadina. Irene non lo guardò direttamente neppure una volta, ma era continuamente consapevole della sua presenza, e al suono della voce di lui il suo cuore si arrestò e attese.
La figlia del Nobile Horn stava con Hugh. Gli parlava, insegnandogli una parola, l’«adja» che aggiungevano come desinenza al tuo nome quando volevano chiamarti amico, e cercava di spiegargli che il suo nome, come lo sentivano loro, Hiuradjas, conteneva già quella parola, e sarebbe suonato ridicolo se l’avessero aggiunta ancora. Hiuradjadja! e Allia rise, dicendolo, una risata sommessa e gaia. Lui fissava il viso di porcellana e i capelli lanosi. Stupido! pensò Irene. Stupido e sciocco! Non capisci? Ma vedeva la bocca intenerita, gli occhi immobili, e si sentiva sgomenta.
— Alladjia — disse Hugh, e arrossì, faccia e orecchi e collo rossi sotto i capelli folti, chiari e sudati; e poi ridiventò bianco.
Allia sorrise, dolce e fresca come l’acqua, e lo elogiò.
— Sembrano fratello e sorella — disse una voce, vicino a Irene… parlava a lei, si accorse, sottraendosi alla compassione assorta con cui stava osservando Hugh.
Il Nobile Horn le si era fermato accanto. Non la guardava, guardava Allia e Hugh, che la loro biondezza isolava da tutti gli altri presenti. Il viso lungo del vecchio era severo e calmo come sempre. Irene non disse nulla, sconcertata dalla curiosa ironia, o forse intimità, di quel commento. Poi si rivolse a lei. — Rimarrai a lungo con noi, questa volta, Irenadja?
— Soltanto finché potrò essere utile — rispose lei con sarcasmo. Poi se ne vergognò. Era stato Horn a dirle: — Il tuo coraggio trascende ogni elogio — e lei aveva conservato quelle parole come un tesoro, una protezione contro la protezione e il dubbio. Là, nell’altra terra, dove non riusciva a trovarsi una casa, non aveva pensato a chi gliele aveva dette, ma le aveva tenute strette a sé: il tuo coraggio, tu hai coraggio… Non costringerai tua madre a compiere la scelta che non può fare; non le chiederai l’aiuto che non può darti. Tu non hai bisogno di aiuto. Il suo coraggio trascende ogni elogio.
— Nobile Horn — disse, — vorrei essere andata alla Città quando… quando la gente poteva ancora andare.
— C’è più di una strada per la Città — disse lui.
— Tu ci sei mai stato?
Horn la guardò con gli occhi grigi e distanti.
— Sono stato alla Città. È per questo che vengo chiamato Nobile, perché ci sono stato — disse lui, gentile e freddo e calmo.
— Hai visto il Re?
— L’ombra — disse Horn. — Ho visto l’ombra luminosa del Re. — Ma la parola era femminile, quindi doveva indicare la Regina o la Madre; e nessuna delle parole che pronunciava aveva significato, e lei le comprendeva come non aveva mai compreso nulla, in vita sua. Gli occhi sempre distanti erano fissi nei suoi. Se tendessi la mano e lo toccassi, vedrei chiaramente, pensò Irene. Lo schermo scomparirebbe e io sarei tanto là che qui. Ma quella conoscenza mi distruggerebbe.
Gli occhi grigi di Horn dicevano gentilmente: Non toccarmi, bambina.
Qualcuno si stava avvicinando a loro, che stavano accanto al camino. Irene distolse lentamente lo sguardo da Horn e vide, con indifferenza, che era il Padrone Sark.
— Ora che Irena è qui, mio signore, possiamo parlare più liberamente al nostro ospite — disse il Padrone, con deferenza ma con tono ufficiale e impaziente.
Il vecchio lo guardò e, come sempre, parlò dopo una pausa. — Sta bene. Parlerai per noi e per lui, Irena?
— Sì — disse lei. Si sentiva liberata dallo stupore che l’aveva imprigionata tanto a lungo. Sentiva di potersi fidare di nuovo della propria volontà. Attrasse l’attenzione di Hugh; gli altri, ammutolendo, si raccolsero intorno al camino in un semicerchio irregolare. Allia era la più vicina a Hugh. Lui deviò lo sguardo da lei a Irene con gli occhi intenti e chiari, un po’ apprensivi, candidi come quelli di un bambino. Il Nobile Horn parlò, e Irene tradusse le sue parole e quelle di Hugh.
— Chiediamo il tuo servizio, chiediamo il tuo aiuto. Hugh annuì.
— Non abbiamo alcun diritto su di te. Se farai ciò che chiediamo, sarà per pura misericordia verso coloro ai quali non restano altre speranze.
— Capisco.
— Noi non potremo aiutarti, e sarai in pericolo.
Dopo un momento, Hugh disse: — Quale pericolo?
Irene non comprese interamente la risposta di Horn, ma la tradusse in inglese meglio che poté: — Noi che viviamo qui abbiamo paura… siamo la paura, ha detto… e quindi non possiamo affrontare il nemico… solo l’altro, lo straniero, può volgere la faccia… per la verità, non capisco cosa stia dicendo.
— Chiedigli chi è il nemico.
Irene lo chiese. Horn rispose: — L’occhio che vede dà la forma, la mente che sa dà i nomi. — Le sue parole vennero rese così in inglese, quando lei le riferì.
— Enigmi — disse Hugh con un sorriso. Rifletté, fece per formulare una domanda, e si trattenne; attese. La pazienza gli si addiceva, pensò Irene. C’era dignità in lui, sotto la goffaggine. Forse era parte della goffaggine.
— Che cosa gli darai da portare, mio signore? — chiese il Padrone.
— La spada che ho ricevuto, se la vuole — rispose Horn.
— Che cosa gli darai da dare, mio signore?
Irene aveva incominciato a tradurre a Hugh quella frase quando si accorse che il vecchio parlava, lentamente come sempre, ma con aspra enfasi: — Tu sei il nipote di tuo nonno, Sark, ma dove sono i figli di sua figlia?
— Tutti noi — disse il Padrone. — Tutti noi siamo suoi figli.
— I figli della paura. E quindi siamo legati. E le nostre mani destre sono inutili. Vorresti venderci di nuovo, Sark? Allia, porta la spada.
Allia attraversò la galleria, andò a una cassapanca che stava contro la parete interna, e s’inginocchiò, e aprì il coperchio.
La tensione tra Horn e il Padrone era così grande, e le sue origini erano così oscure a Irene, che non cercò neppure di tradurre a Hugh quelle ultime frasi che si erano scambiati. Come lui, rimase immota a guardare Allia.
Con il pallido vello di capelli fluttuanti, la ragazza riattraversò la galleria reggendo nelle mani un’esile, fulgida striscia di luce. Si fermò davanti al padre; lui indicò Hugh con un cenno breve e solenne. Allia si girò verso Hugh e sollevò un poco le mani; sorrideva, ma le sue labbra e il suo volto erano pallidi.
Hugh guardò la spada e disse sottovoce: — Mio Dio.
Senza sollevare lo sguardo verso Allia o Horn o Irene, afferrò l’impugnatura, goffamente e con un’espressione ostinata sul volto, e sollevò la spada dalle mani della ragazza. Era evidentemente pesante. Hugh non l’alzò, non cercò di provarla o di farla mulinare, ma la tenne impacciato in aria davanti a sé, come una barriera.
— Da questo devo dedurre — disse, con distacco, — che qualunque cosa dovrò affrontare, è reale.
— Credo di sì — mormorò Irene.
— Speravo che fosse magica. Sarebbe stato più facile. Ascolta. Sarà bene che dica loro che alle medie-superiori non ho fatto un corso di scherma.
Posò meticolosamente la punta della spada sul pavimento lucido, e tenne la mano sul pomolo, guardando l’impugnatura e la lama con un’espressione di riluttante rispetto. L’impugnatura splendidamente modellata sembrava fatta per la sua grossa mano; la lama era sottilissima e lunga. L’elsa, dove Irene cercava con gli occhi una guardia trasversale, come nelle spade dei libri illustrati, era una massiccia flangia ovale ornata da un cerchio di gemme gialle.
Finalmente, alzando lo sguardo dalla spada, Irene si accorse che era la prima a farlo. Il volto di Sark era contratto e invecchiato; Horn continuava a guardare imperturbabile.
— Dice che non è abile nel maneggiare le spade, mio signore — disse Irene, e provò un piccolo, strano piacere malizioso nel farlo, un senso di solidarietà con Hugh, contro Horn e tutti gli altri.
— Non so se l’abilità gli servirebbe — disse il vecchio. — Non potevo mandarlo disarmato. — La sua voce era triste, e la scintilla di sfida si spense in Irene.
— È la sua spada, proveniente dalla Città, credo — disse lei a Hugh.
— Ti ringrazio — disse Hugh al vecchio, nella lingua del crepuscolo; poi, a Irene: — Bene, possono dirmi dove devo andare e che cosa fare?
Quando lei fece quella domanda, alcuni degli uomini che erano rimasti in silenzio ad ascoltare risposero: — Sulla montagna — disse uno, e un altro disse: — Nella montagna — e il vecchio Hobim disse: — È la montagna. — Il Padrone intervenne. — Sulla montagna, nel pascolo estivo del Gradino Alto. Irena conosce la strada per arrivarci.
— No! — s’intromise Allia, con un’espressione stravolta e atterrita. — Lasciate andare me… andrò io con lui…
— Non puoi — obbiettò Sark. — Ti trascineresti carponi, implorando di tornare indietro, prima di aver attraversato il ponte. — Parlò con soddisfazione vendicativa, senza curarsi di nasconderla. Allia si rivolse al padre, con il viso bianco nascosto fra le mani, piangendo.
— Spiegami che cosa dicono — chiese Hugh a Irene, disperatamente.
— Vogliono che tu salga sulla montagna, al pascolo più alto. Allia vuole guidarti, ma sa che non può farlo. Il Nobile Horn…
Ma il vecchio stava parlando, a Sark: — Manderesti ancora la bambina, Sark? Tu conosci l’unica via. Ma non può mandarla, né tenerla. E una strada procede in due direzioni. Dove sono rivolti i loro visi, se sono venuti a noi dal sud?
— Digli che non importa — fece Hugh. — Andrò dove vogliono. Se vado in cerca di guai con questo coso, immagino che li troverò.
— La strada è lunga, e vi sono diversi sentieri. Verrò con te, sono già stata lassù.
— Sta bene — disse lui, senza discutere.
Irene si rivolse a Horn. — Andrà. Io andrò con lui.
Il vecchio chinò la testa.
— Quando dovremo andare?
— Quando volete.
— Quando vuoi andare? — chiese lei a Hugh. Cominciava a sentirsi scossa; le lacrime di Allia le facevano venir voglia di piangere.
— Prima è, e meglio sarà.
— Lo pensi davvero?
— Voglio farla finita — disse Hugh, semplicemente. Guardò Allia, protetta dal braccio del padre; lei non alzò la testa per incontrare i suoi occhi.
— Domani — disse poi, dove una breve pausa. — Chiedi se a loro va bene.
— Il capo sei tu.
— Cosa c’è che non va?
— Non so. Perché non possono dirlo… Non è giusto. Per quello che ne so, ti stanno mandando come un… non so. Un capro espiatorio. Un… — Ma Irene non riuscì a pensare la parola che cercava, e significava qualcosa dato in offerta.
— Sono bloccati — disse lui. — Non possono fare ciò che devono. Se io lo posso, lo farò. Va bene così.
— Non credo che dovresti andare.
— Sono venuto per questo — disse lui. La guardò, con assoluta franchezza. — Ma tu? Se credi che sia un brutto scherzo… È inutile che ci comportiamo da stupidi tutti e due.
Irene guardava la luce del fuoco scorrere in lunghe schegge di rosso dorato sulla lama della spada.
— Io conosco la strada, avrai bisogno di qualcuno. Comunque, non voglio restare qui. Non più.
— Io vorrei restare per sempre — disse lui sottovoce, guardando Allia: non il viso, bensì la mano candida contro l’abito verdazzurro.
— Molto probabilmente ci resterai — disse Irene, ma un’involontaria pietà smorzò la sua amarezza, il senso di un tradimento commesso e subito; e lui non la comprese.
Irene fu invitata a trattenersi a cena al maniero, ma si scusò e se ne andò al più presto possibile. Hugh non aveva bisogno di un’interprete; se la cavava meglio, senza parlare la lingua, di quanto se la cavasse lei che la parlava. E non sopportava più di stare con loro. Era colpa sua, era stata una sciocca, ma adesso era troppo tardi. Era troppo tardi per tutto. Non aveva dato ascolto all’uomo saggio e pericoloso, e aveva dato la sua promessa a uno con il cuore vuoto. Si era ingannata, aveva scelto d’essere una schiava. E adesso era rimasta a guardare il suo padrone, il suo specchio, e non scorgeva né fiducia, né onestà, né coraggio. L’oscurità di lui era vuota, e tutto ciò che Sark provava era invidia.
Eppure, se Allia l’avesse guardato, non avrebbe visto l’uomo fiero che aveva visto Irene? Loro due erano fatti l’uno per l’altra, lui scuro e vivido, lei bionda e fredda. Come non poteva provare invidia, quando Hugh le stava accanto? Fratello e sorella, aveva detto il Nobile Horn guardando Hugh e Allia, ma guardando Allia e Sark avrebbe detto innamorata e innamorato, moglie e marito. E così avrebbe dovuto essere. Tutto lì, era come avrebbe dovuto essere, come doveva essere; tutto tranne lei, che non apparteneva a quel luogo e a nessun luogo, perché non aveva una casa sua, nessuno di suo.
Irene cenò con Palizot e Sofir, e trascorse un po’ di tempo nella cucina illuminata dal fuoco, insieme a Palizot, dopo cena; ma era impossibile ritornare alla vecchia tranquillità. Il filo cui aveva affidato la sua vita era legato; il gioco era fatto. Aveva finto di essere la loro figlia, ma non era mai stato vero, e adesso la finzione era solo una costrizione imposta all’affetto. E sapendo che la mattina dopo sarebbe salita sulla montagna, sebbene cercassero di non mostrarlo provavano soggezione di lei. Sofir era avvilito. Palizot si destreggiava meglio, ma l’ipocrisia li metteva duramente alla prova tutti e tre, e ben presto Irene augurò loro la buonanotte e andò in camera sua.
Tirò le tende per escludere il chiarore immutabile del cielo, accese il fuoco, e sedette a pensare. Non le venne nessun pensiero degno d’essere pensato. Era stanca. Andò a letto. Prima di dormire, mentre ascoltava il vento che spirava a raffiche, e schiaffeggiava gli abbaini della vecchia casa, si disse: — Qualunque cosa accada, non tornerò a Tembreabrezi. È tempo di andare. Andare per sempre. Lui mi ha soltanto fatto promettere di fare ciò che avrei fatto comunque. — Non c’era consolazione in quel pensiero, tuttavia la acquietò. Il risentimento, il senso del tradimento, nascevano dalla resistenza alla consapevolezza che lei doveva andare, dalla finzione di poter tenere ciò che aveva amato. Non c’era nulla da temere, tranne forse la disponibilità ad amare. Se avesse perduto quella, sarebbe stata perduta completamente.
Si chiese perché non aveva più paura. Adesso la sua stanchezza era il ricordo, nei nervi e nei muscoli, dell’interminabile, nauseante paura che aveva provato arrivando lì, questa volta; ma sebbene si sforzasse di immaginare di avviarsi per la strada, di salire sulla montagna, nessun brivido spaventoso di gelo le nasceva nella bocca dello stomaco, nessun panico nelle pulsazioni del sangue o nella mente. Forse questo significava che finalmente aveva compiuto la scelta giusta… hai fatto quello per cui sei venuta, come aveva detto Hugh, povero Hugh, così pesante e ansioso, con i suoi occhi onesti. Lui sarebbe andato, sebbene non volesse andare, volesse restare. Quale scelta era giusta, dunque? Ma questo sarebbe risultato evidente poi, e nel frattempo non c’era la paura, ma soltanto il sonno, che lì saliva da sorgenti più profonde del sogno, al di là dello schermo delle parole o del tocco di una mano, la montagna che sta dentro la montagna, il mare che è nella sorgente, lì dove non pioveva mai.
Quando tutti si svegliarono, nella casa, lei si alzò, mise i jeans e la camicia e i desert boots, perché come sempre quando lasciava il suo paese, non intendeva portare nulla con sé oltre la soglia; ma poi andò alla cassapanca del corridoio, per prendere un vecchio mantello rattoppato che Palizot le aveva dato quando era scesa per la strada del nord insieme ai mercanti. Era di lana rossoscura, molto macchiato, sfrangiato all’orlo, ma teneva caldo, ed era facile da portare sulle spalle, arrotolato. Sofir, altrettanto convinto che quel viaggio non si sarebbe concluso in un giorno, le aveva preparato un pacco di carne secca e di formaggio e di pane scuro, senza dubbio sufficiente per diversi giorni, e Irene lo arrotolò dentro al mantello.
Lei e Palizot restarono abbracciate per un minuto. Nessuna delle due riusciva a parlare. Era una fine, e le parole sono fatte per gli inizi. Irene baciò Sofir, e Sofir baciò lei; quindi lasciò la locanda.
Quando uscì nel cortile vide Aduvan e Virti e altri bambini che l’aspettavano, eccitati ma un po’ impauriti o frastornati. Non parlarono molto, ma si raccolsero intorno a lei, come per chiederle di rassicurarli. Un gruppo stava scendendo la strada a gradini; Horn e Allia, Sark e Fimol, un gruppo di vecchi e di vecchie, e Hugh era in mezzo a loro, alto e bianco in volto, il bue condotto al macello. Attesero ai piedi della via e Irene, con la sua scorta di bambini, andò a raggiungerli.
Altri stavano sulle soglie, lungo la strada che attraversava la piccola città, verso ovest. Salutavano sottovoce il Nobile Horn con il suo titolo, e lei e Hugh per nome. — Irena, Irenadja. — Alcuni si unirono al loro gruppo, e altri si raccolsero ai crocicchi. Irene comprese che quella era la loro parata. Tristi e quieti, gli abitanti di Tembreabrezi si radunavano per onorarli, per augurare loro ogni bene, per accompagnarli con la loro speranza.
Un giovane padre sollevò il suo piccino perché vedesse passare Hugh. Quello mise addosso a Irene la voglia di ridere, una risata sciocca e beffarda, e fece una smorfia per reprimerla. Hugh, con la bella giubba di pelle che gli avevano regalato, e lo zaino, e al fianco la spada in un fodero di cuoio, sarebbe sembrato un eroe, se avesse saputo d’essere un eroe; ma appariva avvilito, imbarazzato, e aggobbiva le spalle e perdeva la sua parte di gloria perché nessuno gli aveva mai detto che aveva una parte di gloria.
La via che conduceva a ovest, fuori dalla città, cambiò, e il lastricato lasciò il posto alla terra battuta. Le case, ai due lati, erano più basse, e sempre meno numerose; e poi incominciarono i campi cinti da muretti di pietre, e i lunghi pascoli bassi dove adesso erano tutti i greggi, a ovest e a nord di Tembreabrezi. Molta gente s’era unita a loro, così che, mentre passavano tra i campi cintati, erano quaranta o cinquanta che camminavano insieme, a passo sciolto e in silenzio. Con un tuffo al cuore, Irene pensò: — Forse verranno con noi, forse avevano soltanto bisogno di incamminarsi insieme a noi, e potremo proseguire insieme. — Ma i genitori camminavano con i figli, adesso. Li avevano presi per mano; si chinavano verso di loro e parlavano sottovoce. Nessuno parlava forte. — Irena — disse Aduvan in un mormorio mesto, fermandosi accanto alla madre e al fratellino. Irene si voltò verso di loro. Altri bambini le tesero le braccia, sussurrando: — Addio! — Virti non volle darle un bacio; gridò, piagnucolando: — Non voglio vedere la cosa cattiva, non voglio vederla! — Trijiat tornò indietro con lui. Irene proseguì; si voltò indietro una volta sola; i bambini erano lì fermi sulla strada, nel crepuscolo. Dietro di loro, nella città, non c’era neppure una luce accesa.
Donne e uomini si fermarono, uno ad uno. Restavano immobili sulla strada, guardando gli altri che procedevano. Il vento lieve e irrequieto soffiava accanto a loro.
Il muro di pietra a secco, alto fino alla spalla, continuava sulla sinistra, e sulla destra un’alta siepe oscurava la via. Irene riusciva appena a distinguere le pietre biancastre del ponte che portava la strada della montagna oltre un torrentello, che più in basso si allargava in un ruscello e irrigava i pascoli. Quello sarebbe stato il confine: il ponte.
— Addio, Irena — disse sottovoce una donna, mentre lei passava. Il vento le gonfiava un po’ la gonna grigia, e il suo volto era pallido nella luce fioca della strada. Era la nonna di Aduvan, la madre di Trijiat; aveva insegnato a Irene come si filava la lana. — Addio — le disse Irene. La strada s’incurvava un po’ sulla sinistra, verso il ponte. Lei passò davanti al Padrone che stava rigido e disperato, con le mani strette contro i fianchi. Gli disse: — Addio, Sark — chiamandolo per nome, la prima e ultima volta. Lui non parlò; forse non poteva. Irene proseguì per qualche passo e si fermò accanto al Nobile Horn. La chioma di Allia, che gli era vicina, baluginava nella penombra della strada, come se avesse una luce propria, mentre lei stava di fronte a Hugh.
— Che la nostra speranza ti accompagni, che la nostra fiducia ti sostenga — disse Allia, con quella voce dolce e chiara, nella sua lingua. Lui disse soltanto, e soltanto Irene comprese: — Ti amo.
— Addio! — disse Allia, e lui ripeté la parola.
La mano del Nobile Horn, esile e leggera, era posata sulla spalla di Irene. Lei lo guardò, stupita. Sorridendo, Horn la baciò sulla fronte. — Vai senza guardarti indietro, figlia mia — disse.
Lei restò immobile, frastornata.
Hugh stava proseguendo verso il monte. Doveva andare con lui. Passò davanti ad Allia che stava sulla strada buia, silenziosa come una statua. Mi ha chiamata figlia, disse il suo cuore, mi ha chiamata figlia. Passò oltre. Tutti stavano in silenzio nella penombra della strada, dietro di lei. Non si voltò indietro.
La strada varcava il ponte e s’incurvava ancora di più a sinistra, verso ovest, incominciando a salire la montagna. Adesso c’erano alberi folti da una parte, l’alta siepe dall’altra. Era buio, su quella strada.
Hugh manteneva un’andatura elastica, un po’ più avanti di lei, e sulla destra; Irene lo vedeva come una massa in movimento nel crepuscolo.
La siepe aveva lasciato il posto alla foresta. I rami scuri s’incontravano in alto. La strada era cinta e coperta dai tronchi, dai rami, dalle foglie degli alberi. Una galleria. Squarci di cielo intravvisti fra le fronde. Il pesante odore di felci della foresta. Qualcosa di enorme e pallido torreggiava più avanti, ai margini della strada. Mentre il cuore di Irene sussultava, la sua mente disse: È il macigno, calmati, è solo il macigno accanto alla pista alta. Di già? Sì, di già, è passato molto tempo da quando abbiamo lasciato la città, da quando abbiamo attraversato il ponte, un paio di miglia. — Hugh — disse.
Solo adesso, parlando, sebbene la sua voce fosse poco più di un bisbiglio, udì il silenzio. Il vento era caduto. Nulla si muoveva. Era come la sordità. Non c’erano suoni.
Hugh s’era fermato, girandosi verso di lei.
— Da questa parte — mormorò Irena, indicando a sinistra. Non riusciva a parlare più forte. — Il sentiero che porta ai pascoli alti.
Lui annuì, e la seguì quando abbandonò la strada per il sentiero più stretto e scosceso, tracciato dagli zoccoli delle greggi, che saliva sulla montagna.
Il cuore di Irene continuò a battere forte, i suoi orecchi continuarono a ronzare. Era la salita, si diceva; ma non era quella. Era il silenzio. Se almeno qualcosa avesse emesso qualche suono, qualcosa oltre il suo passo e il suo respiro e il fievole drum-drum-drum negli orecchi, e Hugh che la seguiva, senza fare molto rumore; ma qualunque rumore lì era troppo forte.
Non avrò paura, non avrò paura. Basta che continui ad andare nella direzione in cui devo andare. Basta che non mi perda come una stupida.
Erano trascorsi due anni da quando aveva percorso quel sentiero. Allora aveva avuto l’abitudine di venire con i pastori e i bambini e le greggi, seguendoli. Ora doveva trovare la strada da sola. Continuava a dubitarne, ma non poteva sbagliarsi; guarda la pista, si diceva, è la pista delle pecore, là ci sono i loro escrementi secchi, là ci sono i segni lasciati dai loro zoccoli, questa è la strada giusta. Non avrò paura.
I cespugli avevano incominciato a invadere la pista, da quando era stata abbandonata. Non era un sentiero faticoso, ma richiedeva un’attenzione costante, ed era tutto in salita. All’improvviso, alla sommità di un tratto scosceso, uscirono dall’oscurità della foresta. L’aria sembrava quasi luminosa. C’era una chiara visuale della terra e del cielo. Erano usciti a un’estremità del Prato Lungo, un immenso pascolo alpino, una terrazza sulla parete nord-est della montagna.
Irene si fermò sotto gli ultimi alberi, tra l’erba alta, riprendendo respiro dopo la salita. Hugh stava accanto a lei: vedeva il suo petto sollevarsi e abbassarsi in profondi respiri regolari mentre guardava il grande prato e i pendii che si ergevano ripidi, al di sopra.
— È questo, il posto? — le chiese.
Erano le prime parole che pronunciava da quando avevano attraversato il ponte.
— No. Siamo circa a metà strada, credo. Il Gradino Alto è avanti, lassù. — Lei additò le pareti grige e le balze che incombevano sul Prato Lungo, lontano, sulla destra del punto dove stavano. — Con le pecore, ci volevano sempre due giorni per arrivare fin là; si accampavano qui, nel Prato Lungo.
— Mi domandavo perché mi avevano dato tutti questi viveri.
— San Giorgio e i panini — disse Irene; e un convulso d’ilarità pazza la investì e l’abbandonò con la stessa rapidità con cui era sopraggiunto. Guardò Hugh. S’era liberato dello zaino e della giubba di pelle, e si stava riassestando la cintura con una smorfia. — Questa maledetta spada continua a farmi inciampare. — Alzò la testa e incontrò lo sguardo di lei. — È tutto fasullo — disse, e arrossi. — Una commedia.
— Lo so.
Ma il silenzio aleggiava intorno alle loro voci, ed entrambi lo udivano.
— Non senti la… — Lui esitò, con goffa delicatezza. — …la paura?
— Non esattamente. Mi sento nervosa, ma non… ho l’impressione che abbia voltato le spalle.
Hugh sistemò la spada come voleva, si passò la mano tra i capelli, e sospirò, rumorosamente, ouf!
— Non l’hai mai sentita? — chiese Irene, incuriosita.
— Non credo.
— Molto bene.
— L’ultima volta, quando sono passato oltre la porta, ero spaventato. Lo sai. Spaventato davvero, in preda al panico. Ma perché temevo di perdermi. Non è così, vero?
Lei scrollò la testa. — No, affatto. È piuttosto la sensazione che troverai qualcosa che non vuoi trovare. Hugh fece una smorfia.
— È spaventoso — disse Irene. — Ma qui non ho mai avuto paura di perdermi. So sempre dov’è la porta. E la piccola città. E la Città del Re, credo.
Lui annuì. — Sono tutte sulla stessa linea, lo stesso asse. Ma quando sono passato oltre la porta, l’ho perduto. Sembrava tutto eguale. Non riconoscevo neppure il ruscello della soglia, quando l’ho attraversato. Se non ti avessi incontrata…
— Ma eri sul sentiero… o quasi. Direi che ti eri lasciato prendere dal panico e non riflettevi.
— Quando hanno detto che dovevo salire la montagna, abbandonando l’asse, stavo per lasciarmi prendere di nuovo dal panico. Quando tu hai detto che saresti venuta, mi è sembrato… Lo sai. Come se avessi una possibilità.
Stava cercando di ringraziarla, ma lei non sapeva come accettare un ringraziamento.
— Perché hai parlato di commedia?
— Non so. — Hugh continuò a guardare il prato. Miglia d’erba alta, senza fiori, verde e argentea nella luce immutabile, lievemente piegata dal vento. Il cielo era vuoto. Né un uccello, né una nuvoletta. — La spada, credo.
— Pensi che non ne avrai bisogno?
— Averne bisogno? — Lui la guardò, piuttosto stupidamente.
— A che serve? Contro cosa dovresti combattere, con quella?
— Non so.
— E se non dovessi neppure combattere… se non servisse? Se c’è qualcosa, quassù, una specie di essere potentissimo o qualcosa di simile, perché non ci hanno detto che cos’è? E se fosse inutile tentare di combattere?
— Perché ci avrebbero ingannati? — chiese Hugh.
— Perché non possono fare altro. Non voglio dire che il Nobile Horn sia malvagio. Non so cosa sia. Non puoi dire che quello che fanno sia bene o male. Come hai detto tu, fanno ciò che devono fare. Il Padrone parlava di fare un patto, di pagare. Intendeva… non so cosa intendeva. Non capisco, ecco, non so cosa stiamo cercando di fare, qui.
Hugh si passò di nuovo la mano tra i folti capelli sudati. — Ma non dovevi venire quassù — disse con quel suo modo di fare gentile e ostinato.
— Sì, dovevo venire. Non so. Dovevo. Era tempo di andare.
— Ma perché da questa parte? Avresti potuto andare semplicemente a casa.
— A casa! — disse lei.
Lui non rispose, per un po’. Poi annuì. — Immagino — disse. E dopo un momento: — Proseguiamo. Continuo a pensare che presto verrà buio.