LIBRO QUINTO

CAPITOLO PRIMO

PELL: MOLO AZZURRO: A BORDO ECS 1 EUROPE; 29/11/52

Signy si abbandonò contro lo schienale della sedia, al tavolo del consiglio dell’Europe, chiuse gli occhi per un momento, e appoggiò i piedi sulla sedia accanto. La pace durò poco. Arrivò Tom Edger, insieme a Edo Porey, e presero posto al tavolo. Signy aprì un occhio, poi l’altro, rimanendo con le braccia conserte. Edger s’era seduto dietro di lei, Porey appena oltre la sedia su cui lei aveva appoggiato i piedi. Stancamente, lei accettò i convenevoli, posò i piedi sul pavimento, e si appoggiò al tavolo, fissando la parete di fronte. Non aveva voglia di parlare. Arrivò Keu e sedette, e dietro di lui venne Mika Kreshov, e prese posto fra lei e Porey. La Pacific di Sung era ancora in servizio di pattuglia, con gli sfortunati capitani dei ricognitori al suo comando in servizio continuo: attraccavano a turno per sostituire gli equipaggi. Non avrebbero abbassato la guardia, per quanto durasse l’assedio. Non si era più saputo nulla delle navi confederate che, come sapevano benissimo, erano ancora là fuori. C’era una nave, l’Hammer, un mercantile; erano sicuri che non fosse affatto un mercantile, e ronzava alla periferia del sistema trasmettendo propaganda… e sebbene fosse soltanto una nave da carico, era capace di spiccare il balzo molto prima che loro potessero mandare una nave a distanza di tiro. Un ricognitore, lo sapevano benissimo. Forse ce n’era un altro, lo Swan’s Eye, un mercantile come l’Hammer che non svolgeva attività di mercantile, e un altro di cui non conoscevano il nome, un fantasma che continuava ad apparire e a sparire sugli schermi, e che poteva essere una nave da guerra confederata… o più d’una. I mercantili rimasti nel sistema tenevano in funzione le miniere, stavano lontani da Pell e da quello che succedeva in periferia, e si occupavano dei loro affari come se non volessero ammettere la realtà, l’assenza degli altri mercantili, la flotta fantasma al limitare del sistema, le navi-spia che li tenevano d’occhio, e controllavano l’intera situazione.

E altrettanto faceva la stazione, che tentava di riportare la normalità in alcune delle sue sezioni, con i militari in servizio e i militari in libera uscita presenti dovunque. Il comando della Flotta aveva dovuto concedere la libera uscita. Era impossibile tenere bloccati nei moli le truppe e gli equipaggi, quando c’erano le tentazioni di Pell a portata di mano, mentre gli alloggi a bordo delle navi erano spartani e affollati.

E questo presentava le sue difficoltà.

Entrò Mazian, impeccabile come sempre. Sedette. Dispose i fogli sul tavolo… si guardò intorno. I suoi occhi indugiarono a lungo su Signy. — Comandante Mallory, credo sia meglio ascoltare per primo il suo rapporto.

Lei prese senza fretta le carte che aveva davanti, si alzò e cominciò a parlare. — Il 28/11/52 alle ore 2314 sono entrata al numero 0878 azzurro di questa stazione, un numero residenziale di una sezione riservata, in base a una voce che era arrivata al mio ufficio, con l’ausilio del mio comandante delle truppe, maggiore Dison Janz, e di venti militari corazzati del mio comando. Ho scoperto il tenente Benjamin Goforth, il sergente Bila Mysos, entrambi dell’Europe, e altri quattro militari in quell’appartamento di quattro locali. Abbiamo trovato droghe e liquori. I militari e gli ufficiali che si trovavano nell’appartamento hanno protestato verbalmente per il nostro intervento, ma i soldati semplici Mila Erton e Tomas Centia erano ubriachi al punto di non essere in condizioni di riconoscere l’autorità. Ho ordinato una perquisizione, durante la quale sono stati scoperti altri quattro individui: maschio di ventiquattro anni, maschio di trentun anni; maschio di ventinove anni; femmina di diciannove anni, tutti civili; tutti spogliati, con segni di scottature e altri maltrattamenti, chiusi in una stanza. In una seconda stanza c’erano casse contenenti liquori e medicinali prelevati dalla farmacia della stazione, come da relative etichette; inoltre una scatola contenente centotredici pezzi di gioielleria, e un’altra contenente centocinquantotto serie di carte d’identità civili e carte di credito di Pell. C’era inoltre un foglio scritto, che ho allegato al rapporto, elencante oggetti di valore e cinquantadue membri dell’equipaggio e delle truppe della Flotta, diversi da coloro che erano presenti sul posto, con certi oggetti di valore abbinati ai nomi stessi. Ho contestato al tenente Benjamin Goforth quanto sopra e gli ho chiesto spiegazioni. La sua risposta è stata: «Se vuole la sua parte non c’è bisogno di fare tanto chiasso. Quanto?». Io: «Signor Goforth: Sporca carogna. Sporca lurida carogna». «Dica quanto vuole». A questo punto ho rinunciato a discutere con il tenente Goforth e gli ho sparato al ventre. La registrazione mostra che le proteste dei suoi compagni sono cessate a questo punto. I miei soldati li hanno arrestati senza ulteriori incidenti e li hanno consegnati all’Europe, dove si trovano detenuti. Il tenente Goforth è morto sul posto, dopo aver fatto una confessione dettagliata che è in allegato. Ho ordinato di consegnare all’Europe gli oggetti trovati nell’appartamento, e così è stato fatto. Ho ordinato di liberare i civili di Pell dopo le procedure d’identificazione, avvertendoli che sarebbero stati arrestati se i dettagli della cosa fossero diventati di pubblico dominio. Ho restituito l’appartamento alla stazione dopo che è stato completamente sgomberato. Fine del rapporto. Seguono allegati.

Mazian non aveva smesso di aggrottare la fronte. — Secondo le sue osservazioni, il tenente Goforth era ubriaco?

— Secondo le mie osservazioni, aveva bevuto.

Mazian agitò leggermente una mano per invitarla a sedersi. Signy obbedì, con una smorfia. — Ha omesso di spiegare la ragione specifica di questa esecuzione. Preferirei che venisse espressa, per chiarezza.

— È stato il rifiuto di riconoscere un arresto effettuato non soltanto da un maggiore delle truppe, ma da un comandante della Flotta. La sua azione è stata pubblica. Anche la mia risposta lo è stata.

Mazian annuì lentamente, sempre con sguardo cupo. — Stimavo il tenente Goforth e per abitudine, nella Flotta, comandante Mallory, è inteso tacitamente che le truppe non sono soggette alla più rigorosa disciplina degli equipaggi. Questa… esecuzione, comandante, impone un grave peso agli altri comandanti che ora saranno costretti a prendere decisioni in questioni simili. Lei li costringe a sostenere la sua durezza contro le loro truppe e i loro equipaggi… o a dichiararsi apertamente in disaccordo limitandosi a fare alle truppe le reprimende che normalmente meriterebbero tali attività; e in questo caso appariranno eccessivamente longanimi.

— La ragione, signore, è il rifiuto di un ordine.

— Ne è stata presa nota, e questa sarà l’imputazione. I militari riconosciuti colpevoli dalla corte marziale di aver partecipato al rifiuto saranno trattati nel modo più severo; gli astanti saranno accusati d’imputazioni minori.

— Imputazioni di premeditata violazione della sicurezza che contribuisce ad aggravare la situazione. Sto facendo progressi con il nuovo sistema delle carte d’identità, signore, ma quelle vecchie sono ancora valide in molte aree della stazione, e il personale trovato in quell’appartamento era direttamente implicato nel mercato nero dei documenti d’identità, a detrimento delle mie operazioni.

Si sollevarono alcuni mormoni di protesta e il cipiglio di Mazian diventò ancora più cupo. — Lei si è trovata di fronte a una situazione che forse non aveva altre soluzioni. Ma vorrei farle notare, comandante Mallory, che vi sono altre interpretazioni che influiscono sul morale della Flotta; il fatto che non è stato arrestato nessuno della Norway, e che nessuno figura sul famigerato elenco. Si potrebbe osservare che in questo caso la segnalazione le è stata fatta pervenire deliberatamente da qualche individuo interessato, un membro delle sue truppe.

— Nessuno della Norway era implicato.

— Lei stava operando al di fuori della competenza della sua amministrazione. La sicurezza interna è competenza del comandante Keu. Perché non è stato informato prima dell’irruzione?

— Perché erano coinvolti militari dell’India. — Signy guardò direttamente in faccia Keu e gli altri, poi tornò a fissare Mazian. — Non sembrava un’operazione importante.

— Tuttavia i suoi militari sono sfuggiti alla rete.

— Non erano implicati, signore.

Vi fu un attimo di silenzio. — Piuttosto sicura, eh?

Signy appoggiò le braccia sul tavolo e ricambiò l’occhiata di Mazian. — Io non permetto alle mie truppe di dormire nella stazione e tengo rigorosamente nota dei loro spostamenti. Sapevo dov’erano. E nessuno della Norway è implicato nel traffico. E dato che me ne chiedete conto, desidero fare una precisazione: ho disapprovato le misure già quando sono state proposte e vorrei che le disposizioni venissero modificate. Le truppe sono da una parte oberate di lavoro e dall’altra hanno troppa libertà… lavorano fino a quando crollano per la stanchezza e poi sono libere fino a quando crollano ubriache… questa è la politica attuale, che io non ho autorizzato al mio personale. I turni di servizio hanno durate ragionevoli e la libera uscita è limitata a quella stretta fascia dei moli, sotto la diretta osservazione dei miei ufficiali per il breve tempo che viene accordata. E il personale della Norway non era coinvolto in questa situazione.

Mazian si rabbuiò e dilatò le narici. — E allora parliamo, Mallory. Lei è sempre stata crudele e dispotica. È questa la fama che si è fatta. E lo sa.

— È possibile.

— A Eridu ha fatto sparare contro le sue truppe. Ha ordinato a un’unità di aprire il fuoco contro un’altra.

— La Norway ha i suoi princìpi.

Mazian trasse un profondo respiro. — Anche le altre navi, comandante. La sua politica può funzionare sulla Norway, ma i vari comandi comportano esigenze diverse. Noi siamo particolarmente bravi nel lavorare indipendentemente; l’abbiamo fatto per troppo tempo. Ma io, adesso, ho la responsabilità di rimettere insieme la Flotta e di farla funzionare. Sono alle prese con una mentalità indipendente che ha trattenuto la Tibet e la North Pole là fuori quando il buon senso avrebbe dovuto suggerire di rientrare. Due navi perdute, Mallory. E adesso lei mi ha scaricato addosso una situazione in cui una nave si ritiene diversa dalle altre, e poi compie un’irruzione indipendente in un’attività certamente illecita che coinvolge tutti gli altri equipagggi della Flotta. Si dice che quell’elenco avesse una seconda pagina, lo sa? E che sia stata distrutta. Questo è un problema morale. Se ne rende conto?

— Mi rendo conto del problema e mi dispiace sinceramente; nego che ci fosse un’altra pagina, e mi offende l’insinuazione che le mie truppe abbiano segnalato la situazione perché spinte dall’invidia. Getta su di loro una luce che mi rifiuto di accettare.

— D’ora innanzi le truppe della Norway seguiranno lo stesso programma stabilito per il resto della Flotta.

Signy si appoggiò allo schienale. — La ritengo una politica che provoca ammutinamenti, e mi viene ordinato di imitarla?

— Il fattore distruttivo, Mallory, non è il piccolo giro di mercato nero che si crea inevitabilmente ogni volta che le truppe lasciano le navi, bensì la presunzione che una nave possa agire come vuole in contrapposizione alle altre. Non possiamo permettercelo, Mallory, e io rifiuto di tollerarlo, a qualunque titolo. Questa Flotta ha un comandante supremo… oppure lei intende mettersi all’opposizione?

— Accetto l’ordine — borbottò Signy. L’orgoglio di Mazian, l’orgoglio così suscettibile di Mazian. Erano arrivati alla linea che non si poteva varcare, quando i suoi occhi assumevano quell’espressione. Signy si sentì nauseata e provò l’impulso di spaccare qualcosa. Rimase seduta, in silenzio.

— Il problema del morale esiste — continuò Mazian, più disinvolto, abbandonandosi contro lo schienale con uno di quei gesti teatrali che usava per liquidare gli argomenti che aveva deciso di non discutere. — È ingiusto attribuire la responsabilità soltanto alla Norway. Mi perdoni. Mi rendo conto che in molte cose ha ragione… ma ci troviamo in una situazione difficile. Là fuori ci sono i confederati. Lo sappiamo. Pell lo sa. Le truppe lo sanno, ma non sanno quel che sappiamo noi, e questo li rende nervosi. Si divertono come possono. Vedono nella stazione una situazione men che ottimale: carenze, mercato nero… e soprattutto l’ostilità dei civili. Non partecipano ai provvedimenti che stiamo prendendo per rimediare. E anche se vi partecipassero, ci sarebbe sempre la Flotta della Confederazione che è là, e attende il momento per attaccare: c’è una nave-spia dei confederati, là fuori, e noi non possiamo farci niente. Non c’è neppure un traffico normale, sulla stazione. Stiamo cominciando ad azzuffarci tra noi… e non è esattamente quel che spera la Confederazione? Tenerci qui bloccati fino a farci marcire? Non vogliono incontrarci in battaglia; costerebbe troppo caro, anche se riuscissero a scacciarci. E non vogliono correre il rischio che ci disperdiamo e incominciamo un’attività di guerriglia… perché c’è Cyteen, la loro capitale, troppo vulnerabile se uno di noi decidesse di attaccarla a ogni costo. Sanno che cosa si troverebbero per le mani, se noi uscissimo di qui. Perciò aspettano. Ci tengono nell’incertezza. Si augurano che restiamo qui in una falsa speranza e ci lasciano abbastanza tranquillità perché a noi convenga non muoverci. Giocano d’azzardo; probabilmente stanno radunando le forze, adesso che sanno dove siamo. E hanno ragione… noi abbiamo bisogno di riposo e di un rifugio. È la cosa peggiore per le truppe, ma che altro possiamo fare? Abbiamo un problema. E mi propongo di dare alle nostre truppe un’idea del guaio, qualcosa che le svegli e le convinca che c’è ancora possibilità di combattere. Andremo a prendere le provviste che a Pell scarseggiano. I mercantili stanno prudentemente alla larga da noi… non possono arrivare lontano o viaggiare molto in fretta. E le miniere hanno altre risorse, le provviste che le mantengono. Manderemo di ronda una seconda nave.

— Dopo quello che è successo alla North Pole… — borbottò Kreshov.

— Con la dovuta prudenza. Terremo pronte tutte le navi che sono alla stazione e non ci allontaneremo troppo. C’è una rotta che può portare una nave vicino alle miniere senza allontanarla troppo da qui. Kreshov, affido il compito a lei, che ha una prudenza ammirevole. Si procuri le provviste che ci occorrono, e dia una lezione, se è necessario. Un’azione aggressiva da parte nostra soddisferà le truppe e migliorerà il morale.

Signy si morse le labbra e si tese verso Mazian. — Mi offro volontaria per la missione. Lasci tranquillo Kreshov.

— No — disse Mazian, e si affrettò ad alzare una mano. — Senza offesa, anzi. Il suo lavoro qui ha un’importanza vitale, e lei lo svolge in modo eccellente. L’Atlantic andrà in pattuglia. Rimetterà al passo qualche mercantile e ristabilirà il traffico della stazione. Ne farà saltare uno, se sarà necessario, Mika. Sia chiaro. E li paghi con la moneta dell’Anonima.

Tutti scoppiarono a ridere. Signy restò cupa. — Comandante Mallory — disse Mazian, — mi sembra scontenta.

— Sparare mi deprime — disse lei, cinicamente. — E mi deprime anche la pirateria.

— Un’altra discussione politica?

— Prima di intraprendere un’operazione su scala così vasta, vorrei vedere qualche sforzo per arruolare i mercantili, anziché farli esplodere. Ci hanno aiutati contro la Confederazione.

— Non potevano andarsene. C’è una bella differenza, Mallory.

— Bisognerebbe ricordare… quali erano là fuori con noi. Quelle navi vanno trattate in modo diverso.

Mazian non era dell’umore adatto per ascoltare le sue ragioni, quel giorno. Aveva le guance arrossate e gli occhi minacciosi. — Mi lasci finire di dare gli ordini, cara amica. Questo verrà tenuto in considerazione. I mercantili di quella categoria avranno privilegi speciali, quando attraccheranno alla stazione; e presumiamo anche che non saranno tra quelli che si rifiuteranno di rientrare.

Signy annuì e cancellò scrupolosamente l’espressione di risentimento dal proprio volto. Era pericoloso rubare la scena a Mazian. Era enormemente vanitoso, e qualche volta quella vanità controbilanciava le sue qualità migliori. Avrebbe fatto quel che era sensato. Lo aveva sempre fatto. Ma qualche volta la sua collera durava… a lungo.

— Vorrei fare osservare — intervenne la voce profonda di Porey, — che contrariamente alle speranze espresse dalla Mallory circa un aiuto locale, abbiamo un problema sulla Porta dell’Infinito. Emilio Konstantin schiocca le dita e ottiene tutto quello che vuole dai suoi operai. Ci procura le provviste che ci servono, e noi lo sopportiamo. Ma lui sta aspettando. E sa di essere necessario, in questo momento. Se porteremo i mercantili alla stazione avremo tra i piedi altri potenziali Konstantin, e per giunta li avremo qui, attraccati a fianco delle nostre navi.

— Non è probabile che facciano qualcosa che potrebbe causare rischi a Pell — disse Ken.

— E se uno fosse un confederato? Sappiamo molto bene che si sono infiltrati nei mercantili.

— È opportuno riflettere — disse Mazian. — Ci ho pensato… ed è una delle ragioni, comandante Mallory, per cui sono riluttante a usare le maniere forti per reclutare quei mercantili. Sono problemi potenziali. Ma abbiamo bisogno di rifornimenti e quel materiale non è reperibile altrove. Sopporteremo quel che dovremo sopportare.

— E allora diamo un esempio — disse Kreshov. — Facciamo fuori quel bastardo. È un guaio che ci minaccia.

— In questo momento — disse lentamente Porey, — Konstantin e la sua squadra lavorano diciotto ore al giorno… con efficienza, in fretta e bene. Questo non l’otterremmo con altri metodi. Lo liquideremo quando le cose potranno funzionare senza di lui.

— E lui lo sa?

Porey alzò le spalle. — Vi dirò io perché abbiamo in pugno il signor Emilio Konstantin. C’è un luogo dove stanno parecchi indigeni e il resto degli umani. Un ottimo bersaglio. E lui lo sa.

Mazian annuì. — Konstantin è un problema minimo. Abbiamo preoccupazioni ben più gravi. E questo è il secondo problema da discutere. Se possiamo evitare altre irruzioni contro le nostre truppe… preferirei cercare i sovversivi e i dirigenti fuggitivi della stazione.

Signy avvampò in viso, ma mantenne un tono calmo. — Il nuovo sistema sta entrando in funzione il più rapidamente possibile. Il signor Lukas collabora. Abbiamo identificato 14.947 individui fino a questa mattina, e abbiamo consegnato loro le nuove carte. C’è un sistema di tessere completamente nuovo e nuovi codici individuali con serrature a voce per certi impianti. Preferirei che ci fosse qualcosa di meglio, ma le unità di Pell non sono adatte. Altrimenti, non avremmo neppure avuto questo problema di sicurezza.

— Ed è possibile che abbiate consegnato le carte a quel Jessad?

— No. Non è probabile. Quasi tutti i fuggitivi si stanno trasferendo nelle aree non ancora modificate, dove continuano a funzionare le loro tessere rubate… per il momento. Li troveremo. Abbiamo un identikit di Jessad e le fotografie degli altri. Credo che fra una settimana o due cominceremo l’azione finale.

— Ma tutte le aree operative sono sicure?

— Le disposizioni di sicurezza per la centrale di Pell sono risibili. Ho presentato raccomandazioni perché vengano apportate modifiche.

Mazian annuì. — Quando potremo distaccare operai dalle riparazioni dei danni. La sicurezza del personale?

— L’eccezione più vistosa è la presenza degli indigeni nell’area isolata di azzurro uno quattro. La vedova di Konstantin, sorella di Lukas. È invalida, e gli indigeni sono disposti a fare di tutto per proteggerla.

— Questa è una lacuna — disse Mazian.

— Ho un collegamento diretto con lei. Collabora in pieno, mandando gli indigeni nelle aree necessarie. In questo momento ci è utile, come suo fratello.

— Finché lo sono entrambi — disse Mazian, — valgono le stesse condizioni.

Poi vennero le discussioni di dettagli noiosi che avrebbero potuto essere sbrigati dai computer. Signy sopportò, cupamente; aveva il mal di testa e la pressione le gonfiava le vene delle mani, ma continuava a prendere appunti e ad intervenire.

Viveri, acqua; pezzi di ricambio… ogni nave stava facendo un carico completo per prepararsi a fuggire di nuovo, se fosse stato necessario. Le riparazioni dei danni più gravi e altre riparazioni di minor conto che erano state rinviate a lungo nel corso delle operazioni. Revisione completa, pur mantenendo la Flotta mobile il più possibile.

La difficoltà più grave era costituita dai rifornimenti. Settimana dopo settimana, la speranza che i mercantili più ardimentosi tornassero era diminuita. C’erano sette navi che tenevano una stazione e un pianeta, ma pochi mercantili ad autonomia limitata per rifornirle, con la loro unica fonte di certi manufatti… quelli che gli stessi mercantili avevano a bordo per uso proprio.

Erano assediati, senza i mercantili che li aiutassero, i mercantili a grande autonomia che avevano continuato ad andare e venire liberamente anche nei momenti peggiori della guerra. Adesso non potevano sperare di arrivare alle stazioni delle Stelle delle Retrovie… e anche là restava ben poco. Erano vecchie, saccheggiate, e alcune probabilmente erano diventate instabili… dopo tanto tempo che nessuno se ne occupava. Da sole, le navi da guerra non potevano fare tutto il lavoro di trasporto necessario. Senza i mercantili a grande autonomia, Pell era l’unica stazione funzionante che ancora rimaneva, escluso Sol.

Pensieri sgradevoli passavano per la mente di Signy Mallory, come succedeva regolarmente da quando le operazioni, a Pell, avevano cominciato ad andar male. Di tanto in tanto alzava gli occhi verso Mazian, e verso la faccia magra e preoccupata di Tom Edger. L’Australia di Edger accompagnava l’Europe più spesso di tutte le altre… da molto tempo. Edger era al secondo posto in ordine di anzianità, mentre lei era al terzo; ma c’era un abisso fra secondo e terzo. Edger non parlava mai in consiglio. Non aveva mai niente da dire. Parlava con Mazian in privato, gli dava suggerimenti, era l’eminenza grigia: Signy lo sospettava da un pezzo. Se c’era qualcuno, tra i presenti, che conosceva le intenzioni di Mazian, quello era Edger.

L’unica stazione, oltre a Sol.

Dunque erano in tre a saperlo, pensò cupamente, e non disse nulla. Avevano fatto molta strada… dalla Flotta dell’Anonima a questo. Sarebbe stata un’enorme sorpresa, per i bastardi dell’Anonima, sulla Terra e sulla stazione di Sol, trovarsi la guerra sulla porta di casa… veder prendere la Terra come era stata presa Pell. E sette navi potevano riuscirci, contro un mondo che aveva rinunciato ai voli interstellari, e che aveva, come Pell, soltanto mercantili ad autonomia limitata e pochi caccia… con la Confederazione che stava arrivando alle loro calcagna. La Terra era una casa di vetro. Non poteva combattere… e vincere.

Signy non perdeva il sonno, per questo. Non ne aveva l’intenzione. Era sempre più convinta che l’intera operazione di Pell servisse solo per tenere occupato il personale, che Mazian stesse facendo esattamente quello che lei aveva sempre consigliato: tenere occupati gli equipaggi e i comandanti e le truppe, mentre la vera operazione era quella sulla Porta dell’Infinito e quello che Mazian progettava di fare con le miniere e i mercantili, la raccolta degli approvvigionamenti, le riparazioni, l’identificazione del personale della stazione, la cattura dei fuggitivi che potevano comparire all’improvviso e facilitare la presa di possesso da parte della Confederazione. Il suo lavoro.

Ma non c’erano mercantili da requisire e da usare per il trasporto, e nessuna nave da guerra era disposta a diventare un mezzo per caricare i profughi. Non potevano. Non c’era posto. Non era poi così strano che Mazian non parlasse, rifiutasse di parlare dei piani d’emergenza che, sotto vari pretesti, erano già in atto. Andava prendendo forma un copione: il computer della stazione esploso, perché loro avevano tutte le nuove chiavi del computer; la base della Porta dell’Infinito gettata nel caos con l’eliminazione dell’unico uomo che la teneva insieme, e il massacro di quella moltitudine radunata, umani e indigeni, in modo che gli indigeni non avrebbero lavorato mai più per gli uomini; la stazione lanciata in un’orbita discendente; e loro che correvano verso un punto di balzo, con uno schermo di mercantili che potevano causare solo intralci alla navigazione. Un balzo per raggiungere le Stelle delle Retrovie e poi, in rapida successione, lo stesso Sol…

Mentre la Confederazione doveva decidere se voleva salvare per se stessa una stazione affollata e una base, e lottare contro il caos sulla Porta dell’Infinito, che avrebbe ridotto alla fame la stazione, anche se ci fossero stati aiuti… o lasciar morire Pell e lanciarsi all’attacco, senza avere alle spalle una base più vicina di Viking… una distanza enorme dalla Terra.

Bastardo, disse fra sé a Mazian, guardandolo di sottecchi. Era tipico di Mazian, anticipare le mosse dell’avversario e pensare l’impensabile. Era il migliore. Lo era sempre stato. Signy gli sorrise, mentre lui dava ordini secchi e precisi, ed ebbe la soddisfazione di vedere il grande Mazian che per un momento perdeva il filo dei suoi pensieri. Poi Mazian si riprese e proseguì, ma di tanto in tanto continuò a lanciarle occhiate, dapprima perplesso, e poi con crescente calore.

Quindi, adesso, erano sicuramente in tre a sapere.

— Sarò sincera con voi — disse agli uomini e alle donne riuniti nella camera delle tute, sul ponte inferiore, l’unico posto della Norway dove poteva riunire le truppe e vederle bene, anche se ammassate spalla a spalla. — Non sono contenti di noi. Mazian non è soddisfatto del modo in cui comando questa nave. Sembra che nessuno di voi sia sull’elenco. Sembra che questo dia fastidio agli altri equipaggi, e corre voce che l’elenco sia stato manomesso, e che la soffiata sia stata dovuta alla rivalità del mercato nero fra la Norway e le altre navi… Silenzio! Quindi ho ricevuto ordini superiori. Avrete libere uscite secondo lo stesso programma e alle stesse condizioni delle altre truppe; e avrete anche i turni di servizio secondo lo stesso programma. Non intendo fare commenti, se non per complimentarmi con voi per l’ottimo lavoro e per dirvi altre due cose: mi sono sentita onorata a nome della Norway perché nessuno dei nostri è coinvolto in quella faccenda della sezione azzurra; in secondo luogo… vi chiedo di evitare le discussioni con le altre unità, quali che siano le voci che corrono e le provocazioni. Sembra che ci sia un certo rancore, e me ne assumo personalmente la responsabilità. Apparentemente… be’, lasciamo stare. Qualche domanda?

Un silenzio di tomba. Nessuno si mosse.

— Passate parola a quelli del turno che rientreranno prima che io abbia la possibilità di farlo personalmente. Le mie scuse, le mie scuse personali per ciò che viene apparentemente attribuito a torto da altri ai miei subordinati. Potete andare.

Nessuno si mosse, neppure questa volta. Signy girò sui tacchi, e si avviò verso l’ascensore, per tornare nel suo alloggio.

— Buttateli nel vuoto — borbottò una voce dietro di lei. Si fermò di colpo, senza voltarsi.

Norway! — gridò qualcuno; e un altro: — Signy! — In un momento, tutta la nave echeggiò.

Signy si avviò di nuovo verso l’ascensore aperto, e trasse un profondo sospiro di soddisfazione. Sarebbe stata una gran bella cosa poterlo buttare nel vuoto, se Conrad Mazian credeva di poter tenere in pugno la Norway. Lei aveva incominciato, con le truppe; e anche Di Janz avrebbe avuto qualcosa da dir loro. Ciò che minacciava il morale della Norway minacciava delle vite, minacciava i riflessi che loro avevano impiegato anni a costruire.

E il suo orgoglio. Anche quello. Il volto le bruciava ancora quando entrò nell’ascensore e premette il pulsante. Le grida che echeggiavano nei corridoi erano un balsamo per il suo orgoglio che, lo ammetteva, era smisurato quanto quello di Mazian. Seguire gli ordini, certo; ma lei aveva calcolato l’effetto sulle truppe e sull’equipaggio; e nessuno poteva darle ordini circa quello che accadeva a bordo della Norway. Neppure Mazian.

CAPITOLO SECONDO

PELL: SETTORE VERDE NOVE; 6/1/53

L’indigeno era di nuovo con lui, una piccola ombra bruna che non si notava nel traffico del nove. Josh si soffermò nel corridoio danneggiato dai tumulti, appoggiò il piede su un ripiano e finse di assestarsi lo stivale. L’indigeno gli toccò il braccio, si chinò arricciando il naso e lo sbirciò. — Konstantin-uomo lui bene?

— Sì — disse Josh. Era l’indigeno che si chiamava Denteazzurro e che veniva da loro quasi ogni giorno, e faceva servizio come messaggero tra loro e la madre di Damon. — Adesso abbiamo un buon nascondiglio. Niente più guai. Damon è al sicuro e l’uomo non dà più fastidio.

La robusta mano pelosa cercò la sua, e gli passò un oggetto. — Tu porti a Konstantin-uomo? Lei dato, dice avere bisogno.

L’indigeno sgattaiolò via in fretta in mezzo al traffico. Josh si raddrizzò, resistendo alla tentazione di guardarsi intorno e di guardare l’oggetto metallico fino a quando fu più lontano. Era una spilla di metallo, forse d’oro vero. L’intascò, pensando che per loro era un tesoro, si poteva vendere sul mercato, e non richiedeva nessuna tessera, e poteva servire a comprare qualcuno altrimenti incorruttibile… come il proprietario del loro alloggio attuale. L’oro serviva ad altri usi, oltre la gioielleria; i metalli rari valevano molte vite… al prezzo attuale. E si stava avvicinando il giorno in cui sarebbe stata necessaria una maggiore persuasione per tenere nascosto Damon. Una donna di gran buon senso, la madre di Damon. Aveva occhi e orecchi in tutti gli indigeni che si aggiravano innocui per i corridoi, e sapeva che erano alla disperazione… e ancora offriva un aiuto che Damon non avrebbe accettato, perché Damon, soprattutto, non voleva che il sistema degli indigeni venisse perquisito.

La rete si stava chiudendo intorno a loro. L’area dei corridoi utilizzabili si restringeva. Veniva installato un sistema nuovo, nuove tessere, e le stazioni sgombrate dalle truppe restavano libere. Quelli che si trovavano in una sezione quando le truppe la isolavano venivano rastrellati, e i loro nomi venivano controllati sugli elenchi dei ricercati; poi ricevevano nuove carte d’identità… quasi tutti. Alcuni sparivano, punto e basta. E il nuovo sistema colpiva sempre più duramente il mercato nero, via via che si avvicinava. Il valore dei documenti precipitava, perché sarebbero rimasti validi solo fino al momento in cui il cambiamento si sarebbe completato, e la gente cominciava già a diffidare di quelli vecchi. Di tanto in tanto un allarme silenzioso si diffondeva dal computer, e le truppe andavano in un certo luogo e cominciavano a cercare qualcuno… come se in maggioranza gli individui che vivevano nelle sezioni non ancora sicure usassero i propri documenti. Ma i militari facevano domande e controllavano le carte d’identità… tenevano le aree aperte alle loro irruzioni, e mantenevano nel terrore la popolazione; ciascuno sospettava degli altri, e questo tornava utile a Mazian.

Ma permetteva loro di sopravvivere. Era la loro attività, per lui e per Damon, quella di ripulire i documenti. Era questo, il loro valore nel sistema del mercato nero. Un acquirente voleva controllare il valore di una tessera rubata, voleva assicurarsi che non facesse suonare l’allarme nel computer, o voleva il numero di codice della banca per prelevare i crediti… i bar e i dormitori dei moli non badavano a controllare se le facce corrispondevano alle fotografie delle carte d’identità. E Damon aveva i numeri d’accesso per farlo. Anche Josh aveva imparato, e così lavoravano in società e nessuno dei due era costretto ad avventurarsi troppo spesso nei corridoi. Era diventata quasi una scienza… usare le gallerie degli indigeni e persino attraversare le barriere fra le sezioni — Denteazzurro aveva mostrato loro come si faceva — in modo che nessun terminal del computer si trovasse alle prese con una serie di richieste. Non avevano mai fatto scattare un allarme, anche se alcune delle carte scottavano pericolosamente. Erano abili; avevano un mestiere, creato dallo stesso Mazian, che serviva a dar loro vitto, alloggio e un nascondiglio, grazie alla protezione che il mercato nero poteva dare a operatori tanto preziosi. Al momento, Josh aveva in tasca parecchie tessere, e conosceva il valore di ciascuna secondo il livello di autorizzazione e l’accredito in banca. In molti casi, l’accredito era zero. Le famiglie dei dispersi si erano fatte furbe in fretta, e il computer aveva cominciato a onorare le loro richieste, e a congelare i conti… così si diceva, e probabilmente era vero. Ormai, molte tessere erano un guaio. Lui ne aveva alcune utilizzabili, nel mazzo, e una raccolta di numeri di codice. Le tessere che erano appartenute a persone senza famiglia o con conti indipendenti erano le sole che valevano ancora.

Ma si preannunciavano cambiamenti ancora più rapidi. Forse era la sua immaginazione, ma i corridoi, a tutti i livelli del verde, quel giorno sembravano più affollati del solito. Forse era così. Tutti quelli che non osavano sottoporsi all’identificazione e alle nuove tessere avevano continuato ad affollarsi in aree sempre più ristrette… verde e bianco restavano settori aperti, ma a lui personalmente il bianco cominciava a dare sui nervi, e preferiva non restarci più del necessario… non aveva sentito nessuna voce, ma c’era qualcosa in aria, qualcosa che annunciava che un altro settore stava per venire chiuso… ed era probabile che toccasse al bianco.

La sezione verde era quella con i grandi ritrovi, e un minor numero di strozzature dove era possibile combattere ostinatamente di camera in camera, di corridoio in corridoio… se si fosse arrivati a questo. Josh immaginava un’altra fine; quando tutti i problemi che Mazian aveva a Pell sarebbero stati circoscritti ad un’unica sezione, lui l’avrebbe fatta semplicemente esplodere, e cioè avrebbe decompresso quella sezione, e loro sarebbero morti senza una sola possibilità di salvarsi.

Alcuni si erano procurati tute pressurizzate, la merce che scottava di più al mercato nero, e le sorvegliavano, armati fino ai denti e sospettosi, sperando di sopravvivere contro ogni logica. In maggioranza prevedevano di morire. C’era un’atmosfera di disperazione in tutto il settore verde, mentre quelli che ormai s’erano rassegnati a farsi catturare si trasferivano nel bianco. Il verde e il bianco diventavano sempre più strani, e sulle pareti apparivano scarabocchi con slogan bizzarri, alcuni osceni, alcuni religiosi, alcuni patetici. Noi vivevamo qui, diceva uno. Era tutto.

Ma alcune lampade nei corridoi erano state rotte, e quindi dovunque regnava la penombra, e la stazione non abbassava mai le luci per i turni primogiorno/altergiorno; sarebbe stato pericolosamente buio. C’erano alcuni corridoi laterali dove le luci erano spente, e nessuno entrava in quelle tane, a meno che non ci abitasse… o vi venisse trascinato a forza. C’erano bande che si combattevano per disputarsi il potere. I più deboli si aggrappavano a loro, pagavano perché non venisse fatto loro del male o forse per avere la possibilità di far male ad altri. Alcune di quelle bande erano nate nel settore Q. Alcune erano bande di Pell, che si erano formate per la difesa e poi si erano date ad altre attività. Josh le temeva tutte, indiscriminatamente, e temeva soprattutto la loro violenza irrazionale. Si era fatto crescere la barba e i capelli, camminava curvo e rimaneva sporco il più possibile, si truccava il volto con i cosmetici… anche quelli costavano cari, al mercato nero. Se c’era qualcosa di divertente, in quel luogo lugubre, era il fatto che quasi tutti, lì, si comportavano allo stesso modo: la sezione era piena di uomini e donne che desideravano disperatamente di non farsi riconoscere, ed evitavano di guardare gli altri negli occhi quando camminavano per i corridoi… Alcuni si aggiravano baldanzosi e cercavano d’intimidire gli altri, a meno che ci fossero militari nelle vicinanze… e molti sgattaiolavano come spettri impauriti, nella speranza che nessuno li riconoscesse.

Forse lui era cambiato d’aspetto al punto che nessuno lo riconosceva. Nessuno aveva mai puntato un dito verso di lui o verso Damon, in pubblico. Forse su Pell era rimasta ancora un po’ di lealtà… o forse i loro legami con il mercato nero li proteggevano, o forse quelli che li riconoscevano avevano troppa paura per fare qualcosa. Alcune delle bande erano immischiate con il mercato nero.

Qualche volta i militari passavano per i corridoi, spesso in quello di nove due, non meno abitudinari degli indigeni. Il molo verde era ancora aperto, fino all’estremità del molo bianco. E l’Africa, e qualche volta l’Atlantic o la Pacific, occupavano i primi due attracchi del verde, mentre le altre navi erano attraccate al molo azzurro, e le truppe andavano e venivano liberamente attraverso l’accesso del personale vicino ai portelli delle sezioni, da quella parte del verde. I militari entravano nel verde o nel bianco, in libera uscita o in servizio, e si mescolavano ai condannati… e i condannati sapevano che per salvarsi dovevano presentarsi a quelle truppe o alle porte d’accesso delle aree ripulite e consegnarsi. Alcuni non credevano che gli uomini di Mazian avrebbero decompresso la sezione, perché erano in rapporti amichevoli con loro. I militari si toglievano le armature, in libera uscita, e se ne andavano in giro, allegri e pimpanti, e sostavano nei bar… se ne erano riservati due o tre, certo, ma negli altri si mescolavano alla gente e qualche volta rivolgevano sorrisi benevoli al mercato nero.

Così sarebbe stato più facile sistemare le vittime quando fosse venuto il momento, pensava Josh. Avevano ancora possibilità di scelta, stavano al gioco dei militari, li evitavano e lottavano… ma bastava che qualcuno premesse un bottone nella centrale, senza nessun diretto coinvolgimento, senza essere costretto a vederli morire. Il tutto con occhio clinico e grande distacco.

Josh e Damon facevano piani assurdi e inutili. Si diceva che il fratello di Damon fosse ancora vivo. Parlavano di nascondersi su una delle navette, di prenderne una per raggiungere la Porta dell’Infinito e darsi alla macchia. La probabilità di rubare una navetta alle truppe corazzate equivaleva a quella di riuscire a raggiungere la Porta dell’Infinito a piedi, ma quei piani tenevano occupate le loro menti e accendevano la speranza.

E più realisticamente… potevano cercare di entrare nelle sezioni già sgomberate e sfidare gli allarmi delle porte d’accesso, i servizi di sicurezza, i posti di blocco a ogni angolo e l’uso delle tessere ad ogni movimento… era quella la loro vita. Opera della Mallory. Si erano informati. Troppi uomini-con-fucili, li aveva avvertiti Denteazzurro. Loro occhi freddi.

Freddi, davvero.

E intanto c’era il mercato nero e c’era Ngo.

Josh si avvicinò al bar lungo il corridoio verde nove, non per la galleria che sbucava accanto all’ingresso posteriore di Ngo, perché quella era riservata ai casi d’emergenza, e Ngo non amava che qualcuno si servisse dell’ingresso secondario senza una ragione… non voleva che nel locale venisse visto qualcuno che non era entrato dalla porta d’ingresso e non voleva far scattare gli allarmi nel computer. Nel locale di Ngo il mercato nero prosperava, e quindi cercava di essere più pulito di tanti altri bar e ritrovi lungo il molo verde e l’accesso al nove che un tempo avevano fatto quattrini grazie ai mercantili… una fila di dormitori e di teatri-video e di sale e di ristoranti, con una cappella che sembrava piuttosto anomala in quel contesto. Quasi tutti i bar erano aperti; i teatri, la cappella e alcuni dormitori erano bruciati, ma i bar funzionavano, quasi tutti come quelli di Ngo, e anche i ristoranti, che servivano per sfamare la popolazione della stazione, mentre i viveri alla borsa nera integravano quel po’ che la stazione era disposta a fornire.

Josh si guardò intorno cautamente mentre si avvicinava alla porta spalancata del bar di Ngo, senza farsi notare, camminando con aria incerta, come se cercasse semplicemente di decidere in quale bar entrare. Una faccia attirò il suo sguardo, e rimase impietrito. Indugiò un attimo e guardò in direzione di Mascari, dall’altra parte del corridoio, dove il settore nove si apriva sui moli. Un uomo alto che stava fermo all’ingresso si mosse all’improvviso ed entrò da Mascari.

La vista di Josh si appannò; un lampo della memoria così vivido che lo fece vacillare, facendogli dimenticare tutto il resto. Per quell’istante rimase vulnerabile, in preda al panico… svoltò alla cieca ed entrò nel bar di Ngo, nella luce fioca, con la musica in sottofondo e gli odori d’alcool, di cibo e di sporcizia.

Al bar c’era proprio Ngo. Josh si avvicinò, e chiese una bottiglia. Ngo gliela porse, senza chiedere la tessera. Questo sarebbe venuto dopo, nel retrobottega. Ma la sua mano tremò nel prendere la bottiglia, e Ngo gli afferrò prontamente il polso. — Guai?

— C’è mancato poco — mentì Josh… e forse non era una menzogna. — Me ne sono tirato fuori. Questione di bande. Non preoccuparti. Nessuno mi ha individuato. Niente di ufficiale.

— Ne sei sicuro?

— Nessun problema. Nervi. Sono i nervi. — Josh prese la bottiglia e si avviò verso il retro; si fermò per un momento contro la parete della cucina e attese, per essere sicuro che nessuno notasse la sua uscita.

Uno degli uomini di Mazian, forse. Il cuore gli martellava ancora per quell’incontro. Qua’cuno che teneva sotto sorveglianza Ngo. No. Era la sua immaginazione. Quelli di Mazian non avevano bisogno di tante sottigliezze. Stappò la bottiglia e tracannò un’ampia sorsata. Vino indigeno, un tranquillante a poco prezzo. Bevve una seconda sorsata e cominciò a sentirsi meglio. Gli capitavano momenti così… non molto spesso. Erano sempre terribili. Bastava qualunque cosa per scatenarli, di solito una sciocchezza, un odore, un suono, il modo sbagliato di guardare un oggetto familiare o un individuo comune… Lo turbava il fatto che fosse accaduto in pubblico. Poteva attirare l’attenzione. Forse l’aveva attirata. Decise di non uscire più, per quel giorno. Non era sicuro del domani. Bevve un altro sorso e diede un’ultima occhiata ai clienti seduti a una dozzina di tavoli, poi tornò in cucina, dove la moglie e il figlio di Ngo stavano sbrigando le ordinazioni. Lanciò ai due uno sguardo distratto, ricambiato da occhiate torve, ed entrò nel magazzino.

Aprì la porta con il comando manuale. — Damon — disse, e la tenda in fondo alla fila degli scaffali si aprì. Damon uscì, e sedette fra i contenitori che usavano come mobili, nella luce della lampada a batteria che adoperavano per sfuggire ai controlli e alla memoria infallibile del computer. Josh andò a sedersi, stancamente, e passò la bottiglia a Damon, che bevve una sorsata. Tutti e due avevano la barba lunga, ed erano sporchi e trasandati come quelli che vivevano laggiù.

— Sei in ritardo — disse Damon. — Stai cercando di farmi venire l’ulcera?

Josh estrasse le tessere dalla tasca, le riordinò a memoria, e prese appunti con una matita prima che potesse scordarsene. Damon gli diede la carta e Josh annotò i dettagli di ciascuna, mentre il suo compagno rimaneva in silenzio.

Quando ebbe finito, dispose le tessere sul bidone più vicino e riprese la bottiglia, bevve un sorso e la posò. — Ho incontrato Denteazzurro. Ha detto che tua madre sta bene. Ti manda questa. — Prese la spilla dalla tasca e restò a guardare mentre Damon la rigirava fra le mani con quell’espressione malinconica da cui si capiva che doveva avere un valore sentimentale, oltre a quello dell’oro. Damon annuì, tetro, e la intascò; non parlava molto dei suoi familiari, vivi o morti che fossero.

— Lei sa — disse Damon, — lei sa quello che sta per accadere. Può vederlo dai suoi schermi, può saperlo dagli indigeni… Denteazzurro non ha detto niente di preciso?

— Solo che tua madre pensava che ne avremmo avuto bisogno.

— Nessuna notizia di mio fratello?

— Non ne abbiamo parlato. Non eravamo nel posto adatto.

Damon annuì, trasse un profondo respiro e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, abbassando la testa. Damon viveva solo per avere quelle notizie. Quando non arrivavano si avviliva. E questo li faceva soffrire tutti e due perché Josh aveva l’impressione di essere stato lui a ferire l’amico.

— Là fuori c’è qualcosa di strano — disse Josh. — Parecchia agitazione. Ho tardato un po’ lungo la strada, per ascoltare, ma non si sa niente di nuovo. Tutti hanno paura, ma nessuno sa niente.

Damon alzò la testa, prese la bottiglia, e bevve metà del vino rimasto. — Qualunque cosa facciamo, dobbiamo farla in fretta. O entriamo nelle sezioni ormai al sicuro… o cerchiamo di arrivare alla navetta. Qui non possiamo restare.

— Oppure ci facciamo una cupola nelle gallerie — disse Josh. Secondo lui, era l’unica idea realistica. Quasi tutti gli umani avevano una paura patologica delle gallerie. E loro avrebbero potuto combattere con i pochi che avessero avuto il coraggio di entrarci. Avevano le pistole. Avrebbero potuto sopravvivere. Ma non avevano quasi più il tempo per scegliere. Non era una prospettiva allettante. E forse saremo fortunati, pensò tristemente, guardando Damon che fissava il pavimento, perduto nei suoi pensieri. Forse faranno saltare l’area.

La porta del magazzino si aprì. Ngo entrò, si avvicinò e prese le tessere. Lesse le annotazioni, sporse le labbra e aggrottò la fronte. — Sei sicuro?

— Nessun errore.

Ngo borbottò, scontento della qualità della merce, come se fosse colpa loro, e fece per andarsene.

— Ngo — disse Damon, — ho sentito dire che il mercato cerca le nuove tessere. È vero?

— Dove l’hai sentito?

Damon alzò le spalle. — Due uomini che parlavano. È vero, Ngo?

— Stanno sognando. Se trovi un modo per mettere le mani nel nuovo sistema, dimmelo.

— Ci sto pensando.

Ngo borbottò fra sé e uscì.

— È vero? — chiese Josh.

Damon scosse la testa. — Pensavo di scuotere un po’ le acque. Ngo non vuol parlare, oppure nessuno sa niente.

— Sono pronto a scommettere che è vera la seconda ipotesi.

— Anch’io. — Damon posò le mani sulle ginocchia, sospirò e poi alzò la testa. — Perché non usciamo a mangiare qualcosa? Là fuori non c’è nessuno che possa causare guai, vero?

Il ricordo che aveva abbandonato Josh riaffiorò con forza improvvisa. Aprì la bocca per parlare, e all’improvviso ci fu un rombo che fece tremare il pavimento, un’esplosione e poi uno schianto che soffocò le grida all’esterno.

— I portelli — esclamò Damon, balzando in piedi. Le grida continuarono, convulse; si udirono i tonfi delle sedie rovesciate nel locale. Damon corse alla porta del magazzino e Josh lo seguì, fino all’uscita posteriore, dov’erano già arrivati Ngo, la moglie e il figlio. Ngo aveva in mano i fogli con la sua contabilità.

— No — esclamò Josh. — Aspettate… Probabilmente erano le porte del bianco… siamo bloccati… ma c’erano militari su al nove due… non manderebbero qui le truppe se avessero intenzione di premere il bottone…

— Il comunicatore — esclamò la moglie di Ngo. Dall’unità video del locale stava arrivando un annuncio. Corsero da quella parte, nella zona adibita a ristorante, dove un gruppo di persone s’era raccolto intorno al video e uno sciacallo stava prelevando una bracciata di bottiglie dal bar. — Ehi! — urlò indignato Ngo; l’uomo arraffò altre due bottiglie e fuggì.

Sullo schermo c’era Jon Lukas. Era sempre così quando Mazian doveva dare un annuncio ufficiale alla stazione. Era diventato uno scheletro, un patetico scheletro con gli occhi incavati — … isolato — stava dicendo Lukas. — I residenti dell’area bianca e coloro che vogliono andarsene saranno autorizzati a farlo. Presentatevi all’accesso del molo verde e potrete passare.

— Stanno imbarcando tutti gli indesiderabili — disse Ngo. Il suo volto grinzoso era tutto sudato. — E noi che lavoriamo qui, signor dirigente della stazione? E le persone oneste che sono bloccate qui?

Lukas ripeté da capo l’annuncio. Probabilmente era una registrazione; non gli avrebbero mai permesso di parlare in diretta.

— Vieni — disse Damon, prendendo Josh per un braccio. Uscirono dalla porta principale e svoltarono sul molo verde; si spinsero lungo la curva, dove s’era radunata una folla che guardava in direzione del molo bianco. Non erano i soli. C’erano anche i militari che si muovevano lungo la parete sul lato opposto, fra gli attracchi e le scalette.

— Spareranno — borbottò Josh. — Damon, andiamo via di qui.

— Guarda le porte. Guarda le porte.

Josh guardò. I battenti massicci erano chiusi. L’accesso del personale, là accanto, non era aperto. Non si apriva.

— Non li lasceranno passare — disse Damon. — Era un trucco, per radunare là quelli che si erano rifugiati nei moli.

— Torniamo indietro — supplicò Josh.

Qualcuno sparò; dalla loro parte, i militari… i proiettili sibilarono sopra le loro teste e si conficcarono nelle facciate dei negozi. La gente urlò, spinse, e loro fuggirono insieme agli altri, lungo il molo, nel nove, corsero nel locale di Ngo, mentre il caos proseguiva nel corridoio. Qualcun altro cercò di seguirli, ma Ngo agitò un bastone e li scacciò, imprecando contro loro due perché si erano portati dietro quella gente.

Chiusero la porta, ma fuori la folla pensava soltanto a fuggire: la linea di minor resistenza. Le luci del locale aumentarono d’intensità, offrendo uno spettacolo di sedie rovesciate e piatti sparsi dappertutto.

In silenzio, Ngo, la moglie e il figlio cominciarono a ripulire. — Tieni — disse Ngo a Josh, porgendogli uno straccio bagnato. Ngo lanciò una seconda occhiata a Damon, ma non gli diede ordini: un Konstantin aveva ancora qualche privilegio. Ma Damon cominciò a raccattare i piatti, a rialzare le sedie e a pulire come gli altri.

Fuori tornò il silenzio; di tanto in tanto qualcuno bussava alla porta. Molte facce li guardavano attraverso la vetrata di plastica; era gente che voleva entrare, gente esausta e spaventata che voleva bere.

Ngo aprì la porta, e urlando e imprecando li lasciò entrare; poi si piazzò al banco e cominciò a distribuire da bere, senza badare al credito, per il momento. — Pagate — avvertì. — Sedetevi e faremo gli scontrini. — Alcuni se ne andarono senza pagare; altri sedettero. Damon prese una bottiglia di vino e trascinò Josh a un tavolo d’angolo. Era il loro solito posto, che permetteva di vedere la porta d’ingresso e di raggiungere senza difficoltà la cucina e il loro nascondiglio. Il comunicatore aveva ricominciato a trasmettere musica, una musica rasserenante e romantica.

Josh si prese la testa tra le mani e si augurò di trovare il coraggio di ubriacarsi. Non era possibile. C’erano i sogni. Damon bevve. Alla fine sembrò che fosse abbastanza, perché gli occhi di Damon avevano assunto quell’espressione velata e torpida che lui gli invidiava.

— Domani uscirò — disse Damon. — Sono rimasto fin troppo a lungo in quella tana… Uscirò, e magari parlerò con qualcuno, cercherò di prendere qualche contatto. Deve esserci qualcuno che non è uscito dal verde. E che deve qualche favore alla mia famiglia.

Aveva già tentato di farlo. — Ne parleremo — disse Josh.

Il figlio di Ngo portò loro il pranzo, un piatto di spezzatino. Josh ne assaggiò un po’, poi urtò Damon con il piede. Damon prese la forchetta e mangiò, ma sembrava che continuasse a pensare ad altro.

Elene, forse. Qualche volta Damon pronunciava il suo nome nel sonno. Qualche volta pronunciava il nome di suo fratello. O forse pensava ad altre cose, ad amici perduti. Probabilmente morti. Non ne avrebbe parlato, Josh lo sapeva. Passavano lunghe ore in silenzio, ognuno perduto nei propri ricordi. Josh pensava ai suoi sogni più felici, a una strada assolata, ai polverosi campi di grano su Cyteen, alle persone che gli avevano voluto bene, le facce che aveva conosciuto, vecchi amici, vecchi camerati, in posti lontani. Passavano ore e ore in quel modo, le lunghe ore solitarie che ognuno di loro trascorreva nel nascondiglio, la notte, mentre la musica del locale di Ngo faceva vibrare le pareti per quasi tutto il primogiorno e l’altergiorno, monotona e insistente, o zuccherosa e insinuante. Loro dormivano nei momenti di silenzio, e negli altri restavano sdraiati, con lo sguardo nel vuoto. Josh non disturbava le fantasie di Damon, e Damon non disturbava le sue. Non ne negavano l’importanza, perché erano l’unico conforto di cui disponevano.

C’era una cosa a cui non pensavano più: la possibilità che uno di loro si consegnasse. Avevano davanti agli occhi la faccia di Lukas, il teschio che rivelava il modo in cui Mazian trattava i suoi fantocci. Se Emilio Konstantin era ancora vivo, come dicevano… Josh si chiedeva se fosse una buona o una cattiva notizia. E non lo diceva.

— Ho saputo — disse finalmente Damon, — che forse certi membri dell’equipaggio di Mazian sono disposti a farsi corrompere. Chissà, si potrebbe cercare di ottenere qualcosa di più di semplici beni di consumo. Se ci sono falle nel loro nuovo sistema…

— È pazzesco. Non è nel loro interesse. Non stai parlando di un sacco di farina. Fai quella domanda, e ce li troveremo addosso.

— Probabilmente hai ragione.

Josh rimase a fissare il bordo del piatto. Il tempo stava passando troppo in fretta, quello era il guaio. Con la chiusura del settore bianco… anche loro erano isolati. E adesso bastava un rastrellamento che partisse dal molo o da verde uno, per controllare quelli che erano disposti ad arrendersi e uccidere tutti gli altri.

Appena avessero sistemato il settore bianco… sarebbero venuti lì. Ormai avevano incominciato, e stavano per arrivare.

— Devo provare a contattare la Flotta — disse finalmente Josh. — È probabile che i militari riconoscano più facilmente te che me. Finché starò alla larga da quelli della Norway…

Damon tacque per un momento, riflettendo. — Lasciami fare un altro tentativo. Lasciami pensare. Dev’esserci un modo per salire sulle navette. Sentirò le squadre del molo, scoprirò chi ci lavora.

Non avrebbe funzionato. Era sempre stata un’idea pazzesca.


MERCANTILE FINITY’S END; 6/1/53

Un altro mercantile. Gli arrivi non erano inconsueti. Elene sentì la segnalazione, si alzò dalla cuccetta e andò a vedere che cosa aveva inquadrato Wes Neihart.

— Come vanno le cose? — chiese a tempo debito una voce sottile. Il mercantile era apparso a rispettosa distanza, per prudenza; avrebbe impiegato un po’ di tempo per allontanarsi dal punto d’uscita dal balzo. Elene sedette nel posto libero davanti allo schermo, tastando il cuscino. Era ingrossata, e questo le dava inconsciamente fastidio; era una seccatura che aveva imparato a sopportare. Buono, gli disse mentalmente, rabbrividì e fissò lo schermo. Altri Neihart si avvicinarono per osservare.

— C’è qualcuno disposto a rispondermi? — chiese il nuovo arrivato, molto più vicino.

— Datemi l’identificazione — disse la voce di un’altra nave. — Qui è la Little Bear. Voi chi siete? Venite avanti: basta che vi identifichiate.

L’intervallo fu ancora più breve; e altri mercantili avevano cominciato a muoversi. Sul ponte della Finity’s End si era raccolta una piccola folla.

— Non mi piace — borbottò qualcuno.

— Qui è la Genevieve, in arrivo dalla Confederazione, da Fargone. Si dice che qui stia succedendo qualcosa. Com’è la situazione?

— Lasciate che risponda io — intervenne un’altra voce. — Genevieve, qui è la Pixie II. Mi faccia parlare con il vecchio, d’accordo, giovanotto?

Il silenzio durò più a lungo del previsto. Il cuore di Elene cominciò a battere più forte. Si voltò per rivolgere un cenno goffo e convulso a Neihart, ma l’allarme generale era già in corso, e Neihart aveva passato il segnale al nipote, che stava al computer.

— Qui è Sam Denton della Genevieve — disse la voce, finalmente.

— Sam, qual è il mio nome?

— Ci sono soldati qui — balbettò la Genevieve, e la voce tacque all’improvviso. Elene allungò freneticamente la mano verso il comunicatore mentre era tutto un susseguirsi di ordini che intimavano l’alt, con la minaccia di aprire il fuoco.

Genevieve. Genevieve, sono Quen dell’Estelle. Rispondete.

Nessuno sparò. Le navi sullo schermo, centinaia di navi che fluttuavano entro il raggio del punto zero, cambiarono posizione per circondare l’intrusa.

— Qui il tenente Marn Oborsk della Confederazione — disse finalmente una voce. — A bordo della Genevieve. Questa nave verrà distrutta per evitare la cattura. I Demon sono a bordo. Confermi la sua identità. I Quen sono morti. L’Estelle è una nave morta. Che nave siete?

Genevieve, non siete in condizioni di avanzare pretese. Fate uscire i Denton dalla loro nave.

Di nuovo una lunga pausa. — Voglio sapere con chi sto parlando.

Elene lasciò che il silenzio si prolungasse. Intorno a lei, sul ponte, c’era un’attività frenetica. I cannoni venivano puntati e le posizioni relative calcolate in base alla velocità, alla massa inerziale e al probabile uso dei reattori d’attracco. — Qui parla Quen. Chiediamo che facciate uscire i Denton da quella nave. Vi dico una cosa: se la Confederazione si azzarda a mettere le mani su un altro mercantile, si scatenerà l’inferno. E il porto di provenienza di qualunque nave che attacchi un mercantile o tenti di impadronirsene subirà le sanzioni della nostra alleanza. Ecco quello che sta succedendo. Guardi bene, tenente Oborsk. Siamo più numerosi delle vostre navi da guerra. Se volete che si continui a commerciare, d’ora innanzi dovrete trattare con noi.

— Che nave sta parlando?

Forse avrebbero dovuto cominciare a sparare, invece di parlare. Doveva tenerli bloccati. Elene si asciugò il viso e si voltò a lanciare un’occhiata a Neihart, che annuì: avevano inquadrato l’intrusa con il computer. — Le basti sapere che sono una Quen, tenente. Siamo molto più numerosi di voi. Come avete trovato questa zona? Avete costretto i Denton a rivelarlo? Oppure siete semplicemente entrati in contatto con la nave sbagliata? Le dirò una cosa: l’alleanza dei mercantili tratta come una sola unità. E se vuole guai a non finire, signore, provi a mettere le mani su un’altra delle nostre navi. Voi e la Flotta di Mazian potete sbranarvi quanto volete. Noi non siamo l’Anonima e non siamo la Confederazione. Siamo la terza parte in causa e d’ora innanzi negozieremo a nome nostro.

— Cosa sta succedendo, qui?

— Lei è autorizzato a negoziare o a inoltrare messaggi ai suoi superiori?

Vi fu un lungo silenzio.

— Tenente — continuò Elene, — quando negoziatori autorizzati saranno disposti a rivolgersi a noi, noi saremo pronti a discutere. Nel frattempo, abbia la cortesia di lasciare liberi i Denton. Se siete disposti a ragionare, saremo ragionevoli anche noi, altrimenti… se succederà qualcosa a qualcuno dei mercantili, ci saranno rappresaglie. Glielo assicuro.

Un lungo silenzio. — Qui Sam Denton — disse finalmente un’altra voce. — Mi è stato ordinato di riferirvi che la nave sta per tornare indietro e che a bordo c’è un congegno d’autodistruzione. Ho qui tutta la mia famiglia, Quen. È vero.

Il contatto s’interruppe. Elene lanciò un’occhiata al video e alla telemetria, vide il bagliore che ingigantiva per poi trasformarsi in un’ondata inequivocabile. Sentì una fitta allo stomaco, il bimbo si mosse… Si portò una mano sul ventre e fissò gli schermi in un momento di nausea, mentre continuavano ad arrivare le scariche.

Una mano si posò sulla sua spalla. Neihart.

— Chi ha sparato? — chiese Elene.

— Qui la Pixie II — disse una voce rude. — Ho sparato io. Stavano puntando la prua allo zenith, verso il varco, ed avevano acceso i motori. Avrebbero raccontato troppe cose.

— Ricevuto, Pixie.

— Noi andiamo — trasmise un’altra nave. — Andiamo a rastrellare l’area.

C’era almeno la possibilità che si fosse salvata una capsula… che i confederati avessero permesso ai giovani Denton di mettersi in salvo. Ma non c’erano molte speranze che una capsula fosse sopravvissuta a quell’esplosione.

Come l’Estelle a Mariner. Esattamente così. Non avrebbero trovato nulla.

Sullo schermo apparvero altri punti, presenze spettrali nell’oscurità, definiti soltanto come blip, o qualche volta dal guizzo delle luci o da un’ombra sul video, un’ombra che occultava le stelle. Erano amici… centinaia di navi che si portavano nell’area di ricerca. — Ormai ci siamo dentro — mormorò Neihart. — La Confederazione non se ne starà buona.

Ma lo sapevano tutti ormai, dal momento in cui la voce aveva incominciato a circolare, da quando i mercantili avevano cominciato a passare parola sull’origine e sul nome di chi li chiamava… una nave morta e un nome morto… in un disastro che tutti conoscevano. Era inevitabile che la Confederazione venisse a saperlo; ormai i confederati si erano accorti della strana assenza di navi nelle loro stazioni, e che i mercantili non arrivavano come previsto. Forse erano spaventati, poiché quelle sparizioni avvenivano in zone dove non potevano esserci azioni militari, ora che Mazian era bloccato a Pell. La Confederazione s’era appropriata di varie navi — ne avevano la prova, adesso — e prima di arrivare fin lì, quella nave forse aveva comunicato la rotta ad altre. La prossima mossa sarebbe stata l’invio di una nave da guerra… se la Confederazione poteva distaccarne una da Pell.

E la notizia non si era diffusa soltanto nello spazio della Confederazione. Era arrivata a Sol… perché la Winifred aveva ricordato i suoi legami con la Terra, e aveva abbandonato il carico, liberandosi del peso per balzare il più lontano possibile… aveva intrapreso quel viaggio lungo e incerto, verso un’accoglienza che non si erano immaginati. — Parlate loro di Mariner — aveva chiesto Elene. — E di Russell e di Viking e di Pell. Fate in modo che capiscano. — E loro l’avevano fatto, perché un tempo erano appartenuti alla Terra. Ma era soltanto un gesto. Non stava arrivando nessuna risposta.

Non trovarono una capsula, ma soltanto un ammasso di rottami.


PORTA DELL’INFINITO: SANTUARIO HISA 6/1/53; NOTTE LOCALE

Gli hisa avevano continuato il loro andirivieni fin dall’inizio, una tranquilla migrazione intorno al raduno ai piedi delle statue, un movimento silenzioso, discreto e reverente, per rispetto ai sognatori raccolti là a migliaia. Erano venuti di giorno e di notte, portando viveri e acqua, sbrigando le piccole cose necessarie.

Adesso c’erano cupole per gli umani, e scavi fatti dagli indigeni; i compressori palpitavano, e le cupole improvvisate erano sgraziate, ma servivano a riparare i vecchi e i bambini, e tutti gli altri, mentre la breve estate lasciava il posto all’autunno e i cieli si rannuvolavano e i giorni di sole e le notti limpide erano meno numerosi.

Sopra le loro teste sfrecciavano le navette, adibite ad un continuo lavoro di spola: ma c’erano abituati, e non avevano più paura.

Non dovete radunarvi neppure nei boschi, aveva spiegato Miliko agli anziani, per mezzo degli interpreti. I loro occhi vedono il calore, anche tra gli alberi. La terra profonda può nascondere gli hisa, oh, molto profonda. Ma loro vedono anche quando non brilla il Sole.

Gli indigeni avevano sgranato gli occhi. Avevano parlato tra loro. I Lukas, avevano borbottato. Ma sembrava che avessero capito.

Miliko aveva parlato ogni giorno con gli anziani, fino a diventare rauca e a far impazzire gli interpreti; aveva cercato di far capire loro cosa si trovavano a fronteggiare; e quando si stancava, le mani aliene le battevano affettuosamente sulle braccia e sul viso, e gli occhi tondi la guardavano con profonda tenerezza… qualche volta era tutto ciò che potevano fare.

E gli umani… Miliko andava da loro, la notte. C’erano Ito, ed Ernst e gli altri, che diventavano sempre più cupi… Ito, perché tutti gli altri ufficiali erano andati con Emilio; ed Ernst, un ometto minuto, perché non era stato prescelto; e uno degli uomini più forti di tutti i campi, Ned Cox, che non si era offerto volontario… e cominciava a vergognarsene. C’era una specie di contagio che si diffondeva tra loro, forse era vergogna, quando sentivano le notizie della base principale, che erano sempre sconfortanti. Un centinaio di persone erano sedute davanti alle cupole, accettando il freddo e il disagio dei respiratori, come se rifiutassero le comodità per dimostrare qualcosa a se stessi e ai loro compagni. Erano diventati taciturni, e i loro occhi, dicevano gli indigeni, erano luminosi e freddi. Giorno e notte… in quel santuario, nel luogo dove sorgevano le sacre statue degli hisa… sedevano davanti alle cupole in cui altri vivevano, altri ben lieti di prendere il loro posto… perché non potevano entrarci tutti insieme. Restavano perché dovevano: ogni diserzione sarebbe stata notata da lassù. Avevano scelto quel rifugio, e non potevano far altro che restare lì e pensare agli altri. A pensare. A valutare se stessi.

Sognare, lo chiamavano gli hisa. Era questo, che venivano a fare gli hisa.

Abbiate un po’ di buon senso, aveva detto Miliko, i primi giorni, quando erano più irrequieti, e parlavano di agire. Dobbiamo aspettare.

Aspettare cosa? aveva chiesto Cox, e quell’interrogativo aveva cominciato a ossessionare i sogni di Miliko.

Quella notte, dal pendio stavano scendendo gli hisa che erano stati chiamati… giorni prima. Quella notte Miliko, seduta insieme agli altri, li aveva guardati arrivare, con le mani in grembo; aveva visto le piccole figure lontane muoversi nel buio senza stelle della pianura, e aveva atteso, con lo stomaco contratto e un nodo alla gola. Hisa… per supplire al numero degli umani, in modo che coloro che scrutavano il campo dall’alto non notassero che c’era meno gente. Lei portava la pistola in una tasca impermeabile, indossava abiti pesanti, e rabbrividiva ancora per l’incertezza. Avrebbe dovuto prendersi cura degli hisa; era stata lasciata lì per quello; ma gli stessi hisa le avevano detto Vai. Tuo cuore soffre. Tuoi occhi freddi come loro.

Doveva andare, o li avrebbe comunque perduti. Non sarebbe più riuscita a trattenerli.

Avete paura di restare? aveva chiesto agli umani che sarebbero rimasti lì, i più taciturni, i vecchi, i bambini, gli uomini e le donne che non condividevano le idee di coloro che sedevano all’esterno del cerchio… famiglie, persone affezionate ai propri cari ed altri che forse avevano la mente più lucida. Provava rimorso per loro. Avrebbe dovuto proteggerli, e non poteva; non poteva neppure comandare quel gruppo là fuori… poteva solo prevenire la loro pazzia. Molti di quelli che sarebbero rimasti erano Q, e cioè profughi, che avevano visto tanti orrori, ed erano troppo stanchi, e che non avevano mai chiesto di finire laggiù. Immaginava che avessero paura. Gli hisa più anziani sapevano essere strani, e sebbene quelli di Pell fossero abituati agli hisa, erano ancora alieni, per quella gente. No, aveva detto una vecchia. Per la prima volta dopo Mariner non ho paura. Qui siamo al sicuro. Forse non dai fucili, ma dalla paura. E altri avevano annuito, fissandola con la pazienza delle antiche statue.

Gli hisa si avvicinarono… un piccolo gruppo che si accostò prima a lei e a Ito. Si alzarono, guardando gli altri che erano in attesa.

— Ci vediamo — disse Miliko, e quelli annuirono in silenzio.

Altri furono scelti; gli hisa indicavano quelli di loro e lentamente, nel buio, salirono la pista che s’inerpicava per il pendio, mentre altri scendevano a gruppetti. Quella notte se ne sarebbero andati centoventitré umani; e altrettanti hisa avrebbero preso il loro posto al campo. Miliko sperava che gli hisa capissero. Sembrava che avessero capito, finalmente: i loro occhi si erano illuminati di gioia al pensiero dello scherzo che avrebbero fatto agli umani che li spiavano dall’alto.

Si avviarono per il percorso più rapido; incontrarono altri hisa che scendevano e che rivolgevano loro allegri richiami… Miliko camminava ansimando, decisa a non fare soste, perché un hisa non si sarebbe fermato a riposare; e tutti avevano promesso di fare altrettanto. Miliko barcollò quando salirono l’ultimo tratto, al margine della foresta, aiutati dalle giovani femmine hisa che ronzavano intorno a loro… Una era Colei-che-cammina-lontano, e un’altra era Vento-tra-gli-alberi, e altre di cui Miliko non aveva inteso i nomi. Ne aveva battezzata una con l’appellativo di Svelta, e l’altra Bisbiglio, perché gli hisa tenevano molto ai nomi umani. Miliko aveva provato a pronunciare i nomi veri, per farle contente; ma non ci riusciva, e i suoi tentativi suscitavano l’allegria degli hisa.

Riposarono fino al sorgere del sole, tra gli alberi e le felci, sotto uno spuntone roccioso. All’alba ripartirono, lei, Ito ed Ernst e gli hisa che guidavano il gruppo così come avevano già fatto per altri nella foresta, altrove. Gli hisa si muovevano come se al mondo non esistessero nemici, scherzando, e una volta finsero un’imboscata che quasi li spaventò a morte… un’idea di Svelta. Miliko aggrottò la fronte, e anche gli altri umani fecero altrettanto, e gli hisa se ne accorsero e ammutolirono, perplessi. Miliko prese per mano Bisbiglio e cercò di spiegarsi una volta per tutte, ma Bisbiglio conosceva la lingua degli umani meno degli altri hisa con cui erano abituati a trattare.

— Senti. — Alla fine, disperata, prese un ramoscello, si accoccolò a terra e, scostando le foglie, piantò il ramoscello nel terreno. — Campo di Konstantin-uomo. — Tracciò una linea. — Fiume. — Non era probabile, dicevano gli esperti, che un simbolo disegnato penetrasse nell’immaginazione degli hisa; avevano una mentalità diversa, e le linee e i segni non avevano relazione con gli oggetti reali. — Noi facciamo cerchio, così, noi occhi guardano campo umano. Vedere Konstantin. Vedere Freccia.

Bisbiglio annuì con improvviso entusiasmo e cominciò a dondolarsi. Si voltò a indicare in direzione della pianura. — Loro… loro… loro — disse, e afferrò il ramoscello, puntandolo contro il cielo, nel gesto più minaccioso che Miliko avesse mai veduto compiere da un hisa. — Cattivi loro — disse Bisbiglio, e scagliò il fuscello contro il cielo, saltellando e battendo le mani, e poi si percosse il petto con decisione. — Io amica Freccia.

La compagna di Freccia. Miliko fissò l’espressione intensa della giovane femmina, comprendendo all’improvviso, e Bisbiglio le afferrò la mano e la strinse. Svelta le batté una mano sulle spalle. Vi fu un rapido confabulare tra tutti gli hisa, che parvero prendere una decisione. Si separarono, a due a due, e ognuno afferrò per la mano uno degli umani.

— Miliko — protestò Ito.

— Fidati. Lasciamoli fare. Gli hisa non si perdono; ci terranno in contatto e ci ricondurranno indietro quando sarà necessario. Ti manderò un messaggio. Contaci.

Gli hisa li esortavano ansiosamente a dividersi, a procedere per percorsi diversi: — Siate prudenti — disse Ernst, voltandosi prima di sparire tra gli alberi. Miliko, Ernst e Ito avevano le pistole: metà di tutte le armi che c’erano sulla Porta dell’Infinito, se si escludevano quelle dei militari. Le altre tre le avevano quelli che li avrebbero seguiti. Sei pistole e un po’ dell’esplosivo usato per rimuovere i tronconi degli alberi… era tutto il loro arsenale. Andate con prudenza, mai più di tre alla volta, aveva raccomandato di continuo agli hisa, cercando di fare in modo che i loro movimenti apparissero normali agli osservatori umani; e gli hisa li avevano portati via a tre per volta, secondo la loro strana logica; lei e Bisbiglio e Svelta, tre umani e sei hisa; e adesso tre gruppi di tre si disperdevano in fretta.

Non scherzavano più. Adesso Svelta e Bisbiglio facevano sul serio, sgattaiolavano tra gli arbusti, e si voltavano per ammonirla quando secondo loro faceva troppo rumore. Miliko non poteva rimediare al sibilo del respiratore, ma stava attenta a non spezzare i rami, imitando il passo leggero delle hisa, la loro agilità, come se… finalmente quel pensiero la colpì… come se ora fossero loro ad insegnarle qualcosa.

Riposava solo quando era assolutamente necessario; a un certo punto cadde, perché aveva camminato troppo a lungo, e le hisa si affrettarono a rialzarla e ad accarezzarle il viso e i capelli. La tenevano vicina, proteggendola con il loro calore, perché il cielo si stava rannuvolando e il vento era freddo. Cominciò a piovere.

Miliko si alzò appena fu in grado di farlo, e si ostinò a procedere alla loro andatura. — Brava, brava — le dissero. — Tu brava. — E nel pomeriggio incontrarono altri: altre femmine e due maschi. Uscirono all’improvviso dal bosco, sotto gli alberi e le fronde come ombre brune nella pioggerella, con le gocce d’acqua che brillavano come gemme sul pelame. Bisbiglio e Svelta parlarono con i nuovi venuti, tenendo stretta Miliko, e riferirono la risposta.

— Dicono… camminato lontano loro posto. Sentire. Venire. Molti venire. Loro occhi caldi vedere te, Mihan-tisar.

Erano dodici. Ad uno ad uno vennero a toccare le mani di Miliko e ad abbracciarla, e s’inchinarono con solenne cortesia. Bisbiglio parlò a lungo, ottenendo lunghe risposte dall’uno e dall’altro.

— Loro vedono — disse Svelta, ascoltando mentre Bisbiglio parlava. — Loro vedono posto umano. Hisa là soffrono. Umani soffrono.

— Dobbiamo andare là — disse Miliko, toccandosi il cuore. — Tutti miei umani vanno là, siedono su colline, osservano. Voi capite? Sentite bene?

— Sentito — disse Svelta, e sembrò che traducesse agli altri.

Gli altri si avviarono, precedendoli; e Miliko non sapeva che cosa avrebbe fatto, quando fossero arrivati là. La follia di Ito e degli altri la spaventava. Sei pistole non bastavano per impadronirsi di una navetta, e non sarebbero bastati tutti gli altri, una volta arrivati… impotenti di fronte a truppe armate e corazzate. Potevano soltanto osservare, essere presenti, e sperare.

Camminarono per tutto il giorno, sotto la pioggia che filtrava fredda tra le fronde, e il vento che faceva cadere le gocce su di loro quando smise di piovere. I torrenti si erano ingrossati. Si addentrarono nella vegetazione sempre più fitta.

— Posto umano — ricordò finalmente Miliko, disperata. — Dobbiamo andare al campo umano.

— Andiamo posto umano — confermò Bisbiglio, e dopo un attimo sparì, sgattaiolando tra i cespugli così velocemente da lasciare sbalordita Miliko.

— Lei brava correte — assicurò Svelta. — Fatto Freccia camminare lontano per prenderla. Molto lui caduto, lei cammina.

Miliko aggrottò la fronte, perplessa; gran parte di ciò che dicevano gli hisa era sconcertante. Ma Bisbiglio se n’era andata per una ragione seria, questo sembrava evidente, e Miliko si sforzò di proseguire di buon passo.

Finalmente scorse un varco tra gli alberi, e si avviò barcollando da quella parte con le forze che le restavano, perché vide del fumo, il fumo dei mulini; e poco dopo riuscì a scorgere il baluginio di una cupola nel crepuscolo. Si lasciò cadere in ginocchio al limitare del bosco, e impiegò un attimo per capire dov’era. Non aveva mai visto il campo da quell’angolo, dall’alto delle colline. Restò così, mentre Svelta le batteva una mano sulla spalla, perché ansimava e la vista le si offuscava di continuo. Cercò a tentoni le tre bombole di ricambio che aveva nella tasca sinistra, augurandosi di non aver rovinato quella della maschera. Aveva calcolato che avrebbe potuto vivere là fuori per intere settimane; non era possibile che consumassero le bombole tanto in fretta.

Il sole stava tramontando. Miliko vide le luci accendersi nel campo, e mentre si spingeva verso il ciglio di una sporgenza erbosa, scorse le figure umane muoversi laggiù, sotto le luci, una fila di operai che portavano un carico sulle spalle, facendo continuamente la spola tra il mulino e la strada.

— Lei viene — disse all’improvviso Svelta. Miliko si voltò, e si accorse della scomparsa degli altri, che prima erano dietro di loro, fra gli alberi, e adesso non si vedevano più; batté le palpebre quando i cespugli si aprirono e Bisbiglio si inginocchiò davanti a lei, ansimando.

— Freccia — mormorò Bisbiglio, dondolandosi. — Lui soffre, lui soffre lavoro duro. Konstantin-uomo soffre. Dare, dare te.

Stringeva un pezzetto di carta nel pugno bagnato e peloso. Miliko lo prese, e lo aprì cautamente, mentre la pioggerella lo bagnava di nuovo e lo rendeva fragilissimo. Dovette chinarsi e girarlo per leggerlo nella luce fioca del crepuscolo… parole scarabocchiate in modo quasi illeggibile.

— Qui va molto… male. Non dico di no. Tieniti fuori. Stai lontana. Per favore. Ti ho detto cosa fare. Disperdetevi e state lontani… paura… loro… forse non… forse vogliono altri operai… Io sto bene. Ti prego… torna indietro… non metterti nei guai.

Le due hisa la guardavano, perplesse. Segni sulla carta… erano confuse. — Qualcuno ti ha vista? — chiese Miliko. — Uomini visto te?

Bisbiglio sporse le labbra. — Io indigena — disse sprezzante. — Molti indigeni viene qui. Porta sacco, indigeno. Porta a mulino, indigeno. Freccia là, umano visto io, non visto. Chi io? Io indigena. Freccia dice tuo amico soffre lavoro duro; uomini uccide uomini; dice ama te.

— Anch’io lo amo. — Miliko infilò il prezioso messaggio nella giacca, rannicchiata tra le fronde con il cappuccio calato sulla testa e la mano in tasca, sul calcio della pistola.

Non potevano far qualcosa senza rischiare di peggiorare la situazione… senza mettere in pericolo la vita di tutti. Anche se avessero potuto prendere una delle navette… avrebbero attirato le rappresaglie sugli altri. Un attacco massiccio. Al santuario. Vite in cambio di altre vite. Emilio lavorava laggiù per salvare la Porta dell’Infinito… per salvare quel che potevano. E l’ultima cosa che voleva era un’azione improvvisata da parte loro.

— Svelta — disse Miliko, — corri, trova gli hisa, trova tutti gli umani con me, capito? Devi dire… Miliko parla con Konstantin-uomo: dire a tutti di aspettare, aspettare, non fare guai.

Svelta provò a ripeterlo, si confuse, perché non sapeva tutte le parole. Miliko riprovò, paziente… e alla fine Svelta annuì. — Dico loro seduti — disse Svelta, eccitata. — Tu parli Konstantin-uomo.

— Sì — disse Miliko. — Sì. — E Svelta corse via.

Gli indigeni erano liberi di andare e venire. Gli uomini di Mazian, come aveva detto Bisbiglio, non vedevano nessuna differenza tra loro, non riuscivano a distinguerli. E quella era la sola speranza che avevano: mantenere le comunicazioni, per far sapere agli uomini laggiù che non erano soli. Emilio sapeva che lei era lì. E forse, anche se avrebbe desiderato che lei fosse altrove, la sua presenza lo confortava.

CAPITOLO TERZO

PELL: SETTORE VERDE NOVE; 8/1/53; ore 1800

Correvano voci di ogni genere, nel settore verde, ma non c’erano segni di un blocco, di perquisizioni, di una crisi imminente. I militari erano impegnati nelle normali attività. I bar del molo erano pieni di musica e i soldati in libertà si rilassavano, bevevano, alcuni si ubriacavano. Josh si affacciò guardingo dalla porta del locale di Ngo, e subito rientrò quando una squadra di militari dall’aria più efficiente venne in quella direzione: avevano uniformi corazzate, sguardi truci e intenzioni precise. Quella vista lo innervosì, come lo innervosivano tutti quei movimenti quando non aveva Damon vicino a sé. Aveva sopportato l’attesa nel nascondiglio, perché era il suo turno di aspettare nel magazzino di Ngo, andando nella sala soltanto all’ora dei pasti… ma adesso era ora di cena, e lui cominciava a preoccuparsi. Damon si era ostinato ad uscire il giorno prima e poi anche quel giorno stesso, seguendo certe piste, alla ricerca di un contatto… parlando con la gente e rischiando di mettersi nei guai.

Josh camminava avanti e indietro, agitato. Se ne accorse, e vide che Ngo, dietro il banco, lo guardava aggrottando la fronte. Cercò di calmarsi e finalmente tornò indietro, si affacciò in cucina e chiese la cena al figlio di Ngo.

— Quanti? — chiese il ragazzo.

— Uno — disse Josh. Aveva bisogno di un pretesto per restare nella sala. Quando fosse arrivato Damon avrebbe potuto ordinare anche per lui. Il loro credito era buono, l’unica consolazione della loro esistenza. Il figlio di Ngo agitò un cucchiaio, indicandogli di uscire.

Andò al solito tavolo e sedette, con lo sguardo di nuovo rivolto verso la porta. Erano entrati due uomini, niente di straordinario. Ma anche loro si stavano guardando intorno. Poi si avviarono verso il retro. Josh chinò la testa e cercò di mimetizzarsi nell’ombra; dovevano essere del mercato nero, forse amici di Ngo… ma quella mossa lo mise in allarme. E infatti quelli si fermarono al suo tavolo, prendendo una sedia. Alzò gli occhi, pieno d’apprensione, mentre uno dei due sedeva e l’altro restava in piedi.

— Talley — disse l’uomo seduto. Era giovane, e aveva una faccia dura, con la cicatrice di un’ustione sulla mascella. — Lei è Talley, vero?

— Non conosco nessun Talley. Si sbaglia.

— Voglio che venga fuori un momento. Soltanto alla porta.

— Chi è lei?

— C’è una pistola puntata su di lei. Le consiglio di muoversi.

Era l’incubo atteso da tanto tempo. Josh pensò a quel che poteva fare, ma avrebbe finito per farsi sparare addosso. Molti uomini morivano nel settore verde, ogni giorno, e non c’era altra legge che quella delle truppe, e non voleva saperne neppure di loro. Questi non erano uomini di Mazian, erano qualcosa d’altro.

— Si muova.

Josh si alzò e si allontanò dal tavolo. Il secondo uomo gli prese il braccio e lo guidò alla porta, nella luce esterna, più forte.

— Guardi là — disse l’uomo che stava dietro di lui. — Guardi il portone di fronte. Mi dica se ho trovato l’uomo sbagliato. — Josh guardò. Era l’uomo che aveva visto prima, mentre lo spiava. La vista si annebbiò e la nausea gli serrò le viscere, in un riflesso condizionato.

Conosceva quell’uomo. Il nome ora non gli veniva in mente, ma lo conosceva. Il suo accompagnatore lo prese per il gomito e lo guidò in quella direzione, attraverso il corridoio; e mentre l’altro entrava, lo condusse nel locale semibuio di Mascari, nell’atmosfera pregna di alcool e di sudore, e nel frastuono della musica. Alcuni di quelli che stavano al banco girarono la testa, e potevano vederlo meglio di quanto i suoi occhi non abituati potessero vedere le loro facce, per il momento; e fu preso dal panico, non solo all’idea di essere stato riconosciuto, ma al pensiero che in quel luogo ci fosse qualcosa che lui riconosceva, quando non avrebbe dovuto sapere nulla di Pell, dopo aver attraversato l’abisso.

Venne spinto nell’angolo sinistro della stanza, verso uno dei tavoli appartati. Là c’erano due uomini: uno di mezza età, che non gli incuteva un senso d’allarme… e l’altro… l’altro…

Si sentì mancare, per effetto del condizionamento. Cercò a tentoni lo schienale d’una sedia di plastica e si appoggiò.

— Sapevo che eri tu — disse l’uomo. — Josh? Sei tu, non è vero?

— Gabriel. — Il nome eruppe dal passato, scardinando strutture ben consolidate. Barcollò contro la sedia, rivide la sua nave… la sua nave e i suoi compagni… e quell’uomo… quell’uomo tra loro…

— Jessad — lo corresse Gabriel. Gli prese il braccio e lo guardò in modo strano. — Josh, come sei finito qui?

— Mazian. — Lo stavano conducendo nel separé chiuso da tende, un luogo isolato, una trappola. Fece per voltarsi, e vide che gli altri sbarravano l’uscita, e quando tornò a guardare nell’ombra riuscì appena a distinguere il viso di Gabriel… come era apparso sulla nave, quando si erano separati… quando lui aveva condotto Gabriel da Blass, sulla Hammer, nei pressi di Mariner. Gabriel gli teneva la mano sulla spalla, gentilmente, lo spinse su una sedia accanto al tavolino rotondo. Gabriel gli sedette di fronte e si sporse verso di lui.

— Qui il mio nome è Jessad. Questi signori, il signor Coledy e il signor Kressich. Il signor Kressich era consigliere della stazione, quando c’era un consiglio. Scusateci, signori. Voglio parlare con il mio amico. Attendete fuori. Assicuratevi che non ci disturbino.

Gli altri se ne andarono, e rimasero soli nella luce fioca di una lampada schermata. Josh non voleva restare solo con quell’uomo. Ma era la curiosità a farlo rimanere seduto, più della paura della pistola di Coledy, là fuori, una curiosità che lasciava presagire la sofferenza, come il dolore per una ferita.

— Josh? — disse Gabriel-Jessad. — Siamo amici, non è vero?

Poteva essere un trucco, poteva essere la verità. Josh scrollò la testa, rassegnato. — Lavaggio del cervello. La mia memoria…

Il volto di Gabriel si contrasse, come per l’angoscia. Tese la mano e gli strinse il braccio. — Josh… eri venuto, no? Avevi cercato di presentarti all’appuntamento. L’Hammer mi ha portato via, quando è andata male. Ma questo non lo sapevi, vero? Sei andato con la Kite e ti hanno preso. Lavaggio del cervello… Josh, dove sono gli altri? Dove sono, Kitha e…

Lui scrollò la testa: dentro era freddo, vuoto. — Morti. Non ricordo chiaramente. È tutto cancellato. — Per un momento fu sul punto di vomitare, liberò la mano e la premette sulla bocca, appoggiandosi al tavolo, e cercando di dominarsi.

— Ti ho visto nel corridoio — disse Gabriel. — Non credevo ai miei occhi. Ma ho cominciato a far domande. Ngo non ha voluto dirmi con chi eri… ma è un altro che stanno ricercando, vero? Tu hai amici, qui. Un amico. No? Non è uno di noi… è qualcun altro. No?

Josh non riusciva a pensare. Le vecchie amicizie e le nuove si combattevano. Aveva le viscere annodate dalle contraddizioni. Paura per Pell… questa gliel’avevano instillata. E annientare le stazioni… quella era la funzione di Gabriel. Gabriel era lì, come era stato a Mariner…

Elene e l’Estelle. L’Estelle era stata distrutta a Mariner.

— Non è così?

Lui trasalì, batté le palpebre.

— Ho bisogno di te — sibilò Gabriel. — Del tuo aiuto. Della tua abilità…

— Io non ero niente — disse Josh. Il sospetto che l’altro gli mentisse divenne ancora più forte. Quell’uomo lo conosceva e sosteneva certe cose che non erano vere, non erano mai state vere. — Non so di cosa stai parlando.

— Lavoravamo insieme, Josh.

— Io ero un operatore militare, sulla nave-sonda…

— I sottonastri. — Gabriel gli afferrò il polso, lo scosse con violenza. — Tu sei Joshua Talley, servizi speciali. Programma intensivo. Sei uscito dai laboratori di Cyteen…

— Avevo una madre, un padre. Vivevo su Cyteen con mia zia. E lei si chiamava…

— Dai laboratori, Josh. Ti hanno addestrato a tutti i livelli. Ti hanno fatto assorbire nastri falsi, una finzione… menzogne in superficie, menzogne che tu potevi raccontare per convincerli, se era necessario. Ed è affiorato alla superficie, no? Ha cancellato il resto.

— Avevo una famiglia. Le volevo bene…

— Lavoravi con me, Josh. Siamo usciti dallo stesso programma. Siamo stati costruiti per lo stesso lavoro. Tu sei il mio rincalzo, abbiamo lavorato insieme, stazione dopo stazione, ricognizione e intervento.

Josh si svincolò dalla stretta di Gabriel, e batté le palpebre, accecato dalle lacrime. Cominciava ad andare tutto a pezzi, irreparabilmente, la fattoria, la strada assolata, l’infanzia…

— Siamo nati nei laboratori — continuò Gabriel. — Tutti e due. Il resto… gli altri ricordi… ce li hanno instillati con i nastri, e la prossima volta potranno inserire qualcosa d’altro. Cyteen era reale; io sono reale… fino a che non cambieranno i nastri. Fino a che io non diventerò qualcosa d’altro. Hanno manipolato la tua mente, Josh. Hanno sepolto l’unica cosa reale. Tu hai raccontato loro delle menzogne, e si sono adattate alla tua memoria. Ma c’è la verità. Tu conosci i computer. Sei sopravvissuto, qui. E conosci la stazione.

Josh restò immobile, con le labbra premute contro il dorso della mano, e le lacrime gli scorrevano sul viso, ma non piangeva. Era intontito, e le lacrime continuavano a scendere. — Che cosa vuoi che faccia?

— Che cosa puoi fare? Che contatti hai? Non con gli uomini di Mazian, vero?

— No.

— Chi?

Lui restò fermo, per un momento. Le lacrime cessarono: qualcosa s’era improvvisamente inaridito dentro di lui. Tutta la sua memoria sembrava un foglio bianco, la detenzione e un luogo lontano confuso nel suo ricordo, celle bianche e assistenti in uniforme, e finalmente capiva che era stato abbastanza felice, in detenzione, perché era come essere a casa, l’istituzione universale, in bilico sui due fronti della politica e della guerra. Casa. — Potrei fare a modo mio — disse. — Potrei parlare al mio contatto, d’accordo? Potrei trovare aiuto. Ma ti costerà.

— Cosa vuoi dire?

Josh si appoggiò allo schienale, accennò all’esterno, dove attendevano Coledy e Kressich. — Tu hai influenza, no? Supponiamo che io faccia la mia parte. Dopo, che succede? Supponiamo che io possa procurarti quasi tutto su questa stazione… ma che io non abbia la forza di controllare la situazione.

— Io ce l’ho — disse Gabriel.

— Io ho il resto. Ma c’è una cosa che voglio e che non posso ottenere senza la forza. Una navetta. Un passaggio verso la Porta dell’Infinito.

Gabriel tacque per un momento. — Hai un accesso del genere?

— Ti ho detto che ho un amico. E voglio andarmene.

— Tu e io potremmo farcela.

— E anche il mio amico.

— Quello che lavora con te al mercato nero?

— Pensa quello che vuoi. Io ti procuro gli accessi che ti servono. Tu fai i piani per farci uscire da questa stazione.

Gabriel annuì, lentamente.

— Devo tornare — disse Josh. — Comincia a darti da fare. Non c’è molto tempo.

— Adesso le navette attraccano nel settore rosso.

— Posso portarti là. Posso portarti dove vuoi. Ma abbiamo bisogno di una forza sufficiente per prendere la navetta, quando ci arriveremo.

— Mentre gli uomini di Mazian sono occupati?

— Mentre sono occupati. C’è un modo. — Josh fissò Gabriel per un momento. — Hai intenzione di far saltare la stazione. Quando?

Gabriel sembrava indeciso se rispondere o no. — Non ho la vocazione del suicida. Ci tengo alla pelle, e questa volta non c’è speranza che l’Hammer venga a prenderci. Una navetta, una capsula, qualunque cosa che abbia la possibilità di restare in orbita abbastanza a lungo…

— D’accordo — disse Josh. — Sai dove trovarmi.

— C’è una navetta attraccata, in questo momento?

— Controllerò — disse lui, e si alzò, uscendo nel frastuono del locale dove Coledy, l’altro uomo e Kressich si alzarono da un tavolo vicino con aria preoccupata. Ma Gabriel era uscito dietro di lui. Lo lasciarono passare. Lui si avviò fra i tavoli, fra le teste curve sui bicchieri e sui piatti, e le schiene indifferenti.

Fuori, l’aria lo investì come una muraglia di freddo e di luce. Trasse un profondo respiro e cercò di schiarirsi la mente, e intanto sul pavimento si formavano trame d’ombra, lampi di verità e di menzogna.

Cyteen era una menzogna. Lui era una menzogna. Una parte di lui funzionava come un automa, come immaginava di essere… riconosceva gli istinti di cui non si era mai fidato, non sapendo quale fosse la loro origine… Trasse un altro respiro, cercando di riflettere, mentre il suo corpo procedeva lungo il corridoio, in cerca di un rifugio.

Solo quando fu di nuovo davanti alla cena ormai fredda, al tavolo in fondo al locale di Ngo, quando sedette in quel luogo familiare, con le spalle al sicuro e la realtà di Pell che animava quel bar, il torpore cominciò ad abbandonarlo. Pensò a Damon, una vita, una vita che forse poteva salvare.

Lui uccideva. Era stato creato per questo. Era per questo che esistevano gli individui come lui e Gabriel. Joshua e Gabriel. Capiva l’ironia dei loro nomi. Ed ora un nodo gli stringeva la gola. I laboratori. Quello era il nulla in cui era vissuto, il biancore dei suoi sogni. Scrupolosamente isolato dall’umanità. Istruito con i nastri… capacità instillate; menzogne da raccontare… per fingere di essere umano.

Ma nelle menzogne c’era una lacuna… erano state inserite in un corpo umano, con istinti umani, e lui aveva amato quelle menzogne.

E le aveva vissute nei suoi sogni.

Mangiò, e i bocconi gli si fermavano in gola; bevve del caffè freddo, e ne versò ancora dalla caraffa termica.

Poteva portar via Damon. Gli altri dovevano morire. Per far fuggire Damon doveva tacere, e Gabriel doveva convincere gli altri a seguirlo, doveva promettere a tutti la vita, garantire un aiuto che non sarebbe mai arrivato. Sarebbero morti tutti, tranne lui e Gabriel, e Damon. Si chiese come avrebbe potuto persuadere Damon a partire… e se avrebbe potuto farlo. Se doveva fare appello alla ragione… quale ragione?

Alicia Lukas-Konstantin. Pensò a lei, che l’aveva aiutato aiutando Damon. Lei non poteva andarsene. E le guardie che gli avevano offerto denaro, all’ospedale; e l’indigeno che li seguiva e vegliava su di loro; e quelli che erano sopravvissuti all’inferno delle navi e del settore Q; e gli uomini e le donne e i bambini…

Pianse, con il volto tra le mani, mentre gli istinti, dentro di lui, funzionavano con fredda intelligenza: sapeva in che modo distruggere un luogo come Pell, sapeva che era l’unica ragione della sua esistenza.

Al resto non credeva più.

Si asciugò gli occhi, bevve il caffè, e attese.


NAVE CONFEDERATA UNITY: SPAZIO; 8/1/53

I dadi rotolarono. Due. Ayres alzò le spalle, irritato, mentre Dayin Jacoby segnava i punti a Azov si preparava a un altro lancio. Le due guardie sempre presenti nella sala del ponte inferiore assistevano, sedute sulle panche contro la parete, con un’espressione impassibile sulle facce giovani e perfette. Lui e Jacoby, e raramente anche Azov, giocavano per punteggi immaginari, impegnandosi a pagare in crediti autentici quando avrebbero raggiunto insieme un luogo civile; e questo, pensò Ayres, era un elemento affidato alla sorte, come i risultati dei dadi.

Al momento, l’unica nemica era la noia. Azov diventava socievole, sedeva al tavolo, giocava con loro, perché non poteva abbassarsi a farlo con il suo equipaggio. Forse i manichini si divertivano altrove. Ayres non riusciva a immaginarlo. Niente li sfiorava, niente illuminava quegli occhi odiosi. Soltanto Azov… si univa a loro di tanto in tanto quando sedevano nella sala, otto o nove ore al giorno, ad annoiarsi, perché non c’era niente da fare ed era impossibile fare un po’ di moto. Stavano quasi sempre nell’unico locale dove avevano libero accesso, e parlavano… finalmente parlavano.

Jacoby non aveva remore; faceva confidenze sulla sua vita, i suoi affari, le sue idee. Ayres resisteva sempre, quando Jacoby e Azov cercavano di farlo parlare del suo mondo. Era pericoloso. Ma parlava lo stesso… le sue impressioni sulla nave, sulla situazione attuale, su tutto quello che gli sembrava innocuo; teorie astratte di diritto e d’economia, un argomento che anche Jacoby e lo stesso Azov conoscevano… scherzava sulla moneta in cui avrebbero dovuto pagare le puntate; e Azov rideva. Era un sollievo indicibile avere qualcuno con cui parlare, scambiare qualche battuta. Aveva una specie di legame con Jacoby, una sorta di affinità, che non aveva scelto ma che era ineluttabile. Ognuno rappresentava la ragione, per l’altro. Alla fine, Ayres aveva cominciato a provare lo stesso attaccamento anche per Azov: lo trovava simpatico e spiritoso. E questo era pericoloso, e lui lo sapeva.

Jacoby vinse. Azov segnò paziente i punti, e si rivolse ai manichini. — Jules. Una bottiglia, ti dispiace?

Uno dei due si alzò e uscì. — Credevo che avessero numeri al posto dei nomi — disse sottovoce Ayres. Avevano già bevuto una bottiglia. Poi lo ripeté, a voce più alta.

— Ci sono tante cose nella Confederazione che lei non ha visto — disse Azov. — Ma potrebbe capitarle l’occasione.

Ayres rise, e un gelo improvviso lo afferrò allo stomaco. Come? La domanda gli restò in gola. Avevano bevuto troppo, insieme. Azov non aveva mai ammesso le ambizioni del suo paese, i progetti dopo Pell. Cambiò leggermente espressione, e in quel momento lo fece anche Azov… sgomento reciproco, un momento che durò troppo a lungo, quasi si svolgesse al rallentatore, tra i fumi dell’alcool, con Jacoby che faceva da terzo partecipante involontario.

Ayres rise di nuovo, con uno sforzo, e cercò di nascondere il rimorso; si appoggiò allo schienale della sedia e fissò Azov. — Anche loro giocano d’azzardo? — chiese, fingendo di fraintendere.

Azov strinse le labbra, lo guardò inarcando un sopracciglio argenteo, e sorrise come se fosse realmente divertito.

Non tornerò a casa, pensò Ayres, disperato. Non ci sarà nessun preavviso. È questo che intendeva dire.


PELL: GALLERIE DEGLI INDIGENI; 8/1/53; ore 1830

Era un luogo buio, e c’era un movimento di molti corpi. Damon ascoltò, e trasalì quando sentì qualcuno vicino a lui, e poi di nuovo, quando una mano gli toccò il braccio nell’oscurità della galleria. Inclinò la lampada in quella direzione, rabbrividendo per il freddo.

— Io Denteazzurro — mormorò la voce conosciuta. — Tu vieni vedere lei?

Damon esitò a lungo, guardando le scalette che si estendevano come ragnatele al di là del raggio della sua lampada. — No — disse, tristemente. — No. Sto solo passando di qui. Sono stato alla sezione bianca. Voglio solo passare.

— Lei chiede tu vieni. Chiede. Chiede sempre.

— No — mormorò Damon con voce rauca, pensando che presto non ci sarebbero più state altre occasioni. — No, Denteazzurro. Le voglio bene, e non posso andare. Non sai che ci sarebbe pericolo per lei, se andassi? Gli, uomini-con-fucili entrerebbero. Non posso. Non posso, anche se vorrei farlo.

La mano calda dell’indigeno batté sulla sua, indugiò. — Tu detto cosa buona.

Damon si stupì. Gli indigeni ragionavano; e sebbene lui lo sapesse, lo sorprendeva sentire che seguivano una logica così umana. Prese la mano dell’indigeno e la strinse, grato della presenza di Denteazzurro in un momento in cui non c’era altro conforto. Sedette sui gradini metallici, trasse un respiro attraverso la maschera… cercando conforto dov’era possibile trovarlo… stare per un momento al sicuro dagli occhi ostili, insieme a qualcuno che nonostante tutte le differenze era diventato un amico. L’hisa si accosciò sulla piattaforma davanti a lui, con gli occhi scuri che brillavano nella luce indiretta, gli batté la mano sul ginocchio, affettuosamente.

— Tu mi sorvegli — disse Damon. — Sempre.

Denteazzurro annuì in segno di conferma.

— Gli hisa sono molto gentili — disse Damon. — Molto buoni.

Denteazzurro inclinò la testa e aggrottò la fronte. — Tu lei bimbo. — Per gli hisa le famiglie erano un concetto molto difficile. — Tu bimbo, Licia.

— Sì, lo ero.

— Lei tua madre.

— Sì.

— Milio lei bimbo.

— Sì.

— Io voglio bene lui.

Damon sorrise, dolorosamente. — Tu non conosci le mezze misure, eh, Denteazzurro? Tutto o niente. Sei un buon amico. Che cosa sanno gli hisa? Conoscono altri umani… o solo i Konstantin? Credo che tutti i miei amici siano morti, Denteazzurro. Ho cercato di trovarli. E stanno nascosti o sono morti.

— Fai tristi me occhi. Damon-uomo. Forse hisa trovano, di’ noi loro nome.

— I Dee. O gli Ushant. I Muller.

— Io chiedo. Qualcuno conosce forse. — Denteazzurro si posò l’indice sul naso piatto. — Trovare loro.

— Così?

Denteazzurro allungò una mano, incerta, e gli accarezzò la barba lunga. — Tu faccia come hisa tu odore stesso umano.

Damon sorrise, divertito, nonostante il suo avvilimento. — Vorrei sembrare un hisa. Allora potrei andare e venire liberamente. Per poco non mi hanno preso, questa volta.

— Tu venuto qui spaventato — disse Denteazzurro.

— Senti l’odore della paura?

— Io vedo tu occhi. Molto dolore. Sento sangue, sento correre forte.

Damon girò il gomito verso la luce: c’era una dolorosa scalfittura che si era aperta attraverso la stoffa e aveva sanguinato. — Ho urtato una porta — disse.

Denteazzurro si fece più vicino. — Io faccio smettere male.

Damon ricordò che gli hisa si curavano da soli le ferite, e scrollò la testa. — No. Ma sei capace di ricordare i nomi che ti ho detto?

— Dee. Ushant. Mul-ler.

— Li troverai?

— Provo — disse Denteazzurro. — Porto loro?

— Vieni a prendermi per condurre me da loro. Gli uomini-con-fucili stanno chiudendo le gallerie che sbucano nel settore bianco, lo sai?

— So. Noi indigeni camminiamo in grandi gallerie fuori. Chi guarda noi?

Damon trasse un profondo respiro, si alzò di nuovo sui gradini che davano le vertigini e strinse a sé l’hisa con un braccio mentre riprendeva la lampada con l’altra mano. — Ti voglio bene — mormorò.

— Ti voglio bene — disse Denteazzurro e scappò via nell’oscurità, con un movimento leggero, una vibrazione dei gradini metallici.

Damon avanzò a tentoni, contando le svolte e i livelli. Niente imprudenze. Aveva già corso un bel rischio, tentando di entrare nel settore bianco. Aveva fatto suonare l’allarme. Aveva paura che questo provocasse ricerche nelle gallerie, guai per gli indigeni, per sua madre, per tutti loro. Gli tremavano ancora le ginocchia, sebbene non avesse esitato a sparare quando aveva dovuto farlo; aveva sparato a una guardia senza corazza, e forse l’aveva uccisa. L’intenzione, almeno, era quella.

E questo gli dava la nausea.

Eppure sperava ancora di aver ucciso la guardia, di aver evitato che l’allarme coinvolgesse il suo nome. Sperava che il testimone fosse morto.

Tremava ancora quando raggiunse l’accesso del corridoio davanti al locale di Ngo. Entrò nella stretta camera di compensazione, abbassò la maschera, usò la tessera che adoperava solo per casi di estrema emergenza. La porta si aprì, senza allarmi. Damon percorse in fretta lo stretto corridoio deserto e usò la chiave manuale per aprire l’entrata posteriore.

La moglie di Ngo, che era al banco della cucina, si voltò a fissarlo, poi si precipitò nella sala. Damon lasciò che la porta si richiudesse, aprì quella del magazzino per buttare dentro la maschera del respiratore. Se n’era dimenticato; troppo preso dal panico, l’aveva portata con sé. Ecco com’era ridotto. Andò all’acquaio della cucina e si lavò le mani, la faccia, e cercò di togliersi di dosso l’odore del sangue e la paura e i ricordi.

— Damon.

— Josh. — Girò stancamente gli occhi verso la porta della sala e si asciugò la faccia. — Guai. — Passò davanti a Josh, andò verso il bar e si appoggiò al bancone. — Una bottiglia — disse a Ngo.

— Prova ancora a passare da quella porta… — sibilò agitato Ngo.

— Emergenza — disse Damon. Josh gli prese il braccio, gentilmente.

— Non pensare a bere, per il momento — disse Josh. — Damon. Vieni qui. Voglio parlarti.

Damon tornò nell’angolo che era il loro territorio, fuori dalla vista degli altri clienti che stavano mangiando. Si udiva un acciottolio di piatti dalla cucina, dov’era ritornata la moglie di Ngo, insieme al figlio. La sala aveva l’odore dell’inevitabile spezzatino — Ascolta — disse Josh quando furono seduti. — Voglio che tu venga con me, dall’altra parte del corridoio. Ho trovato un contatto e credo che possa aiutarci.

Damon tacque un momento. — Con chi hai parlato? Chi conosci?

— Non si tratta di me. Qualcuno ti ha riconosciuto. Vuole il tuo aiuto. Non so come stiano esattamente le cose. Un tuo amico. C’è un’organizzazione… tra quelli del settore Q e quelli di Pell. Molta gente che ti conosce potrebbe essere in grado di aiutarli.

Damon si sforzò di assimilare quelle parole. — Sai quali possibilità avremmo con un’orda di Q… contro le truppe? E perché si sono rivolti a te? Perché te, Josh? Forse hanno paura che riconosca le loro facce e che sappia qualcosa. Non mi piace.

— Damon. Quanto tempo abbiamo? È un rischio. Tutto è un rischio, a questo punto. Vieni con me. Ti prego, vieni con me.

— Controlleranno tutto il settore bianco. Ho fatto scattare l’allarme, laggiù… forse ho ucciso qualcuno. Si agiteranno, cercheranno un tizio che si serve degli accessi…

— Allora quanto tempo può restarci per riflettere? Se non… — Josh s’interruppe, e guardò la moglie di Ngo che stava portando i piatti di spezzatino. — Torniamo subito. Ce lo tenga in caldo.

Due occhi scuri si fissarono su di loro. In silenzio, come sempre, la donna riprese le scodelle e le portò a un altro tavolo.

Non ci vorrà molto a scoprirlo — disse Josh. — Damon. Ti prego.

— Che cosa intendono fare? Invadere la centrale?

— Causare disordini. Arrivare alla navetta. Organizzare la resistenza sulla Porta dell’Infinito… un piccolo gruppo. Damon, tutto dipende da quello che sai tu. La tua conoscenza del computer e delle gallerie.

— Hanno un pilota?

— Credo di sì.

Damon cercò di riordinare le idee. Scrollò la testa. — No.

— Perché no? Eri tu che parlavi di una navetta. I piani li avevi fatti tu.

— Non voglio un’altra rivolta nella stazione. Non voglio che venga uccisa altra gente, per realizzare un piano che non funzionerà mai…

— Vieni a parlare con loro. Vieni con me. O non ti fidi? Damon, per quanto tempo possiamo aspettare? Non hai ancora sentito tutto.

Damon sospirò. — Verrò — disse. — Temo che cominceranno molto presto a controllare i documenti d’identità nel settore verde. Parlerò con loro. Forse conoscono qualche sistema migliore. Più tranquillo. Sono molto lontani?

— Da Mascari.

— Dall’altra parte del corridoio.

— Sì. Vieni.

Damon lo seguì fra i tavoli.

— Voi — disse bruscamente Ngo quando passarono davanti al bar. Damon si fermò. — Non tornate qui, se dovete portare guai. Chiaro? Vi ho aiutati. Non voglio essere ripagato in questo modo. Chiaro?

— Chiaro — disse Damon. Non c’era tempo di discutere. Josh attendeva accanto alla porta. Uscì e lo raggiunse, guardando a destra e a sinistra; attraversò con lui il corridoio, ed entrò nel locale di Mascari, più buio e più rumoroso.

Un uomo seduto a sinistra dell’entrata si alzò e li raggiunse. — Da questa parte — disse; e dato che Josh lo seguiva senza fare domande, Damon non protestò e andò con loro, in fondo alla sala. Era così buio che era un’impresa evitare le sedie.

In un separé chiuso da una tenda c’era accesa una lampada fioca. Damon e Josh entrarono, ma la loro guida sparì.

Dopo un attimo un altro uomo entrò dietro di loro: era giovane e aveva una cicatrice sulla mascella. Damon non lo conosceva. — Stanno arrivando — disse il giovane; la tenda si scostò di nuovo, ed entrarono altri due uomini.

— Kressich — mormorò Damon. L’altro non lo conosceva.

— Conosce il signor Kressich? — chiese il nuovo arrivato.

— Di vista. Lei chi è?

— Mi chiamo Jessad… il signor Konstantin, vero?

Essere riconosciuto innervosì Damon. Guardò Josh, frastornato. Avrebbero dovuto conoscerlo. Quell’uomo non avrebbe dovuto stupirsi.

— Damon — disse Josh, — quest’uomo viene dal settore Q. Parliamo dei piani. Siediti.

Damon sedette al tavolino, incerto e preoccupato mentre gli altri lo imitavano. Guardò di nuovo Josh. Si fidava di lui. Gli avrebbe affidato la propria vita. Perché non sapeva come usarla altrimenti. E Josh gli aveva mentito. Tutto ciò che sapeva di lui gli diceva che Josh stava mentendo.

C’è una minaccia che incombe su di noi? si chiese angosciosamente, cercando una spiegazione di quella stranezza. — Di che proposta stiamo parlando? — domandò, augurandosi di potersene andare di lì, e di condurre fuori Josh, per chiarire tutto.

— Quando Josh ha detto di avere contatti — disse lentamente Jessad, — non sospettavamo che fosse lei. È molto meglio di quanto osassi sperare.

— Davvero? — Damon resistette all’impulso di guardare di nuovo Josh. — Che cosa spera esattamente, signor Jessad, dal settore Q?

— Josh non gliel’ha detto?

— Josh ha detto di parlare con lei.

— Del modo per riprendersi la stazione?

Damon non cambiò espressione. — Lei è convinto che abbia i mezzi per farlo.

— Io ho gli uomini — intervenne Kressich. — Li ha Coledy. Possiamo radunarne un migliaio in cinque minuti.

— Sa cosa succederebbe, allora — disse Damon. — Ci troveremmo sommersi dai militari. Cadaveri nei corridoi, se non ci butteranno tutti nel vuoto.

— Lei sa — disse Jessad, — che la situazione è interamente in mano loro. Fanno tutto quello che vogliono. Eccettuato lei, non c’è nessuna autorità che possa parlare per la vecchia Pell. Lukas… è spacciato. Dice soltanto quello che Mazian lo costringe a dire. È circondato dalle guardie. Una possibilità sono i cadaveri nei corridoi, è vero. L’altra è la sorte di Lukas, no? Le darebbero discorsi già preparati da leggere. Le permetterebbero di alternarsi con Lukas, o si sbarazzerebbero subito di lei. Dopotutto, hanno già Lukas, e lui accetta gli ordini, no?

— È chiaro, signor Jessad. — E la navetta? pensò Damon, appoggiandosi alla spalliera. Guardò Josh, che lo ricambiò con uno sguardo turbato. Tornò a guardare Jessad. — Qual è la sua proposta?

— Lei ci procuri l’accesso alla centrale. Al resto provvederemo noi.

— Non servirà a niente — disse Damon. — Là fuori ci sono navi da guerra. Non potrà tenerle lontane impadronendosi della centrale. Ci farebbero saltare. Non ci pensa?

— Ho i mezzi per fare in modo che funzioni.

— E allora sentiamo. Faccia la sua proposta, e mi lasci una notte di tempo per riflettere.

— E lasciarla andare in giro, adesso che conosce nomi e facce?

— E lei conosce la mia — disse Damon a Jessad, e vide un lampo nei suoi occhi.

— Fidati di lui — disse Josh. — Funzionerà.

Fuori ci fu uno schianto, più forte della musica del locale. La tenda svolazzò e Coledy piombò sul tavolino, con un foro in mezzo alla fronte. Kressich si alzò di scatto con un urlo di terrore. Damon si buttò indietro, urtando la parete accanto a Josh, e Jessad si portò convulsamente la mano alla tasca. Fuori, le grida si mescolavano alla musica. Un gruppo di soldati armati fino ai denti apparve all’ingresso del separé.

— Fermi tutti! — ordinò uno di loro.

Jessad estrasse fulmineamente la pistola. Un fucile sparò, e ci fu un odore di bruciato, mentre Jessad crollava sul pavimento contorcendosi. Damon fissò i militari e i fucili spianati, stordito dall’orrore. Josh, al suo fianco, non si mosse.

Un militare trascinò dentro un altro uomo, tenendolo per il bavero… era Ngo, che evitò lo sguardo di Damon. Sembrava che stesse per vomitare.

— Sono questi? — chiese il militare.

Ngo annuì. — Mi hanno costretto a nasconderli. Mi hanno minacciato. Hanno minacciato la mia famiglia. Vogliamo andare nel settore bianco. Tutti.

— Quello chi è? — Il soldato indicò Kressich.

— Non lo so — disse Ngo. — Non lo conosco. Non conosco gli altri.

— Portateli fuori — disse l’ufficiale. — Perquisiteli. Anche i morti.

Era finita. Centinaia di pensieri turbinarono nella mente di Damon… cercare di estrarre la pistola e sparare… fuggire, fin dove poteva arrivare prima che lo abbattessero.

E Josh… e sua madre e suo fratello…

Lo afferrarono, e lo girarono contro la parete facendogli allargare la gambe e accanto a lui c’erano Josh e Kressich. Gli frugarono le tasche, presero i documenti e la pistola, che da sola bastava a giustificare un’immediata esecuzione.

Lo fecero voltare di nuovo, con le spalle alla parete e lo guardarono più attentamente.

— Lei è Konstantin?

Damon non rispose. Uno lo colpì al ventre, e Damon gli si avventò addosso con una spallata, mandandolo a sbattere contro un tavolino. Uno stivale lo colpì alla schiena, mentre gli altri cercavano di ribellarsi. Si liberò dell’uomo che aveva stordito, e tentò di rialzarsi aggrappandosi al bordo del tavolo, quando uno sparo gli sfiorò la spalla, andando a colpire Kressich allo stomaco.

Il calcio di un fucile lo stordì. Le ginocchia cedettero, rifiutando di sostenerlo; un secondo colpo, sul braccio teso sul tavolo. Damon cadde, piegato in due, mentre un calcio lo centrava, e restò raggomitolato fino a quando perse quasi i sensi. Poi lo sollevarono, in due. — Josh — disse Damon, stordito. — Josh?

Due di loro sostenevano Josh, e cercavano di farlo rinvenire. Aveva la testa ciondoloni, e sanguinava dalla tempia. Quanto a Kressich, non sembravano troppo preoccupati; si muoveva ancora, e perdeva molto sangue. Lo avrebbero lasciato lì.

Damon si guardò intorno mentre li portavano nella sala. Ngo era fuggito, o l’avevano preso. I clienti erano scappati via. C’erano soltanto alcuni cadaveri e qualche militare con il fucile imbracciato.

I soldati trascinarono nel corridoio Damon e Josh. Alcuni stavano davanti al locale di Ngo, a guardare, e Damon girò la faccia dall’altra parte. Si vergognava di quell’esibizione pubblica del suo arresto.

Pensava che li avrebbero portati alle navi, dall’altra parte dei moli. Poi svoltarono all’angolo e si avviarono verso sinistra. C’era un bar che i militari avevano requisito, e che i civili evitavano.

Musica, droghe, liquori… tutto quello che il settore civile poteva offrire. Damon guardò, stordito, mentre li rimorchiavano dentro, in una nube di fumo e nella musica assordante. Incredibilmente c’era una scrivania: una concessione che aveva una parvenza di ufficialità. I militari li spinsero avanti e un uomo con un bicchiere in mano sedette e li squadrò. — Abbiamo fatto un colpo grosso — disse il capo del gruppo che li aveva arrestati. — La Flotta sta cercando questi due. Questo è Konstantin. E questo è un confederato. Dicono che sia Adattato… ma è stato adattato su Pell.

— Confederato. — Il sergente rivolse un sogghigno a Josh. — E come fanno quelli come lei ad arrivare a Pell? Ha una bella storia da raccontarmi, confederato?

Josh non disse nulla.

— Ce l’ho io — disse dalla porta una voce aspra che fece tremare le pareti. — Lui è proprietà della Norway.

Le risate e le conversazioni s’interruppero, e solo la musica continuò. I nuovi arrivati, che erano corazzati a differenza di gran parte dei presenti, entrarono con movimenti bruschi che sconcertarono gli altri. — Norway — borbottò qualcuno. — Fuori di qui, bastardi della Norway.

— Come ti chiami? — muggì il nuovo venuto.

— Altrimenti ci sparate addosso? — gridò un altro.

L’uomo tarchiato dalla voce tonante premette il pulsante del suo comunicatore e disse qualcosa che fu sommerso dalla musica, si voltò e fece un cenno ai dodici militari che lo accompagnavano, e quelli subito si sparpagliarono. Poi guardò gli altri, girando gli occhi lentamente. — Nessuno di voi è in condizioni di occuparsi di niente. Rimettete in ordine il locale. Se qui c’è qualcuno dei nostri, lo spello vivo. C’è?

— Provi più avanti — gridò qualcuno. — Questo è territorio dell’Australia. La Norway non ha diritto di farci rapporto.

— Consegnate i prigionieri — disse l’uomo basso. Nessuno si mosse. I soldati della Norway spianarono i fucili e quelli dell’Australia lanciarono grida indignate. Due dei dodici si avvicinarono a Damon e a Josh, li afferrarono, strappandoli a quello che li aveva in custodia, e poi li trascinarono verso la porta. Josh non oppose resistenza. E neppure Damon. Finché erano insieme… in fondo non era rimasto altro.

— Portateli fuori! — tuonò l’ometto rivolto ai suoi. Vennero spinti nel corridoio; due militari rimasero con il loro ufficiale nel bar. Solo mentre percorrevano il corridoio del nove incontrarono altre truppe: erano della Norway.

— Andate al locale dell’Australia — gridò uno, una voce di donna. — McCarthy. Di li tiene sotto la minaccia dei fucili. Ha bisogno di rinforzi, subito.

I militari corsero via. Quattro di quelli che li scortavano proseguirono, conducendoli verso la porta d’accesso del molo azzurro, dove c’erano le guardie.

— Fateci passare — ordinò l’ufficiale. — Là indietro c’è una situazione di potenziale disordine.

Le guardie erano dell’Australia: si riconoscevano dalle mostrine. Con riluttanza, aprirono la porta d’emergenza e li lasciarono passare.

Arrivarono al molo azzurro, dove la Norway era attraccata accanto all’India, all’Australia e all’Europe. Damon cominciava a sentire lo shoc delle lesioni, se non proprio il dolore. Lì c’erano soltanto militari, un viavai di truppe, e squadre in uniforme da lavoro che caricavano provviste.

Il tubo d’accesso della Norway stava davanti a loro. Salirono la rampa, e passarono nella camera di compensazione… C’erano altri militari con le mostrine della Norway.

— Talley — disse uno con un sogghigno di sorpresa. — Bentornato, Talley.

Josh scattò. Riuscì ad arrivare a metà del tubo di accesso, prima che lo riprendessero.


PELL: NORWAY; MOLO AZZURRO; 8/1/53: ore 1930

Signy alzò gli occhi dalla scrivania, e abbassò per un attimo il volume del comunicatore che trasmetteva i rapporti delle sue truppe sui moli e altrove. Guardò con un sorriso ironico le guardie e Talley. Lui era malconcio… con la barba lunga, sporco, insanguinato. Aveva un livido sulla mascella.

— Sei venuto a trovarmi? — gli chiese. — Non avevo previsto che avresti riprovato.

— Damon Konstantin… lo hanno portato a bordo. I militari l’hanno preso. Pensavo che avresti voluto parlare con lui.

Signy lo fissò, perplessa. — Vuoi consegnarcelo, eh?

— Lui è qui. Siamo qui tutti e due. Tiralo fuori.

Signy Mallory si appoggiò allo schienale e lo squadrò incuriosita. — Adesso parli — disse. — Non parlavi mai.

Josh non trovò nulla da dire.

— Hanno giocato con la tua mente — commentò lei. — E adesso sei amico di Konstantin, no?

— Mi appello a te — disse Josh con un filo di voce.

— In nome di che cosa?

— Della ragione. Lui vi è utile. E loro lo uccideranno.

Signy lo guardò, socchiudendo le palpebre. — Sei contento di essere di nuovo qui, no? — C’era una chiamata in arrivo, una chiamata che il centro comunicazioni evidentemente non poteva sbrigare.

Signy alzò il sonoro e prese la chiamata. — È scoppiata una rissa da McCarthy — disse una voce.

— C’è Di? — chiese Signy. — Passatemi Di.

— È occupato — disse la voce. Lei fece un cenno alle guardie, dimenticando Talley. Un’altra spia luminosa stava lampeggiando.

Mallory! — le gridò Talley, mentre lo trascinavano verso la porta.

— Chiamata dall’Europe — disse il comunicatore. — Mazian è in linea.

Signy premette il pulsante. Avevano portato fuori Talley, per chiuderlo da qualche parte, sperava.

— Qui Mallory, Europe.

— Che cosa sta succedendo?

— Ci sono guai al molo, signore. Janz chiede istruzioni, con il suo permesso, signore. — Tolse la comunicazione. — L’hanno colpito — disse una voce su un altro canale. — Comandante, hanno sparato a Di.

Signy strinse il pugno. — Portatelo fuori di lì, portatelo fuori. Con che ufficiale sto parlando?

— Qui Uthup — disse una voce femminile. — Uno dell’Australia ha sparato a Di.

Signy premette un altro pulsante. — Passatemi Edger. Subito!

— Abbiamo oltrepassato la porta — disse la voce della Uthup. — Abbiamo recuperato Di.

— Truppe della Norway, allarme generale. Abbiamo guai sul molo. Presto!

— Qui Edger — disse una voce. — Mallory, richiami i suoi segugi.

— Richiami i suoi, Edger, altrimenti ordinerò di sparare a vista. Hanno colpito Di Janz.

— Ci penserò io — disse Edger, e tolse la comunicazione. L’allarme risuonava nei corridoi della Norway, una sirena rauca, mentre le luci azzurre lampeggiavano. I quadri e gli schermi dell’ufficio stavano prendendo vita, mentre la nave si preparava.

— Stanno arrivando — disse la voce della Uthup. — È ancora vivo, comandante.

— Lo porti a bordo, Uthup, lo porti a bordo.

— Noi andiamo sul posto, comandante. — Questo era Graff, che si dirigeva al molo. Signy cominciò a premere i pulsanti, cercando di inquadrare la situazione sugli schermi e imprecando contro i tecnici: qualcuno doveva averla vista sul video. Finalmente trovò il gruppo che rientrava, portando più di un ferito. Le truppe della Norway si riversarono in fretta sul molo prendendo posizione intorno ai cavi e al tubo d’accesso.

— Il medico è pronto — disse una voce. Vide una figura familiare che raggiungeva le truppe e prendeva il comando. Adesso là fuori c’era Graff. Signy respirò, sollevata.

— L’Europe è ancora in linea — riferì il comunicatore. Signy premette il pulsante.

— Comandante Mallory? Che guerra sta combattendo, là fuori?

— Ancora non lo so, signore. Lo scoprirò appena potrò riportare a bordo le mie truppe.

— Avete preso alcuni prigionieri dell’Australia. Perché?

— Uno è Damon Konstantin, signore. Mi rimetterò in contatto appena saprò qualcosa di Janz. Con il suo permesso, signore.

Mallory.

— Signore?

— L’Australia ha due vittime. Voglio un rapporto.

— Glielo farò avere appena avrò saputo cos’è successo, signore. Nel frattempo sto mandando truppe al molo verde prima che abbiano guai con i civili.

— L’India sta facendo affluire le sue truppe. Lasci perdere, Mallory, e tenga lontani i suoi. Lontani dai moli. Ritiri le sue truppe. E voglio vederla al più presto, chiaro?

— Con il rapporto, signore. Con il suo permesso, signore.

La spia si spense e il contatto s’interruppe. Signy batté il pugno sulla consolle e spinse indietro la sedia, poi si avviò verso il reparto chirurgia a poca distanza dal corridoio che portava all’ascensore principale.


Era meno grave di quanto avesse temuto. Di aveva il polso regolare, e grazie alle cure immediate sembrava che non corresse pericolo. Una ferita al petto, qualche ustione. Aveva perso parecchio sangue, ma Signy aveva visto di peggio. Un colpo arrivato a segno per caso, in una giuntura della corazza. Andò alla porta, dove attendeva la Uthup, con l’armatura coperta di sangue. — Fuori di qui, tutti quanti — ordinò, spingendoli nel corridoio. — Questo è un ambiente sterilizzato. Chi ha sparato per primo?

— Una maledetta dell’Australia. Era ubriaca e fuori di sé.

— Comandante.

— Comandante — disse la Uthup a denti stretti.

— È ferita, Uthup?

— Qualche ustione, comandante. Mi farò dare un’occhiata quando avranno finito con il maggiore e gli altri, se permette.

— Non vi avevo detto di stare alla larga da quella zona?

— Abbiamo sentito al comunicatore che avevano preso Konstantin e Talley, comandante. Erano agli ordini di un sergente, ed erano ubriachi come i marinai dei mercantili in libera uscita. Il maggiore è entrato, e quelli hanno detto che a noi era proibito l’accesso.

— Basta così — borbottò Signy. — Voglio un rapporto, Uthup; e in base a quello sosterrò le vostre ragioni. Vi avrei spellati vivi se aveste indietreggiato davanti a quei bastardi di Edger. E può riferire che l’ho detto, se vuole. — Si allontanò passando fra le truppe. — Tutto bene. Di è ancora intero. Andatevene e lasciate lavorare i medici. Tornate ai vostri alloggi. Io parlerò con Edger, ma se voi o qualcuno degli altri fa tanto di mettere piede sui moli, vi ammazzo con le mie mani. Avete la mia parola. Via!

Tutti si dispersero. Signy andò in sala comando, e guardò i vari membri dell’equipaggio alle rispettive postazioni. C’era anche Graff, tutto sporco di sangue.

— Si ripulisca — disse lei. — Voi altri restate alle vostre postazioni. Morio, vada a interrogare la Uthup e tutti quelli del distaccamento. Voglio i nomi e l’identità di quelli dell’Australia. Voglio fare una protesta ufficiale, e subito.

— Sì, comandante. — Morio si affrettò a uscire.

Signy rimase in sala comando e si guardò intorno fino a quando tutti chinarono la testa sul lavoro. Graff se ne era andato per rimettersi in ordine. Lei continuò a camminare avanti e indietro fino a quando se ne rese conto, e si fermò.

Doveva presentarsi a Mazian. C’era sangue sulla sua uniforme, il sangue di Di. Alla fine, decise di andare senza pulirsi.

— Il comando passa a Graff — disse bruscamente. — McFarlane, ho bisogno di una scorta che mi accompagni all’Europe. Si sbrighi.

Signy si avviò verso l’ascensore, mentre l’ordine echeggiava nei corridoi. La scorta l’aspettava all’uscita, quindici militari in assetto completo. Passò fra le guardie che sorvegliavano la rampa d’accesso. Non aveva l’armatura. Era un molo sicuro, e lei non ne avrebbe avuto bisogno, ma in quel momento si sarebbe sentita più sicura se avesse attraversato nuda il molo verde.


PELL: EUROPE; MOLO AZZURRO; 8/1/53: ore 2015

Mazian non tardò a comparire, questa volta. Era un’udienza a due, Signy e Tom Edger, ed Edger era arrivato per primo. Questo era previsto.

— Si sieda — le disse Mazian. Signy sedette al tavolo, di fronte a Edger. Mazian prese posto fra i due, appoggiò i gomiti sul tavolo e la guardò cupamente. — Dunque? Il rapporto?

— Sta arrivando — rispose lei. — Ho bisogno di tempo per interrogare e raccogliere le identificazioni. Di ha preso i nomi e i numeri prima che gli sparassero.

— Gli aveva dato ordine lei di andar là?

— Le mie truppe hanno l’ordine di non scappare se si trovano di fronte ai guai. Signore, i miei sono stati sistematicamente perseguitati dopo l’incidente di Goforth. Sono stata io a sparare, e i miei ci vanno di mezzo. Finora si è trattato di punzecchiature, ma poi qualcuno si è sbronzato troppo per distinguere tra le punzecchiature e l’ammutinamento. Una donna ha rifiutato di dare il suo numero di matricola. È stata arrestata e allora ha tirato fuori la pistola e ha sparato su un ufficiale.

Mazian guardò Edger e tornò a fissare Signy. — Io ho sentito un’altra versione. Che i suoi militari vengono incoraggiati a far causa comune. Che sono sempre ai suoi ordini anche in libera uscita. Che vanno in giro a squadre, comandati da un ufficiale, e pretendono di spadroneggiare nei moli. Che tutta l’attività delle truppe del personale della Norway è insubordinata e provocatoria, una sfida diretta ai miei ordini.

— Io non assegno nessun compito alle mie truppe in libera uscita. Se vanno in giro a gruppi, lo fanno per proteggersi. Vengono assaliti nei bar che sono aperti a tutti, tranne che al personale della Norway. Questo è il tipo di comportamento che viene incoraggiato negli altri equipaggi. Già la scorsa settimana le ho presentato un reclamo.

Per un momento Mazian tamburellò con le dita sul tavolo, un gesto lento e nervoso. Alla fine guardò Edger.

— Io ho esitato a presentare un reclamo — disse Edger. — Ma là fuori si sta creando un’atmosfera spiacevole. A quanto pare, c’è una certa divergenza di opinioni circa l’organizzazione dell’intera Flotta. La devozione verso le rispettive navi… verso certi comandanti… viene incoraggiata in diversi casi, per ragioni che mi rifiuto di immaginare, forse da certi comandanti.

Signy aspirò una boccata d’aria e batté le mani sul tavolo. Stava per balzare dalla sedia, ma poi si trattenne. Edger e Mazian erano sempre stati molti vicini… lo sospettava da tempo, e lei non poteva farci nulla. Si calmò, guardò soltanto Mazian. Era la guerra: era la situazione più difficile in cui si fosse mai trovata la Norway, tra l’ambizione di Mazian e quella di Edger. — È molto grave — disse, — quando si comincia a sparare tra di noi. Con il suo permesso… noi siamo i più anziani della Flotta, quelli che sono sopravvissuti più a lungo. E le dirò chiaro che so cosa c’è nell’aria: sono stata al gioco, ho continuato a organizzare la stazione, anche se so benissimo che non avrà più nessuna importanza quando la Flotta se ne andrà. Ho provveduto alle operazioni che lei mi ha ordinato, nel modo migliore. Non ho detto niente di quello che so al mio equipaggio e alle mie truppe; e ho capito che le truppe sono autorizzate a fare quel che vogliono nella stazione, perché, a lungo andare, non conterà nulla. Perché Pell non conta più; la sua sopravvivenza, adesso, è contraria ai nostri interessi. Adesso miriamo a qualcosa di diverso. O forse è sempre stato così, e lei ci ha mossi per gradi, per non sconvolgerci troppo quando alla fine proporrà quello che ha davvero in mente, l’unica possibilità che ci ha lasciato. Sol, non è vero? La Terra. E sarà un viaggio lungo e pericoloso, con molti guai quando ci arriveremo. La Flotta… s’impadronirà dell’Anonima. Forse ha ragione lei. Forse è la sola cosa da fare. Forse è logico, e ha cominciato a essere logico molto tempo fa, quando l’Anonima ha smesso di aiutarci. Ma non ci arriveremo, se Pell distrugge la disciplina che ha fatto funzionare la Flotta per decenni. Non ci arriveremo se le unità saranno omogeneizzate, formando una struttura che non può operare separatamente. Ed è appunto la conseguenza di questa persecuzione. Mi suggerisce la maniera con la quale comandare la Norway. Se comincia così, allora tutto è allo sfascio. Se toglie alle truppe le mostrine e le designazioni, l’identità e lo spirito, tutto va a rotoli… e comunque lei lo chiami, è proprio ciò che sta succedendo là fuori, quando una nave viene costretta ad adeguarsi a criteri contrari a ogni regola precedente, quando i comandanti di questa Flotta incoraggiano i loro soldati a prendersela con i miei, in assenza di altri nemici. La Flotta, come complesso, non è esistita per decenni, ma questa era la nostra forza… la possibilità di fare quel che si doveva fare, in questo spazio immenso. Se ci rende un tutto omogeneo, diventeremo prevedibili. E dato che siamo pochi… saremo spacciati.

— È sorprendente — disse Mazian senza alzare la voce, — che lei finisca per predicare la separazione degli equipaggi, quando si lamenta della mancanza di disciplina. È un sofisma sorprendente.

— Mi è stato ordinato di allinearmi, di cambiare l’ordine esistente sulla mia nave. Le mie truppe l’interpretano come un insulto alla Norway e se ne risentono. Che altro può aspettarsi, signore?

— L’atteggiamento delle truppe rispecchia quello dei loro ufficiali e del comandante, no? Forse l’ha incoraggiato lei.

— E forse anche quel che è successo in quel bar è stato incoraggiato.

— Signore.

— Con tutto il rispetto… signore.

— I suoi uomini hanno sottratto dei prigionieri alle truppe che avevano effettuato l’arresto. Per arrogarsi il merito, non le sembra?

— Hanno sottratto dei prigionieri a un gruppo di militari ubriachi in libera uscita in un bar.

— Nel quartier generale del molo — borbottò Edger. — Lo dica chiaramente, Mallory.

— I militari erano ubriachi e turbolenti nel suo quartier generale del molo, e uno dei prigionieri era di proprietà della Norway. Non c’era neppure un ufficiale in quel quartier generale. E l’altro prigioniero era prezioso, utile per il mio compito. Si tratta di sapere perché i prigionieri erano stati portati in quel cosiddetto quartier generale, anziché negli uffici del molo azzurro o alla nave più vicina, che era l’Africa.

— I militari che avevano effettuato l’arresto si sono presentati a rapporto dal loro sergente. Che era presente, quando il suo maggiore ha fatto irruzione.

— Ritengo che questo atteggiamento contribuisca a creare l’atmosfera che ha portato al ferimento del maggior Janz. Se quello era il quartier generale del molo, il maggiore Janz aveva tutto il diritto di entrare e di assumere il comando della situazione. Ma appena è entrato gli è stato detto che il presunto quartier generale del molo era territorio riservato dell’Australia; e il sergente dell’Australia non ha obiettato a questo atto d’insubordinazione. Ora, un quartier generale deve essere la riserva privata di una sola nave, o che altro? Non è possibile che altri comandanti istighino le loro truppe al separatismo?

— Mallory — disse Mazian.

— Ecco il punto, signore: il maggiore Janz ha dato l’ordine regolare di consegnargli i prigionieri e non ha ricevuto alcuna collaborazione dal sergente dell’Australia, il che ha contribuito all’incidente.

— Due dei miei militari sono rimasti uccisi nella sparatoria — disse Edger con voce tesa. — E si sta indagando sul modo in cui è incominciata.

— Anche da parte nostra, comandante. Attendo le informazioni da un momento all’altro, e quando arriveranno gliene farò avere una copia.

— Comandante Mallory — disse Mazian, — faccia quel rapporto a me. Al più presto. In quanto ai prigionieri, non m’interessa cosa ne farà. Poco importa che siano qui o altrove. Ciò che importa è il dissenso. L’ambizione… da parte di alcuni comandanti della Flotta. Le piaccia o no, comandante Mallory, lei si metterà in riga. È vero, abbiamo operato separatamente, e adesso dobbiamo lavorare insieme. E certi spiriti liberi, tra noi, stentano ad accettarlo. Non amano prendere ordini. Lei per me è preziosa. Sa vedere il nocciolo di un problema, no? Sì, si tratta di Sol. E dicendomi questo, spera di entrare a far parte del consiglio ristretto, vero? Vuole essere consultata. Ma per arrivarci, comandante, dovrà imparare a mettersi in riga.

Signy restò immobile, ricambiando lo sguardo di Mazian. — Senza sapere dove sto andando?

— Lo sa dove stiamo andando. L’ha detto.

— Sta bene — disse lei. — Non rifiuto di prendere ordini. — Fissò Tom Edger e poi di nuovo Mazian. — Li accetto, come gli altri. Forse non abbiamo collaborato strettamente in passato, ma sono disposta a farlo.

Mazian annuì; la sua bella faccia d’attore aveva un’espressione affettuosa. — Bene. Bene. Dunque è tutto sistemato. — Si alzò, andò a un armadietto, prese una bottiglia di brandy e i bicchieri, e cominciò a versare. Portò i bicchieri sul tavolo, e ne passò uno a Edger e uno a Signy. — Spero che sia sistemato una volta per tutte — disse, sorseggiando. — Deve essere così. Altri reclami?

Forse Tom Edger aveva qualcosa da dire. Signy lo vide rabbuiarsi, mentre beveva il fuoco liquido del brandy. Sorrise, lievemente. Edger non reagii.

— L’altra questione che ha sollevato — disse Mazian. — Il destino della stazione… sì. E mi auguro che questa informazione non pervenga ad altri.

Ecco la ragione della scena, pensò Signy. — Sì, signore — disse.

— Nessuna formalità. A tempo debito tutti i comandanti riceveranno istruzioni. Lei è una stratega, la migliore sotto molti punti di vista. Avrebbe dovuto essere informata prima. Lo so. Sarebbe già avvenuto, se non ci fosse stato lo spiacevole incidente di Goforth e del mercato nero.

Signy si sentì avvampare. Posò il bicchiere.

— Si calmi, cara amica — disse sottovoce Mazian. — Anch’io ho un caratteraccio. Conosco i miei difetti. Ma non posso permettere che lei si stacchi da me. Non posso. Ci stiamo preparando a muoverci. Entro la settimana. Le operazioni di carico sono quasi finite. E ci muoveremo prima che la Confederazione se lo aspetti… prenderemo l’iniziativa, e creeremo loro un problema.

— Pell.

— Appunto. — Mazian finì il brandy. — Lei ha Konstantin. Non può tornare indietro; dobbiamo togliere di mezzo anche Lukas. Tutti i tecnici al lavoro e quelli in detenzione. Tutti coloro che possono gestire il computer e la centrale e riportare l’ordine a Pell. Quando si prepara tutto per il collasso definitivo non si può lasciare in vita quelli che potrebbero rimediare. In particolare Konstantin: è pericoloso da due punti di vista. Il computer e la sua figura. Se ne liberi.

Signy sorrise a denti stretti. — Quando?

— È già pericoloso. Molta discrezione. Porey provvederà all’altro… Emilio Konstantin. Piazza pulita, Signy. Non deve restare nulla che possa servire alla Confederazione. Non ci saranno profughi, da Pell.

— Capisco. Provvederò.

— Lei e Tom, nonostante i vostri litigi, avete fatto un buon lavoro. Mi preoccupava molto il fatto che non si trovasse Konstantin. Avete fatto un eccellente lavoro. Dico sul serio.

— Conoscevo le sue intenzioni — disse Signy. — Dunque il computer è già regolato così: un segnale può gettarlo nel caos completo. Mancano ancora due operatori del computer. Penso di chiudere il settore verde domani. Si arrenderanno, oppure ordinerò la decompressione della sezione e così tutto sarà risolto egualmente. Ho le foto degli operatori scomparsi. Mi rivolgerò a quell’informatore, Ngo, e agli altri. Scoprirò tutto quel che posso, prima che ci muoviamo. Se gli agenti potranno stanare gli operatori in modo che siamo assolutamente sicuri, tanto meglio.

— I miei uomini collaboreranno — disse Edger. Signy annuì.

— Ecco come si fa — esclamò allegramente Mazian. — È questo che mi aspettavo da lei, Signy; basta litigare per le prerogative. Ora vi metterete al lavoro tutti e due?

Signy finì di bere, e si alzò. Si alzò anche Edger. Lei sorrise e salutò con un cenno Mazian, ma non Edger, e uscì a passo volutamente disinvolo.

Bastardo, pensò. Non sentì i passi di Edger dietro di lei. Quando entrò nell’ascensore e scese per raggiungere la sua scorta, Edger non la seguì. Era rimasto a parlare con Mazian. Puttana.

L’ascensore la portò all’uscita. Ritrovò la sua scorta dove l’aveva lasciata, e si accorse che evitava ogni alterco con le truppe dell’Europe che affollavano quel luogo. C’erano tre dell’Europe, che smisero di colpo di sorridere quando passò in mezzo a loro.

Radunò la sua scorta, attraversò la camera di compensazione e scese sul molo, dove l’attendevano le sue truppe.


PELL: NORWAY; MOLO AZZURRO; 8/1/53: ore 2300 pg.; ore 1100 ag.

Si sentì un po’ meglio dopo essersi riposata, aver fatto un bagno, aver chiarito l’incidente e preparato i rapporti. Non s’illudeva che avrebbero fatto qualcosa a quella dell’Australia che aveva sparato a Di… almeno non ufficialmente. Ma quella donna avrebbe fatto meglio a non andare in giro da sola dove c’erano truppe della Norway, per il resto della sua vita.

Di stava bene; era reduce da un intervento ed era furioso. Buon segno. Aveva una costola incrinata e avevano dovuto fargli massicce trasfusioni, ma era in grado di mettersi davanti al video e di bestemmiare in modo coerente. Il morale di Signy migliorò. Graff era con Di, e c’era una lista di ufficiali e di membri dell’equipaggio disposti a tenergli compagnia, una prova di attaccamento che avrebbe preoccupato. Di, se l’avesse saputo.

Pace. Per qualche ora, fino all’indomani, fino all’operazione nel settore verde. Signy appoggiò i piedi sul letto, seduta di sghimbescio alla scrivania del suo alloggio, e si versò un secondo bicchiere. Raramente ne beveva due. Quando lo faceva, passava al terzo e al quarto e al quinto, e avrebbe voluto che vi fosse Di o Graff accanto a lei, per parlare. Sarebbe andata da loro, ma Di era troppo ansioso di sfogarsi, e se l’avesse fatto gli sarebbe aumentata la pressione. Non gli avrebbe fatto bene.

C’erano altri diversivi. Signy rifletté per un po’, esitando, e finalmente chiamò il posto di guardia. — Portate qui Konstantin.

Ottenne il segnale di ricevuto. Signy sorseggiò il liquore, chiamò varie postazioni per assicurarsi che tutto funzionasse a dovere, e che la rabbia si stesse acquietando. Il liquore non la tranquillizzò; provava ancora l’impulso di camminare nervosamente avanti e indietro, e non c’era molto spazio per farlo. L’indomani…

Scacciò quel penseiro. Centoventotto civili morti durante la normalizzazione del settore bianco. Nel verde sarebbe stato peggio, perché là si erano rifugiati tutti quelli che avevano buone ragioni per non farsi identificare. Avrebbe potuto fare piazza pulita, se i due tecnici del computer non fossero stati trovati in fretta. Era la soluzione più logica; una morte rapida e indiscriminata; un modo per assicurarsi di aver preso tutti i fuggitivi… e più misericordioso, per quelli, che lasciarli in una stazione in sfacelo. L’Hansford, su grande scala; e quello era il dono che avrebbe lasciato alla Confederazione, cadaveri putrefatti e fetore, un fetore incredibile.

La porta si aprì. Signy Mallory alzò gli occhi verso i tre militari e Konstantin… ripulito, in uniforme da lavoro con qualche cerotto sul volto. Niente male, pensò vagamente, sporgendosi in avanti. — Vuol parlare? — gli chiese. — O altro?

Konstantin non rispose, ma sembrava non avesse voglia di litigare. Signy congedò i militari con un gesto. La porta si chiuse e Konstantin restò lì a fissare il vuoto.

— Dov’è Josh Talley? — chiese finalmente.

— A bordo, da qualche parte. C’è un bicchiere in quell’armadietto. Vuole bere?

— Voglio andarmene di qui — disse lui. — Voglio che questa stazione sia riconsegnata alle autorità legittime. Voglio che mi renda conto dei cittadini che avete assassinato.

— Oh — disse lei. Rise, brevemente, e squadrò di nuovo il giovane Konstantin. Sorrise, acida, e premette con il piede sul letto, scostando un po’ la sedia. Indicò il letto, perché lui sedesse. — Lei vuole — disse. — Si sieda. Si sieda, signor Konstantin.

Lui obbedì. La fissò con gli stessi occhi cupi e furiosi di suo padre.

— In realtà non si fa molte illusioni — gli chiese. — Non è vero?

— Nessuna illusione.

Signy annuì, dispiaciuta. Bel viso. Giovane. Ben fatto. Parlava bene. Era molto simile a Josh. In quella guerra c’erano sprechi che la nauseavano. Giovani come quello trasformati in cadaveri. Se fosse stato un altro… ma si chiamava Konstantin, e questo lo condannava. Pell avrebbe reagito a quel nome; perciò doveva morire. — Vuol bere?

Lui non rifiutò. Signy gli passò il suo bicchiere e tenne la bottiglia.

— Jon Lukas è il vostro fantoccio — disse Konstantin. — È vero?

Era inutile tormentarlo dicendogli la verità. Signy annuì. — Prende ordini.

— E adesso muoverete contro il settore verde?

Lei annui di nuovo.

— Lasci che gli parli al comunicatore. Lasci che cerchi di farli ragionare.

— Per salvarsi la vita? O per rimpiazzare Lukas? È inutile.

— Per salvare la loro vita.

Signy lo fissò per un lungo momento.

— Lei non uscirà allo scoperto, signor Konstantin. Dovrà scomparire senza chiasso. Credo che lo sappia già. — Signy aveva una pistola al fianco; vi appoggiò la mano. Non pensava che lui avrebbe tentato qualcosa, ma non si poteva mai sapere. — Diciamo che, se riuscirò a trovare due individui, risparmierò la sezione. James Muller e Judith Crowell. Dove sono? Se potessi individuarli subito… questo salverebbe molte vite.

— Non lo so.

— Non li conosce?

— Non so dove siano. Non credo siano ancora vivi, se erano segnalati nel settore verde. Conosco troppo bene la sezione: li avrei trovati, se fossero là.

— Mi dispiace — disse lei. — Farò quello che posso, per quanto è ragionevole. Glielo prometto. Lei è un uomo civile, signor Konstantin. Una razza scomparsa. Se potessi trovare un modo per tirarla fuori lo farei, ma ho le mani legate.

Konstantin non disse nulla. Signy continuò a tenerlo d’occhio, e bevve un sorso dalla bottiglia. Lui bevve dal bicchiere.

— E il resto della mia famiglia? — chiese finalmente.

Lei fece una smorfia. — Sani e salvi, signor Konstantin. Sua madre fa tutto ciò che le chiediamo e suo fratello è innocuo, là dove si trova. Le provviste arrivano regolarmente e non abbiamo nulla da ridire sulla sua presenza laggiù. È anche lui una persona civile, che per fortuna non ha accesso a folle numerose e a sistemi sofisticati dove sono attraccate le nostre navi.

Le labbra di Konstantin tremarono. Finì il liquore. Signy gliene versò ancora, accostandosi apposta. Era un gioco d’azzardo. L’uno contro l’altro. Ma era il momento di mettere le carte in tavola. Se lui fosse sopravvissuto fino all’indomani avrebbe saputo troppo di quello che doveva accadere, e sarebbe stata una crudeltà. Signy aveva in bocca un sapore amaro che il brandy non cancellava. Gli porse la bottiglia. — La prenda — disse. — Ora la lascerò tornare al suo alloggio. I miei omaggi, signor Konstantin.

Altri uomini avrebbero protestato, gridato e implorato; altri avrebbero cercato di prenderla per il collo, un modo di affrettare la conclusione. Lui si alzò e andò alla porta senza la bottiglia, e si voltò quando la porta non si aprì.

Signy chiamò l’ufficiale di servizio. — Venite a prendere il prigioniero. — Arrivò il segnale di ricevuto. Poi lei aggiunse: — E dacché ci siete, portate qui Josh Talley.

Negli occhi di Konstantin si accese una luce di panico. — Lo so — disse Signy. — Ha intenzione di uccidermi. Ma adesso ha subìto qualche cambiamento, no?

— Si ricorda di lei.

Signy sporse le labbra, e sorrise senza averne l’intenzione. — Vive per ricordare. È così?

— Mi faccia parlare con Mazian.

— Sarebbe inutile. E non accetterebbe di ascoltarla. Non sa, Damon Konstantin, che è proprio Mazian la causa dei suoi guai? Gli ordini li ho avuti da lui.

— Un tempo la Flotta apparteneva all’Anonima. Era nostra. Credevamo in voi. Le stazioni, tutte, credevano in voi, se non nell’Anonima. Che cosa è successo?

Signy abbassò involontariamente gli occhi, e trovò difficile rialzarli per incontrare lo sguardo ignaro del giovane.

— Qualcuno è impazzito — disse Konstantin.

È possibile, pensò lei. Si appoggiò allo schienale, senza trovare nulla da dire.

— A Pell non è come nelle altre stazioni — continuò lui. — Pell è stata sempre diversa. Ascolti il mio consiglio, almeno. Lasci a mio fratello la direzione permanente della Porta dell’Infinito. Otterrete di più dagli indigeni, se procederete con cautela. Lasciate che li guidi lui. Non è facile capirli, ma anche loro non ci capiscono facilmente. Per lui lavoreranno. Lasciate che facciano le cose a modo loro, e lavoreranno dieci volte di più. Vi daranno tutto quello che chiedete, se domanderete anziché prendere.

— Suo fratello resterà al suo posto — disse Signy.

La spia luminosa sulla porta lampeggiò. Signy premette il pulsante per aprirla. Avevano portato Josh Talley. Lei attese, osservando… uno scambio di occhiate, un tentativo di fare domande senza parlare. — Tutto bene? — chiese Josh. Konstantin annuì.

— Il signor Konstantin se ne va — disse Signy. — Vieni avanti, Josh. Vieni avanti.

Lui obbedì, voltandosi per lanciare un’occhiata ansiosa a Konstantin. La porta si chiuse. Signy riprese la bottiglia, e riempì il bicchiere che Konstantin aveva lasciato sulla scrivania.

Anche Josh era più pulito. Era magro. Le guance incavate. Gli occhi… luccicanti.

— Vuoi sederti? — chiese lei. Non sapeva cosa aspettarsi, da lui. Era sempre stato docile, in tutto. Adesso lo osservava, attendendosi un gesto disperato ricordando quella volta che era andato a cercarla nella stazione, gridando davanti alla porta. Josh sedette, tranquillo. — Ai vecchi tempi — disse Signy, e bevve. — È un uomo rispettabile, Damon Konstantin.

— Sì — disse Josh.

— Vuoi ancora uccidermi?

— Ce ne sono altri peggiori di te.

Lei sorrise cupamente. Poi il sorriso svanì. — Conosci due che si chiamano Muller e Crowell? Conosci qualcuno che si chiama così?

— I nomi non mi dicono niente.

— Conosci qualcuno, su Pell, che sappia usare il computer della stazione?

— No.

— Questa è l’unica domanda ufficiale. Mi dispiace che tu non lo sappia. — Signy sorseggiò il liquore. — Ti comporti bene nell’interesse di Konstantin. No?

Nessuna risposta. Ma era la verità. Signy lo guardò negli occhi e ne fu certa.

— Volevo farti questa domanda — disse lei. — È tutto.

— Chi sono… quelli che cerchi? Perché? Che cos’hanno fatto?

Domande. Josh non aveva mai fatto domande. — L’Adattamento ti ha fatto bene — disse Signy. — Cosa stavi combinando quando quelli dell’Australia ti hanno preso?

Silenzio.

— Sono morti, Josh. Ha importanza, ormai?

Gli occhi di Josh si annebbiarono, la vecchia espressione assente… Bellissimo, pensò Signy, come aveva pensato mille volte. Era un altro che non si poteva risparmiare. Aveva pensato di poterlo fare, aveva fatto i conti senza la sua lucidità. Quando Konstantin fosse morto, lui sarebbe diventato molto pericoloso. Domani, pensò. Doveva essere fatto l’indomani.

— Sono un confederato — disse Josh. — Non dei servizi regolari… non quelli che mostravano i documenti. Servizi speciali. Mi hai portato qui tu stessa. E c’era un altro che è riuscito ad arrivare fin qui… com’era arrivato a Mariner. Si chiamava Gabriel. E ha rovinato Pell. Lui ha agito contro di voi, non i Konstantin. Lui e i suoi complici hanno assassinato i familiari di Damon, gli hanno fatto perdere sua moglie… non so come sia acccaduto, esattamente. Non sono stato io. Ma qualunque cosa abbiate pensato, l’uomo che avete messo a capo della stazione, adesso… è stato indotto a uccidere da Gabriel. Lo so perché conosco la sua tattica. Hai arrestato l’uomo sbagliato, Mallory. Il vostro uomo, Lukas, era al servizio di Gabriel, prima di passare dalla vostra parte.

I fumi dell’alcool abbandonarono all’improvviso la mente di Signy. Con il bicchiere in mano, fissò gli occhi chiari di Josh e si sentì mancare il respiro. — Questo Gabriel… dov’è?

— È morto. Era lui il capo. E un certo Coledy; un altro, Kressich. E Gabriel. La stazione lo conosceva come Jessad. Sono stati uccisi dai militari che ci hanno presi. Damon non sapeva… non sapeva niente. Credi che sarebbe venuto lì a incontrarsi con loro se avesse saputo che avevano ucciso suo padre?

— Ma l’hai portato da lui.

— Sì, l’ho portato da lui.

— Sapeva di te?

— No.

Signy trasse un profondo respiro. — Credi che faccia qualche differenza, per noi, il modo in cui Lukas è arrivato dov’è arrivato? Adesso è nostro.

— Te lo dico perché tu sappia che è finita. Non c’è altro da cercare. Avete vinto. Non ha più senso continuare a uccidere.

— Dovrei crederlo sulla parola di un confederato?

Josh non rispose. La sua mente non era persa nel nulla. I suoi occhi erano vivi, addolorati.

— Hai messo in piedi una bella commedia in poco tempo, Josh.

— Non è una commedia. Sono nato per fare quello che faccio. Tutto il mio passato è scritto su nastro. Non avevo niente quando hanno finito con me, a Russell. Sono completamente vuoto, Mallory. Niente di reale. Niente dentro. Appartengo alla Confederazione perché il mio cervello è stato programmato così. Non ho nessun legame.

— Tranne uno, forse.

— Damon — disse lui.

Signy rifletté, e vuotò il bicchiere. Le bruciavano gli occhi. — E allora perché lo hai immischiato con quel tale Gabriel?

— Credevo di aver trovato un modo per lasciare Pell. Prendere una navetta e raggiungere la Porta dell’Infinito. Ho una proposta da farti.

— Credo di conoscerla.

— Tu puoi far salire un uomo su una navetta in partenza… facilmente. Manda via almeno lui.

— Come? Non vuoi che riprenda il comando di Pell?

— L’hai detto tu stessa. Lukas apre bocca e voi gli dettate le parole. Non volete altro. Non avete mai voluto altro. Fallo andar via di qui. Salvalo. Che cosa ti costa?

Josh sapeva cosa sarebbe successo, almeno per quel che riguardava Konstantin. Signy lo fissò, poi riabbassò lo sguardo sul bicchiere. — In cambio della tua gratitudine? Pensi che io abbia il cuore tenero, vero? Bello scambio. Un condizionamento profondo può operare su di te?

— Alla fine, credo di sì. Che cosa avevi in mente?

Signy premette un pulsante. — Portatelo via.

— Mallory… — disse Josh.

— Penserò alla tua proposta — gli disse lei. — Ci penserò.

— Posso parlare con lui?

Signy rifletté. Poi annuì. — Sta bene. Gli dirai come stavano le cose?

— No — disse Josh con un filo di voce. — Non voglio che lo sappia. Nelle piccole cose, Mallory, mi fido di te.

— E mi odii.

Lui si alzò, e scrollò la testa, guardandola. La spia luminosa sulla porta lampeggiò.

— Fuori — disse Signy. E poi, al militare che era apparso sulla soglia: — Mettetelo con il suo amico. Concedete loro tutto quello che chiedono, entro limiti ragionevoli.

Josh uscì con le guardie. Le porte si chiusero. Signy appoggiò i piedi sul letto.

Adesso era convinta che un Konstantin potesse tornare utile, in una fase successiva della guerra; se la Confederazione avesse abboccato all’amo; se la Confederazione avesse preso Pell e l’avesse rimessa in funzione. Allora sarebbe stato utile mostrare un Konstantin, nelle loro mani… se fosse stato come Lukas. Ma non lo era. Non serviva a niente. Mazian non avrebbe mai accettato. La navetta era una via d’uscita. E nessuno avrebbe saputo nulla… Se la Flotta se ne fosse andata presto. Ci sarebbe voluto parecchio tempo prima che la Confederazione stanasse il giovane Konstantin sul pianeta. Abbastanza tempo perché il resto del piano si realizzasse, e Pell cadesse, privando la Confederazione di una base, o riuscisse a sopravvivere, causando difficoltà organizzative ai confederati. L’idea di Josh poteva funzionare. Forse. Signy si versò ancora da bere e strinse convulsamente il bicchiere.

Un agente confederato. Lei era imbarazzata. Indignata. Ironicamente divertita. E sapeva anche essere umile.

Ed era questo che erano diventate le Stelle Sperdute… una Flotta rinnegata e un mondo che generava esseri come Josh.

Che potevano fare quello che faceva Josh. Quello che aveva cercato di fare Gabriel Jessad.

Quello che loro erano pronti a fare.

Incrociò le braccia, fissando il piano della scrivania. Finalmente sorseggiò il liquore e premette i tasti del computer. Assegnazione delle truppe?

Arrivarono gli elenchi e le ubicazioni. Erano tutti sulla nave, eccettuati quei dodici che sorvegliavano l’accesso della Norway. Chiamò l’ufficiale di servizio.

Ben, esca e porti dentro i dodici che stanno sul molo. Non usi il comunicatore. Mi riferisca attraverso il computer, quando l’avrà fatto.

Un nuovo codice. Assegnazione dell’equipaggio?

La risposta arrivò. L’equipaggio d’altergiorno era in servizio. Graff era ancora con Di.

Signy inserì il comunicatore e cominciò da Graff. — Venga in sala comando — disse. — Lasci un medico con Di. Di, stia buono.

Cominciò a chiamare gli altri attraverso il computer; era arrivata a Tiho, l’operatore militare, quando l’ufficiale di servizio riferì che la missione era compiuta. Tiho segnalò messaggio ricevuto. Signy bevve un ultimo sorso. Adesso aveva le idee più chiare. Almeno, il pavimento non ondeggiava.

Infilò la giacca, uscì nel corridoio ed entrò in sala comando. Si guardò intorno mentre gli equipaggi d’altergiorno e di primogiorno, sbalorditi, si voltavano verso di lei.

— Aprite la comunicazione interna — disse Signy. — A tutte le postazioni e gli alloggi, tutti gli altoparlanti attivati.

Il tecnico del comunicatore azionò l’interruttore generale.

— Ci hanno cacciati dai moli — disse Signy, agganciando un microfono al colletto. Andò alla sua postazione, accanto a Graff, al centro delle corsie lievemente incurvate. — Tutti a bordo. Equipaggio, truppe, tutti a bordo. Primogiorno alle postazioni, altergiorno di riserva. Ai posti di combattimento. Ce ne andiamo.

Vi fu un attimo di sbalordimento. Nessuno si mosse. Poi scattarono tutti, all’improvviso, spostando i sedili, azionando i comandi, mentre i tecnici correvano alle postazioni laterali che erano rimaste chiuse durante l’attracco. I quadri ronzarono, inclinandosi, pronti all’uso. In alto, le luci rosse lampeggiarono, e la sirena cominciò a suonare.

— Non salpiamo regolarmente: distacco netto. — Signy si buttò all’indietro sui cuscini, cercò a tentoni le cinture di sicurezza. Avrebbe preso personalmente il timone, ma in quel momento non si fidava dei suoi riflessi. — Signor Graff, porti la Norway via da Pell, e diriga… — Aspirò una boccata d’aria. — Non diriga da nessuna parte. La guiderò io.

— Istruzioni — chiese calmissimo Graff. — Se ci sparano addosso, dobbiamo sparare anche noi?

— Naturalmente, signor Graff. Ci porti via.

Attraverso il comunicatore interno cominciarono ad affluire le domande; gli ufficiali delle truppe volevano sapere che cos’era successo. I ricognitori erano in servizio di pattuglia. Era impossibile richiamarli per consultazioni. Anzi, era impossibile richiamarli comunque. Graff stava effettuando i controlli finali, impartiva la sequenza degli ordini, controllava le posizioni assicurandosi che il computer avesse ricevuto tutti i dati. Sugli schermi apparve la rotta che avrebbero dovuto seguire, una discesa verso Pell fino a sfiorare l’atmosfera, una virata fulminea intorno al pianeta, e via.

— Eseguite — disse Graff.

Si udì un tonfo: il portello della camera di compensazione, il decollo d’emergenza; e un sussulto che li strappò alla lenta rotazione di Pell. Salirono verso lo zenith e i motori principali si accesero, portandoli sopra la stazione. Qualcosa urtò lo scafo e scivolò via; un cavo staccato. Continuarono ad accelerare, mentre l’emisfero buio della Porta dell’Infinito incombeva davanti a loro.

Mallory! — urlò una voce sulla linea interna della Flotta.

Era altergiorno. I comandanti erano a letto. Gli equipaggi e le truppe erano sparsi sul molo, e loro avevano spezzato i cavi di collegamento…

Signy strinse i denti mentre la Norway sfrecciava sopra l’orlo di Pell e puntava su una rotta troppo vicina al pianeta. Trattenne il respiro e ascoltò le imprecazioni che si susseguivano attraverso il comunicatore.

La Pacific e l’Atlantic ricevettero l’ordine di intercettarli. Non avevano nessuna possibilità di allinearsi in tempo, e c’era il resto della Flotta in mezzo; e la Norway si stava avvicinando al cono di protezione della Porta dell’Infinito. L’Australia si stava staccando dalla stazione, e non c’erano ostacoli tra loro: quello era il vero pericolo. — Operatore — ordinò Signy. — Gli schermi di poppa. Quello è Edger. Colpire.

Nessun segnale di ricevuto; Tiho fece scattare gli interruttori in rapida successione e le luci lampeggiarono; gli schermi mostrarono le immagini.

Non avevano ricognitori per proteggersi in coda. L’Australia non aveva ricognitori davanti alla prua. Le porte stagne si bloccarono all’interno della Norway, segmentandola in diverse sezioni. La gravità cresceva, mentre il sincronizzatore del cilindro calcolava le possibili manovre. Attraverso il comunicatore arrivò la richiesta frenetica d’uno dei loro ricognitori, che voleva istruzioni. Signy non rispose.

La Porta dell’Infinito incombeva sul video, e loro stavano ancora accelerando a tutta forza. I segnali d’avvicinamento lampeggiavano. L’Australia era la nave più grande, quella che correva il maggior rischio.

Gli schermi e le spie luminose. Stavano sparando contro di loro.


PELL: MOLO AZZURRO; EUROPE; ore 2400 pg.; ore 1200 ag.

No. — Mazian era in piedi al suo posto, con una mano premuta sull’auricolare mentre il ponte di comando era nel caos. — Restate dove siete, aspettate prima di prendere a bordo le truppe. Avvertitele che il molo azzurro ha una falla. Raccogliete tutti i militari sul molo verde, di qualunque nave siano. Passo.

Arrivarono i segnali di ricevuto. Pell era nel caos, un intero molo era in avaria, l’aria risucchiata attraverso i cavi, mentre la pressione scendeva. C’erano sagome galleggianti tra l’Europe e l’India, militari che si erano trovati sul ponte, ed erano stati risucchiati nel vuoto quando un accesso di due metri per due s’era strappato dagli ormeggi senza preavviso. Nel molo c’era il vuoto, che aveva risucchiato ogni cosa. I portelli stagni delle navi s’erano chiusi automaticamente nell’istante in cui era iniziata la decompressione, isolando anche quelli che erano più vicini alla salvezza.

— Keu — ordinò Mazian. — Rapporto.

— Ho dato gli ordini necessari — rispose una voce imperturbabile. — Tutte le truppe presenti su Pell si stanno dirigendo verso il settore verde.

— Al più presto… Porey, Porey, è ancora in ascolto?

— Qui Porey. Passo.

— Trasmetta gli ordini: distruggere la base della Porta dell’Infinito e giustiziare tutti gli operai.

— Sì, signore — disse Porey, con voce vibrante di collera. — Fatto.

Mallory, pensò Mazian, un nome che era diventato una maledizione, un’oscenità.

Gli ordini non erano stati ancora diffusi, i piani non erano ancora ben delineati. Ormai dovevano presumere il peggio e agire di conseguenza. Mettere fuori uso i comandi della stazione. Portare via le truppe e andarsene… ne avevano bisogno. Dovevano distruggere tutto ciò che poteva essere utile.

Sol. La Terra. Era necessario farlo subito.

E la Mallory… se avessero potuto mettere le mani su di lei…


CENTRALE DI PELL; ore 2400 pg.; ore 1200 ag.

Jon Lukas distolse lo sguardo dallo spettacolo di devastazione sugli schermi per puntarlo sul caos dei pannelli di controllo. I tecnici si agitavano freneticamente per trasmettere richieste all’accertamento danni e alla sicurezza.

— Signore — gli chiese qualcuno — signore, ci sono truppe bloccate nel settore azzurro, un compartimento isolato. Vogliono sapere se possiamo raggiungerli. Vogliono sapere quanto ci vorrà.

Jon Lukas restò immobile, come paralizzato. Non sapeva cosa dire. Le istruzioni non arrivavano più. C’erano soltanto le guardie, che gli stavano sempre intorno; anche Hale e i suoi compagni erano sempre con lui, giorno e notte, ed erano il suo costante incubo personale.

Adesso tenevano i fucili puntati sui tecnici. Lukas si voltò, guardò Hale per pregarlo di usare il comunicatore del casco e mettersi in contatto con la Flotta per chiedere informazioni… se quello era un attacco, un’avaria, e che cosa avesse indotto una nave della Flotta a staccarsi precipitosamente dalla stazione, con altre tre in coda.

All’improvviso Hale e i suoi uomini si fermarono tutti nello stesso istante, ascoltando qualcosa che soltanto loro potevano sentire. E poi si voltarono, puntando i fucili.

No! — urlò Jon.

Spararono.


PORTA DELL’INFINITO, BASE PRINCIPALE; ore 2400 pg.; ore 1200 ag.; NOTTE LOCALE

C’erano poche occasioni per dormire. Ed ora uomini e hisa ne approfittavano, i primi raggomitolati nella cupola Q e gli altri fuori, nel fango, riposando a turno, con gli abiti addosso, nelle stesse coperte sporche di fango, per quel poco tempo che veniva loro concesso. I mulini non si fermavano mai, e il lavoro continuava di giorno e di notte.

Le fragili porte della camera di compensazione sbatterono una dopo l’altra, ed Emilio rimase immobile, irrigidito, trovando la conferma dei propri timori nel suono che l’aveva svegliato. Non era ora di alzarsi, sicuramente. Sembrava che fossero passati solo pochi minuti da quando s’era sdraiato per dormire. Sentiva il picchiettare della pioggia sulla cupola, e lo scricchiolio degli stivali, fuori sulla ghiaia. Non era una navetta che stava scendendo, ma svegliavano tutti e due i turni solo quando c’era da caricare.

— In piedi, e tutti fuori — gridò un militare.

Emilio si mosse. Sentì gemere, intorno a sé. Gli altri uomini si svegliarono, rabbrividendo nella luce violenta che li investiva. Scese dalla branda, fece una smorfia perché gli dolevano i muscoli e cercò di infilare i piedi piagati negli stivali induriti dall’acqua. La paura cominciava a farsi sentire: piccole cose che non andavano… era diverso dalle altre volte che li avevano svegliati di notte. Mise la giacca, e si tastò la gola cercando la maschera del respiratore. La luce lo investì di nuovo in pieno volto suscitando un coro di lamenti. Si avviò verso la porta e uscì con gli altri salendo i gradini di legno che conducevano al sentiero. Altre luci abbaglianti. Alzò le braccia per ripararsi gli occhi.

— Konstantin. Chiami gli indigeni.

Emilio cercò di vedere al di là delle luci, con gli occhi che lacrimavano… al secondo tentativo distinse alcune ombre, altri che erano stati condotti lì dai mulini. Senza dubbio stava scendendo una navetta. Doveva essere così. Non c’era bisogno di allarmarsi.

— Chiami gli indigeni.

— Tutti voi, fuori — gridò qualcuno dall’interno della cupola; le porte si aprirono facendo diminuire la pressione nella cupola, mentre gli altri venivano spinti fuori sotto la minaccia delle armi.

Una mano minuta, infantile, lo sfiorò. Emilio abbassò gli occhi. Era Freccia. Gli indigeni s’erano svegliati. Tutti gli altri hisa s’erano radunati, sconvolti dalle luci e dalle voci concitate che li chiamavano.

— Sono tutti fuori? — chiese un militare a un altro. — Sì, tutti — rispose quello.

Il tono era sospetto, malaugurante. I dettagli divennero stranamente nitidi, come in quell’attimo che sembra dilatarsi all’infinito quando si precipita da una grande altezza; il tempo che si espandeva… la pioggia e i fari, il luccichio dell’acqua sulle corazze… li vide muoversi… alzare i fucili…

— Addosso! — urlò, e si avventò contro la fila. Un proiettile gli colpì una gamba. Urtò la canna, deviandola, e afferrò le braccia corazzate. Scaraventò l’uomo a terra, gli strappò la maschera mentre quello mulinava i pugni e lo colpiva sul capo. Molti fucili spararono; intorno a lui molti caddero. Raccolse una manciata di fango, l’arma della Porta dell’Infinito, la lanciò contro la visiera di un casco, nella presa del respiratore, e cercò di afferrare una gola, mentre le grida e le urla degli indigeni echeggiavano sotto la pioggia.

Uno sparo gli sibilò sopra la testa e l’uomo con cui stava lottando smise di dibattersi. Emilio si buttò nel fango per prendere il fucile, e rotolò via, stringendolo; alzò gli occhi e vide un’arma puntata contro la sua faccia; premette il grilletto, senza prendere la mira, e il militare barcollò, colpito da qualcun altro, urlando di dolore. Sparavano alle spalle, vicino alle cupole. Emilio sparava contro tutte le armature che vedeva, tra le urla degli indigeni.

La luce lo investì: li avevano inquadrati. Emilio rotolò via di nuovo, sparò verso la luce, convulsamente, e la luce si spense.

— Scappa — gli urlò la voce di un hisa. — Tutti scappare. Presto, presto.

Emilio tentò di alzarsi in piedi. Un hisa lo afferrò e lo trascinò per un breve tratto, facendosi poi aiutare da un altro; lo portarono vicino alla cupola, dove s’erano messi al riparo i suoi uomini. Sparavano dalla collina, dal sentiero che portava al campo d’atterraggio, e alla loro nave.

— Fermateli! — urlò ai suoi uomini. — Tagliategli la strada! — Riuscì a correre, zoppicando, per un breve tratto; gli spari sibilavano nelle pozzanghere intorno a lui. Rallentò, mentre altri fra i suoi uomini proseguivano o cercavano di proseguire.

— Tu vieni — gridò un hisa. — Tu vieni me.

Emilio sparò come poteva, senza badare all’hisa che voleva convincerlo a ritirarsi nei boschi. Uno dei suoi uomini cadde, e altri spari cominciarono ad arrivare dal folto degli alberi colpendo i militari, costringendoli a correre, ed Emilio proseguì zoppicando. I militari erano arrivati sulla cresta della collina, e sparirono oltre il dosso. Sicuramente avevano chiesto aiuto, altri rinforzi, l’intervento dei cannoni della nave che li avrebbero colpiti appena loro fossero usciti allo scoperto. Emilio imprecò, usando il fucile come una gruccia. Alcuni dei suoi continuavano ad avanzare. — State giù! — gridò, e si sforzò di continuare, immaginando la nave che decollava, e le migliaia di esseri indifesi che attendevano intorno alle statue. I militari avevano il vantaggio della distanza, ed erano protetti dalle armature, e quando avessero superato quella collina…

Arrivarono sulla cresta. Il fuoco rischiarò le tenebre e quasi tutti i suoi uomini si buttarono prontamente a terra, mettendosi al riparo. Emilio si curvò, e si spinse più avanti che poteva; si stese bocconi per guardare giù dalla collina, verso la linea di fuoco dei cannoni pesanti. Sul pendio, il terreno cominciò a fumare. Vide militari che si raggruppavano accanto al portello illuminato della nave, sotto un ombrello di fuoco che crivellava il pendio. I raggi fumigavano nella pioggia, sollevando nubi di vapore e arroventando il terreno. I militari potevano raggiungere quel rifugio sicuro; la nave si sarebbe alzata e li avrebbe colpiti dall’alto… e loro non potevano fare nulla, nulla.

Un’ombra dilagò verso il campo, dietro le linee dei militari, come un’illusione, una marea nera che affluiva verso il portello. I soldati, che si stagliavano nel chiarore che circondava la nave, la videro e spararono… dovettero chiamare altri rinforzi; cominciarono a voltarsi ed Emilio aprì il fuoco alle loro spalle, incredulo perché all’improvviso sapeva che cos’era, che cosa doveva essere quell’altro esercito. Si alzò in ginocchio, cercò di sparare ai militari al portello, nonostante i raggi dei riflettori che sciabolavano il versante della collina. La fiumana nera continuò ad avanzare, arrivò al portello, e all’improvviso cedette, ritirandosi disperatamente.

Nel vano del portello ci fu una fiammata, che si diffuse, investendo i militari e gli assalitori; poi giunse il rumore dell’esplosione e la vibrazione gli squassò le ossa. Cadde nel fango e restò immobile. Gli spari erano cessati C’era silenzio… niente più guerra, soltanto il picchiettio della pioggia nelle pozzanghere.

Gli indigeni parlottavano e si agitavano intorno a lui. Emilio cercò di rialzarsi, per scendere laggiù, dove molti dei suoi erano caduti per far saltare il portello.

Poi le luci della nave si riaccesero, i motori rombarono, e ricominciò a sparare, spazzando il pendio con il fuoco dei cannoni.

La nave era ancora viva. Emilio imprecò, mentre numerose mani lo afferravano per le braccia e i fianchi, cercando di portarlo via… indigeni ostinatamente decisi ad aiutarlo, che parlottavano in tono supplichevole.

Poi la nave smise di sparare e spense i motori. Restò silenziosa, con le luci che lampeggiavano e il portello sventrato, annerito dal fuoco.

Gli indigeni cercarono di trascinare via Emilio, aiutandolo quando cercò di alzarsi, e sorreggendolo quando la gamba ferita cedette. La mano minuta di un hisa gli accarezzò la guancia. — Tu tutto bene, tu tutto bene — disse una voce. Era Freccia. Superarono la collina, mentre gli hisa raccoglievano i morti e i feriti. All’improvviso vennero verso di loro alcune figure che uscivano dai boschi, umani e indigeni.

— Emilio! — Era la voce di Miliko. Altri stavano correndo verso di lui… Gli uomini e le donne che avevano lasciato… Emilio riuscì a fare qualche passo, di corsa, raggiunse Miliko, e l’abbracciò come un pazzo, con il sapore della disperazione in bocca.

— Ito — disse lei. — Ernst… sono stati loro. L’esplosione ha bloccato il portello.

— Ci uccideranno — disse Emilio. — Chiameranno rinforzi.

— No. Abbiamo un comunicatore nella boscaglia; un messaggio… un messaggio all’unità di comunicazione della base due, al santuario… se ne andranno tutti. Li abbiamo sistemati.

Emilio si lasciò andare, perché adesso poteva farlo… si voltò a guardare in direzione della nave, invisibile al di là della collina. Vi fu un altro bagliore dei motori, un rombo minaccioso: una nave disperata che tentava soltanto di salvare se stessa.

— Presto — disse Miliko, cercando di aiutarlo. Emilio si mosse, mentre gli hisa li circondavano. — Presto — continuarono a ripetere gli hisa. Alcuni degli umani camminavano, altri si lasciavano portare dagli hisa. Scesero dalla collina, tra gli alberi, fino a quando Emilio vide davanti a sé una macchia nerastra, e si accasciò sul terreno bagnato; venne risollevato da una dozzina di mani robuste, e trasportato quasi di corsa. C’era un’apertura nel fianco della collina, fra le rocce.

— Miliko — disse Emilio, vinto dalla paura irrazionale di quella galleria buia. Gli hisa lo portarono all’interno e lo adagiarono sul terreno, e dopo un momento due braccia lo strinsero, cullandolo dolcemente. La voce di Miliko gli bisbigliò all’orecchio. — Va tutto bene — disse lei. — Le gallerie ci ospiteranno tutti… le tane invernali, in tutte le colline… Va tutto bene.

CAPITOLO QUARTO

NORWAY: ore 0045 pg.; ore 1245 ag.

Stavano tornando indietro. L’Australia era in piena virata, la Pacific e l’Atlantic si stavano allontanando. Signy ascoltò il sospiro di sollievo che si diffuse in sala comando mentre i canali trasmettevano buone notizie. — Controllate attentamente — scattò lei. — Accertamento danni, al lavoro. — La sala comando vacillò davanti ai suoi occhi. Forse era effetto dell’alcool, ma ne dubitava. Negli ultimi minuti avevano fatto abbastanza manovre per renderla di nuovo sobria.

La Norway era quasi completamente indenne. Graff era ancora ufficialmente al timone, ma l’aveva lasciato per un momento a Terschad, del turno d’altergiorno, e stava controllando i dati telemetrici, con la faccia madida di sudore e segnata dalla tensione. La gravità abbandonò la sincronizzazione da combattimento e il peso ritornò finalmente stabile.

Signy si alzò, ascoltando i rapporti degli schermi e mettendo alla prova i propri riflessi. Si reggeva in piedi piuttosto bene. Si guardò intorno. Molti occhi la sbirciavano furtivamente e subito si riabbassavano. Si schiarì la gola e inserì tutti gli altoparlanti. — Qui Mallory. Sembra che anche l’Australia abbia deciso di mollare, per il momento. Torneranno tutti alla base per aiutare Mazian. Faranno a pezzi Pell. Questo era il piano. Si dirigeranno verso la stazione di Sol e la Terra; e anche questo era nel piano. Porteranno la guerra fin là. Ma senza di me. Ecco come stanno le cose. Potete scegliere. Potete scegliere. Se accettate i miei ordini, ce ne andremo per i fatti nostri e torneremo a fare quel che abbiamo sempre fatto. Se volete seguire Mazian, sono sicura che consegnandomi a lui vi metterete in ottima luce ai suoi occhi. In questo momento non sogna altro che di prendermi. Trattate con Mazian, se volete. Ma io… no. Nessuno comanderà la Norway tranne me, finché sarò in condizioni di dare ordini.

Dal comunicatore uscì un brusio. Tutti i canali erano aperti. Il mormorio divenne più chiaro… acquisì un ritmo. Signy… Signy… Sig-ny… Sig-ny… Si diffuse in sala comando. — Signy! — I membri dell’equipaggio si alzarono dai loro posti. Lei si guardò intorno, stringendo i denti, decisa a non perdere la competenza. Erano dalla sua parte. La Norway era sua.

Sedete! — gridò. — Cosa credete che sia? Una festa?

Erano in pericolo. La manovra dell’Australia poteva essere una diversione. Ormai si muovevano troppo velocemente per effettuare rilevamenti attendibili, e la posizione dell’Atlantic e della Pacific era puramente ipotetica: dalle proiezioni confuse del computer poteva uscire qualunque cosa… e c’erano i ricognitori in volo.

— Prepararsi al balzo — disse Signy Mallory. — Dirigere verso il punto 58. Toglieremo il disturbo per un po’. — I suoi ricognitori erano ancora a Pell. Con un po’ di fortuna avrebbero potuto evitare la cattura. Mazian avrebbe avuto troppo da fare per occuparsene. Se avevano buon senso sarebbero rimasti alla larga, fidandosi di lei, convinti che sarebbe tornata a prenderli appena avesse potuto farlo. E lei voleva farlo. Doveva. Avevano un bisogno disperato della protezione dei ricognitori. Sicuramente i ricognitori dovevano essersi allontanati, quando s’erano accorti che la Norway stava fuggendo. Lei non li aveva mai delusi. E Mazian lo sapeva.

Signy scacciò quel pensiero e si mise in contatto con l’infermeria. — Come sta Di?

— Di sta benone — rispose lo stesso Janz. — Mi lasci salire.

— Neppure per idea. — Lei tolse la comunicazione e chiamò il posto di guardia numero uno. — I nostri prigionieri si sono rotti qualche osso?

— Sono tutti interi.

— Portateli su.

Si assestò sul cuscino, e seguì lo sviluppo degli eventi, tracciando mentalmente la rotta per uscire dal sistema di Pell e prepararsi al balzo, a metà della velocità della luce. L’accertamento danni trasmise un rapporto. Un compartimento in decompressione, una piccola parte delle viscere della Norway riversata nel vuoto, ma non nella sezione del personale… niente di grave. Non avrebbe pregiudicato il balzo. Nessun morto. Nessun ferito. Signy respirò meglio.

Era il momento di andarsene. Da quasi un’ora i segnali di ciò che stava accadendo a Pell continuavano ad arrivare, diretti verso le navi che li avrebbero ritrasmessi, fino a quando sarebbero stati captati dai confederati. Stava per diventare una zona pericolosa, quella.

Una spia si accese sul quadro. Signy girò il sedile verso i prigionieri che erano entrati dal portello di poppa, con le mani ammanettate dietro la schiena, una precauzione ragionevole nelle corsie affollate della sala comando. Nessuno era mai entrato nella sala comando della Norway, nessun estraneo… prima di quei due. Casi speciali… Josh Talley e Damon Konstantin.

— La grazia — disse Signy. — Pensavo che ci teneste a saperlo.

Forse non compresero. Le rivolsero occhiate di preoccupazione.

— Abbiamo abbandonato la flotta. Siamo diretti verso lo spazio. Lei vivrà, Konstantin.

— Non l’ha fatto per me.

Signy rise. — No. Ma ci guadagna, capisce?

— Cos’è successo a Pell?

— I vostri altoparlanti erano in funzione. Mi avete sentita. È questo che sta succedendo a Pell, e adesso la Confederazione dovrà scegliere, no? Salvare Pell o inseguire Mazian. E noi ce ne andiamo per non confondere le idee.

— Li aiuti — disse Konstantin. — Per amor di Dio, aspetti. Aspetti e li aiuti.

Lei rise per la seconda volta, e guardò con aria acida il volto ansioso di Konstantin. — Che cosa potremmo fare? La Norway non prende profughi a bordo. Non può. Far scendere fez? Sotto il naso di Mazian o della Confederazione? Ci disintegrerebbero…

— Ma si potrebbe… quando torneranno a prendere i ricognitori…

— Mallory — disse Josh, avvicinandosi a lei per quanto glielo consentivano le guardie che lo avevano in custodia. Lei fece un cenno e le guardie lo lasciarono. — Mallory… c’è un’altra possibilità. Passa dall’altra parte. C’è una nave, mi senti? L’Hammer. Potresti risolvere tutto. Mettere fine a tutto questo… e ottenere l’amnistia.

Konstantin trasalì, fissò Josh, e poi Signy con occhi pieni di apprensione.

— Lui sa? — chiese Signy a Josh.

— No. Mallory… ascoltami. Pensa, cosa succederà, adesso? Quanto durerà?

— Graff — disse lei, lentamente. — Graff, torniamo a prendere i ricognitori. Li tenga pronti per il balzo. Appena Mazian lascerà il sistema ci avvicineremo, e magari lanceremo Konstantin, in modo che possa vedersela con la Confederazione; qualche mercantile potrebbe raccoglierlo.

Konstantin deglutì a fatica e strinse le labbra.

— Lei sa che il suo amico è un confederato — disse lei. — Badi bene, non era, ma è un agente della Confederazione. Servizi speciali. Probabilmente sa parecchie cose che potrebbero esserci utili, nella nostra situazione. I luoghi da evitare, i punti zero conosciuti dagli avversari…

— Mallory — implorò Josh.

Lei chiuse gli occhi. — Graff — disse. — Questo confederato per me ha ragione. Sono ubriaca, o ha ragione?

— Ci uccideranno — disse Graff.

— Se è per questo, ci ucciderà anche Mazian — disse Signy. — Continuerà da qui a Sol. In ogni posto dove Mazian possa trovare nuovo bottino, raccogliere altre forze. Non è più una flotta. Cercano bottino, il necessario per tirare avanti. E noi siamo nella stessa situazione. E i punti zero che noi conosciamo li conoscono anche loro. È abbastanza fastidioso, Graff.

— Sì — riconobbe Graff. — È fastidioso.

Signy guardò Josh, poi di nuovo Konstantin che aveva sul volto un’espressione disperata di speranza. Sbuffò, disgustata e guardò Graff. — Quella nave-spia della Confederazione. Facciamo rotta da quella parte. Usciranno allo scoperto appena sapranno che siamo scappati. Stabilisca un contatto. Dobbiamo prendere a prestito la flotta della Confederazione.

— Ci andremo a finire in mezzo — borbottò Graff; ed era vero. Lo spazio era immenso, ma c’era il rischio di collisioni, su quel particolare vettore: due rotte che si intersecavano nelle proiezioni dei computer.

— Corriamo il rischio — disse lei. — Lanciamo il segnale.

Guardò Josh Talley, poi Konstantin. Sorrise con profonda amarezza. — Così starò al tuo gioco — disse a Josh. — Conosci i loro codici di chiamata?

— Ci sono molti vuoti nella mia memoria — disse Josh.

— Rifletti.

— Usa il mio nome — disse Josh. — E quello di Gabriel.

Signy passò l’ordine, e poi li fissò a lungo, pensosamente. — Lasciateli andare — ordinò finalmente ai militari che li sorvegliavano. — Liberateli.

Era fatta. Si voltò, girò gli occhi sugli schermi per un momento e poi tornò a voltarsi verso l’incredibile presenza di un confederato e di un uomo della stazione liberi nella sua sala di comando. — Trovatevi un angolo sicuro — disse. — Tra un momento vireremo ad arco… e forse ci aspetta qualcosa di peggio.


PELL: SETTORE AZZURRO UNO, NUMERO 0475; ore 0100 pg.; ore 1300 ag.

Di tanto in tanto provavano la sensazione di volare. Si stringevano gli uni agli altri, e qualche hisa, nel corridoio, gemeva di paura. Ma non quelli che erano vicino a Il-Sole-è-suo-amico. Stavano intorno a lei, perché non cadesse, perché almeno lei fosse al sicuro. Anche il grande sole era sconvolto e sembrava vacillare nel suo cammino. Le stelle tremavano nell’oscurità intorno al letto bianco e alla Sognatrice.

— Non aver paura — mormorò la vecchia Lily, accarezzando la fronte della Sognatrice. — Non aver paura. Sogna noi salvi, salvi.

— Alza l’audio, Lily — mormorò la Sognatrice. I suoi occhi erano sereni come sempre. — Dov’è Satin?

— Io qui — disse Satin, facendosi largo in mezzo agli altri. Il suono divenne più forte, le voci umane che urlavano e gemevano e cercavano di gridare istruzioni.

— È la centrale — disse la Sognatrice. — Satin, Satin, tutti voi… ascoltate. Hanno ucciso Jon… danneggiato la centrale. Stanno arrivando… gli uomini della Confederazione, altri uomini-con-fucili, capite?

— Non venire qui — insistette Lily.

— Satin — disse la Sognatrice, fissando le stelle che tremavano. — Ti dirò la strada… ogni svolta, ogni passo; e tu dovrai ricordare… puoi ricordare una cosa tanto a lungo?

— Io Narratrice — dichiarò Satin. — Io ricordo bene, Il-Sole-è-suo-amico.

La Sognatrice le spiegò, passo per passo; e lei si spaventò, ma la sua mente ricordò ogni movimento, ogni svolta, ogni istruzione.

— Vai — disse la Sognatrice.

Satin si alzò, chiamò Denteazzurro, e poi chiamò gli altri, tutti gli hisa che potevano sentire la sua voce.


NORWAY; ore 0130 pg.; ore 1330 ag.

Il comunicatore crepitò; gli schermi vuoti si riempirono all’improvviso di punti luminosi. La Norway strinse la curva della virata. Signy si aggrappò alla consolle e al sedile. Aveva in bocca un sapore di sangue. Le luci rosse erano accese e gli allarmi suonavano. Josh e Konstantin erano avvinghiati disperatamente a una maniglia a metà della corsia. — Norway, qui Norway, confederati. Non sparate. Non sparate. Se volete arrivare a Pell, seguitemi.

Vi fu il solito intervallo, mentre arrivava la risposta.

— Continuate.

Parole, non spari.

— Qui Mallory della Norway. Passo dalla vostra parte, mi sentite? Seguitemi e vi farò entrare. Mazian sta per far saltare Pell e correre verso Sol. È già deciso. Ho a bordo il vostro agente Josh Talley e il più giovane dei Konstantin. Se esitate, perderete una stazione. Se non mi ascoltate, vi troverete a combattere una guerra con base sulla Terra.

Dall’altra parte vi fu un attimo di silenzio. Il quadro di puntamento era acceso e i sensori erano in funzione.

— Qui Azov dell’Unity. Qual è la vostra proposta, Norway? E come possiamo fidarci?

— Siamo scappati; questo l’avete saputo. Ora tornerò indietro. Voi ci raggiungerete in retroguardia, Unity. Tutti quanti. Mazian non si fermerà a combattere né qui né nelle vicinanze. Non può permetterselo, chiaro?

Quella volta il silenzio durò più a lungo. — Ci stanno seguendo — riferì un rilevatore.

— A tutta velocità, signor Graff.

La Norway sfiorò l’orlo del disastro, con guizzi improvvisi che facevano urlare i muscoli per la tensione e accelerare i battiti del cuore e impedivano alle mani di mantenere una presa sicura; quell’equipaggio di esperti resisteva alla sofferenza mentre la sincronizzazione da combattimento e la spinta inerziale lottavano tra loro. Con la massima freddezza affrontarono la lunga curva, mantenendo il più possibile la velocità acquisita, diretti verso Pell… avevano una copertura assicurata in retroguardia, poiché i confederati ora li seguivano alla massima velocità… pronti a sparare contro di loro come contro Mazian.

— Avanti — mormorò Signy a Graff. — Continuiamo la nostra rotta. Abbiamo bisogno dell’energia al massimo.

— Allarme sugli schermi — disse una voce calma rivolta a lei e a Graff. Sugli schermi c’erano guizzi confusi, verdi e oro… ostacoli sulla loro rotta, ancora inseriti nella memoria del computer, e adesso apparivano dove il computer li aveva memorizzati, a parte il lento movimento di qualche mercantile. Mercantili ad autonomia ridotta. Ricevevano le loro conversazioni, voci di panico che si moltiplicavano al loro avvicinarsi.

Graff passò in mezzo a loro. La Norway sfrecciò in quegli spazi molto ristretti in base ad una rotta calcolata dal computer, e puntò di nuovo verso Pell. I confederati la seguirono, evitando gli ostacoli con una navigazione spericolata che sicuramente aveva fatto sobbalzare molti cuori, sui mercantili. Un urlo di terrore li raggiunse e si spense.

Norway… Norway… Norway… trasmetteva freneticamente il computer; e se i loro ricognitori erano sopravvissuti, sarebbero accorsi a quel richiamo.

I punti luminosi lampeggiavano un bel colore rosso vivo davanti a loro, troppo veloci per essere mercantili. Il computer lanciò un avvertimento. Mazian era partito. Europe, India, Atlantic, Africa, Pacific.

— Dov’è l’Australia? — chiese bruscamente Signy a Graff. Quel codice di riconoscimento non era arrivato insieme agli altri. — State attenti!

Graff doveva aver sentito. Non era il momento di chiacchierare. La Flotta raggruppata era in rotta di collisione. I ricognitori erano tutti agganciati alla rispettiva nave-madre, pronti per il balzo… almeno c’era quel conforto.

Mallory — disse la voce di Mazian attraverso il comunicatore. Anche Graff la udì, ed eseguì una manovra vertiginosa che il computer trasferì al sistema di attacco; lanciarono una raffica contro l’Europe, mentre l’Europe sparava contro di loro, facendo vibrare lo scafo. La gravità lottò contro le tensioni, e all’improvviso rimasero colpiti a poppa. I confederati s’erano fatti avanti, noncuranti della loro sicurezza, ignari dei loro segnali, avidi di colpire i bersagli. — Via! — ordinò Signy, e la Norway manovrò all’angolo massimo: quella battaglia non la riguardava. Suonarono gli allarmi. Pell e la Porta dell’Infinito stavano davanti a loro, a pochi minuti, quasi alla velocità della luce.

Continuarono la virata, mentre il computer calcolava e ricalcolava quella curva marginale.

Sotto di loro esplose il punto luminoso di una nave. La Norway manteneva la rotta, mentre le spie rosse lampeggiavano sui quadri, gli allarmi stridevano, e la collisione con il pianeta era imminente poiché la velocità era troppo elevata per essere ridotta in tempo.

E all’improvviso apparvero altri minuscoli punti luminosi, diretti verso di loro, in cerchio.

Norway… Norway… Norway… trasmise il computer.

I loro ricognitori.

— Avanti così! — gridò Signy a Graff tra le acclamazioni del personale. Il computer affrontò una manovra al limite delle possibilità della nave, mettendo a dura prova la resistenza dell’equipaggio, durante una dozzina di secondi che sembrarono un vero e proprio incubo. Cominciarono a ridurre bruscamente la velocità mentre l’Australia veniva verso di loro attraverso la cruna d’ago dei loro ricognitori… L’Australia non ne aveva, o non li aveva lanciati.

— Fuoco di sbarramento — ordinò Signy, che aveva in bocca il sapore del sangue. Gli schermi mostrarono immagini terrificanti: collisione imminente e prua e a poppa, una nave che stava sbucando dritta sulla coda quasi alla velocità della luce, lanciata su una curva di fuga da Pell. Cinquanta probabilità su cento che la manovra provocasse uno scontro.

Graff fece abbassare la Norway; le torrette superiori spararono e l’Australia passò sfrecciando sopra di loro, mentre i campi magnetici gettavano gli strumenti nel caos. Lo scafo scricchiolò, e tutta la nave sobbalzò.

La manovra proseguì; all’improvviso ci fu un’esplosione sullo schermo, e la polvere stridette contro il loro scafo. — Dove sono? — urlò Graff al tecnico rilevatore. Signy si morse le labbra e rabbrividì, al sapore del sangue. L’Australia poteva aver scaricato detriti nel vuoto; poteva essere esplosa. Continuavano a ridurre la velocità: l’ordine non era cambiato.

— … superato Pell — arrivò la voce di uno dei ricognitori. Loro stessi potevano vederlo sullo schermo, mentre superavano lo stesso pericolo. — E hanno perso un alettone… ci sembra che Edger abbia perso un alettone.

Era impossibile vederlo; l’Australia era ormai lontana. — In formazione — ordinò Signy ai suoi ricognitori. Si sentiva più sicura, adesso che erano intorno alla Norway. Edger non poteva rischiare altri danni, se aveva perso un alettone. Non poteva rischiare neppure di vendicarsi.

— Stanno per fare il balzo — disse una voce. Era una voce sconosciuta, della Confederazione… un accento straniero. All’improvviso Signy sentì una sensazione di gelo nelle viscere, la certezza di non poter tornare indietro.

Vada fino in fondo, le aveva raccomandato Mazian, il quale le aveva insegnato quasi tutto quel che sapeva. Niente mezze misure.

Signy si appoggiò allo schienale. In tutta la Norway regnava il silenzio.


PELL: SETTORE AZZURRO UNO, NUMERO 0475

Lily, almeno, era rimasta. Alicia Lukas-Konstantin girò gli occhi sulle pareti, sul piccolo modulo che faceva parte del letto, due spie, una accesa ed una spenta, una verde e l’altra rossa. Adesso era rossa. Funzionavano con i sistemi interni.

L’energia era minacciata. Forse Lily non lo sapeva; regolava le macchine, ma la forza che le alimentava per lei era un mistero. Gli occhi dell’indigena erano calmi, la sua mano era gentile; le accarezzava i capelli. L’ultimo contatto che le restava con i vivi.

I doni di Angelo, le strutture intorno a lei, s’erano dimostrate tenaci come il suo cervello. Gli schermi continuavano a cambiare, le macchine continuavano a pomparle la vita nelle vene, e Lily era rimasta.

C’era un interruttore per spegnere tutto. Se lei l’avesse chiesto, Lily, ignara, l’avrebbe premuto. Ma sarebbe stata una crudeltà, verso chi credeva in lei.

Non lo chiese.


NORWAY

Cautamente, Damon lasciò il suo posto, e si avviò stordito tra le file degli strumenti e fra i tecnici per raggiungere la Mallory. Era dolorante; aveva un braccio ferito, e il collo intorpidito. Non doveva esserci nessuno, sulla Norway, che non avesse preso qualche botta… i tecnici, la stessa Mallory. Lei si voltò a guardarlo, cupamente, dal suo posto e, girando il sedile, annuì leggermente.

— E così l’ha spuntata — disse lei. — Sono arrivati i confederati. Adesso non hanno bisogno di rintracciare Mazian. Sanno dov’è andato. Scommetto che troveranno preziosa una base a Pell: salveranno la sua stazione, signor Konstantin, ormai non c’è dubbio. Ed è ora che noi ce ne andiamo da qui.

— Aveva promesso — disse Damon, — che mi avrebbe fatto scendere.

Signy si rabbuiò. — Non pretenda troppo dalla fortuna. Forse scaricherò lei e il suo amico confederato su qualche mercantile, quando ne avrò voglia. Se ne avrò voglia.

— Quella è casa mia — disse lui. Aveva raccolto tutte le argomentazioni possibili, ma la sua voce tremava, distruggendo ogni logica. — La mia stazione… quello è il mio posto.

— Lei non ha più un posto, signor Konstantin.

— Mi faccia parlare con loro. Se posso ottenere una tregua dalla Confederazione… io conosco i sistemi. Posso rimettere in sesto i sistemi centrali. I tecnici… forse sono morti. Sono morti, no?

Signy distolse lo sguardo, girò il sedile e tornò a occuparsi dei comandi. Damon intuì il pericolo, e allungò la mano sul bracciolo del sedile perché lei non potesse ignorarlo. Un militare si mosse, ma restò in attesa di ordini. — Comandante. È arrivata fin qui. Le chiedo… lei è un ufficiale dell’Anonima. Almeno, lo era. Per l’ultima volta… per l’ultima volta, comandante. Mi riporti a Pell. Ne uscirà pulita. Glielo giuro.

Signy rimase in silenzio, per un lungo istante.

— Vuole fuggire da qui sconfitta? — le chiese Damon. — O andarsene tranquillamente?

Lei si voltò: i suoi occhi non erano propriamente concilianti. — Ci tiene a farsi una passeggiata?

— Mi riporti indietro — disse Damon. — Subito. Finché serve a qualcosa. O mai più. Perché più tardi non servirà a nulla. Non potrò far nulla, e allora tanto varrà che io muoia.

Signy strinse le labbra. Per lunghi attimi restò immobile a fissarlo. — Farò quello che posso. Fino a un certo limite. Se faranno della sua tregua quello che penso io… — Abbassò la mano sul bracciolo. — Questa è mia. Questa nave. Lo capisce? Questa gente… Ero dell’Anonima. Lo eravamo tutti. E la Confederazione non vorrà lasciarmi andare. Quello che mi sta chiedendo potrebbe portare a uno scontro a fuoco vicino alla sua cara stazione. La Confederazione vuole la Norway. Ci tiene molto… perché sa quello che faremo. Non ho altre possibilità di sopravvivere, perché non ho un porto dove potrò attraccare. Non verrò qui. Non verrò mai. Nessuno di noi ci verrà. Graff. Rotta su Pell.

Damon arretrò, rendendosi conto che era la cosa più saggia, al momento. Ascoltò le conversazioni al comunicatore: la Norway informava la flotta della Confederazione che stava arrivando. Sembrava che quelli non fossero d’accordo.

Una mano gli toccò la spalla. Damon si voltò e vide Josh. — Mi dispiace — disse Josh. Lui annuì, senza rancore. Josh… non aveva avuto molte possibilità di scelta.

— Vogliono lei, infatti — disse la Mallory. — Vogliono che lei venga consegnato a loro.

— Andrò.

— Stupido — sibilò la Mallory. — Le faranno il lavaggio del cervello. Lo sa?

Damon rifletté. Ricordò Josh, seduto davanti a lui, a chiedere i documenti, la conclusione di un processo incominciato su Russell. Gli uomini ne uscivano. Josh ne era uscito. — Andrò — ripeté.

La Mallory aggrottò la fronte. — Si tratta della sua mente — disse. — Almeno fino a quando le metteranno le mani addosso. — Poi, al comunicatore: — Qui Mallory. Un momento, comandante. Non mi piacciono le vostre condizioni.

Vi fu un lungo silenzio.

Sullo schermo si scorgeva Pell, circondata dalle navi della Confederazione… uccelli da preda intorno a una carogna. Sembrava che una avesse attraccato. Si vedeva un nugolo di puntolini dorati e rossi, provenienti dalle miniere, i mercantili ad autonomia ridotta, e la posizione solitaria di un’altra nave, indicata da una luce lampeggiante al limite dello schermo, presente solo nella memoria del computer. Si muovevano solo quattro blip vicinissimi alla Norway, in formazione più stretta.

Erano quasi fermi, e andavano alla deriva con moto relativo rispetto al sistema.

— Qui Azov dell’Unity — disse una voce. — Comandante Mallory, può attraccare per far scendere il suo passeggero. Con i ringraziamenti del popolo della Confederazione per la sua preziosa collaborazione. Siamo lieti di accettarvi nella Flotta della Confederazione, con armi ed equipaggio. Passo.

— Qui Mallory. Che garanzie ha il mio passeggero?

Graff si sporse verso di lei e alzò un dito. La Norway vibrò all’urto di qualcosa contro lo scafo. Damon guardò angosciato lo schermo.

— Un ricognitore si è appena agganciato — disse Josh, alle sue spalle. — Li stanno recuperando. Possono fuggire per compiere un balzo…

— Comandante Mallory — disse la voce di Azov, — ho a bordo un rappresentante dell’Anonima che le ordinerà di…

— Ayres può andare all’inferno — disse Signy. — Le dirò io quello che voglio, in cambio di quello che ho. Privilegio d’attracco nei porti della Confederazione e carta bianca. Altrimenti manderò il mio prezioso passeggero a fare un giretto…

— Questi dettagli potranno essere discussi più tardi. Abbiamo una situazione di crisi su Pell. Ci sono in gioco molte vite.

— Avete i vostri esperti dei computer. O non riuscite a capire il sistema?

Un’altra pausa di silenzio. — Comandante, avrà quello che chiede. Attracchi con il nostro salvacondotto, se vuole in cambio quelle assicurazioni. Nella stazione ci sono difficoltà con i lavoratori indigeni. Chiedono di Konstantin.

— Gli hisa — mormorò Damon. Ebbe una visione improvvisa, terribile, degli indigeni di fronte ai confederati.

— Allontani le sue navi dalla stazione, comandante Azov. L’Unity può restare all’attracco. Io arriverò dalla parte opposta, e lei faccia in modo che le sue navi non escano di sincronizzazione. Se qualcosa mi passa in coda, sparerò senza fare domande.

— D’accordo — rispose Azov.

— È pazzesco — disse Graff. — E adesso cosa ci abbiamo guadagnato? Non ci daranno mai carta bianca.

Signy Mallory non disse nulla.

CAPITOLO QUINTO

PELL: MOLO BIANCO; 9/1/53; ore 0400 pg.; ore 1600 ag.

Sul molo c’erano militari della Confederazione, in uniforme da lavoro… verde, uno spettacolo surreale, su Pell. Damon scese la rampa, verso la fila di guardie della Norway che sorvegliavano l’accesso. Lontano, sul molo deserto, c’erano altri militari in assetto da combattimento… confederati. Varcò il perimetro, passò tra i soldati della Norway, e cominciò la traversata solitaria del molo invaso dai rottami. Sentì un rumore, dietro di lui, e si voltò a guardare.

Josh.

— Mi ha mandato la Mallory — disse Josh. — Ti dispiace?

Damon scosse la testa, lieto che lui lo accompagnasse dove era diretto. Josh si frugò in tasca e gli porse un nastro. — Te lo manda la Mallory — disse Josh. — E stata lei a regolare il computer. Dice che questo potrebbe servirti.

Damon prese il nastro, l’infilò nella tasca della divisa marrone dell’Anonima. La scorta di confederati li stava aspettando insieme alle truppe: erano vestiti di nero e con fregi d’argento. Damon riprese a camminare e quando fu più vicino rimase sconcertato nel vederli così eguali, così belli. Umani perfetti, tutti dello stesso modello.

— Che cosa sono? — chiese a Josh.

— Sono come me — disse Josh. — Meno specializzati.

Damon deglutì a fatica e continuò a camminare. I militari confederati si schierarono intorno a loro, senza una parola, e li scortarono lungo il molo. Piccoli gruppi di cittadini di Pell li guardarono passare. Konstantin, sentiva mormorare. Konstantin. Vide la speranza in alcuni di quegli occhi, e rabbrividì, sapendo che c’era ben poco da sperare. In alcune delle aree che attraversarono c’era il caos, intere sezioni con le luci spente, i ventilatori fuori uso, incendi sparsi e il fetore dei cadaveri. La gravità presentava ancora qualche piccola instabilità. Era impossibile sapere cosa fosse successo nel cuore del sistema di supporto vitale. Oltre un certo tempo, i sistemi incominciavano a deteriorarsi irrimediabilmente, quando cioè gli equilibri erano stati drasticamente stravolti. Priva di coordinamento, con la centrale bloccata, Pell si era affidata ai gangli periferiti, centri nervosi non interconnessi, sistemi automatici che lottavano per tenerla in vita. Senza equilibrio ed un minimo di regolazione, si sarebbero sfasati… come un corpo morente.

Entrarono nell’azzurro nove, dove c’erano altre forze della Confederazione, e salirono una rampa d’emergenza… c’erano morti anche lì, corpi disseminati lungo la salita; una salita lunga, dal nove in su, verso un’area dove operavano militari corazzati. Non potevano salire oltre; il comandante della scorta svoltò e li guidò nel livello due, nel corridoio fiancheggiato dagli uffici finanziari. Lì c’era un altro gruppo di militari e di ufficiali. Uno, con i capelli inargentati dal ringiovanimento e carico di gradi e decorazioni, si voltò verso di loro. Per Damon, fu un trauma riconoscere gli uomini che stavano dietro di lui. Ayres, l’inviato della Terra.

E Dayin Jacoby. Se avesse avuto in mano una pistola, gli avrebbe sparato. Non l’aveva. Si fermò a fissarlo, e Jacoby diventò paonazzo.

— Signor Konstantin — disse l’ufficiale.

— Il comandante Azov? — Damon aveva riconosciuto i gradi.

Azov gli tese la mano. Damon la strinse, con amarezza. — Maggiore Talley — disse Azov, e porse la mano a Josh. Josh accettò il saluto. — Lieto di riaverla con noi.

— Signore — mormorò Josh.

— Le informazioni della Mallory sono esatte? Mazian è diretto verso Sol?

Josh annuì. — Non è un inganno, signore. Credo sia vero.

— Gabriel?

— Morto, signore. Ucciso dagli uomini di Mazian.

Azov annuì, aggrottò la fronte, e guardò di nuovo Damon. — Le offro una possibilità — disse. — Crede di poter rimettere in ordine la stazione?

— Tenterò — disse Damon. — Se mi lascia andare lassù.

— È appunto il nostro problema — disse Azov. — Non possiamo entrare. Gli indigeni hanno bloccato gli accessi. Non si sa quali danni abbiano fatto là dentro, né quali scontri potrebbero esserci, con loro.

Damon annuì lentamente, e si voltò a guardare la porta della rampa. — Josh viene con me — disse. — E nessun altro. Rimetterò a posto Pell. Le sue truppe potranno seguirci… quando sarà tutto tranquillo. Se si comincia a sparare, potreste perdere la stazione, e a questo punto non lo vorreste, vero?

— No — riconobbe Azov. — Non lo vorremmo.

Con un cenno, Damon si mosse verso le porte e Josh gli si affiancò. Dietro di loro, un altoparlante cominciò a richiamare le truppe, che uscirono dalla rampa e che loro incrociarono mentre salivano. In alto era tutto sgombro, le porte del settore azzurro uno erano chiuse. Damon spinse il pulsante: non reagiva. L’aprì con il comando manuale.

Dietro la porta erano seduti gli indigeni, i quali tutti insieme formavano una massa che riempiva il corridoio principale e quelli laterali. — Konstantin-uomo — esclamò uno, alzandosi all’improvviso. Era ferito, come molti altri, e sanguinava per le ustioni. Balzarono in piedi, e tesero le mani verso di lui quando entrò, per toccarlo, dondolandosi per la gioia e lanciando grida nella loro lingua.

Damon passò in mezzo a loro, seguito da Josh. Ce n’erano altri nel centro di comando, al di là delle finestre, seduti ai banchi, in tutti gli angoli. Damon raggiunse la porta, bussò sul vetro. Gli hisa alzarono la testa, sgranarono gli occhi, solenni e calmi… e di colpo si animarono, saltarono in piedi, danzarono, lanciarono grida che il vetro smorzava.

— Aprite la porta — disse Damon. Non potevano sentirlo, ma lui indicò l’interruttore, perché avevano chiuso dall’interno.

Uno di essi capì. Damon passò in mezzo a loro, si lasciò abbracciare e toccare, e all’improvviso con una mano serrata intorno alla sua, si sentì stringere a un petto peloso. — Io Satin — gli disse l’hisa, sogghignando. — Me occhi caldi, caldi, caldi, Konstantin-uomo.

E dall’altra parte, Denteazzurro. Riconobbe l’ampio ghigno e il vello irsuto, e abbracciò l’indigeno. — Tu madre manda — disse Denteazzurro. — Lei bene, Konstantin-uomo. Lei dice chiudere porte stare qui e non muovere, fare loro mandare cercare Konstantin-uomo, fare tutto a posto in Lassù.

Damon riprese fiato, e andò alla consolle centrale, seguito da Josh. C’erano cadaveri umani sul pavimento. C’era Jon Lukas, ucciso da un colpo alla testa. Sedette al quadro centrale, cominciò a premere i tasti, a ricostruire… prese il nastro ed esitò.

Il dono della Mallory. A Pell. Alla Confederazione. Il nastro poteva contenere qualunque cosa… trappole per la Confederazione… il comando d’autodistruzione…

Si passò una mano sul volto; finalmente si decise e inserì il nastro. Il meccanismo l’assorbì, irrimediabilmente.

I quadri cominciarono a sbloccarsi, si accesero le spie verdi. Tra gli hisa vi fu una certa agitazione. Damon alzò gli occhi, e vide i militari riflessi nel vetro, fermi sulla soglia con i fucili spianati. Vide Josh che si voltava per fronteggiarli.

— Restate dove siete — intimò Josh. Quelli obbedirono, e abbassarono i fucili. Forse era il volto, l’aspetto di un individuo nato nei laboratori della Confederazione; o la voce, che non ammetteva repliche. Josh voltò le spalle ai militari e posò le mani sullo schienale della sedia di Damon.

Damon continuò a lavorare, e lanciò una seconda occhiata al vetro. — Ho bisogno di un tecnico delle comunicazioni — disse. — Che attivi i canali pubblici e parli. Qualcuno con l’accento di Pell. Va tutto bene. Hanno cancellato parte delle registrazioni immagazzinate, ma quelle non sono indispensabili.

— Non potranno distinguere un nome da un altro — disse Josh, sottovoce. — È così?

— Sì — disse Damon. L’adrenalina che l’aveva sorretto fino a quel momento cominciava a esaurire il suo effetto. Si accorse che gli tremavano le mani; girò gli occhi quando un tecnico confederato sedette al comunicatore. — No — disse; si alzò per andare a protestare. I militari spianarono i fucili. — Fermi — disse Josh, e l’ufficiale che li comandava esitò. Poi Josh girò gli occhi e indietreggiò. C’erano altri, sulla soglia. Azov e i suoi accompagnatori.

— Un messaggio privato, signor Konstantin?

— Devo rimandare le squadre al lavoro — disse Damon. — Si muoveranno se sentiranno una voce che conoscono.

— Ne sono sicuro, signor Konstantin. Ma no. Resti lontano dal comunicatore. Lasci che se ne occupino i nostri tecnici.

— Signore — disse Josh, — posso intervenire?

— Non in questo caso — disse Azov. — Si limiti ad attività non pubbliche, signor Konstantin.

Damon trasse un profondo respiro, tornò alla consolle che aveva appena lasciato e sedette. Erano entrate altre truppe. Gli hisa si affollarono contro le pareti, sui banchi, ciangottando tra loro, allarmati.

— Faccia uscire di qui quelle creature — disse Azov. — Immediatamente.

— Sono cittadini — disse Damon, girando il sedile per guardare Azov. — Cittadini di Pell.

— Qualunque cosa siano.

Pell — disse la voce della Mallory attraverso il comunicatore. — Tenetevi pronti al nostro decollo.

— Signore? — chiese il tecnico confederato.

Azov fece cenno di tacere.

Damon si piegò e cercò di premere un pulsante d’allarme. I fucili vennero puntati contro di lui. Rinunciò. Azov andò al comunicatore. — Mallory — disse, — le consiglio di restare dov’è.

Un attimo di silenzio. — Azov — disse la voce, — immaginavo che i ladri non avessero onore.

— Comandante Mallory, lei è aggregata alla flotta della Confederazione, e deve obbedire agli ordini della Confederazione. Li accetti, o sarà ritenuto un ammutinamento.

Silenzio. Azov si mordicchiò le labbra. Allungò una mano e batté alcuni tasti. — Comandante Myes. La Norway rifiuta di obbedire agli ordini. Allontani un po’ le sue navi.

Poi, sul canale della Norway: — Accetti i nostri ordini, Mallory, o non avrà più un porto. Può sganciarsi e fuggire, ma sarà l’obiettivo numero uno per le nostre navi, nello spazio della Confederazione. Oppure può raggiungere Mazian. O può muovere contro di lui insieme a noi.

— Ai suoi ordini?

— Sta a lei scegliere, Mallory. Il condono… o venire braccata.

Una risata secca. — Per quanto tempo conserverei il comando della Norway, se lasciassi salire a bordo i confederati? E quanto tempo resterebbe da vivere ai miei ufficiali e alle mie truppe?

— Il condono, Mallory. Prendere o lasciare.

— Come le altre sue promesse.

— Stazione di Pell — intervenne un’altra voce, preoccupata. — Qui Hammer. Abbiamo un contatto. Stazione di Pell, ci sentite? Abbiamo un contatto.

E un’altra voce: — Stazione di Pell: qui la flotta mercantile. Sono Quen dell’Estelle. Stiamo arrivando.

Damon guardò lo schermo che stava compensando rapidamente i nuovi dati, tenendo conto di un segnale vecchio di due ore. Elene! Viva, e con i mercantili. Andò al comunicatore; ma un militare gli piantò la canna del fucile nello stomaco. Si appoggiò barcollando al banco. Rischiava di farsi sparare. Proprio adesso. Guardò Josh. Elene doveva aver ricevuto le trasmissioni di Pell che segnalavano difficoltà, quattro ore prima; era in viaggio da quattro ore. Elene avrebbe fatto domande. Se lui avesse dato le risposte sbagliate… se lei non avesse sentito voci conosciute, sicuramente sarebbe rimasta alla larga.

Gli occhi si volsero verso lo schermo; prima un uomo solo e poi anche gli altri, quando videro la sua espressione. Non c’era solo un punto luminoso, ma tutto un pulviscolo. Una massa, uno sciame, un’orda incredibile di mercantili che avanzava verso di loro. Damon guardò e si appoggiò al banco con un sorriso.

— Sono armati — disse Azov. — Comandante, sono mercantili a grande autonomia e sono armati.

Il viso di Azov era irrigidito. Afferrò un microfono e lo collegò. — Qui Azov dell’ammiraglia confederata Unity, comandante della flotta. Pell è zona militare della Confederazione. Per la vostra sicurezza, state lontani. Spareremo contro le navi che si avvicineranno.

Cominciò a lampeggiare un allarme, un quadro che trasmetteva l’allarme a tutto il centro. Damon guardò le spie luminose e il suo cuore cominciò a battere freneticamente. Il molo bianco annunciava una partenza imminente. La Norway. Si voltò, attivando quel canale mentre il militare di guardia restava paralizzato, confuso. — Norway. Rimanete. Qui è Konstantin. Rimanete.

— Ah, ci tenevo a farlo sapere, centrale di Pell. Le navi da guerra potrebbero fare un macello di quei mercantili, armati o meno. Ma se i mercantili lo vogliono, avranno un aiuto professionale.

— Ripeto — giunse attraverso il comunicatore la voce di Elene. — Stiamo arrivando per attraccare. Abbiamo ascoltato le vostre trasmissioni. L’alleanza dei mercantili rivendica Pell, e la proclama territorio neutrale. Presumiamo che rispetterete la rivendicazione. Consigliamo negoziati immediati… altrimenti ogni mercantile di questa flotta abbandonerà per sempre il territorio della Confederazione e dirigerà verso la Terra. Non crediamo che sia la scelta migliore per tutti gli interessati.

Vi fu un lungo momento di silenzio. Azov guardò gli schermi, dove i punti luminosi si diffondevano come un’epidemia. Il mercantile Hammer non si distingueva più; il segnale era oscurato dai punti che stavano diventando rossi.

— Abbiamo una base per discutere — disse Azov.

Damon trasse un lungo, profondo respiro.


PELL; MOLO ROSSO; 9/1/53; ore 0530 pg.; ore 1730 ag.

Elene arrivò, con una scorta armata dai mercantili. Era incinta e camminava lentamente, e gli uomini che la circondavano badavano a non esporla a rischi. Damon restò a fianco di Josh, dalla parte della Confederazione, finché non resistette più, e finalmente si decise e si avviò, certo che gli uni e gli altri lo avrebbero lasciato arrivare fino a lei. I fucili di quelli dei mercantili si abbassarono nervosamente in un cerchio minaccioso; e Damon si fermò, rimanendo solo in quel tratto vuoto.

Ma lei lo vide e s’illuminò, e gli uomini che la circondavano si scostarono, e lo lasciarono passare.

Era ritornata con i suoi, dopo essere rimasta per tanto tempo lontana dai solidi ponti di Pell. In fondo alla mente di Damon c’era stato un dubbio, il timore di un cambiamento… che svanì appena la guardò. La baciò e l’abbracciò, temendo di farle male. Intorno a loro c’era l’orda di quelli dei mercantili, e Damon aspirò il profumo e la realtà di Elene, la baciò di nuovo, e comprese che non avevano tempo di parlare, di fare domande.

— Ho dovuto fare un bel giro per tornare a casa — mormorò lei.

Damon rise, sommessamente, pazzo di gioia, si voltò a guardare le forze della Confederazione e ridivenne serio. — Sai cos’è successo qui?

— In parte. Quasi tutto, forse. Siamo rimasti là fuori ad attendere… a lungo. Ad attendere un punto che non lasciasse alternative. — Elene rabbrividì, e lo strinse più forte. — Credevamo di avere perduto Pell. Poi Mazian se n’è andato, e ci siamo mossi. La Confederazione è nei guai, Damon. Deve proseguire verso Sol, e deve farlo con tutte le sue navi intatte.

— Ci puoi scommettere — disse lui. — Ma non lasciare questo molo. Esigi di trattare e di discutere qui, proprio su questo molo; non entrare dove Azov possa piazzare le sue truppe fra te e le tue navi. Non fidarti di lui.

Elene annuì. — Capito. Noi siamo soltanto una parte, Damon. Parlo a nome dei mercantili. Voglio un porto neutrale, e Pell lo è. Non credo che Pell obietterà.

— No — disse Damon. — Pell non ha niente da obiettare. Pell deve fare un po’ di pulizia. — Trasse il primo respiro regolare dopo parecchi minuti, e seguì lo sguardo di Elene verso Azov e Josh che stavano fra i militari della Confederazione e attendevano. — Porta con te una dozzina di uomini e lascia gli altri a sorvegliare quell’accesso. Vediamo fino a che punto Azov intende essere ragionevole.


— La riconsegna… — disse Elene con fermezza, senza alzare la voce, appoggiandosi al tavolo con un braccio, — della nave Hammer alla famiglia Olvig; della Swan’s Eye ai legittimi proprietari; e di tutte le altre navi mercantili confiscate dai militari della Confederazione. Scuse ufficiali per la confisca e l’uso della Genevieve. Lei potrà obiettare che non ha il potere di farlo; ma ha il potere di prendere decisioni di carattere militare… e su questo piano, signore, la riconsegna delle navi. O l’embargo.

— Noi non riconosciamo la vostra organizzazione.

— Questo — l’interruppe Damon, — spetta al consiglio della Confederazione deciderlo. Pell riconosce l’organizzazione. E Pell è indipendente, comandante, e pronta a offrirvi un porto al momento; ma abbiamo i mezzi per negarvelo. Mi dispiacerebbe prendere una tale decisione. Abbiamo un comune nemico… ma voi resterete bloccati qui, a lungo, e in modo spiacevole. E la cosa potrebbe diffondersi.

Dall’altra parte del tavolo, sistemato sul molo e circondato da due semicerchi opposti, quello dei mercantili e quello della Confederazione, i volti si fecero preoccupati. — È nel nostro interesse — ammise Azov, — fare in modo che questa stazione non diventi una base per le operazioni di Mazian; e collaborare per proteggervi… altrimenti non avreste molte possibilità, nonostante le sue minacce, signor Konstantin.

— Necessità comune — disse calmo Damon. — Stia certo che nessuna delle navi di Mazian sarà mai gradita a Pell. Sono fuorilegge.

— Vi abbiamo reso un servizio — disse Elene. — Alcune navi mercantili si sono già dirette verso Sol, precedendo di parecchio Mazian. Una è partita in tempo per arrivare prima di lui; non di molto, ma abbastanza. La stazione di Sol sarà avvertita prima del suo arrivo.

La faccia di Azov assunse un’espressione di stupore. L’uomo accanto a lui, il delegato Ayres, s’irrigidì, e poi sorrise, con un luccichio di lacrime negli occhi. — Vi sono grato — disse Ayres. — Comandante Azov, propongo… consultazioni immediate e decisioni rapide.

— Mi sembra ragionevole — disse Azov. Si scostò dal tavolo. — La stazione è sicura. Il nostro compito è finito. Le ore sono preziose. Se Sol deve prepararsi ad accogliere i fuorilegge, noi dovremo recarci là per prenderli alle spalle.

— Pell — disse tranquillamente Damon, — sarà lieta di assistervi nella partenza. Ma le navi mercantili di cui vi siete appropriati… resteranno qui.

— Abbiamo a bordo i nostri equipaggi. Verranno con noi.

— Riprendetevi gli equipaggi. Le navi sono mercantili, e restano. E resta anche Josh Talley. È cittadino di Pell.

— No — disse Azov. — Non vi lascerò uno dei miei solo perché me lo chiedete.

— Josh — disse Damon, voltandosi verso Josh che stava tra i militari della Confederazione, finalmente poco appariscente tra gli altri tutti egualmente perfetti. — Tu cosa ne pensi?

Josh puntò gli occhi verso Azov. Ma non disse nulla.

— Prenda le sue truppe e le sue navi — disse Damon ad Azov. — Se Josh rimane, sarà perché lo avrà deciso. Lasci questa stazione. In avvenire, le verrà dato il permesso di attraccare dall’ufficio del dirigente della stazione, e su regolare richiesta. Ma se per lei il tempo è prezioso, le consiglio di accettare l’offerta.

Azov fece una smorfia, e diede un segnale all’ufficiale delle truppe, che ordinò ai suoi di mettersi in formazione. Si allontanarono verso l’orizzonte curvo, verso il molo azzurro dov’era attraccata l’Unity.

E Josh era rimasto lì, solo. Elene si alzò, l’abbracciò goffamente, e Damon gli batté la mano sulla spalla. — Tu resta qui — disse a Elene. — Ho una nave della Confederazione che deve partire. Josh, vieni.

— Neihart — disse Elene, a quelli che le stavano vicini. — Accertatevi che arrivino alla centrale senza problemi.

Seguirono le forze della Confederazione, svoltarono nel corridoio del nove mentre i confederati si dirigevano verso la loro nave, e si misero a correre. Nei corridoi le porte erano aperte, e gli abitanti di Pell si affacciavano per osservare. Alcuni cominciarono a gridare, ad agitare le mani, ad applaudire quell’ultima occupazione, l’occupazione da parte dei mercantili. — Sono i nostri! — gridò qualcuno. — I nostri!

Salirono la rampa d’emergenza, correndo; gli indigeni vennero loro incontro, saltellando e ciangottando parole di benvenuto. L’intera spirale echeggiava di strilli e squittii degli hisa e di grida umane che giungevano dai corridoi, via via che la voce si spargeva da un livello all’altro. Alcuni confederati scesero, incrociandoli. Avevano ricevuto istruzioni attraverso i comunicatori dei caschi.

Arrivarono all’azzurro uno. Gli indigeni avevano occupato di nuovo la centrale, e rivolsero i loro sogghigni di benvenuto al di là delle porte spalancate.

— Tu amici? — chiese Denteazzurro. — Tu amici tutti?

— Sì — gli assicurò Damon, e si fece largo tra la folla di indigeni ansiosi per piazzarsi al quadro principale. Si voltò a guardare Josh e quelli dei mercantili. — C’è qualcuno che conosce questo tipo di computer?

Josh prese posto accanto a lui. Uno dei Neihart andò al comunicatore, un altro sedette al computer. Damon attivò il comunicatore. — Norway — disse, — voi avete la prima autorizzazione a partire. Spero che partirete senza provocazioni. Non abbiamo bisogno di complicazioni.

— Grazie, Pell — disse la voce asciutta della Mallory. — Le vostre priorità mi piacciono molto.

— Si sbrighi, allora. Faccia svolgere dalle sue truppe le operazioni di partenza. Potrà tornare quando tutto sarà a posto a riprendersi i suoi. D’accordo? Qui saranno al sicuro.

— Stazione di Pell — disse un’altra voce: Azov. — Gli accordi precisavano che gli uomini di Mazian non sarebbero mai stati graditi. Quella nave è nostra.

Damon sorrise. — No, comandante Azov. Quella nave è nostra. Noi siamo un mondo e una stazione, una comunità sovrana, e a parte quelli dei mercantili che non sono residenti qui, abbiamo una milizia. La Norway è la flotta della Porta dell’Infinito. Le sarò grato se rispetterà la nostra neutralità.

— Konstantin — l’avvertì la voce della Mallory, sfumata di collera.

— Decolli e si allontani, comandante Mallory. Resterà in attesa fino a quando i confederati avranno sgombrato il nostro spazio. Lei è in mezzo al nostro traffico e quindi accetta i nostri ordini.

— Ordini ricevuti — rispose finalmente la Mallory. — Restate in attesa. Ci allontaneremo e lanceremo i ricognitori. Unity, andatevene di qui in rotta diretta. E portate i miei saluti a Mazian.

— Saranno i vostri mercantili a dolersi di questa decisione, stazione di Pell — disse Azov. — Voi date attracco a una nave che è costretta a depredare per sopravvivere. A depredare i mercantili.

— Fuori di qui, confederati — ribatté la Mallory. — Almeno potete star certi che Mazian non può tornare indietro. Non attraccherà a Pell finché io sarò nell’area. Andate a sbrigare gli affari vostri.

— Silenzio — disse Damon. — Comandante, parta.

Vi fu un lampeggiare di spie luminose. La Norway decollò.


SISTEMA DI PELL

— Anche lei? — chiese ironicamente Biass.

Vittorio strinse il sacco smilzo delle sue cose, e scese nel piccolo accesso a gravità zero, con il resto dell’equipaggio che aveva occupato l’Hammer. Era freddo e scarsamente illuminato. C’era una vibrazione, l’effetto del tubo della navetta fissato al portello. — Non credo di avere scelta — disse. — Non voglio restare a incontrarmi con quelli dei mercantili. Signore.

Blass sorrise sarcasticamente, si girò verso il portello che si aprì per farli entrare nel tubo di accesso e nella nave da guerra che li attendeva. Il buio si spalancò davanti a loro.

L’Unity si muoveva ad accelerazione costante. Ayres era nella sala principale, austeramente moderna ma comoda, con Jacoby accanto. Gli schermi indicavano la rotta, un’intera serie di schermi pieni di numeri e d’immagini. Passarono attraverso il varco aperto dai mercantili, uno stretto corridoio in mezzo a quell’orda, e finalmente Azov si collegò per video, apparendo su uno degli schermi. — Tutto bene? — chiese.

— Stiamo andando a casa — disse Ayres, soddisfatto. — Le propongo una cosa, comandante: in questo momento, Sol e la Confederazione hanno molto in comune. Dato che manderà inevitabilmente un corriere a Cyteen, includa la mia proposta: collaborazione finché perdura l’attuale stato di cose.

— Voi non avete interesse per le Stelle Sperdute — disse Azov.

— Comandante, le ricordo che forse l’interesse sta per rinascere. E che non converrebbe alla Confederazione… non offrire la sua protezione alla Terra… come farà senza dubbio l’alleanza dei mercantili. Dopotutto, l’alleanza ha già inviato alla Terra un suo messaggero. Quindi Sol può scegliere, no? I mercantili. La Confederazione. O… Mazian. Propongo di discutere la cosa. Rinegoziamo. Sembra che nessuno di noi abbia l’autorità di cedere Pell. E spero di poter dare al mio governo un parere favorevole sul suo conto.


Elene arrivò con una marea di gente dei mercantili, e si fermò sulla soglia della centrale, mentre gli indigeni si disperdevano un po’ allarmati. Ma Denteazzurro e Satin la riconobbero, le danzarono intorno e la toccarono con gioia. Damon si alzò dal suo posto, la prese per mano, la fece sedere accanto a sé e a Josh. — Non me la sento più di fare lunghe salite — disse Elene, ansimando. — Dobbiamo rimettere in funzione gli ascensori. — Damon si concesse il tempo per guardarla. Poi tornò a fissare lo schermo accanto alla sua consolle, una testa adagiata su cuscini bianchi, due occhi scuri e vivaci. Alicia Lukas sorrise, un movimento lievissimo.

— È appena arrivata la chiamata — disse Damon a Elene. — Siamo in comunicazione con la Porta dell’Infinito. Una navetta in avaria ha chiesto alla Mallory di essere portata via dalla base principale… e un operatore, lontano dalla base… ha comunicato che Emilio e Miliko sono salvi. Non ho potuto avere la conferma… laggiù c’è un gran caos. La base dell’operatore è sulle colline; ma evidentemente tutti sono al riparo, al sicuro. Ho bisogno di mandare laggiù una delle nostre navi, magari con qualche medico.

— Neihart — disse Elene, alzando la testa verso i suoi accompagnatori. Un uomo grande e grosso annuì. — Tutto quello che occorre — disse. — Lo porteremo noi.

CAPITOLO SESTO

PELL: SETTORE VERDE UNO; 29/1/53; ore 2200 pg.; ore 1000 ag.

Era un’assemblea bizzarra, persino per Pell, quella che si svolgeva nella sezione in fondo al ritrovo, l’area dove gli schermi offrivano un po’ d’isolamento. Damon stringeva la mano di Elene, e sul tavolo c’era l’occhio rosso di una telecamera portatile, anch’essa una sorta di presenza, perché Damon aveva voluto che lei fosse tra loro, quella sera, come era sempre stato con suo padre e con tutti loro, nelle feste di famiglia. C’era Emilio, accanto a lui; e Miliko; e Josh alla sua sinistra, e dopo Miliko un gruppetto di hisa, che evidentemente stavano scomodi sulle sedie ma erano felici di poterle provare e di assaggiare cibi prelibati, e frutti di stagione. In fondo al tavolo c’erano Neihart e Signy Mallory; quest’ultima era accompagnata da militari armati che si rilassavano tranquillamente nell’ombra.

Intorno a loro c’era la musica, la danza lenta delle stelle e delle navi, sulle pareti. Il salone era tornato quasi alla normalità… non completamente, ma adesso era tutto diverso.

— Ripartirò — disse la Mallory. — Questa notte. Sono rimasta… per cortesia.

— Dove andrà? — chiese bruscamente Neihart.

— Faccia quel che le consiglio, Neihart; designi le sue navi Alleanza. Siete intoccabili, per me. E poi, al momento ho le stive piene di provviste.

— Non vada troppo lontano — disse Damon. — Francamente, non sono sicuro che la Confederazione non tenti qualcosa. Preferirei sapere che la Norway è nelle vicinanze.

La Mallory rise, senza allegria. — Lo metta ai voti. Io non me la sento di girare per i corridoi di Pell senza una scorta.

— Comunque — disse Damon, — preferiamo avervi vicini.

— Non mi chieda la rotta — disse lei. — Quella è affar mio. Conosco certi luoghi. Sono rimasta ferma anche troppo.

— Noi proveremo a fare una corsa a Viking — disse Neihart. — Per vedere come ci accoglieranno… tra un mese circa.

— Può essere interessante — ammise la Mallory.

— Buona fortuna a tutti noi — disse Damon.


PELL: MOLO AZZURRO; 30/1/53; ore 0130 pg.; ore 1330 ag.

Ormai era altergiorno, e in quell’area non commerciale i moli erano quasi deserti. Josh si muoveva rapidamente, con il nervosismo che sempre lo prendeva quando non c’era qualcuno che lo proteggesse, su Pell, e con la precisa sensazione che i pochi passanti potessero riconoscerlo. Gli hisa lo guardarono con aria solenne. Quelli della squadra dell’attracco quattro lo riconobbero senza ombra di dubbio, e anche i militari di guardia; i fucili si puntarono verso di lui.

— Devo parlare con la Mallory — disse. L’ufficiale era un uomo che lui conosceva: Di Janz. Janz diede un ordine e uno dei soldati si passò il fucile ad armacollo e accennò a Josh di salire la rampa d’accesso, e poi lo seguì nella camera stagna, in mezzo alle truppe in movimento. Presero l’ascensore e salirono nel corridoio centrale, dove i membri dell’equipaggio sbrigavano le ultime incombenze prima di partire. Suoni familiari. Odori familiari. E tutto il resto.

Lei era in sala comando. Josh fece per entrare e la guardia all’interno lo fermò, ma la Mallory alzò gli occhi e accennò di farlo passare, incuriosita.

— Ti ha mandato Damon? — gli chiese quando lo ebbe davanti.

Josh scrollò la testa.

Lei aggrottò la fronte e portò istintivamente la mano alla pistola. — Allora perché sei venuto?

— Pensavo che ti servisse un tecnico dei computer. Qualcuno che conosca la Confederazione… dentro e fuori.

Signy Mallory rise. — O che mi spari quando guardo da un’altra parte?

— Non sono andato con la Confederazione — disse lui. — Avrebbero modificato i nastri… mi avrebbero dato un nuovo passato. Mi avrebbero mandato… forse alla stazione di Sol. Non so. Ma restare su Pell, adesso… non posso. Quelli della stazione… mi conoscono. E non posso vivere in una stazione. Mi trovo a disagio.

— Un altro lavaggio del cervello potrebbe rimediare a tutto.

— Io voglio ricordare. Adesso ho qualcosa. L’unica cosa vera. Tutto quello che per me è importante.

— E allora te ne vai e l’abbandoni?

— Per un po’ — disse Josh.

— Ne hai parlato con Damon?

— Prima di venire qui. Lo sa. Anche Elene lo sa.

Signy Mallory si appoggiò al banco, e lo squadrò pensosamente, a braccia conserte. — Perché la Norway?

Lui alzò le spalle. — Nessuna fermata alle stazioni, vero? Tranne qui?

— Nessuna. — Lei sorrise a denti stretti. — Soltanto qui. Qualche volta.


— Nave lei va — mormorò Lily, fissando gli schermi, e accarezzò i capelli della Sognatrice. La nave si staccò, ondeggiò con un movimento diverso da quelli della maggioranza delle navi in arrivo e in partenza, e sfrecciò via.

— La Norway — disse la Sognatrice.

— Un giorno — disse la Narratrice, che era ritornata dalla grande sala portando tante notizie, — un giorno noi andiamo. Konstantin danno noi navi. Noi andiamo, portiamo sole in noi occhi, non paura di buio, non noi. Noi vediamo molte cose, molte cose. Bennett, lui dato noi venire qui. Konstantin, loro danno noi camminare lontano, lontano, lontano. Ma primavera viene ancora. Io voglio camminare lontano, fare me nido là… io trovo me stella e vado.

La Sognatrice rise, una risata affettuosa. E guardò il buio immenso, il movimento lento del Sole, e sorrise.


FINE
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