LIBRO SECONDO

CAPITOLO PRIMO

BASE PRINCIPALE: PORTA DELL’INFINITO: 2/9/52

Il cielo era sereno, quella mattina, appena increspato da pochi cirri, in alto, e da una fila di nubi schierata attraverso l’orizzonte settentrionale, al di là del fiume. Era un panorama ampio; di solito occorreva un giorno e mezzo perché le nubi all’orizzonte raggiungessero la base, ed essi intendevano approfittare di quella tregua, rimediando all’inondazione che li aveva isolati dalla base quattro e da tutti gli altri campi della catena. Speravano che fosse l’ultimo temporale di quell’inverno. Le gemme degli alberi erano gonfie da scoppiare, e i germogli del grano, che l’alluvione aveva ammassato contro i tralicci nei campi, presto avrebbero avuto bisogno di venire sfoltiti e trapiantati nella sede definitiva. La base principale sarebbe stata la prima ad asciugarsi; seguita poi dalle basi verso valle. Il livello del fiume era un po’ più basso, quel giorno, almeno così riferivano dal mulino.

Emilio vide il cingolato dei rifornimenti che percorreva la strada fangosa, lungo il fiume; si voltò e percorse il lento sentiero che portava più in alto, verso le cupole installate sulle colline, cupole che erano diventate due volte più numerose, senza contare quelle che erano state trasferite più avanti, lungo la strada. Si udiva il ritmo irregolare dei compressori, il polso incessante dell’umanità sulla Porta dell’Infinito. Ad esso si accompagnava il rumore in sottofondo delle pompe che eruttavano l’acqua che si era infiltrata nelle cupole nonostante tutti i tentativi di impermeabilizzare i pavimenti; altre pompe erano in azione presso le dighe del mulino e nei campi. Non si sarebbero arrestate prima di aver liberato i campi.

Primavera. Probabilmente l’aria aveva un profumo delizioso, per gli indigeni. Gli umani non lo sentivano, dato che respiravano attraverso le maschere, emettendo profondi sibili. Emilio sentiva con piacere il dolce tepore del sole sulla schiena; questo almeno poteva apprezzarlo. Gli indigeni andavano avanti e indietro, svolgendo le loro mansioni con esuberanza incontrollata; preferivano compiere dieci tragitti di corsa, portando una bracciata di roba, piuttosto che uno solo, faticoso, con un carico scomodo. Ridevano, lasciavano cadere i fardelli per giocare, al minimo pretesto. Emilio era sinceramente stupito che continuassero a lavorare, proprio mentre stava arrivando la primavera. Nella prima notte serena erano riusciti a tenere tutti svegli, al campo, con il loro vocio, additando allegramente il firmamento e parlando con le stelle; alla prima alba senza nubi avevano levato le braccia verso il sole che spuntava all’orizzonte, salutando festosamente i primi raggi… ma quel giorno anche gli umani erano d’umore più lieto, al primo chiaro segnale della fine dell’inverno. Ormai il clima era nettamente più mite. Le femmine erano diventate invitanti, i maschi storditi; si sentiva cantare fra i cespugli e gli alberi delle colline, trilli e ciangottii, fischi sommessi e appassionati.

Non era ancora la vertigine che sarebbe subentrata quando gli alberi fossero stati in fiore. Allora gli hisa avrebbero perduto ogni interesse per il lavoro e sarebbero partiti per i loro vagabondaggi, prima le femmine, sole, e poi i maschi che le avrebbero seguite ostinatamente in luoghi dove gli umani non si avventuravano. Molte femmine della terza stagione sarebbero diventate sempre più rotonde, durante l’estate — almeno, quanto poteva permetterlo l’esile costituzione degli hisa — per partorire d’inverno, rintanate nelle gallerie sui fianchi delle colline, quegli esserini tutti gambe e braccia e ricoperti di pelame rossiccio, che la primavera seguente se ne sarebbero andati in giro da soli.

Emilio passò oltre gli hisa che giocavano, salì il sentiero di pietre irregolari che portava al Centro Operativo, la cupola più alta della collina. Sentì uno scricchiolio sui sassi, dietro di sé; si voltò e vide Satin che lo seguiva zoppicando, con le braccia distese per tenersi in equilibrio, i piedi nudi sulle pietre aguzze e la faccia da folletto contratta per lo sforzo di camminare su di un sentiero costruito per gli stivali degli umani. Emilio sorrise, nel vederla imitare i suoi passi. Satin si fermò e sogghignò, insolitamente splendida, ornata di pelli morbide e di perline e d’uno straccio rosso di stoffa sintetica.

— Navetta arriva, Konstantin-uomo.

Era così. In quella giornata limpida era in programma un atterraggio. Emilio, contro il buon senso, e a dispetto degli assiomi secondo cui le coppie diventavano instabili in primavera, le aveva promesso che lei e il suo compagno avrebbero potuto lavorare per un certo periodo nella stazione. Se c’era un hisa che aveva veramente barcollato sotto carichi troppo pesanti, era Satin. Aveva cercato disperatamente di fargli una buona impressione… Vedi, Konstantin-uomo, io lavoro buono.

— Pronta per partire — commentò, guardandola. Lei mostrò i numerosi sacchetti, pieni di chissà cosa, che portava addosso, e li batté con le mani ridendo beata.

— Io fatto bagagli. — E poi si rattristò e allargò le braccia. — Io finito per volere bene te, Konstantin-uomo, tu e tua amica.

Moglie. Gli hisa non avevano mai capito cosa fossero marito e moglie. — Vieni dentro — l’invitò, commosso da quel gesto. Gli occhi di Satin brillarono di gioia. Gli indigeni venivano scoraggiati persino dall’avvicinarsi alla cupola del Centro Operativo. Era molto raro che uno di loro venisse invitato a entrare. Emilio scese i gradini di legno, pulì gli stivali sulla stuoia, aprì la porta e rimase a guardare, mentre Satin si assestava il respiratore che portava al collo, prima di aprirle il portello interno.

Alcuni degli umani che stavano lavorando alzarono la testa, guardando — certuni aggrottarono la fronte — e ripresero il lavoro. Molti tecnici avevano gli uffici nella cupola, separati da bassi divisori di vimini; l’area che lui divideva con Miliko era più indietro, dove l’unica parete solida della grande cupola offriva loro uno spazio abitativo privato, una sezione di tre metri per tre, con una stuoia sul pavimento, che fungeva da ufficio e da camera da letto. Aprì quella porta, e Satin lo seguì, guardandosi intorno come se non riuscisse ad assorbire neppure la metà di quello che vedeva. Non è abituata ai tetti, pensò Emilio, immaginando quale cambiamento enorme doveva essere per un indigeno venir trasferito nella stazione. Niente vento, niente sole, soltanto acciaio, povera Satin.

— Bene — esclamò Miliko, alzando gli occhi dalle carte topografiche sparpagliate sul letto.

— Ti voglio bene — disse Satin; avanzò con assoluta sicurezza, e abbracciò Miliko, guancia contro guancia, nonostante l’impaccio del respiratore.

— Sei in partenza — disse Miliko.

— Vado a tua casa — disse Satin. — Vado casa Bennett. — Esitò, intrecciò le mani dietro la schiena, con diffidenza, si dondolò un poco, guardando prima l’uno poi l’altro. — Volevo bene Bennett-uomo. Vedo lui casa. Riempio occhi lui casa. Scaldo, scaldo noi occhi.

Qualche volta i discorsi degli indigeni non avevano molto senso; qualche volta, i significati filtravano con sorprendente chiarezza. Emilio la guardò con una specie di rimorso; avevano a che fare con gli hisa da tanto tempo, eppure nessuno di loro riusciva a pronunciare più di qualche parola della loro lingua. Bennett lo aveva fatto meglio di tutti.

Gli hisa amavano i doni. Emilio pensò a un dono, sullo scaffale accanto al letto, una conchiglia che aveva trovato in riva al fiume. La prese e la porse a Satin, e gli occhi scuri dell’indigena si illuminarono. Lo abbracciò.

— Ti voglio bene — annunciò.

— Anch’io ti voglio bene, Satin — disse Emilio. Le passò il braccio intorno alle spalle, l’accompagnò attraverso gli uffici fino alla camera di compensazione, e la fece entrare. Satin aprì il portello esterno, si tolse la maschera, gli sorrise, e agitò la mano.

— Io vado lavoro — gli disse. La navetta stava per arrivare. Un operaio umano non sarebbe stato capace di lavorare il giorno della partenza; ma Satin si avviò, sbattendo la porta fragile con ansioso entusiasmo, come se temesse che qualcuno cambiasse idea all’ultimo momento.

O forse era ingiusto attribuire motivazioni umane. Forse era gioia, o gratitudine. Gli hisa non capivano il concetto di paga: doni, dicevano.

Bennett Jacint li aveva capiti. Gli indigeni avevano cura della sua tomba. Vi deponevano conchiglie perfette, pelli, e le strane sculture nodose che per loro avevano un significato importante.

Emilio riattraversò il centro operativo, tornò nel suo alloggio, da Miliko. Si tolse la giacca, e l’appese al gancio, con il respiratore ancora al collo, un ornamento che tutti portavano da quando si vestivano al mattino fino a quando si spogliavano la sera.

— Ho sentito il bollettino meteorologico della stazione — disse Miliko. — Ricomincerà, dopo che il prossimo temporale ci avrà investiti. C’è un grosso uragano che si sta preparando sul mare.

Emilio imprecò: tanti saluti alle speranze di primavera. Miliko gli fece posto sul letto, in mezzo alle carte, e lui sedette ed esaminò i danni che sua moglie aveva segnato in rosso, le aree inondate che la stazione poteva mostrare dall’alto, lungo serie di cerchietti che erano gli accampamenti, accanto alle strade aperte con grande fatica e prive di pavimentazione.

— Oh, peggiorerà ancora — disse Miliko, mostrandogli la carta topografica. — Il computer prevede abbastanza pioggia, con questo temporale, per causare altre inondazioni nelle zone azzurre. Fino alla porta della base due. Ma quasi tutta la strada dovrebbe rimanere al di sopra del livello delle acque.

Emilio fece una smorfia, sospirando. — Speriamo. — La strada era importante; i campi potevano restare inondati ancora per settimane senza danni, a parte il rallentamento del programma. I cereali indigeni prosperavano nell’acqua, ne avevano bisogno nelle fasi iniziali dei loro cicli naturali. I graticci impedivano alle pianticelle di finire nel fiume. A soffrire di più erano i macchinari e il morale degli umani. — Gli indigeni non hanno torto — disse. — Lasciar perdere tutto durante l’inverno, vagabondare quando gli alberi fioriscono, far l’amore, sistemarsi in posizioni elevate e aspettare che i cereali maturino.

Miliko sorrise, continuando a tracciare segni sulle carte.

Emilio sospirò, sentendosi trascurato; prese la lastra di plastica che gli serviva come scrivania e cominciò a stabilire l’assegnazione del personale, riordinando le precedenze secondo l’equipaggiamento. Forse, pensò, se avesse insistito con gli indigeni, se avesse fatto doni speciali, sarebbero restati ancora un po’ di più, prima della migrazione stagionale. Gli dispiaceva perdere Satin e Denteazzurro; quei due gli erano stati molto utili, e avevano convinto i loro simili, quando c’era qualcosa che stava molto a cuore al loro Konstantin-uomo. Ma questo valeva per entrambe le parti in causa; Satin e Denteazzurro volevano andare; loro volevano qualcosa che lui poteva dare, e toccava a loro spuntarla, prima che arrivasse la primavera e perdessero ogni autocontrollo.

Stavano mandando i veterani e i novellini e i volontari del settore Q lungo la strada, in ciascuna delle nuove basi, cercando di mantenere proporzioni che non rischiassero di causare disordini fra il personale, e di trasformare i volontari del settore Q in operai, sebbene questi ultimi fossero convinti di venire sfruttati; cercavano di puntare sul morale… erano i più volenterosi ad essere mandati, e la base principale doveva tenersi i più riottosi in quell’enorme cupola, più volte ampliata e integrata tanto che adesso non meritava più il nome di cupola… si estendeva irregolarmente sulla collina vicina e causava continue difficoltà. Gli operai umani occupavano le cupole più vicine; le più comode… erano sempre riluttanti a farsi trasferire fuori, in condizioni più disagiate, ai pozzi o nei nuovi accampamenti, soli alle prese con la foresta e le inondazioni e i Q e gli hisa.

Le comunicazioni erano sempre un problema; erano in collegamento, ma là fuori si sentivano soli. L’ideale sarebbe stato servirsi di aerei; ma l’unico fragile velivolo che avevano costruito qualche anno prima era precipitato sul campo d’atterraggio, due anni addietro… gli apparecchi leggeri e i temporali della Porta dell’Infinito non andavano d’accordo. Preparare un campo d’atterraggio per le navette… questo era in programma, almeno per la base tre; ma l’abbattimento degli alberi doveva essere eseguito in accordo con gli indigeni, e questo era un altro problema. Con il livello tecnico che avevano a disposizione sul pianeta, i cingolati erano ancora i mezzi più efficienti per spostarsi, lenti e pazienti come era sempre stato il ritmo della vita sulla Porta dell’Infinito; i cingolati che si muovevano sbuffando nel fango o nell’acqua, con grande meraviglia e gioia degli indigeni. Petrolio e cereali, legname e verdure invernali, pesce essiccato, il tentativo di addomesticare i piccoli pitsu che gli hisa cacciavano… (Voi cattivi, avevano detto gli indigeni, al riguardo, fate stare loro caldi in voi campo e poi mangiate, non buona questa cosa. Ma gli indigeni, alla base uno, erano diventati pastori, e avevano imparato a mangiare la carne degli animali addomesticati. L’aveva ordinato Lukas, e quello era uno dei progetti di Lukas che aveva dato buon esito). Gli umani, sulla Porta dell’Infinito, erano abbastanza ben equipaggiati e provvisti di viveri, anche con l’afflusso dei profughi. Non era un’impresa da poco. Le manifatture della stazione e le manifatture sul pianeta lavoravano senza interruzione. Raggiungere l’autosufficienza, riprodurre tutte le merci normalmente importate, realizzare le quote non soltanto per se stessi ma anche per la stazione sovraffollata, e accumulare quel che potevano… stava ricadendo tutto sulle loro spalle, laggiù: la popolazione in eccesso, il peso della gente nata nella stazione, i loro compagni e i profughi che non avevano mai messo piede su un pianeta. Non potevano più contare sul commercio che un tempo aveva unito Viking e Mariner, Esperance a Pan-Paris e Russell e Voyager e le altre stazioni in una grande Lega autonoma. Nessuna delle altre stazioni avrebbe potuto farcela da sola; nessuna aveva il mondo abitabile che era indispensabile… un mondo abitabile e la manodopera per sfruttarlo. Adesso erano all’esame nuovi progetti, le prime squadre stavano partendo per il pianeta, per lavorare nelle miniere, per riprodurre i materiali già disponibili nell’intero sistema di Pell… nell’eventualità che le cose andassero peggio del previsto. Avrebbero varato nuovi massicci programmi, quell’estate, quando gli indigeni sarebbero stati di nuovo abbordabili; li avrebbero avviati a dovere in autunno, la stagione in cui gli indigeni lavoravano di più, quando i venti freschi facevano pensare di nuovo all’inverno; infatti sembrava che non si riposassero mai, lavorando per gli umani e lavorando per portare il muschio morbido nelle loro gallerie sulle colline boscose.

Per la Porta dell’Infinito si avvicinava un cambiamento. La popolazione umana era quadruplicata. A Emilio dispiaceva, ed anche a Miliko. Aveva già escluso certe aree, sulle onnipresenti carte topografiche… luoghi che nessun umano doveva mai toccare, i luoghi più belli, quelli che sapevano essere sacri per gli indigeni, e quelli indispensabili per i cicli degli hisa e degli animali selvatici.

Bisognava farlo capire al consiglio, entro la loro generazione, meglio ancora quell’anno, prima che le pressioni aumentassero. Preparare le protezioni per tutto ciò che doveva durare. La pressione si faceva già sentire. Il territorio era già deturpato, il fumo del mulino, i tronconi degli alberi, le cupole sgraziate e i campi creati lungo la riva del fiume, le strade fangose. Avrebbero voluto abbellire tutto, via via, creare giardini, mimetizzare le strade e le cupole… e quella possibilità non c’era più.

Lui e Miliko avevano deciso che non avrebbero permesso che si facessero altri danni. Amavano la Porta dell’Infinito, nel bene e nel male, gli irritanti hisa e la violenza dei temporali. Come rifugio umano c’era sempre la stazione; i corridoi antisettici e i mobili comodi erano sempre in attesa. Ma Miliko si trovava bene, lì, ed anche lui; facevano piacevolmente l’amore, di notte, con la pioggia che picchiettava sulla cupola di plastica e i compressori che rombavano nell’oscurità e gli animali notturni che cantavano freneticamente all’esterno. Amavano i mutamenti che il cielo regalava ora per ora, e il rumore del vento tra l’erba e nella foresta intorno a loro; ridevano delle stravaganze degli indigeni e governavano il mondo intero, con il potere di provvedere ad ogni cosa, tranne che al clima.

Sentivano nostalgia di casa, della famiglia e di quel mondo diverso e più grande; ma avevano altri progetti… avevano addirittura parlato di costruirsi una cupola tutta per loro, nel tempo libero, negli anni futuri, quando lì sarebbe stato possibile costruire case, una speranza che era stata più vicina un anno prima, quando la colonia sulla Porta dell’Infinito era tranquilla, prima che arrivassero la Mallory e gli altri, prima del settore Q.

Adesso pensavano semplicemente a mantenere il livello di vita attuale. Tenevano la popolazione sotto sorveglianza, per paura che potesse diventare una minaccia. Aprivano nuove basi male attrezzate e in condizioni difficili. Cercavano di prendersi cura contemporaneamente della terra e degli indigeni, e di fingere che nella stazione tutto fosse normale.

Emilio concluse le assegnazioni, uscì e le consegnò al messaggero, Ernst, che era anche contabile e addetto al computer… ognuno di loro svolgeva molte mansioni. Tornò al suo ufficio-camera da letto, scrutò Miliko e le sue carte. — Vuoi pranzare? — le chiese. Contava di andare al mulino nel pomeriggio, e adesso sperava di poter bere in pace un caffè e di usare per primo il forno a microonde che era l’altro lusso accordato dal rango nella cupola… il tempo di rilassarsi un po’.

— Ho quasi finito — disse Miliko.

Un campanello suonò, tre squilli bruschi, e scombinò la giornata. La navetta stava arrivando in anticipo; Emilio aveva creduto che non sarebbe atterrata prima di sera. Scrollò la testa. — C’è ancora tempo per il pranzo — disse.


La navetta scese prima che finissero. Tutti, al Centro Operativo, erano arrivati alla stessa conclusione, ed Ernst, l’incaricato, dirigeva tutto fra un boccone e l’altro. Era una giornata dura per tutti.

Emilio finì in fretta di mangiare, vuotò la tazza del caffè e prese la giacca. Miliko stava indossando la sua.

— Stanno arrivando altri Q — disse Jim Ernst dal banco dei dispacci e, dopo un momento, a voce abbastanza alta perché si sentisse in tutta la cupola: — Duecento. Li hanno rinchiusi come sardine in quella stiva. Navetta, che cosa dobbiamo farcene?

La risposta arrivò fra le scariche, confusa, con poche parole intelligibili. Emilio scrollò la testa, esasperato, e andò a guardare sopra la spalla di Jim Ernst. — Avverta la cupola Q che dovranno rassegnarsi a un maggiore affollamento fino a quando potremo effettuare altri trasferimenti lungo la strada.

— Quasi tutti i Q sono a pranzo — gli ricordò Ernst. Per principio, evitavano di dare gli annunci quando tutti i Q erano radunati: erano portati ad irrazionali attacchi d’isteria. — provveda — disse a Ernst, ed Ernst diede l’annuncio.

Emilio si mise il respiratore e uscì, seguito da Miliko.


Era scesa la navetta più grande: e adesso stava scaricando il poco materiale che avevano chiesto alla stazione. Quasi tutte le merci fluivano nella direzione opposta: scatoloni pieni di prodotti della Porta dell’Infinito giacevano nelle cupole-magazzini, in attesa di venir trasferiti su Pell.

I primi passeggeri cominciarono a scendere la rampa quando Emilio e Miliko ebbero raggiunto il campo circolare d’atterraggio al di là della collina; individui in tuta, stravolti, probabilmente spaventati a morte dal trasferimento, ammassati in un numero superiore al consentito… certamente il loro numero superava abbondantemente le esigenze. C’erano alcuni volontari dall’aria prospera… altri che avevano perso alla lotteria; e quelli se ne stavano in disparte. Ma le guardie scese dalla navetta attendevano con i fucili imbracciati di radunare in gruppo i Q. Con loro c’erano diversi vecchi, e almeno una dozzina di bambini, famiglie e individui isolati, gente che sarebbe sopravvissuta a stento in quarantena nella stazione. Un trasferimento umanitario. Quella gente portava via spazio e sfruttava un compressore, e non era possibile destinarla ai lavori più leggeri, perché quelle mansioni richiedevano l’uso di macchinari delicati. Bisognava ripiegare sui lavori manuali, almeno quelli che potevano sopportare. E i bambini… per fortuna non erano troppo piccoli per lavorare, o per capire che dovevano portare i respiratori e cambiare in fretta le bombole.

— Quanta gente fragile — disse Miliko. — Che ne pensa tuo padre della nostra situazione?

Emilio alzò le spalle. — Sempre meglio del settore Q della stazione, credo. Penso che abbiano portato i compressori nuovi, e le lastre di plastica.

— Io scommetto di no — disse tristemente Miliko.

Si udirono degli strilli, oltre la collina, in direzione della base e delle cupole. Strilli di indigeni; non era una rarità. Emilio girò la testa, non vide nulla, e non vi badò. A quel suono, i profughi si erano fermati. Il personale li fece proseguire.

Gli strilli continuarono. Questo non era normale. Emilio si voltò, e anche Miliko. — Resta qui — le disse lui, — e tieni in pugno la situazione.

Cominciò a correre lungo il sentiero che scavalcava la collina, subito stordito dalle limitazioni del respiratore. Superò la cresta e arrivò in vista delle cupole; e davanti all’enorme cupola Q c’era aria di rissa, un gruppo di indigeni assisteva a tutto quel trambusto, e altri profughi uscivano correndo. Emilio aspirò profondamente e riprese a correre; uno degli indigeni lasciò il gruppo, e gli andò incontro precipitosamente… Denteazzurro, il compagno di Satin; Emilio lo riconobbe dal colore bruno rossiccio, insolito per un adulto. — Lukas-uomini — sibilò Denteazzurro affiancandosi a lui mentre correva, saltellando per l’agitazione. — Lukas-uomini tutti matti.

Non c’era bisogno di spiegazioni. Emilio capì quando vide le guardie… Bran Hale e compagni, i supervisori; c’era un gruppo di Q che gridavano e le guardie li tenevano a bada con i fucili. Hale e i suoi avevano trascinato un giovane fuori dal gruppo, e gli avevano strappato il respiratore; adesso quello stava soffocando, e sarebbe morto se nessuno fosse intervenuto. Tenevano come ostaggio il ragazzo semisvenuto, sotto la minaccia di una pistola, puntando i fucili sugli altri, mentre i Q e gli indigeni intorno urlavano.

— Basta! — gridò Emilio. — Finitela! — Nessuno gli badò, e lui avanzò, da solo, mentre Denteazzurro restava indietro. Si fece largo tra gli uomini armati di fucile e dovette spingere più di una volta, ricordando all’improvviso che lui non aveva una pistola, e quindi era solo e disarmato, e che non c’erano altri testimoni se non gli indigeni e i Q.

Lo lasciarono passare. Strappò il ragazzo dalle mani di quelli che lo trattenevano e questi si accasciò a terra; Emilio s’inginocchiò, sentendosi indifeso, raccolse il respiratore e lo rimise sulla faccia del ragazzo. Diversi Q cercarono di avvicinarsi e uno degli uomini di Hale sparò a terra per intimidirli.

— Basta! — gridò Emilio. Si alzò, tremando in ogni muscolo, fissando le dozzine di operai Q all’esterno, gli altri ancora bloccati per la gran ressa all’interno della cupola. I dieci uomini con i fucili spianati. Emilio tremava, pensando a una ribellione, a Miliko che era appena oltre la collina, al pericolo. — Indietro — gridò ai Q. — Allontanatevi! — E si girò verso Bran Hale… giovane, torvo e insolente. — Cos’è successo?

— Ha cercato di scappare — disse Hale. — Nella lotta gli è caduta la maschera. Ha tentato di prendere la pistola.

— Non è vero! — gridarono i Q in tono sempre più deciso, cercando di sommergere la voce di Hale.

— È la verità — disse Hale. — Non vogliono altri profughi nella loro cupola. Cè stata una rissa e questo piantagrane ha cercato di scappare. L’abbiamo ripreso.

Ci fu un coro di proteste da parte dei Q. In prima fila, una donna stava piangendo.

Emilio si guardò intorno; anche lui faticava a respirare. Ai suoi piedi, il ragazzo sembrava rinvenire, contorcendosi e tossendo. Gli indigeni si raggrupparono, con aria solenne.

— Denteazzurro — chiese Emilio — cos’è successo?

Gli occhi di Denteazzurro accennarono all’uomo di Bran Hale. Nient’altro.

— Me occhi visto — disse un’altra voce. Satin si avvicinò, con movimenti decisi del capo. La sua voce aveva un tono acuto. — Hale spinto lui amico, forte con pistola. Spinto forte.

Dalla parte di Hale ci furono grida di derisione, e altre si aggiunsero dalla parte dei Q. Emilio urlò di fare silenzio. Non era una menzogna. Conosceva gli indigeni e conosceva Hale. Non era una menzogna. — Gli hanno tolto il respiratore?

— Tolto — disse Satin e richiuse la bocca. Aveva gli occhi pieni di paura.

— Sta bene — disse Emilio con un profondo respiro, e guardò la faccia di Bran Hale. — Sarà meglio che continuiamo la discussione nel mio ufficio.

— Parliamo qui — disse Hale. Aveva i suoi uomini intorno. Era in vantaggio. Emilio sostenne lo sguardo di Hale; non poteva fare altro, perché non aveva armi, non aveva nessuno che lo spalleggiasse. — La parola di un indigeno — disse Hale, — non vale come testimonianza. Lei non può insultarmi sulla parola di un indigeno, signor Konstantin, nossignore.

Poteva andarsene, fare marcia indietro. Senza dubbio il Centro Operativo e gli operai regolari potevano vedere quello che stava succedendo. O forse erano rimasti a guardare dalle loro cupole facendo finta di niente. In un posto come quello potevano accadere incidenti anche a un Konstantin. Per molto tempo, l’autorità sulla Porta dell’Infinito era stata esercitata da Jon Lukas e dai suoi figli. Lui poteva andarsene, raggiungere il Centro Operativo, e chiedere aiuto alla navetta, se Hale lo avesse lasciato fare; e tutti avrebbero detto che quello era il modo con cui Emilio Konstantin reagiva alle minacce. — Fate i bagagli — disse, senza alzare la voce, — e imbarcatevi sulla navetta. Tutti quanti.

— Sulla parola di una cagna indigena? — Hale aveva perduto ogni dignità, e adesso gridava. Poteva permetterselo. Alcuni dei fucili erano passati dalla sua parte.

— Andatevene — disse Emilio. — Sulla mia parola. Partite con la navetta. Il vostro turno qui è finito.

Vide la tensione di Hale, il guizzo dei suoi occhi. Qualcuno si mosse. Un fucile sparò, e si udì uno sfrigolio nel fango. Uno dei Q aveva deviato il colpo. Per un secondo sembrò che stesse per scoppiare una rivolta.

— Via! — ripeté Emilio. All’improvviso, l’equilibrio cambiò. Nelle prime file dei Q c’erano gli operai più giovani, con il loro caposquadra, Wei. Hale girò gli occhi a destra e a sinistra, valutò la situazione e rivolse un brusco cenno ai suoi compagni. Si mossero. Emilio restò a guardarli mentre ripiegavano spavaldi verso i dormitori comuni, ancora incapace di credere che fosse tutto finito. Accanto a lui, Denteazzurro proruppe in un lungo fischio e Satin soffiò. I suoi muscoli tremavano per lo scontro che non era avvenuto. Sentì un sibilo: era defluita aria dalla cupola quando il resto dei Q, trecento persone, uscì spalancando il portello della camera di compensazione. Li guardò; era rimasto solo con loro. — Prenderete nella vostra cupola i nuovi arrivati, senza proteste e discussioni. Faremo nuovi alloggi: voi e loro insieme, al più presto possibile. Volete che dormano all’aperto? Non fate storie.

— Sì, signore — rispose Wei dopo un momento. La donna che era scoppiata in lacrime si fece avanti. Emilio si scostò e la donna si chinò per aiutare il giovane, che stava cercando di mettersi a sedere; era la madre, pensò. Altri si avvicinarono e aiutarono il ragazzo ad alzarsi. Ci fu una gran confusione.

Emilio prese il giovane per un braccio. — Voglio che ti faccia visitate — disse. — Due di voi lo portino al Centro Operativo.

Quelli esitarono. Avrebbero dovuto essere le guardie a scortarli. Non c’erano guardie, notò Emilio in quell’istante. Aveva appena ordinato a tutte le forze della sicurezza della base principale di andarsene.

— Rientrate — disse agli altri. — Normalizzate la cupola. Più tardi ne parlerò con voi. — E poi, approfittando del fatto che tutti lo ascoltavano con attenzione: — Guardatevi intorno. C’è tutto un mondo, qui, accidenti a voi. Aiutateci. Venite a parlare con me, se c’è qualche reclamo. Farò in modo di ricevervi. Qui stiamo tutti stretti. Tutti. Venite a vedere il mio alloggio, se non ci credete; vi farò fare il giro. Viviamo così perché stiamo ancora costruendo. Aiutateci a costruire, e qui potremo stare comodi, tutti quanti.

Lo fissavano spaventati… increduli. Erano arrivati a bordo di navi sovraffollate e morenti; erano stati nel settore Q della stazione; ed ora vivevano lì, nel fango, in ambienti affollati, e sotto la continua minaccia dei fucili. Emilio esalò un respiro.

— Andate — disse. — Disperdetevi. Datevi da fare. Fate posto per i nuovi arrivati.

Si mossero; il ragazzo e un paio di giovani andarono verso il Centro Operativo, gli altri rientrarono nella cupola. Le fragili porte si chiusero in sequenza, lasciando entrare un gruppo alla volta, fino a quando non rimase più nessuno, e la cupola riprese il suo assetto originario, via via che il compressore pompava aria all’interno.

Un mormorio sommesso, un ondeggiare di figure. Gli indigeni erano ancora con lui. Emilio tese una mano e sfiorò Denteazzurro. L’hisa ricambiò quel gesto e si dondolò, ancora agitato. Dall’altra parte c’era Satin, con le braccia incrociate sul petto e gli occhi ancora più scuri, e spalancati.

E intorno a lui, altri indigeni, con la stessa espressione turbata. I dissidi umani e la violenza: non capivano. Gli indigeni erano capaci di colpire, in una rabbia momentanea, ma non per fare veramente del male. Non li aveva mai visti azzuffarsi in gruppo, o usare armi… i loro coltelli erano soltanto utensili. Uccidevano solo la selvaggina. Che cosa pensavano, si chiese, che cosa immaginavano di fronte a quello spettacolo? Gli umani che puntavano le armi uno contro l’altro…

— Noi andiamo Lassù — disse Satin.

— Sì — disse Emilio. — Certo che ci andrete. Avete fatto bene, Satin, Denteazzurro, tutti quanti; avete fatto bene a dirmelo.

A ciò seguirono numerosi inchini e un mormorio generale di sollievo fra tutti gli hisa, come se finora avessero nutrito qualche dubbio in proposito. Ricordò che aveva ordinato a Hale e ai suoi uomini di partire con la stessa navetta… che il rancore umano poteva ancora complicare le cose.

— Parlerò all’uomo che comanda la navetta — disse. — Voi e Hale sarete sistemati in parti diverse del veicolo. Non avrete guai, ve lo prometto.

— Buono-buono-buono — mormorò Satin, e lo abbracciò. Emilio le accarezzò la spalla, si voltò e ricevette un abbraccio anche da Denteazzurro, che lui ricambiò con una carezza sul pelame ruvido. Li lasciò e salì verso la cresta della collina, sul sentiero che portava al campo d’atterraggio, e si fermò ad osservare un gruppo di figure.

Miliko. Altri due. Tutti erano armati di fucile. Emilio provò un improvviso senso di sollievo al pensiero che aveva avuto qualcuno a proteggergli le spalle, dopotutto. Agitò la mano per indicare che era tutto a posto, e si affrettò a raggiungerli. Miliko gli venne incontro; l’abbracciò. I due compagni di Miliko si avvicinarono; erano due guardie scese dalla navetta. — Alcuni uomini saliranno con voi — disse Emilio. — Li ho congedati, e sto inoltrando rapporti a loro carico. Non voglio che tengano le armi. Ci sono anche alcuni indigeni, e non voglio che i due gruppi entrino in contatto, in nessun caso.

— Sì, signore. — Le due guardie non fecero commenti né sollevarono obiezioni.

— Potete tornare — concluse. — Mandate i nuovi arrivati da questa parte: è tutto a posto.

I due se ne andarono. Miliko tenne il fucile che s’era fatto prestare da qualcuno, e rimase stretta al suo fianco.

— La squadra di Hale — disse Emilio. — Li rispedisco tutti.

— Così resteremo senza guardie.

— Non sono stati i Q a causare il guaio. Chiamerò la stazione per informarli. — Sentì una stretta allo stomaco; incominciava la reazione. — Credo che ci abbiano visto sulla cresta. Forse è stato questo a fargli cambiare idea.

— La stazione ha ricevuto l’allarme. Ho pensato che fossero i Q. La navetta ha chiamato la centrale.

— Allora è meglio tornare al Centro Operativo e annullare l’allarme. — Scesero il pendio in direzione della cupola. Emilio si sentiva tremare le ginocchia.

— Io non c’ero — disse Miliko.

— Dove?

— Sulla cresta. Quando siamo arrivati lassù, abbiamo visto soltanto indigeni e Q.

Emilio imprecò, sorpreso di averla spuntata con il suo bluff. — Staremo meglio, senza Bran Hale — disse.

Arrivarono all’avvallamento tra le colline, attraversarono il ponte che scavalcava le tubature dell’acqua e risalirono, di nuovo verso il Centro Operativo. Un medico si occupava del ragazzo, e due tecnici armati di pistole sorvegliavano nervosamente i Q che l’avevano accompagnato fin lì. Emilio rivolse loro un cenno negativo. Cautamente, i due tecnici riposero le pistole, sentendosi a disagio.

Scrupolosamente neutrali, pensò Emilio. Si sarebbero schierati con chiunque avesse vinto il confronto là fuori; non l’avrebbero aiutato. Non provava collera per questo, solo disappunto.

— Tutto bene, signore? — chise Jim Ernst.

Lui annuì, si fermò a guardare, con Miliko al fianco. — Chiami la stazione — disse dopo un momento. — L’allarme è revocato.


Si rannicchiarono insieme, nello spazio buio che gli umani avevano trovato per loro nel grande ventre vuoto della nave, un posto che echeggiava paurosamente del rumore dei macchinari. Dovevano usare i respiratori, e quello era il primo dei molti disagi che avrebbero dovuto affrontare. Si legarono alle maniglie, come avevano detto gli umani, per sicurezza, e Satin abbracciò Denteazzurro-Dalut-hos-me. Odiava l’atmosfera di quel luogo e il freddo e la scomodità del respiratore e soprattutto aveva paura perché gli umani avevano detto che dovevano rimanere legati. Non aveva pensato che le navi fossero fatte di pareti e tetti, e questo la impauriva. Non aveva immaginato che il volo delle navi fosse tanto violento da schiacciarli e ucciderli; aveva creduto che fosse libero, come quello degli uccelli, grandioso e delirante. Rabbrividì, mentre stava con la schiena appoggiata contro i cuscini forniti dagli umani, e cercò di frenare il brivido, e sentì che anche Denteazzurro tremava.

— Potremmo tornare indietro — disse lui, perché quella non era una sua scelta.

Satin non disse nulla, strinse i denti per resistere all’impulso di gridare che sì, dovevano tornare indietro, dovevano chiamare gli umani e dire che due piccoli, infelici indigeni avevano cambiato idea.

Poi venne il rumore dei motori. Satin sapeva cos’era… l’aveva udito spesso. Adesso lo sentiva… era un terrore che le scendeva fin nelle ossa.

— Vedremo il grande Sole — disse, quando ormai non era più possibile tornare indietro. — Vedremo la casa di Bennett.

Denteazzurro la strinse più forte. — Bennett — ripeté. Quel nome li confortava entrambi. — Bennett Jacint.

— Vedremo le immagini-spiriti di Lassù — disse lei.

— Vedremo il Sole. — C’era un grande peso che li opprimeva, la sensazione di muoversi e di venire schiacciati. La stretta di Denteazzurro le faceva male; e si aggrappava a lui con la stessa intensità. Pensò che forse sarebbero stati schiacciati dalla grande forza che gli umani riuscivano a sopportare, che forse gli umani li avevano dimenticati lì, nelle viscere buie della nave. Ma no, gli hisa andavano avanti e indietro, riuscivano a sopravvivere a quella grande forza e a volare, e a vedere tutte le meraviglie di Lassù, dove potevano guardare dall’alto le stelle, guardare in faccia il grande Sole, riempirsi gli occhi di cose belle.

Era questo che li attendeva. Ormai era primavera, ed entrambi erano in calore. Satin aveva scelto il suo Viaggio, il più lungo di tutti i viaggi, e quel luogo più in alto di tutti gli altri, dove lei avrebbe trascorso la sua prima primavera.

La pressione si attenuò; si tenevano ancora abbracciati, e sentivano ancora il movimento. Era un volo molto lungo, li avevano avvertiti; non dovevano liberarsi fino a quando non fosse venuto qualcuno a dirlo. Konstantin aveva spiegato loro cosa fare, e senza dubbio sarebbero stati al sicuro. Satin lo sentiva, con una fede che cresceva a mano a mano che la forza si attenuava e capì che ce l’avrebbero fatta. Erano in viaggio. Volavano.

Satin stringeva la conchiglia che le aveva regalato Konstantin, il dono che per lei segnava questo Tempo, ed era drappeggiata nella stoffa rossa che era il suo tesoro, la cosa più bella, l’onore che Bennett le aveva dato per nome. Si sentiva più sicura, con quelle cose e con Denteazzurro, per il quale provava un affetto crescente, un autentico legame, non il calore primaverile dell’accoppiamento. Lui non era il più grosso dei maschi, e tanto meno il più bello, ma era intelligente e acuto.

Non del tutto. Denteazzurro frugò in una delle sacche che aveva portato, tirò fuori un minuscolo ramoscello con le gemme sbocciate… alzò il respiratore per odorarlo, e lo offrì a Satin. Il ramoscello rappresentava il loro mondo, le rive del fiume e grandi promesse.

Satin sentì un’ondata di calore che la fece sudare, nonostante l’ambiente fosse gelido. Era innaturale, essere così vicina a lui e non avere la libertà della terra, lo spazio per correre, l’irrequietezza che l’avrebbe spinta sempre più lontano, nelle terre solitarie dove esistevano soltanto le immagini. Stavano viaggiando, in un modo strano e diverso, verso il grande Sole che guardava ogni cosa dall’alto, e quindi lei non doveva far nulla. Accettò le attenzioni di Denteazzurro, dapprima nervosamente, e poi con crescente disinvoltura, perché era giusto così. I giochi che li avrebbero tenuti occupati sulla superficie del pianeta, fino a quando lui fosse stato l’ultimo maschio deciso a seguirla dovunque andasse, non erano più necessari. Lui era quello che l’aveva seguita più lontano, ed era accanto a lei: era perfetto così.

Il moto della nave cambiò, si aggrapparono l’uno all’altra in un momento di paura, ma erano stati avvertiti, e quindi erano preparati a quella sensazione di grande stranezza. Scoppiarono a ridere e poi fecero all’amore e infine si rilassarono, presi dall’ebbrezza e dallo stordimento. Si meravigliarono del ramoscello fiorito che fluttuava nell’aria accanto a loro e che si muoveva quando, a turno, cercavano di colpirlo con le mani. Satin tese delicatamente il braccio e lo colse al volo e rise di nuovo lasciandolo andare.

— È qui dove vive il Sole — disse Denteazzurro. Lei pensò che doveva essere così, immaginò il Sole che aleggiava maestoso nell’alone della sua potenza; e loro nuotavano in quella luce, verso Lassù, la casa metallica degli umani che tendeva loro le braccia. E poi fecero di nuovo all’amore, tra sussulti di gioia.

Dopo molto, molto tempo ci fu un altro cambiamento: piccole tensioni delle cinghie, appena avvertibili, e a poco a poco ricominciarono a sentire il loro peso.

— Stiamo scendendo — pensò Satin a voce alta. Ma rimasero tranquilli, ricordando le istruzioni ricevute; dovevano aspettare che un umano venisse ad annunciare che era tutto a posto.

E poi vi fu una serie di scossoni e di rumori terribili, e si abbracciarono convulsamente; ma adesso il pavimento era solido, sotto di loro. L’altoparlante echeggiò di voci umane che impartivano istruzioni, e nessuna di quelle voci sembrava spaventata; avevano piuttosto il solito tono degli umani, concitato e serio. — Credo che sia tutto a posto — disse Denteazzurro.

— Dobbiamo stare fermi — gli ricordò lei.

— Si dimenticheranno di noi.

— Non si dimenticheranno — disse Satin, ma anche lei aveva qualche dubbio, perché quel posto era così buio e desolato, e c’era solo una piccola luce, sopra di loro.

Vi fu un terribile clangore metallico. La porta da cui erano entrati si aprì, e non apparve una visione di colline e foreste, ma una stretta galleria snodata, che li investì con un soffio di aria gelida.

Si avvicinò un uomo vestito di marrone, con un megafono in mano. — Venite — disse, ed essi si affrettarono a slegarsi. Satin si alzò e si accorse che le tremavano le gambe; si appoggiò a Denteazzurro, e anche lui vacillò.

L’uomo porse loro dei doni: cordoncini argentei da indossare. — I vostri numeri — disse. — Teneteli sempre. — Scrisse i loro nomi e indicò il corridoio. — Venite come me. Registreremo il vostro arrivo.

Lo seguirono lungo quel corridoio spaventoso, in un luogo simile al ventre della nave, metallico e freddo, ma molto più vasto. Satin si guardò intorno, rabbrividendo. — Siamo in una nave più grande — disse. — Anche questa è una nave. — Poi, all’umano: — Uomo, noi in Lassù?

— Questa è la stazione — disse l’umano.

Una sensazione di gelo sfiorò il cuore di Satin. Aveva sperato di vedere e di sentire il caldo del Sole. Si disse di avere pazienza, che queste cose sarebbero venute poi, che sarebbe stato ugualmente bellissimo.


PELL: SETTORE AZZURRO: 2/9/52

L’appartamento era stato messo in ordine, gli oggetti sparsi erano stati riposti in grosse ceste. Damon infilò la giacca e si raddrizzò la cravatta. Elene si stava ancora vestendo, e si guardava preoccupata i fianchi non più troppo snelli. Era il secondo abito che provava. Sembrava che anche questo la deludesse. Damon si portò alle sue spalle, la abbracciò dolcemente e cercò i suoi occhi nello specchio. — Sei bellissima. E se anche si vede un po’?

Elene guardò le due immagini riflesse, e la sua mano sfiorò quella di Damon. — Sembra quasi che stia ingrassando.

— Sei meravigliosa — disse lui, aspettandosi un sorriso. Nello specchio, il viso di lei rimase ansioso. Damon indugiò un momento, e la tenne stretta, perché sembrava che lei lo desiderasse. — Tutto bene? — le chiese. Forse Elene aveva esagerato, s’era data anche troppo da fare, s’era procurata roba speciale allo spaccio… quella serata la innervosiva, pensò. Per questo era tesa. Per questo si agitava per le piccolezze. — Ti sconvolge tanto, avere qui Talley?

Le dita di Elene sfiorarono le sue. — Non credo. Ma non so bene che cosa potrò dirgli. Non ho mai avuto un ospite confederato.

Damon lasciò ricadere le braccia, la guardò negli occhi, quando lei si voltò. Quei preparativi… tutta l’ansia. Non era entusiasmo. Aveva temuto che fosse così. — L’hai proposto tu; ti avevo chiesto se eri sicura. Elene, se ti senti a disagio…

— Hai questo peso sulla coscienza da più di tre mesi. Dimentica i miei scrupoli. Sono curiosa; non dovrei esserlo?

Damon sospettava… quell’eccessiva condiscendenza nei suoi confronti, quell’equilibrio tipico di Elene; gratitudine, forse; o il suo modo di dirgli che le stava a cuore. Ricordava le lunghe serate, Elene che rimuginava da una parte del tavolo, lui dall’altra, lei con il peso dell’Estelle, lui con il peso delle vite di cui decideva. Aveva parlato di Talley, una notte, finendo poi invece per ascoltare lei; e quando era capitata l’occasione… era un gesto tipico di Elene; non ricordava di averle confidato altri problemi, oltre a quello. Perciò lei l’aveva preso a cuore, aveva cercato di risolverlo, per quanto fosse difficile. Un confederato. Damon non aveva modo di sapere cosa provasse lei, in quelle circostanze. Aveva creduto di saperlo.

— Non guardarmi così — disse lei. — Sono incuriosita. Ma è la situazione. Che cosa si deve dire? Parlare dei tempi andati? Forse ci siamo già incontrati, signor Talley? Magari ci siamo sparati addosso? Oppure parlare delle famiglie… Come stanno i suoi, signor Talley? O dell’ospedale. Le piace il suo soggiorno su Pell, signor Talley?

— Elene…

— Me lo hai chiesto tu.

— Avrei voluto sapere che cosa provavi.

— Tu che cosa provi… sinceramente?

— Mi sento impacciato — confessò Damon, appoggiandosi al banco. — Ma, Elene…

— Se vuoi sapere come mi sento io… be’, sono a disagio. Semplicemente a disagio. Lui sta per venire qui, e dovremo intrattenerlo e, sinceramente, non so cosa faremo. — Elene si voltò verso lo specchio, si sistemò il vestito sui fianchi. — Ecco che cosa penso. Spero che si sentirà a suo agio e che sarà una serata piacevole.

Damon l’immaginava in un modo diverso… lunghi silenzi. — Devo andare a prenderlo — disse. — Mi starà aspettando. — E poi, con un pensiero più lieto: — Perché non saliamo nel salone? Lascia perdere i preparativi, qui. Potrebbe facilitare le cose, se non saremo costretti a fare la parte dei padroni di casa.

Gli occhi di lei s’illuminarono. — Vi aspetto là? Prenderò un tavolo. Non c’è niente che non possa rimanere in frigo.

— E allora fai così. — Damon la baciò sull’orecchio, le batté una mano sulla spalla e uscì in fretta per arrivare in tempo all’appuntamento.


L’ufficio sicurezza mandò a chiamare Talley, e lui arrivò subito… un vestito nuovo, e così tutto il resto. Damon gli andò incontro e tese la mano. Il sorriso sul volto di Talley cambiò quando gli strinse la mano, un sorriso che svanì subito.

— Sei già stato dimesso — gli disse Damon che ritirò dal banco un piccolo portafogli di plastica e glielo porse. — Quando rientrerai, questo renderà tutto automatico. Sono i tuoi documenti d’identità e la tua carta di credito, e un foglietto con il numero del computer. Impara a memoria il numero e distruggi il foglietto.

Talley guardò i documenti, visibilmente commosso. — Sono stato dimesso? — Evidentemente il personale non glielo aveva detto. Gli tremavano le dita, mentre scorrevano sulle parole stampate. Le fissò, lentamente, per assorbirle, fino a quando Damon gli toccò la manica, e lo condusse lontano dal banco, lungo il corridoio.

— Hai un ottimo aspetto — disse Damon. Era vero. Le loro immagini erano riflesse nelle porte davanti a loro, in chiaroscuro: la sua figura, solida, bruna, aquilina, e il pallore di Talley, come un’illusione. All’improvviso pensò a Elene, sentì una vaga insicurezza alla presenza di Talley, nel confronto che metteva in luce tutti i propri difetti… non solo il suo aspetto, ma anche quella personalità che lo guardava con innocenza… che era sempre stata innocente.

Che cosa devo dirgli? Ripensò alle domande inquietanti di Elene. Scusa? Scusa, non ho mai letto il tuo fascicolo? Spiacente di averti giustiziato… avevamo così poco tempo? Perdonami… di solito facciamo meglio di così?

Aprì la porta e Talley incontrò i suoi occhi, passandogli accanto. Niente accuse, niente amarezza. Lui non ricorda. Non può.

— Il tuo pass — disse Damon mentre si avviavano verso l’ascensore — è uno dei bianchi. Vedi i cerchi colorati accanto a quella porta? Ce n’è uno bianco. La tua carta è una chiave; anche il tuo numero di computer lo è. Se vedi un cerchio bianco, puoi accedere con la carta o il numero. Il computer l’accetterà. Non lo fare, se non c’è il bianco. Faresti suonare l’allarme, e quelli della sicurezza accorrerebbero. Tu conosci questi sistemi, vero?

— Capisco.

— Ricordi la tua abilità con i computer?

Qualche attimo di silenzio. — I computer militari sono specializzati. Ma ricordo in parte la teoria.

— Molto?

— Se sedessi davanti a un quadro… probabilmente ricorderei.

— Ti ricordi di me?

Erano arrivati all’ascensore. Damon premette i pulsanti per la chiamata privata, un privilegio della sua autorizzazione di sicurezza; non voleva trovarsi in mezzo alla folla. Si voltò, e incontrò lo sguardo perso nel vuoto di Talley. Gli adulti normali deviavano lo sguardo, sbirciavano di qua e di là, fissavano questo o quel dettaglio. Lo sguardo di Talley non aveva quei movimenti: era come quello di un pazzo, o di un bambino, o dell’effigie di un dio.

— Ricordo che me l’hai già domandato — disse Talley. — Tu sei uno dei Konstantin. Siete i padroni di Pell, no?

— Non siamo i padroni. Ma siamo qui da molto tempo.

— Io no, vero?

Un velo di preoccupazione. Che cosa significa, si chiese Damon, con un brivido, che cosa significa sapere che hai perduto una parte della tua mente? Come può esserci qualcosa di coerente? — Ci siamo incontrati quando sei arrivato qui. Dovresti saperlo… Sono stato io ad acconsentire all’Adattamento. Ufficio Legale. Ho firmato io i documenti.

Talley ebbe un lieve tremito. L’ascensore arrivò; Damon allungò la mano per tenere aperta la porta. — Tu mi hai dato i documenti — disse Talley. Entrò; Damon lo seguì, e lasciò che la porta si chiudesse. L’ascensore cominciò a muoversi verso il settore verde. — Continuavi a venirmi a trovare. Eri tu che venivi così spesso… non è vero?

Damon alzò le spalle. — Non sono stato io a volere che ciò accadesse; non pensavo che fosse giusto. Lo capisci?

— Vuoi qualcosa da me? — C’era una disponibilità implicita nel tono, almeno un’acquiescenza…

Damon ricambiò lo sguardo. — Forse il tuo perdono — disse, cinicamente.

— Questo è facile.

— Davvero?

— È per questo che venivi? È per questo che venivi a trovarmi? Perché mi hai invitato a venire con te, adesso?

— Tu che ne pensi?

Lo sguardo di Talley si rabbuiò un poco, e parve mettere a fuoco gli oggetti. — Non posso saperlo. Sei stato gentile a venire.

— Pensavi che potesse non essere una gentilezza?

— Non so quanta memoria mi sia rimasta. So che ci sono lacune. Avrei potuto conoscerti prima. Potrei ricordare cose che non sono vere. Non importa. Tu non mi hai fatto niente, vero?

— Avrei potuto impedirlo.

— Sono stato io a chiedere l’Adattamento… non è così? Mi sembrava di averlo chiesto.

— Lo hai chiesto, sì.

— Allora c’è qualcosa che ricordo esattamente, O forse me lo hanno detto. Non lo so. Devo proseguire con te? Oppure è questo, tutto ciò che volevi?

— Preferisci non andare?

Talley batté più volte le palpebre. — Pensavo… quando non stavo bene… che forse avrei anche potuto conoscerti. Allora non avevo memoria. Ero contento che tu venissi. Eri qualcuno… fuori da quelle pareti. E i libri… grazie per i libri. Mi ha fatto molto piacere averli.

— Guardami.

Talley lo guardò, prontamente, con una leggera apprensione.

— Voglio che tu venga. Mi farebbe piacere. È tutto.

— Dove avevi detto? Per conoscere tua moglie?

— Per conoscere Elene. E per vedere Pell. Il suo aspetto migliore.

— Va bene. — Talley continuò a guardarlo. Lo sguardo sfuggente, pensò… era una difesa; una fuga. Lo sguardo diretto denotava fiducia. Da parte di un uomo con tante lacune nella memoria, la fiducia era totale.

— Ti conosco — disse Damon. — Ho letto gli incartamenti dell’ospedale. So di te cose che non so neppure di mio fratello. Credo sia giusto dirtelo.

— Tutti li hanno letti.

— Tutti… chi?

— Tutti quelli che conosco. I dottori… tutti, al centro.

Damon rifletté. Gli ripugnava il pensiero che qualcuno dovesse subire una simile intrusione. — Le trascrizioni verranno cancellate.

— Come me. — L’ombra di un sorriso sulla bocca di Talley lasciava trapelare una profonda tristezza.

— Non è stata una ricostruzione totale — disse Damon. — Lo capisci?

— So solo quello che mi hanno detto.

L’ascensore si stava lentamente fermando nella sezione verde uno. Le porte si aprirono su uno dei corridoi più affollati di Pell. Altri passeggeri volevano entrare; Damon prese Talley per un braccio e lo condusse fuori. Alcune teste si girarono, tra la folla: la vista di uno sconosciuto dall’aspetto insolito, la faccia di un Konstantin… blanda curiosità. Le voci continuarono, indisturbate. Dal salone arrivava la musica: note esili e dolci. Nel corridoio c’erano alcuni indigeni, intenti ad occuparsi di certe piante che erano state collocate in quell’ambiente. Lui e Talley seguirono la direzione in cui si muoveva la folla, mimetizzandosi fra di essa.

Il corridoio si aprì sul salone; era buio, e l’unica luce veniva dagli schermi enormi che formavano le pareti; visioni delle stelle, la falce della Porta dell’Infinito, il fulgore filtrato del sole, i moli inquadrati dalle telecamere esterne. La musica era vellutata, una magia di suoni elettronici con accordi e talvolta il tremolio dei bassi, in perfetto equilibrio con il tono sommesso della conversazione ai tavoli che riempivano il centro della sala a semicerchio. Gli schermi cambiavano con l’incessante rotazione di Pell, e di tanto in tanto le immagini passavano da uno all’altro di quegli schermi che si innalzavano dal pavimento all’alto soffitto. Solo il pavimento, le minuscole figure umane e i tavoli erano immersi nel buio.

— Quen-Konstantin — disse Damon alla giovane donna al banco d’ingresso. Subito un cameriere si fece avanti per guidarli al tavolo prenotato.

Ma Talley s’era fermato. Damon si voltò indietro e lo vide girare gli occhi sugli schermi, con un’espressione estatica. — Josh — disse Damon, e quando l’altro non reagì lo prese gentilmente per il braccio. — Da questa parte. — L’equilibrio abbandonava alcuni di coloro che venivano in quel luogo per la prima volta, per il disagio causato dalla lenta rotazione delle immagini che giganteggiavano sui tavoli. Continuò a tenerlo per il braccio fino al tavolo, un ottimo posto al margine esterno, con una vista magnifica degli schermi.

Quando li vide arrivare, Elene si alzò. — Josh Talley — disse Damon. — Elene Quen, mia moglie.

Elene batté le palpebre. Quasi tutti reagivano così, nel vedere Talley. Gli tese lentamente la mano, e lui la strinse. — Josh, va bene così? Chiamami Elene. — Tornò a sedersi, e i due uomini la imitarono. Il cameriere indugiò, in attesa delle ordinazioni. — Un altro — disse lei.

— Speciale — disse Damon, e guardò Talley. — Hai qualche preferenza? O ti fidi di me?

Talley alzò le spalle, a disagio.

— Due — disse Damon, e il cameriere si dileguò. Guardò Elene. — C’è folla, questa sera.

— Non sono molti i residenti che vanno ai moli, da un po’ di tempo — disse Elene. Era vero; quelli dei mercantili, bloccati sulla stazione, s’erano accaparrati in esclusiva un paio di bar: un problema continuo per la sicurezza.

— Qui servono la cena — disse Damon, guardando Talley. — Sandwich, almeno.

— Io ho mangiato — disse Talley con un tono così distante che avrebbe interrotto qualunque conversazione.

— Hai passato molto tempo sulle stazioni? — chiese Elene.

Damon le sfiorò la mano sotto il tavolo, ma Talley scrollò la testa, imperturbato.

— Soltanto Russell.

— Pell è la migliore. — Elene affrontò quell’argomento senza accorgersene. Un colpo rifiutato, pensò Damon, chiedendosi se Elene facesse sul serio. — Nelle altre non c’è niente di simile.

— Quen… è un cognome dei mercantili.

— Lo era. Sono stati annientati a Mariner.

Damon le strinse più forte la mano. Talley la guardò, turbato. — Mi dispiace.

Elene scrollò la testa. — Non è stata colpa tua, ne sono sicura. Quelli dei mercantili vengono attaccati da entrambe le fazioni. Sfortuna, ecco tutto.

— Lui non può ricordare — disse Damon.

— Non può? — chiese Elene.

Talley scosse leggermente la testa.

— Quindi — disse Elene — è così. Sono contenta che tu sia potuto venire. L’Abisso ti ha sputato fuori: solo i dadi della stazione?

Damon ascoltò, perplesso, ma Talley sorrise vagamente a quella strana battuta che lui sembrava comprendere.

— Credo di sì.

— Fortuna e fortuna — disse Elene. Lanciò uno sguardo a Damon e ricambiò la stretta di mano. — Puoi tirare i dadi e vincere, sul molo, ma il vecchio Abisso gioca con dadi truccati. Ha dalla sua un uomo così, per fortuna. Gli è toccato. Ai sopravvissuti, Josh Talley!

Un’ironia amara? Oppure un tentativo di dargli il benvenuto? Era il gergo dei mercantili, impenetrabile come una lingua straniera. Talley sembrava rilassato. Damon ritrasse la mano. — Ti hanno parlato di un lavoro, Josh?

— No.

— Sei stato dimesso. Se non puoi lavorare, la stazione provvederà, per un po’. Ma io ho trovato qualcosa, in via provvisoria; potrai andarci la mattina, lavorare finché te la senti e tornare a casa a mezzogiorno. Ti andrebbe?

Talley non disse nulla, ma l’espressione del suo viso, illuminato per metà dall’immagine del sole — adesso era più vicino, nella lenta rotazione — indicava che gli sarebbe piaciuto. Damon appoggiò il braccio sul tavolo, imbarazzato di offrire quel poco che poteva. — Forse sarà una delusione. Tu hai qualifiche superiori. Riparazioni delle macchine; è un lavoro, almeno… in attesa di qualcosa di meglio. E ti ho trovato una camera, nella vecchia foresteria centrale dei mercantili… c’è il bagno ma non la cucina. Siamo incredibilmente a corto di spazio. Il credito per il tuo lavoro, secondo la legge della stazione, garantisce la copertura delle spese per vitto e alloggio. Dato che non hai la cucina, la tua carta vale per ogni ristorante, fino a un certo limite; oltre questo, dovrai pagare… ma c’è sempre qualche lavoro disponibile, e tu potrai fare domanda, per avere gli extra. Alla fine, la stazione richiederà una giornata di lavoro a tempo pieno, per vitto e alloggio, ma solo quando sarai riconosciuto idoneo. Ti va bene?

— Sono libero?

— Entro i limiti consentiti, sì. — Il cameriere portò da bere. Damon prese il bicchiere con il denso miscuglio di succo di frutta e d’alcool, e guardò con interesse, mentre Talley assaggiava una delle squisitezze di Pell mostrandosi soddisfatto. Sorseggiò la sua bevanda.

— Tu non sei delle stazioni — osservò Elene, dopo un lungo silenzio. Talley guardava le pareti, il lento balletto delle stelle. Su una nave non si gode un gran panorama, aveva detto una volta Elene, cercando di spiegarglielo. Non è come puoi pensare. È il fatto di essere là: la sensazione di muoverti attraverso ciò che potrebbe coglierti di sorpresa a ogni momento. Essere una particella di polvere, su quella scala, e attraversare tutto quel Vuoto, a modo tuo: questo nessun pianeta, e niente che ruoti attorno ad esso, può farlo. È questo, e sapere, sempre, che il vecchio demone, l’Abisso, è dall’altra parte del metallo al quale ti appoggi. Voi delle stazioni amate le vostre illusioni. E gli abitanti dei pianeti non sanno neppure cosa sia la realtà.

All’improvviso, Damon fu scosso da un brivido; si sentì isolato, con Elene e uno sconosciuto di fronte a lui. Sua moglie e l’immagine divina che era Talley. Non era gelosia. Era un senso di panico. Bevve lentamente. Osservò Talley, che guardava gli schermi in modo diverso da tutti gli abitanti della stazione. Come un uomo che si ricordasse come si faceva a respirare.

Dimentica la stazione, aveva sentito nella voce di Elene. Qui non sarai mai felice. Era come se lei e Talley parlassero una lingua che lui non conosceva, anche se usavano le stesse parole. Come se una dei mercantili, che aveva perduto la sua nave per colpa della Confederazione, potesse commiserare un confederato che aveva perduto la sua, un naufrago come lei. Damon cercò la mano di Elene, sotto la tavola, e la strinse. — Forse non posso darti quello che desideri di più — disse a Talley, con voluta cortesia. — Pell non ti tratterrà per sempre, ormai, e se potrai trovare un mercantile che ti prenda a bordo quando le tue carte saranno completamente in ordine… c’è anche questa possibilità, in futuro. Ma accetta il mio consiglio; preparati a un lungo soggiorno qui. La situazione non è tranquilla, e i mercantili fanno rotta soltanto per le miniere.

— Quelli abituati ai lunghi viaggi bevono come pazzi, sui moli — mormorò Elene. — Su Pell resteremo senza liquori prima di restare senza pane. No, non tanto presto. La situazione migliorerà. Dio ci aiuti, non potremo trattenere per sempre tutto quello che abbiamo dentro.

— Elene.

— Non è su Pell anche lui? — chiese Elene. — Non ci siamo tutti? La sua vita è legata alla stazione.

— Io non vorrei far male a Pell — disse Talley. La sua mano si agitò sulla tavola, in un leggero tic. Quell’avversione era uno dei pochi condizionamenti instillati. Damon non disse che sapeva di quel blocco psichico; non era meno reale solo perché era artificiale. Talley era intelligente; forse anche lui avrebbe finito per capire cosa gli avevano fatto.

— Io… — Talley fece un altro movimento casuale con la mano. — Non conosco questo posto. Ho bisogno di aiuto. A volte non so bene come sia finito qui. Tu lo sai? Io lo sapevo?

Una bizzarra connessione di dati. Damon lo fissò, inquieto, temendo per un momento che Talley cadesse vittima di un’imbarazzante crisi isterica: non sapeva cosa avrebbe potuto fare con lui, in quel locale pubblico.

— Ho la documentazione — disse, rispondendo alla domanda di Talley. — È tutto quello che so.

— Sono un vostro nemico?

— Non credo.

— Ricordo Cyteen.

— Stai stabilendo connessioni che non riesco a seguire, Josh.

Le labbra di Talley tremarono. — Non le seguo neppure io.

— Hai detto che avevi bisogno d’aiuto. In che cosa, Josh?

— Qui. La stazione. Non smetterai di venire…

— Di venire a trovarti? Non sarai più in ospedale. — All’improvviso si rammentò che Talley lo sapeva. — Vuoi chiedermi se ti assegno un lavoro e ti abbandono a te stesso? No. Verrò a trovarti la settimana prossima. Ci puoi contare.

— Volevo proporre — disse tranquillamente Elene, — di dare a Josh l’autorizzazione a chiamare l’appartamento. I guai non rispettano gli orari d’ufficio, e uno di noi potrebbe essere in grado di sbrogliare la situazione. Legalmente, siamo i tuoi garanti. Se non riesci a metterti in comunicazione con Damon, chiama il mio ufficio.

Talley accettò con un cenno del capo. Gli schermi continuavano a girare vorticosamente. Per lungo tempo non dissero nulla; ascoltarono la musica, ordinarono ancora da bere.

— Sarebbe bello — disse finalmente Elene, — se alla fine della settimana venissi a cena da noi… se te la senti di affrontare la mia cucina. Giocheremo a carte. Tu sai giocare, sicuramente.

Gli occhi di Talley deviarono lievemente verso Damon, come per chiedere la sua approvazione. — È una vecchia abitudine — disse Damon. — Una volta al mese, mio fratello e sua moglie scambiano i turni con noi. Loro lavoravano l’altergiorno… sono stati trasferiti sulla Porta dell’Infinito, dopo l’inizio della crisi. Josh sa giocare — disse a Elene.

— Bene.

— Non sono superstizioso — disse Talley.

— Non facciamo puntate — disse Elene.

— Verrò.

— Benissimo — disse lei; e dopo un momento, gli occhi di Josh si velarono. Cercò di reagire, e subito si riprese. La tensione l’aveva abbandonato.

— Josh — disse Damon, — credi di farcela a uscire di qui?

— Non ne sono sicuro — disse Talley, turbato.

Damon si alzò, e anche Elene; cautamente, Talley si scostò dal tavolo e si avviò tra loro… non erano stati i due bicchieri, pensò Damon, ma gli schermi e lo sfinimento. Talley si riprese quando fu nel corridoio e parve trattenere il respiro nella luce e nella stabilità. Tre indigeni li guardarono con gli occhi sgranati al di sopra delle maschere.

Lo accompagnarono all’ascensore e poi fino alla sezione rossa; lo riportarono oltre le porte di vetro e lo riaffidarono all’ufficio di sicurezza. Ormai era altergiorno e la guardia di turno era uno dei Muller.

— Lo sistemi lei — disse Damon. Talley passò oltre il banco, si voltò a guardarli con strana intensità, fino a quando la guardia tornò indietro e lo condusse via, lungo il corridoio.

Damon cinse Elene con un braccio e insieme si avviarono verso casa. — Sei stata gentile a invitarlo — le disse.

— È ancora impacciato — disse Elene. — Ma chi non lo sarebbe? — Lo seguì nel corridoio, tenendolo per mano. — La guerra fa di questi brutti scherzi — disse. — Se un Quen si fosse salvato a Mariner… sarebbe stato così, dall’altra parte dello specchio, no? Per uno dei miei. Che Dio ci aiuti e lo aiuti. Potrebbe essere uno dei nostri.

Elene aveva bevuto più di lui… e in quei casi diventava triste. Damon pensò al bambino; ma non era il momento di affrontare certi argomenti. Le strinse la mano, le scompigliò i capelli, e proseguirono verso casa.

CAPITOLO SECONDO

STAZIONE CYTEEN: AREA DI SICUREZZA: 8/9/52

Marsh non era ancora arrivato, e neppure il suo bagaglio. Ayres si sistemò con gli altri, scelse la sua stanza fra le quattro che si aprivano, per mezzo di divisori scorrevoli, su un’area centrale: una struttura di bianchi pannelli mobili con intelaiature argentee. Anche i mobili erano montati su guide scorrevoli, sobri, funzionali, non molto comodi. Era il quarto cambiamento di alloggio che subivano negli ultimi dieci giorni; questo non era lontano dal precedente, non era visibilmente diverso, non era meno sorvegliato dai giovani manichini armati, onnipresenti nei corridoi… sempre così, durante tutti quei mesi che avevano trascorso lì prima che incominciassero i trasferimenti.

Non sapevano esattamente dov’erano, se si trattasse di una stazione vicino alla prima o in orbita attorno a Cyteen. Le domande ottenevano solo risposte evasive. Sicurezza, dicevano per spiegare i trasferimenti; e Pazienza. Ayres restava calmo davanti ai delegati suoi compagni, come restava calmo di fronte alle varie autorità militari e civili — ammesso che nella Confederazione esistesse una simile distinzione — che li interrogavano e con cui discutevano, singolarmente e in gruppo. Ayres aveva enunciato le ragioni e le condizioni della loro richiesta di pace fino a quando le inflessioni della sua voce erano diventate automatiche, e ormai aveva imparato a memoria le risposte dei suoi compagni alle stesse domande; in effetti era diventata una specie di recita fine a se stessa, che avrebbero potuto continuare in eterno, fino al limite della pazienza dei loro ospiti. Se avessero negoziato sulla Terra, avrebbero desistito ormai da parecchio, disgustati, avrebbero usato altre tattiche; lì non era possibile. Erano vulnerabili, facevano quel che potevano. I suoi compagni s’erano comportati bene in quelle circostanze spiacevoli… tranne Marsh. Marsh diventava sempre più nervoso, teso e irrequieto.

E naturalmente, i confederati dedicavano la loro attenzione soprattutto a Marsh. Quando li interrogavano ad uno ad uno, Marsh restava assente più a lungo; le ultime quattro volte che li avevano trasferiti, Marsh era stato l’ultimo ad arrivare. Bela e Dias non avevano fatto commenti; non discutevano e non facevano ipotesi. Ayres non disse niente, sedette su una delle tante sedie nel soggiorno dell’appartamento e guardò, sull’immancabile televisore, la trasmissione propagandistica che i confederati offrivano come svago; una trasmissione a circuito chiuso, oppure un’emittente locale, che comunque rivelava una mentalità incredibilmente refrattaria alla noia… avvenimenti ormai vecchi di anni, che enumeravano le presunte atrocità commesse dall’Anonima e dalla sua Flotta.

Ayres aveva già visto tutto quanto, altre volte. Avevano chiesto le trascrizioni dei loro colloqui con le autorità locali, ma la risposta era stata negativa. Il materiale per effettuare tali trascrizioni, persino la carta per scrivere, era stato sottratto dai loro bagagli, e le loro proteste erano state ignorate. Quella gente non aveva il minimo rispetto per le tradizioni diplomatiche… era tipico della situazione, pensò Ayres, di un’autorità sostenuta da quei giovani delinquenti armati con gli occhi invasati, pronti a recitare i regolamenti. Erano proprio loro a fargli più paura, quei giovani con gli occhi indemoniati e le facce troppo eguali. Fanatici, perché sapevano solo quello che veniva instillato nelle loro teste. Condizionati, probabilmente in modo irrazionale. Non parlate con loro, aveva avvertito i suoi compagni. Fate quello che vi dicono, e discutete soltanto con i loro superiori.

Ormai aveva perso il filo della trasmissione. Si guardò intorno, verso Dias che sedeva con gli occhi fissi sullo schermo, verso Bela impegnato in un gioco di logica con pezzi improvvisati. Furtivamente, Ayres diede un’occhiata al suo orologio, che aveva cercato di sincronizzare sull’ora dei confederati: non era la stessa della Terra, e neppure di Pell, né quella standard dell’Anonima. Un’ora di ritardo, ormai. Un’ora, da quando erano arrivati lì.

Si morse le labbra, rivolse ostinatamente i suoi pensieri a quel che appariva sullo schermo: era soltanto un anestetico, e neppure molto efficace; si erano abituati alle calunnie. Se doveva servire a irritarli, falliva lo scopo.

Alla fine, la porta si aprì. Entrò Ted Marsh, portando le sue due valigie; riuscì a intravedere due giovani guardie armate nel corridoio. La porta si chiuse. Marsh entrò a occhi bassi, ma tutti i divisori delle camere da letto erano chiusi. — Quale? — domandò, non potendo fare a meno di fermarsi e di chiedere istruzioni.

— Dall’altra parte — disse Ayres. Marsh riattraversò la stanza e depose le valigie accanto alla porta. I capelli scuri gli cadevano disordinatamente sugli orecchi; il colletto era gualcito. Non li guardava. Tutti i suoi movimenti erano brevi e nervosi.

— Dov’è stato? — chiese bruscamente Ayres, prima che potesse andarsene.

Marsh si voltò a guardarlo. — C’è stato un disguido nella mia assegnazione qui. Il loro computer mi aveva alloggiato altrove.

Gli altri avevano alzato la testa, ascoltando. Marsh fissò Ayres. Sudava.

Metterlo con le spalle al muro? Mostrarsi irritato? Tutte le stanze erano controllate; di questo erano sicuri. Poteva dare del bugiardo a Marsh e far capire chiaramente che il gioco stava raggiungendo un altro livello. Avrebbero potuto, anche se ripugnava al suo istinto, trascinare Marsh in bagno e immergergli la testa nell’acqua, e costringerlo a dire la verità con metodi altrettanto efficaci di quelli usati dalla Confederazione. I nervi di Marsh non avrebbero retto, in quel caso. Era un vantaggio discutibile, su tutti i fronti.

Forse… era la pietà a suggerirglielo… Marsh manteneva il silenzio come gli era stato ordinato. Forse Marsh avrebbe voluto confidarsi con loro, e invece obbediva all’ordine di tacere, soffrendo per lealtà. Ma ne dubitava. Era naturale che i confederati avessero puntato su di lui… non era un individuo debole, ma era il più debole dei quattro. Marsh deviò lo sguardo, portò le valigie in camera sua e chiuse la porta scorrevole.

Ayres non scambiò neppure un’occhiata con gli altri. La sorveglianza, probabilmente, era anche visiva, e continua. Si girò verso lo schermo e seguì la trasmissione.

Avevano bisogno di tempo, di guadagnare tempo in quel modo, o con i negoziati. Finora, la tensione era sopportabile. Ogni giorno discutevano con la Confederazione, una parata sempre mutevole di funzionari. La Confederazione accettava le loro proposte in linea di principio, si proclamava interessata, parlava e discuteva, li spediva davanti a questa o quella commissione, cavillava su dettagli del protocollo. Sul protocollo, quando subivano dei furti dai loro bagagli! Era un modo per perdere tempo, da entrambe le parti, e Ayres avrebbe voluto sapere che vantaggio poteva trarne la Confederazione.

Senza dubbio le azioni militari erano in corso, e forse questo non avrebbe arrecato loro alcun beneficio nei negoziati. Giunti al punto critico, gli avrebbero sbattuto in faccia i risultati, perché si rassegnassero a cedere qualcosa d’altro.

Pell, naturalmente. Pell era la richiesta più probabile; e questo non era ammissibile. Un’altra prevedibile richiesta era la consegna degli ufficiali dell’Anonima alla giustizia rivoluzionaria della Confederazione. In pratica era irrealizzabile, anche se era possibile preparare un compromesso, un documento privo di valore pratico: dichiararli fuorilegge, magari. Ayres non aveva nessuna intenzione di sacrificare le vite del personale della Flotta, se poteva farne a meno; ma rinunciare alle obiezioni contro l’incriminazione di alcuni funzionari di stazione riconosciuti come nemici dello stato… forse sarebbe stato fattibile. Tanto, la Confederazione avrebbe fatto comunque quel che voleva. E ciò che succedeva in quello spazio tanto remoto avrebbe avuto scarsi effetti politici sulla Terra. Tutto ciò che i mass-media non riuscivano a portare nelle case di tutti, non poteva colpire l’attenzione del grosso pubblico. Statisticamente, la maggioranza dell’elettorato non era in grado di capire le questioni complicate; se non c’erano le immagini, non c’era neppure la notizia; se non c’era la notizia, era come se l’evento non esistesse; non c’era grande comprensione da parte del pubblico, né un interesse continuato da parte dei mass-media: era la politica più sicura, per l’Anonima. Soprattutto, non poteva giocarsi la maggioranza che aveva ottenuto su altri problemi, il mezzo secolo di manovre oculate, il discredito gettato sui leaders isolazionisti… i sacrifici già compiuti. Altri sacrifici erano inevitabili.

Ayres ascoltava quella trasmissione idiota, cercava nella propaganda qualche indizio che potesse chiarirgli la situazione, seguiva le cronache dei presunti benefici che la Confederazione arrecava ai suoi cittadini, degli immensi programmi di migliorie interne. Le cose che più lo interessavano, la vastità del territorio della Confederazione in direzioni diverse da quella della Terra, il numero delle basi in suo possesso, la sorte delle stazioni cadute, l’eventuale sviluppo attivo dei nuovi territori o l’impegno di tutte le risorse nella guerra… quelle informazioni non erano accessibili. E silenzio assoluto sull’estensione dei laboratori delle nascite, e in che percentuale essi contribuivano all’aumento della popolazione, o sul trattamento ricevuto da quegli individui. Ayres maledisse mille volte la riluttanza della Flotta, e di Signy Mallory in particolare. Non sapeva se la sua soluzione fosse quella giusta… escludere la Flotta dalla sua iniziativa. Non sapeva che cosa sarebbe accaduto, se la Flotta fosse entrata in azione come aveva chiesto. Adesso si trovavano dove avrebbero dovuto trovarsi, anche se si trattava di quelle camere bianche, identiche a tutte le altre camere bianche che li avevano ospitati; stavano facendo esattamente ciò che dovevano… senza la Flotta, che avrebbe potuto dare un maggiore potere contrattuale, o avrebbe potuto rivelarsi come un terzo fattore del tutto incontrollabile, nei negoziati. L’ostinazione di Pell non era stata d’aiuto; Pell, che aveva preferito tener buona la Flotta. Con l’appoggio della stazione avrebbero potuto far colpo sulla mentalità di quelli come la Mallory.

E questo lo riportava a un altro problema: con una Flotta che teneva conto soprattutto dei propri interessi era possibile scendere a patti? Mazian e i suoi non si sarebbero lasciati certamente controllare dando alla Terra il tempo necessario per prepararsi alla difesa. Non erano terrestri, si disse; e a giudicare dal loro aspetto, non erano neppure ligi ai regolamenti. Come il personale scientifico che aveva reagito ai bandi contro l’emigrazione dalla Terra e ai richiami in patria, molto tempo fa… che aveva disertato, passando alle Stelle Sperdute. E poi alla Confederazione. O diventando come i Konstantin, da tanto tempo tiranni del loro piccolo impero che non sentivano più alcuna responsabilità nei confronti della Terra.

E poi — questo lo atterriva, quando gli capitava di pensarci — non si era aspettato quella differenza, non si era aspettato la mentalità della Confederazione, che sembrava scivolare verso un comportamento non parallelo al suo e neppure opposto. La Confederazione stava cercando di piegarli… il bizzarro gioco con Marsh era senza dubbio un esempio della tattica di dividere per conquistare. Perciò si rifiutava di coinvolgere Marsh. Marsh, Bela e Dias non conoscevano informazioni dettagliate; erano semplicemente funzionari dell’Anonima, e ciò che sapevano non era molto pericoloso. Ayres aveva rimandato sulla Terra i due delegati che, come lui, sapevano troppo; li aveva rimandati a riferire che era impossibile dominare la Flotta, e che le stazioni stavano capitolando. Era già qualcosa. Lui e i suoi compagni cercavano di stare al gioco, si rifugiavano in un silenzio monastico, subivano senza fare commenti i traslochi e i disagi ideati per innervosirli… una tattica che mirava a indebolirli nei negoziati, si augurava Ayres, e non a logorarli con gli interrogatori. Si mostravano docili, e speravano di avvicinarsi alla conclusione del trattato.

E Marsh era in mezzo a loro, partecipava alle sedute, in privato li guardava con aria triste e offesa, senza il loro appoggio morale… perché chiedere spiegazioni od offrire conforto significava spezzare il silenzio che era il loro baluardo difensivo. Perché? aveva scritto una volta Ayres sul piano di plastica del tavolo, accanto al braccio di Marsh. L’aveva scritto con la punta del dito, augurandosi che nessuna lente potesse captarlo. E quando non aveva ottenuto alcuna reazione aveva scritto: Cosa? Marsh aveva cancellato le due parole e non aveva scritto niente, aveva girato la faccia dall’altra parte, con le labbra che gli tremavano. Ayres non aveva ripetuto le domande.

Adesso, finalmente, Ayres si alzò, andò alla porta di Marsh, e l’aprì senza bussare.

Marsh era seduto sul letto, vestito, con le braccia incrociate sul petto e fissando la parete.

Ayres si avvicinò, e si chinò su di lui. — Concisamente — gli sussurrò piano all’orecchio, temendo che anche così potessero udirlo — cosa crede che stia succedendo? L’hanno interrogata? Mi risponda.

Passò un momento. Marsh scosse lentamente la testa.

— Risponda — disse Ayres.

— Mi hanno affibbiato tutti i ritardi — disse Marsh, in un bisbiglio confuso. — Le mie assegnazioni non sono mai in ordine. C’è sempre qualche disguido. Mi fanno aspettare per ore. È tutto, signore.

— Le credo — disse Ayres. Non era sicuro di credergli veramente, ma lo disse ugualmente e batté la mano sulla spalla di Marsh. Marsh crollò e pianse; le lacrime gli scorrevano sulle guance sebbene si sforzasse di darsi un contegno. Le presunte telecamere… erano sempre consapevoli della loro invadente presenza.

Ayres fu sconvolto dal sospetto che fossero loro a tormentare Marsh, non meno dei confederati. Lasciò la stanza, tornò nel soggiorno. Pieno di rabbia, si fermò al centro, alzò il viso verso il complicato lampadario di cristallo sul quale si appuntavano i suoi sospetti. — Protesto — disse in tono brusco — per queste continue e ingiustificate vessazioni.

Poi andò a sedersi, e guardò di nuovo la trasmissione. I suoi compagni non avevano reagito; s’erano limitati ad alzare gli occhi. Il silenzio continuò.


La mattina dopo non vi fu segno che l’incidente fosse stato notato, quando arrivò il programma della giornata, portato da un manichino armato di fucile.

Riunione 0800, diceva. La giornata cominciava presto. Non c’erano altre informazioni: né l’argomento, né dove e con chi si sarebbero incontrati. Non c’erano neppure indicazioni relative al pranzo, mentre di solito erano incluse. Marsh uscì dalla sua stanza, con gli occhi gonfi, come se non avesse dormito. — Non abbiamo molto tempo per far colazione — disse Ayres. Normalmente, veniva portata al loro alloggio alle 0730, e mancavano pochi minuti.

La spia luminosa sulla porta lampeggiò una seconda volta. La porta si aprì dall’esterno: niente colazione, solo tre guardie-manichino.

— Ayres — disse uno. Solo questo, senza convenevoli. — Venga.

Ayres si trattenne dal ribattere. Era inutile discutere, con quelli; lo aveva detto lui stesso ai suoi compagni. Guardò gli altri, tornò a prendere la giacca, ripetendo il gioco di sempre, perdendo tempo per irritare volutamente quelli che lo aspettavano. Quando si rese conto di aver ritardato abbastanza, raggiunse la porta e uscì, accompagnato dalle giovani guardie.

Marsh, non poté fare a meno di chiedersi. Qual era il loro gioco con Marsh?

Lo condussero lungo il corridoio, verso l’ascensore, e poi attraverso altri corridoi senza cartelli o indicazioni, giunsero nelle sale delle conferenze e negli uffici, e questo attenuò le sue apprensioni immediate. Entrarono in una sala che aveva già visto, e passarono in una delle tre che usavano per i colloqui. Erano militari, questa volta. L’uomo dai capelli argentei seduto al piccolo tavolo circolare aveva tante mostrine sul taschino dell’uniforme nera, da rappresentare tutti i gradi degli alti ufficiali con cui aveva parlato messi insieme. Erano insegne assurde. Ayres non sapeva che cosa rappresentassero, esattamente, quegli emblemi complicati… era divertente, da un certo punto di vista: la Confederazione era riuscita a elaborare un sistema così complesso di medaglie e di insegne, come se tutto quel metallo avesse lo scopo di colpire l’immaginazione. Ma era un segno di autorità e potere, e questo non era per nulla divertente.

— Delegato Ayres. — L’uomo dai capelli grigi… ringiovanito, a giudicare dal vigore del viso, grazie a una droga molto comune da quelle parti, ma disponibile sulla Terra solo sotto forma di surrogati scadenti… si alzò e gli porse la mano. Ayres la strinse solennemente. — Seb Azov — si presentò l’uomo. — Del Direttorio. Lieto di conoscerla, signore.

Il governo centrale; adesso il Direttorio secondo le informazioni di Ayres contava trecentododici membri; non sapeva se era in relazione al numero delle stazioni e dei mondi. Il Direttorio si riuniva non soltanto su Cyteen, ma anche altrove; e lui non sapeva come era possibile entrare a farne parte. Quell’uomo, senza alcun dubbio, era un militare.

— Mi dispiace — disse freddamente Ayres, — iniziare i nostri colloqui con una protesta, cittadino Azov, ma mi rifiuto di parlare se prima non sarà chiarita una certa cosa.

Azov alzò le sopracciglia con aria blanda e sedette di nuovo. — Che cosa, signore?

— I maltrattamenti ai quali veniamo sottoposti io e i miei compagni.

— Maltrattamenti, signore?

Ayres sapeva che l’altro si aspettava che lui perdesse le staffe e mostrasse nervosismo o rabbia. Si guardò bene dal farlo. — Il delegato Marsh e il vostro computer sembrano incontrare difficoltà nell’assegnazione delle stanze, e questo è strano, dato che inevitabilmente siamo alloggiati insieme. Ritengo che la vostra competenza tecnica non giustifichi simili disguidi. Non so definirlo in altro modo che come un maltrattamento, il fatto che quest’uomo sia costretto ad attendere per ore mentre gli altri disguidi vengono appianati. Sostengo che questo viene fatto di proposito per minare il nostro equilibrio. Protesto inoltre per altre tattiche, per esempio, l’incapacità, da parte del vostro personale, di offrirci occasioni ricreative e spazio per fare un po’ di moto, l’inevitabile risposta da parte del vostro personale che afferma di non avere le necessarie autorizzazioni, le risposte evasive quando chiediamo il nome di questa base. Ci era stato promesso che saremmo stati condotti a Cyteen. Come possiamo sapere se stiamo parlando a persone autorizzate o semplicemente con funzionari di second’ordine, non competenti a negoziare sui gravi problemi per i quali ci troviamo qui? Siamo venuti da molto lontano, cittadino, per risolvere una situazione seria e pericolosa, e abbiamo ricevuto ben poca collaborazione da coloro che abbiamo incontrato finora.

Non era un discorso improvvisato. Ayres lo aveva preparato per quella occasione, e il pezzo grosso che aveva di fronte rappresentava l’obiettivo. Chiaramente, Azov rimase un po’ sconcertato dal suo atteggiamento. Ayres continuò a mostrarsi piuttosto seccato, e riuscì a fingere assai bene, anche se in realtà era terrorizzato. Il cuore gli martellava in petto, e si augurava di non essere impallidito visibilmente.

— Provvederemo — disse Azov, dopo un momento.

— Preferirei — disse Ayres, — un’assicurazione più convincente.

Azov lo fissò per un momento. — Accetti la mia parola — disse in tono vibrante. — Soddisferemo le sue richieste. Vuole sedersi, signore? Dobbiamo discutere. Accetti le mie scuse personali per i fastidi arrecati al delegato Marsh; sarà fatta un’indagine e si rimedierà a tutto.

Ayres si chiese se era il caso di andarsene, se era il caso di protestare ancora; considerò l’uomo che gli stava davanti, e sedette. Gli occhi di Azov si fissarono su di lui, gli parve, con un certo rispetto.

— Sulla sua parola, signore — disse.

— Mi rincresce moltissimo. Al momento non posso dire di più. C’è una questione urgente relativa ai negoziati; ci siamo trovati di fronte a quello che lei forse chiamerebbe… un punto critico. — Premette un pulsante sul tavolo. — Fate entrare il signor Jacoby.

Ayres guardò verso la porta, lentamente, senza tradire l’ansia che provava. La porta si aprì. Entrò un uomo in borghese… in borghese, non in uniforme o in uno degli abiti simili a uniformi che avevano caratterizzato tutti coloro con cui avevano trattato fino a quel momento.

— Il signor Segust Ayres, il signor Dayin Jacoby della Stazione Pell. Mi risulta che vi conoscete già.

Ayres si alzò, tese la mano con fredda cortesia al nuovo arrivato. La cosa gli piaceva sempre meno. — Un incontro casuale, forse; mi scusi, ma non la ricordo.

— In consiglio, signor Ayres. — Ricambiò la stretta e ritrasse la mano, senza calore. Jacoby prese posto sulla sedia che Azov gli aveva indicato.

— Una conferenza a tre — mormorò Azov. — Le condizioni da lei proposte, signor Ayres, considerano Pell e le stazioni che la precedono come il territorio che voi volete sotto la vostra protezione. A quanto sembra, questo non concorda con i desideri dei cittadini di quella stazione… e lei dichiara di sostenere il diritto dell’autodeterminazione.

— Quest’uomo — disse Ayres, senza guardare Jacoby, — non ha potere a Pell, e non ha l’autorità di concludere accordi. Le consiglio di consultare il signor Angelo Konstantin e di inviare le opportune richieste al consiglio della stazione. In effetti, non conosco questo signore, e circa le sue affermazioni di appartenere al consiglio, non posso attestarne la validità.

Azov sorrise. — Abbiamo ricevuto da Pel! un’offerta e stiamo per accettarla. Questo mette in discussione le proposte di cui lei è latore, poiché, senza Pell, voi avanzereste pretese su un’isola nel territorio della Confederazione… su stazioni che, devo dirle, fanno già parte della Confederazione in base a decisioni analoghe. Voi non avete territori nelle Stelle Sperdute. Nessun territorio.

Ayres restò immobile, avvertendo un’improvvisa sensazione di gelo, — Questo non è un negoziato in buona fede.

— La vostra Flotta, ormai, non ha più una sola base, signore. L’abbiamo completamente tagliata fuori. La invitiamo a compiere un atto umanitario: li informi di questo fatto e delle possibili alternative. È inutile perdere navi e vite umane in difesa di un territorio che non esiste più. Apprezzeremo la sua collaborazione, signore.

— Sono scandalizzato — disse Ayres.

— Può darsi — replicò Azov. — Ma potrebbe decidere di inviare quel messaggio, per salvare molte vite umane.

— Pell non si è arresa. Probabilmente scoprirà che la situazione è molto diversa da quella che immagina, cittadino Azov: e quando vorrà da noi condizioni migliori, quando vorrà quegli scambi commerciali che potrebbero essere utili a entrambi, pensi a ciò che sta rifiutando adesso.

— La Terra è un mondo.

Ayres non disse niente. Non aveva niente da dire. Non voleva contestare la desiderabilità della Terra.

— La questione di Pell — disse Azov, — è semplice. Sa quanto è vulnerabile questa stazione? E quando la volontà della cittadinanza appoggia coloro che stanno all’esterno, è una cosa molto semplice. Nessuna distruzione: non è questo il nostro scopo. Ma la Flotta non può operare senza una base… e voi non ne avete. Firmeremo gli articoli da voi richiesti, incluso il riconoscimento di Pell quale comune punto d’incontro, ma sotto il nostro controllo, e non il vostro. Non vedo la differenza… fatto salvo il rispetto della volontà del popolo… che affermate di avere tanto a cuore.

Era meglio di quanto avesse sperato; ma era stato studiato perché apparisse così. — Qui — disse Ayres, — non ci sono rappresentanti dei cittadini di Pell, soltanto un sedicente portavoce. Vorrei vedere le sue credenziali di autorizzazione.

Azov prese un fascicolo rilegato in pelle che aveva davanti. — Forse questo le interesserà, signore: il documento che ci ha proposto… firmato dal governo e dal Direttorio della Confederazione, esattamente come lo ha formulato lei… escludendo il controllo delle stazioni che ora sono in mano nostra e qualche parola relativa alla posizione di Pell; le parole «sotto la direzione dell’Anonima» sono state cancellate, qui e sull’accordo commerciale. Cinque parole. Tutto il resto è esattamente come ce l’ha sottoposto lei. So che, a causa della grande distanza, lei ha il potere di firmare per conto dei suoi governi e dell’Anonima.

Ayres fu sul punto di rifiutare. Rifletté, come sempre quando era di fronte a qualcosa che sembrava sfuggirgli. — Pur sempre soggetto alla ratifica del mio governo. La mancanza di quelle parole può causare qualche difficoltà.

— Spero che raccomanderà al suo governo di accettare, signore, dopo aver riflettuto. — Azov posò il fascicolo sul tavolo e lo spinse verso di lui. — Lo esamini con comodo. Per quanto ci riguarda, è deciso. Tutte le condizioni richieste, tutte le disposizioni, per dirla francamente, che potreste legittimamente chiedere, dato che i vostri territori non esistono.

— Francamente, ne dubito.

— Ah. Ne ha il pieno diritto. Ma il dubbio non cambia la realtà, signore. Le consiglio di accontentarsi di quello che ha ottenuto… accordi commerciali che saranno convenienti per tutti voi e saneranno un lungo dissidio. Signor Ayres, che altro crede di poter chiedere, ragionevolmente? Che noi cediamo quanto i cittadini di Pell sono disposti a darci?

— Questo non è vero.

— Tuttavia le mancano i mezzi per accertarlo, e quindi ammette i suoi limiti. Ha detto che il governo terrestre che l’ha mandata è profondamente cambiato, e che dobbiamo trattare con voi come con un’entità nuova, dimenticando i motivi di disaccordo del passato. Questa nuova entità… intende accogliere con ulteriori pretese il fatto che noi firmiamo il documento? Le ricordo, signore, che la vostra potenza militare è in declino… che non ha ì mezzi di accertare niente, che è stato costretto a venire qui passando da un mercantile all’altro. Che una posizione ostile non serve gli interessi del suo governo.

— Sta minacciando?

— Sto esponendo fatti provati. Un governo senza navi, senza il controllo della sua forza militare e senza risorse… non è nella posizione di pretendere che il suo documento venga firmato senza modifiche. Abbiamo eliminato clausole insignificanti e cinque parole, lasciando Pell nelle mani del governo che i cittadini della stazione vorranno stabilire; e questo è un serio motivo di disaccordo da parte degli interessi che lei rappresenta?

Ayres rimase in silenzio per un momento. — Dovrò consultare gli altri membri della mia delegazione. Non intendo farlo mentre veniamo spiati.

— Non siete spiati.

— Noi siamo convinti del contrario.

— Anche in questo caso non ha i mezzi per provarlo o smentirlo. Dovrà procedere come può.

Ayres prese il fascicolo. — Non si aspetti che io o i miei colleghi partecipiamo a qualche riunione, per oggi. Saremo in conferenza.

— Come vuole. — Azov si alzò e tese la mano. Jacoby restò seduto.

— Non le prometto di firmare.

— Una conferenza. Capisco, signore. Faccia come crede; ma le consiglio di prendere in seria considerazione le conseguenze di un eventuale rifiuto. Ormai riteniamo che il nostro confine sia Pell. Vi lasciamo le Stelle delle Retrovie che, se vorrete, potrete sfruttare a vostro profitto. Se i negoziati falliranno, fisseremo nuove frontiere, e saremo diretti confinanti.

Il cuore di Ayres batteva forte. Era un argomento che non voleva discutere.

— Inoltre — disse Azov, — se vuole salvare le vite della vostra Flotta e recuperare quelle navi, abbiamo aggiunto al fascicolo un nostro documento. In seguito al vostro impegno di cercare di richiamare la Flotta, e di ordinarle di ritirarsi nei territori che avete accettato come vostri confini con la firma dell’accordo, lasceremo cadere tutte le accuse contro di loro e contro gli altri nemici dello stato che vorrete indicare. Permetteremo loro di ritirarsi sotto la nostra scorta e di accompagnarla in patria, anche se ci rendiamo conto che questo è un rischio considerevole, per noi.

— Noi non siamo aggressivi.

— Lo crederemmo più facilmente se non aveste rifiutato di richiamare le vostre navi che attualmente stanno attaccando i nostri cittadini.

— Le ho detto chiaramente che noi non abbiamo autorità sulla Flotta, né il potere di richiamarla.

— Noi crediamo che potreste usare una considerevole influenza. Le metteremo a disposizione i mezzi per trasmettere un messaggio… le ostilità finiranno con il cessate il fuoco della Flotta.

— Ci penseremo.

— Signore.

Ayres si inchinò, girò sui tacchi e uscì, accolto dalle onnipresenti guardie che lo condussero attraverso gli uffici. — L’altra riunione è stata disdetta — le informò. — Torniamo nel mio alloggio. Con tutti i miei compagni.

— Abbiamo i nostri ordini — disse il comandante delle guardie; non dicevano mai altro. Il problema si sarebbe risolto solo quando, una volta giunti al luogo della riunione delle 0800, un nuovo gruppo di giovani guardie li avrebbe ricondotti indietro, con una lunga attesa mentre le cose venivano sistemate per via gerarchica. Succedeva sempre così: l’inefficienza aveva lo scopo di esasperarli.

La mano di Ayres sudava sul fascicolo di pelle, il fascicolo con i documenti firmati dal governo della Confederazione. Pell, perduta. Una possibilità di recuperare almeno la Flotta, e una proposta che poteva annientarla. Ayres temeva che il governo della Confederazione avesse piani molto più lungimiranti di quanto immaginasse la Terra. La Grande Prospettiva. La Confederazione era nata insieme ad essa. La Terra la stava acquistando soltanto adesso. Ayres si sentiva trasparente e vulnerabile. Sappiamo che state cercando di prendere tempo… Ayres s’immaginava i pensieri che si agitavano dietro il volto massiccio di Azov. Sappiamo che volete guadagnare tempo; e per adesso a noi sta bene così, un accordo che noi e voi abrogheremo alla prima occasione.

La Confederazione aveva inghiottito tutto quello che avrebbe potuto digerire… per ora.

Non potevano permettersi di discutere, non potevano sollevare questioni vitali senza l’assoluta certezza che nessuno li stesse spiando. Firmare il documento e portarlo in patria. Quello che lui aveva in testa era la cosa più importante. Avevano imparato a conoscere le Stelle Sperdute; erano intorno a loro, nelle persone di soldati con la stessa faccia e probabilmente la stessa mentalità; nella sfida della comandante della Norway, nell’arroganza dei Konstantin, nei mercantili che ignoravano una guerra in atto da generazioni… atteggiamenti che la Terra non aveva mai capito, come non aveva mai capito che lì governavano altre forze, che seguivano una logica diversa.

Generazioni che si erano scosse dai calzari la polvere della Terra.

Tornare in patria… firmando un documento che Mazian non avrebbe mai ritenuto valido, così come la Mallory non avrebbe mai accettato di obbedire docilmente… tornare indietro vivo era la cosa più importante, per far capire agli altri ciò che aveva visto. Per questo avrebbe fatto ciò che era necessario, avrebbe sottoscritto una menzogna e una speranza.

CAPITOLO TERZO

PELL: UFFICIO DEL DIRIGENTE DELLA STAZIONE, SETTORE AZZURRO UNO; 9/9/52; ore 1100

Il bilancio quotidiano dei disastri si estendeva persino a regioni al di là della stazione. Angelo Konstantin si passò una mano sulla fronte e studiò il comunicato che aveva davanti. Un portello stagno esploso sulla miniera Centaur, sulla terza luna di Pell IV… quattordici uomini uccisi. Quattordici — non poté fare a meno di pensarlo — operai esperti, fidati. C’erano tanti umani che marcivano nel loro sudiciume, oltre la linea della quarantena, e invece dovevano perdere uomini come quelli. Mancanza di rifornimenti, materiale vecchio, pezzi che avrebbero dovuto venire sostituiti e che invece venivano solo rabberciati, per continuare il lavoro. Un portello stagno da pochi crediti cedeva, e quattordici uomini morivano nel vuoto. Trasmise un memorandum con l’ordine di trovare operai fra i tecnici di Pell in grado di sostituire i caduti; i loro moli erano inattivi… affollati di navi negli attracchi principali e ausiliari, ma con pochi movimenti in arrivo e in partenza… ed era meglio che quegli uomini si trasferissero nelle miniere, dove la loro abilità poteva tornare utile.

Non tutti gli operai trasferiti erano necessariamente esperti nelle nuove attività. Un operaio era rimasto ucciso sulla Porta dell’Infinito, schiacciato mentre cercava di liberare un cingolato impantanatosi per l’inesperienza del suo compagno. Bisognava aggiungere le sue condoglianze a quelle che Emilio aveva già inviato ai familiari sulla stazione.

C’erano stati altri due omicidi nel settore Q, e un cadavere era stato trovato nei pressi dei moli. Presumibilmente, la vittima era stata gettata viva nel vuoto. La responsabilità veniva attribuita ai Q. La sicurezza stava cercando di scoprire l’identità del morto, ma il corpo era troppo sfigurato.

C’era anche una contesa legale tra due famiglie, residenti sulla stazione da molto tempo, che dividevano un alloggio a rotazione. Damon gli aveva sottoposto il caso, come esempio di un problema sempre più acuto. Sarebbe stato necessario che il consiglio intervenisse per chiarire le responsabilità in quelle situazioni.

Un lavoratore dei moli, appena assegnato a quel compito, era all’ospedale, massacrato dall’equipaggio del mercantile militarizzato Janus. L’equipaggio militarizzato reclamava i privilegi dei mercantili e libero accesso ai bar, contro il parere di alcune autorità della stazione che avevano tentato di imporre loro la disciplina militare. Le ossa fratturate sarebbero guarite; i rapporti tra i funzionari della stazione e gli equipaggi dei mercantili erano in condizioni ben peggiori. Il primo ufficiale della stazione che si fosse azzardato a uscire con le pattuglie rischiava di finire con la gola tagliata. Le famiglie dei mercantili non erano abituate ad avere estranei a bordo.

Il personale della stazione non deve essere assegnato alle navi della milizia senza il permesso dei rispettivi comandanti, scrisse Konstantin all’ufficio della milizia. Le navi della milizia effettueranno il pattugliamento agli ordini dei loro ufficiali, in attesa della soluzione del problema.

Questo avrebbe creato irritazione in certi ambienti. Ma era sempre meglio di un ammutinamento, comunque; se una nave mercantile si fosse ribellata alle autorità della stazione che cercava di darle ordini… Elene l’aveva avvertito. Adesso aveva l’occasione di mettere in pratica quel suggerimento: una situazione d’emergenza in cui il dirigente della stazione poteva annullare le decisioni del consiglio che aspirava a tenere in pugno i mercantili armati.

C’erano varie crisi nei rifornimenti. Konstantin firmava le autorizzazioni necessarie, talvolta a cose fatte, approvando le soluzioni ingegnose dei sovrintendenti locali, soprattutto nelle miniere. Benediceva i subordinati così abili che avevano imparato a stanare i surplus degli altri dipartimenti.

Erano necessarie riparazioni nel settore Q e la sicurezza chiedeva l’autorizzazione di chiudere e sgombrare la sezione arancione tre fino al quarantesimo livello, per la durata dei lavori di costruzione; e questo significava trasferire parecchi residenti. Era considerato urgente, ma non pericoloso; era pericoloso, invece, farvi entrare una squadra per le riparazioni senza isolare l’area. Konstantin timbrò. Autorizzato. Chiudere gli impianti igienici nel settore, invece, poteva causare un’epidemia.

— Un comandante di mercantile, Ilyko, vuole vederla, signore.

Angelo Konstantin trasse un profondo respiro, premette il pulsante sulla consolle e la pregò di entrare. La porta si apri, ed apparve una donna enorme, dai capelli grigi e con gli evidenti segni dell’età che il processo di ringiovanimento non era riuscito a cancellare. O forse era in fase di declino: i medicinali non potevano scongiurarlo in eterno. Indicò una sedia, e lei prese posto. Aveva richiesto il colloquio un’ora prima, mentre la sua nave stava arrivando. La nave era la Swan’s Eye, e veniva da Mariner. Conosceva gli abitanti di Mariner, ma non quella donna. Adesso era dei loro, militarizzata; il cordone azzurro sulla manica lo indicava.

— Qual è il messaggio? — chiese Konstantin. — E da parte di chi?

La vecchia frugò nella sua giacca, estrasse una busta e si sporse per deporla sulla scrivania. — Da parte dell’Hammer, degli Olvig — disse. — Da Viking. Ha lasciato la stazione in tutta fretta e ce l’ha consegnato direttamente. Intendono restare fuori dagli schermi di Pell per un po’, signore… hanno paura. Non sono per niente entusiasti di quel che vedono.

— Viking. — L’annuncio del disastro era arrivato da un pezzo. — E da allora dove sono stati?

— Il loro messaggio può chiarirlo; ma dicono di avere subito danni nel lasciare Viking. Hanno fatto un balzo breve nell’iperspazio. Così hanno detto. E di sicuro la nave è malconcia, ma hanno un carico. Fossimo stati noi altrettanto fortunati, quando siamo scappati… non saremmo costretti a prestare servizio di milizia, vero, signore, per pagare le spese dell’attracco?

— Sa cosa contiene il messaggio?

— Sì — disse la donna. — Si sta muovendo qualcosa. Una spinta dopo l’altra, signor Konstantin. Secondo me… l’Hammer ha tentato di passare dalla parte della Confederazione e si è accorta che la situazione non era poi tanto piacevole; la Confederazione ha tentato di impadronirsene, e loro sono scappati. Hanno paura che qui si ripeta la stessa cosa. Mi hanno chiesto di precederli per recapitare il loro messaggio, per non sporcarsi le mani. Pensi quale sarebbe la loro posizione se la Confederazione capisse che sono stati loro a dare l’allarme. La Confederazione si sta muovendo.

Angelo scrutò la donna, la faccia tonda, gli occhi scuri e infossati. Annuì, lentamente. — Lei sa quel che succederà qui se il suo equipaggio parla troppo, sulla stazione o altrove. Ci renderà le cose ancora più difficili.

— Noi siamo una famiglia — disse la donna. — Non parliamo con gli estranei. — Gli occhi neri lo fissarono con fermezza. — Io faccio parte della milizia, signor Konstantin, perché abbiamo avuto la sfortuna di arrivare qui senza carico e voi ci avete presentato il conto; e perché non possiamo andare da nessun’altra parte. Lo Swan’s Eye non è un mercantile dell’associazione; non ha restrizioni né credito qui, come certi altri. Ma che cosa conta il credito, eh, signor Konstantin, se Pell chiude? D’ora in avanti, che importano i crediti della sua banca? Io voglio rifornimenti.

— È un ricatto, comandante?

— Riporterò il mio equipaggio là fuori, in servizio di pattuglia, e sorveglieremo il vostro perimetro. Se vedremo qualche nave della Confederazione glielo comunicheremo in fretta e ce la batteremo. Una nave come la mia non può giocare a nascondino con un ricognitore. E non intendo compiere gesti eroici. Voglio gli stessi vantaggi che hanno gli equipaggi di Pell, che si accaparrano viveri e acqua senza farli figurare nelle note di carico.

— Lei denuncia casi di accaparramento?

— Signor Konstantin, lei sa benissimo che è un fatto normale per tutte le navi che hanno degli interessi sulla stazione, e per non indispettire quelle società si guarda bene dall’effettuare accertamenti, vero? Quanti funzionari della sua stazione si sporcano le uniformi controllando personalmente le stive e i serbatoi, eh? Le parlo fuori dai denti, e chiedo le stesse condizioni per la mia famiglia. Rifornimenti. Poi ritornerò sulla linea di confine.

— Li avrà. — Konstantin si voltò e trasmise l’ordine con priorità assoluta. — Lasci la stazione al più presto possibile.

Quando ebbe terminato, alzò di nuovo gli occhi verso la donna, e lei annuì. — Ben fatto, signor Konstantin.

— Dove si trasferirà, comandante, se sarà costretta a farlo?

— Nell’Abisso. C’è un posto che conosco, al buio. Molti mercantili hanno di questi rifugi, lo sa, signor Konstantin? Si prospettano anni difficili, se ci sarà lo sfondamento. La Confederazione sosterrà che già erano di sua proprietà. Se ne staranno nascosti e si augureranno che la Confederazione abbia un gran bisogno di navi. I nuovi territori comporteranno una inevitabile dispersione, e allora le navi diventeranno necessarie. Oppure torneranno verso la Terra. Qualcuno vorrebbe farlo.

Angelo aggrottò la fronte. — È convinta che sia inevitabile.

La donna alzò le spalle. — Fiuto il vento, signor Konstantin. Non vorrei restare su questa stazione a nessun prezzo, se le linee non reggeranno.

— E molti dei mercantili sono della stessa opinione?

— Siamo pronti — disse lei, a voce bassa — da cinquant’anni. Lo chieda alla Quen, signor Konstantin. Anche voi state cercando un rifugio?

— No, comandante.

La donna si appoggiò alla spalliera e annuì lentamente. — L’ammiro. Posso assicurarle che non fuggiremo senza prima aver dato l’allarme, e questo è molto di più di quanto farebbero altri nostri colleghi.

— So che per voi è un grosso rischio. Avrà tutti i rifornimenti che le occorrono. C’è altro?

Il comandante Ilyko scosse la testa, piegando leggermente la sua figura massiccia, e si alzò. — Le auguro buona fortuna — disse, tendendo la mano. — Le auguro buona fortuna. Tutti i mercantili che sono qui e non dall’altra parte delle linee hanno scelto di stare dalla sua parte; quelli che s’incontrano ancora nello spazio e vi portano rifornimenti della Confederazione… non lo fanno per profitto. Qui non c’è nessun profitto. Lo sa, vero? Sarebbe stato più difficile dall’altra parte… in un certo senso.

Angelo strinse quella mano robusta. — Grazie, comandante.

— Uh — disse lei, scrollò le spalle un po’ intimidita e uscì a passo pesante.

Angelo prese la busta e l’aprì. Era un biglietto scarabocchiato a mano. Di ritorno dalla Confederazione. Navi in orbita intorno a Viking, quattro, forse di più. Dicono che Mazian sia in fuga, navi perdute: Egypt, France, United States, forse altre. Situazione disperata. Il messaggio non era firmato, non c’era il nome del mercantile. Angelo lo studiò per un momento, poi si alzò, aprì la cassaforte, vi ripose il foglio e la richiuse. Aveva lo stomaco sottosopra. Gli osservatori potevano sbagliare. Le informazioni potevano venire disseminate ad arte, le voci diffuse deliberatamente. Quella nave non sarebbe arrivata a Pell. L’Hammer avrebbe osservato per un po’; forse si sarebbe avvicinata, oppure sarebbe fuggita; ogni tentativo di bloccarla per interrogare l’equipaggio sarebbe stato, una pessima politica nei confronti degli altri mercantili. I mercantili ronzavano intorno a Pell, sperando di ricevere viveri e acqua, e consumavano le scorte della stazione, sfruttando il credito delle società, che Pell doveva onorare per paura di disordini; vecchi debiti nei confronti di stazioni scomparse. Consumavano le scorte di Pell, per non intaccare quelle accaparrate che conservavano a bordo… in previsione del giorno in cui sarebbero stati costretti a fuggire. Alcuni portavano rifornimenti, certo; ma la maggior parte consumavano e basta.

Angelo chiamò la sua segretaria. — Per oggi chiudo — disse. — Se c’è bisogno di me, cercatemi a casa. Se si tratta d’una cosa urgente, tornerò.

— Sì, signore. — Angelo prese alcune delle pratiche meno inquietanti, le mise nella borsa, si infilò la giacca, e uscì rivolgendo un cenno di saluto alla segretaria, e ai vari funzionari che lavoravano nella stessa stanza, poi uscì nel corridoio.

Negli ultimi giorni aveva lavorato fino a tardi; voleva almeno garantirsi la possibilità di proseguire il lavoro più comodamente, di leggere quei documenti senza venire interrotto. C’erano stati guai, sulla Porta dell’Infinito; Emilio li aveva scaricati sulla stazione, la settimana prima, con una rovente denuncia contro il personale coinvolto. Damon aveva consigliato di spedire i responsabili alle miniere… un sistema sbrigativo per procurarsi gli operai necessari. La difesa aveva ribattuto, parlando di pregiudizi, e aveva chiesto l’archiviazione della denuncia e la reintegrazione degli interessati. C’erano state polemiche rabbiose. Jon Lukas aveva avanzato offerte e pretese: e alla fine avevano sistemato almeno quella questione. Adesso aveva cinquanta fascicoli di residenti del settore Q che attendevano una sistemazione temporanea. Angelo pensò di fermarsi al bar dei dirigenti, lungo la strada, per bere qualcosa e sbrigare qualche pratica, distogliendo la mente dal penseiro che ancora lo faceva sudare. Aveva in tasca un segnalatore, lo portava sempre con sé, sebbene potesse contare sul sistema delle comunicazioni.

Andò a casa, coprendo quel breve tratto fino ad azzurro uno dodici, aprì la porta senza far rumore.

— Angelo?

Dunque Alicia era sveglia. Lui lasciò la borsa e la giacca sulla sedia accanto alla porta. — Sono a casa — disse, e sorrise rispettosamente alla vecchia femmina hisa che uscì dalla stanza di Alicia per accoglierlo. — Com’è andata oggi, Lily?

— Avuto buona giornata — affermò Lily, con un sorriso gentile. In silenzio, prese gli oggetti che lui aveva lasciato sulla sedia; Angelo entrò nella stanza di Alicia, si chinò sul letto e la baciò. Alida sorrise, immobile tra le lenzuola immacolate, con Lily che l’assisteva, la aiutava nei movimenti, la serviva con la devozione di molti anni. Le pareti erano schermi. Intorno al letto c’era un panorama di stelle librate nello spazio; le stelle, e qualche volta il sole, i moli, i corridoi di Pell; immagini dei boschi della Porta dell’Infinito, della base, della famiglia, di tutte le cose che le facevano piacere. Era Lily a cambiare le sequenze.

— È venuto Damon — mormorò Alicia. — Con Elene. Per colazione. È stato molto simpatico. Elene sta bene. È così felice.

Spesso si fermavano a farle visita, l’uno o l’altra… specialmente adesso che Emilio e Miliko erano lontani. Angelo ricordò una sorpresa, un nastro che aveva infilato nella tasca della giacca per paura di dimenticarlo. — È arrivato un messaggio di Emilio. Te lo farò ascoltare.

— Angelo, c’è qualcosa che non va?

Lui s’interruppe e scosse malinconicamente la testa. — Non ti sfugge niente, cara.

— Conosco la tua faccia, amore. Brutte notizie?

— Non da parte di Emilio. Laggiù le cose vanno bene; molto meglio. Mi ha riferito progressi considerevoli con i nuovi campi. Non hanno avuto fastidi con il personale Q, la strada è arrivata alla base due, e c’è un buon numero di persone disposte a trasferirsi in fondo alla linea dei campi.

— Credo che tu mi riferisca soltanto gli aspetti migliori dei rapporti. Ma vedo i corridoi. E capisco, Angelo.

Lui le girò delicatamente la testa, in modo che potesse guardarlo meglio. — La guerra si sta avvicinando — disse. — Ti sembra abbastanza spiacevole?

Gli occhi bellissimi… ancora bellissimi, su quel viso scarno e pallido… erano vivi e sicuri. — Quanto è vicina, ormai?

— Quelli dei mercantili stanno diventando nervosi. Non è troppo vicina; non si tratta di questo. Ma sono piuttosto preoccupato per il morale.

Alicia girò gli occhi verso gli schermi. — Tu rendi così bello il mondo. Ma è veramente bello, là fuori?

— A Pell non è accaduto nulla di grave. Non ci sono pericoli imminenti. Sai che non sono capace di mentirti. — Angelo sedette sul bordo del letto, le prese la mano. — Abbiamo visto altre volte la guerra farsi più calda, e siamo ancora qui.

— È molto grave?

— Ho parlato poco fa con il comandante di un mercantile, che mi ha esposto le opinioni dei suoi colleghi; ha parlato di zone dell’Abisso, luoghi fatti per nascondersi e aspettare. Vedi, ho l’impresssione che ci siano altre stazioni, in un certo senso, oltre a Pell; frammenti di roccia in ubicazioni inverosimili… quelli dei mercantili li conoscono. Forse Mazian; sicuramente Mazian. Luoghi che le navi possono raggiungere. Quindi, se ci sono tempeste… ci sono anche i rifugi, no? Se la situazione dovesse volgere al peggio, avremo qualche possibilità di scelta.

— Te ne andresti?

Angelo scosse la testa. — Mai. Mai. Ma forse potremo convincere i ragazzi, no? Uno l’abbiamo persuaso a scender sulla Porta dell’Infinito; convinci l’altro; convinci Elene… lei è la nostra speranza. Ha molti amici, là fuori; lei sa, e potrebbe convincere Damon. — Angelo strinse la mano della moglie. Alicia Lukas-Konstantin aveva bisogno di Pell, aveva bisogno dei macchinari, di un equipaggiamento che una nave difficilmente poteva fornire. Era sposata a Pell e alle macchine. Un eventuale trasferimento del suo ambiente fatto di metallo e di esperti sarebbe stato pubblico: la fine del mondo trasmessa per video. Lei glielo aveva rammentato. Io sono Pell, aveva detto ridendo. Un tempo era stata al suo fianco. Angelo non se ne sarebbe andato. Non pensava di abbandonare ciò che la sua famiglia aveva costruito nel corso degli anni, ciò che avevano costruito insieme. — Non è imminente — disse. Ma temeva il contrario.


PELL: MOLO BIANCO: UFFICIO DELLA SOCIETÀ LUKAS; ore 1100

Jon Lukas raccolse i documenti, alzò gli occhi verso gli uomini che affollavano il suo ufficio, sul molo. Li fissò duramente per un momento. Posò i documenti sulla scrivania e Bran Hale li prese e li distribuì agli altri.

— Gliene siamo grati — disse Hale.

— La Società Lukas non ha bisogno di altri dipendenti. Sia chiaro. Rendetevi utili. Questo è un favore personale, un debito, se preferite. Io apprezzo la fedeltà.

— Non causeremo noie — disse Hale.

— Statevene tranquilli. L’impulsività vi è costata le autorizzazioni della sicurezza. Non potrete permettervi di essere impulsivi lavorando con me. Vi avevo avvertiti, quando lavoravamo insieme sulla Porta dell’Infinito…

— Lo ricordo — disse Hale. — Ma ci hanno buttati fuori, signor Lukas, per motivi personali. Konstantin stava cercando un pretesto. Sta cambiando tutte le direttive che lei aveva dato, disorganizza e sovverte tutto. Abbiamo cercato di evitarlo, signore.

— Non posso farci niente — disse Jon. — Io non sono laggiù, non dirigo più la base. E adesso neppure voi siete là. Avrei preferito che Jacoby vi avesse tirati fuori con più discrezione, ma ormai è andata così. Adesso avete un impiego privato. — Jon si appoggiò alla scrivania. — Potrei aver bisogno di voi — disse semplicemente. — Pensate anche a questo. Per voi poteva andare peggio… adesso vivete nella stazione, niente più fango, niente più emicranie dovute all’aria irrespirabile. Adesso siete legati alla compagnia, e usate il cervello. Vedrete che vi andrà bene.

— Si, signore — disse Hale.

— E Lee… — Jon guardò Lee Quale, un’occhiata impassibile, ferma. — Di tanto in tanto lei sorveglierà le proprietà dei Lukas. Potrà portare una pistola, ma non dovrà usarla. Sa che ha rischiato l’Adattamento, per questo?

— Uno di quei bastardi aveva urtato l’arma — borbottò Quale.

— È Damon Konstantin che dirige l’Ufficio Legale. Il fratello di Emilio, chiaro? Angelo ha la situazione in pugno. Se avesse avuto una sola possibilità, le avrebbe riservato la sorte peggiore. Ci pensi, la prossima volta che si metterà contro i Konstantin.

La porta si aprì. Vittorio entrò, ignorando la smorfia scoraggiante del padre, si avvicinò alla sedia, e si chinò per parlargli all’orecchio.

— È arrivato un uomo — mormorò. — Con una nave, la Swan’s Eye.

— Non conosco nessuna Swan’s Eye — sibilò di rimando Jon. — Può aspettare.

— No — insistette Vittorio, facendosi più vicino. — Dammi retta. Non sono sicuro che lui sia autorizzato.

— Come, non autorizzato?

— I documenti. Non credo che dovrebbe essere sulla stazione. Adesso è qui fuori. Non so come comportarmi, con lui.

Jon trasse un profondo respiro, e rabbrividì. L’ufficio era pieno di testimoni. Anche il molo ne era pieno. — Fallo entrare — disse. Poi, rivolto a Hale e agli altri: — Andate. Compilate i moduli e consegnateli al personale. Per oggi, accettate quello che vi assegneranno. Andate.

Quelli lanciarono occhiate scure, vagamente sospettose. — Venite — disse Hale, facendo uscire i compagni. Vittorio si affrettò a uscire con loro e sparì, lasciando la porta aperta.

Dopo un attimo entrò un uomo, vestito come si usava sui mercantili, e chiuse la porta. Non c’era paura o furtività, in quella mossa. Come se fosse lui a comandare. Una faccia comune, un uomo sui trent’anni, senza niente di eccezionale. I suoi modi erano freddi e misurati.

— Il signor Jon Lukas — disse.

— Jon Lukas sono io.

L’uomo alzò eloquentemente gli occhi verso il soffitto e le pareti.

— Nessun controllo — disse Jon, che respirava a fatica. — È entrato qui sotto gli occhi di tutti e teme di essere spiato?

— Ho bisogno d’una copertura.

— Come si chiama? Chi è lei?

L’uomo si fece avanti, si sfilò dal dito un anello d’oro, prese dalla tasca una carta d’identità della stazione e posò l’uno e l’altra sulla scrivania.

Erano di Dayin.

— Lei ha fatto una proposta — disse l’uomo.

Jon restò immobile, come impietrito.

— Mi procuri una copertura, signor Lukas.

— Chi è lei?

— Sono arrivato con la Swan’s Eye. Non ho molto tempo. Caricheranno le provviste e ripartiranno.

— Il suo nome. Io non tratto con gli sconosciuti.

— Mi dia lei un nome. Un suo uomo che venga a bordo della Swan’s Eye. Un ostaggio, uno che possa trattare a suo nome, se è necessario. Lei ha un figlio.

— Vittorio.

— Mandi lui.

— La sua assenza verrebbe notata.

Lo sconosciuto lo fissò, freddo e imperturbabile. Jon intascò la carta d’identità e l’anello, e tese la mano intorpidita verso l’intercom.

— Vittorio.

La porta si aprì. Vittorio entrò, con aria preoccupata, e lasciò che la porta si richiudesse.

— La nave che mi ha portato qui — disse l’uomo, — condurrà lei, Vittorio Lukas, a un’altra nave, l’Hammer, che staziona alla periferia; e non dovrà preoccuparsi degli equipaggi. Sono tutti fidati. Anche la comandante della Swan’s Eye è molto interessata alla sua sicurezza… vuole riavere i suoi familiari. Sarà al sicuro.

— Fai quel che ti dice — disse Jon. La faccia di Vittorio era pallidissima.

Andare? Così?

— Sarai al sicuro — disse Jon. — Più di quanto saresti qui, con quello che sta per accadere. I tuoi documenti, la tua carta, la tua chiave. Consegnali a lui. Sali sulla Swan’s Eye con una delle consegne. Basta che tu non assuma un’aria colpevole e che non scenda. È abbastanza semplice.

Vittorio si limitò a fissarlo.

— Sarà al sicuro, glielo garantisco — disse lo sconosciuto. — Andrà là e aspetterà. Fungerà da collegamento per le nostre operazioni.

— Le nostre?

— Mi è stato detto che lei mi capisce benissimo.

Vittorio si frugò in tasca, consegnò tutti i suoi documenti. Sul suo viso c’era un’espressione di terrore. — Numero del computer — disse l’altro; Vittorio lo scrisse sul blocco.

— Andrà tutto bene — disse Jon. — Ti ripeto che starai meglio là che qui.

— L’avevi detto anche a Dayin.

— Dayin Jacoby è vivo e vegeto — disse lo sconosciuto.

— Non combinare guai — disse Jon. — Usa il cervello. Se combini un guaio, per noi tutti sarà l’Adattamento. Mi hai capito bene?

— Sì — disse Vittorio, con un filo di voce. Jon gli indicò la porta con un cenno di commiato. Incerto, Vittorio gli tese la mano. Jon la strinse, senza calore… anche in quel momento, non aveva simpatia per suo figlio. Forse provava qualcosa del genere adesso, perché Vittorio gli era veramente utile.

— Te ne sono grato — mormorò, pensando che una certa cortesia avrebbe lenito le ferite. Vittorio annuì.

— Questo molo — disse lo sconosciuto, esaminando le carte di Vittorio. — Attracco due. E si sbrighi.

Vittorio uscì. Lo sconosciuto intascò i documenti e il numero del computer.

— Un uso periodico del numero dovrebbe tranquillizzare il computer — disse l’uomo.

— Chi è lei?

— Può andar bene Jessad — disse l’uomo. — E Vittorio Lukas, per il computer. Dove risiede?

— Con me — disse Jon, desiderando che non fosse così.

— Nessun altro? Qualche donna, amici intimi che potrebbero essere d’intralcio…?

— Solo noi due.

— Jacoby l’aveva accennato. Risiedere con lei… molto comodo. Ci saranno commenti, se mi presento con questi abiti?

Jon sedette sul bordo della scrivania, si passò la mano sulla faccia.

— Non ha motivo di essere così allarmato, signor Lukas.

— Loro… la Flotta della Confederazione… sta arrivando?

— Sono qui per sistemare certe cose. Sono un consulente, signor Lukas. È il termine più adatto. Sacrificabile. Un uomo, una nave o due… un rischio da poco, in confronto alla posta in gioco. Ma io voglio vivere, mi capisce? E non intendo essere sacrificato… senza motivo. Quindi non cambi idea, signor Lukas.

— L’hanno mandata qui… senza appoggi…

— Gli appoggi verranno a suo tempo. Ne parleremo questa notte, a casa sua. Sono nelle sue mani. So che non ci sono forti legami tra lei e suo figlio.

Jon Lukas avvampò. — Non è affar suo, signor Jessad.

— No? — Jessad lo squadrò, lentamente. — Ormai manca poco, può starne certo. Lei ha deciso di stare dalla parte del vincitore. Di rendere certi servigi… in cambio di una certa posizione. Io dovrò valutarla. In modo molto pratico. Mi capisce? Ma farà bene a seguire i miei ordini, e non far niente senza il mio consenso. Ho una certa esperienza in queste situazioni. Sono stato informato che qui non permettete la sorveglianza degli alloggi privati, che Pell è intransigente al riguardo, e che non ci sono le apparecchiature.

— Infatti — disse Jon, deglutendo a fatica. — È vietato dalla legge.

— Molto comodo. Mi dispiacerebbe muovermi sotto l’occhio di una telecamera. I miei vestiti, signor Lukas. Sono accettabili nei vostri corridoi?

Jon si voltò, frugò nella scrivania, trovò il modulo, con il cuore che gli martellava. Se quell’uomo fosse stato fermato, se ci fosse stato qualche sospetto, la sua firma sul documento… ma ormai era troppo tardi. Se la Swan’s Eye fosse stata perquisita, se qualcuno si fosse accorto che Vittorio non era sceso prima della partenza… — Ecco — disse, staccando il lasciapassare. — Non lo mostri a nessuno, a meno che venga fermato dalla sicurezza. — Premette il pulsante delle comunicazioni e si chinò sul microfono. — Bran Hale è ancora lì? Lo faccia entrare. Solo.

— Signor Lukas — disse Jessad, — non abbiamo bisogno di altri, in questa faccenda.

— Mi ha chiesto consiglio sui corridoi. Si fidi. Se verrà fermato, spieghi che viene da un mercantile, e che le hanno rubato i documenti. Sta andando a parlarne negli uffici amministrativi, e Bran Hale è la sua scorta. Mi dia i documenti di Vittorio. Li terrò io. Non può farseli trovare addosso. Sistemerò tutto quando rientrerò nell’appartamento, questa sera.

Jessad consegnò i documenti e prese il lasciapassare — E cosa fanno, con quelli dei mercantili che sono stati derubati delle carte d’identità?

— Chiamano l’intera famiglia della nave, e c’è una grande confusione. Se si arrivasse a questo punto, lei finirebbe in detenzione e poi all’Adattamento, signor Jessad. Ma qui capita che i documenti vengano rubati, ed è una copertura migliore del suo piano. Se dovesse succedere, lasci che le cose vadano per il loro verso e si fidi di me. Ho le mie navi. Posso combinare qualcosa. Dica che è della Sheba. Conosco la famiglia.

La porta si aprì. Bran Hale si fermò sulla soglia, e Jessad tacque.

— Si fidi di me — ripeté Jon, godendosi il disagio dell’altro. — Bran, può già cominciare a rendersi utile. Accompagni quest’uomo al mio appartamento. — Si frugò in tasca per cercare la chiave per gli ospiti. — Lo faccia entrare e rimanga con lui fino a quando verrò io, per favore. L’attesa potrebbe essere lunga. Faccia come se fosse a casa sua. E se verrete fermati, lui racconterà una certa storia. Lo assecondi, chiaro?

Hale squadrò Jessad e tornò a fissare Jon. Era un uomo intelligente, Hale. Annuì senza far domande.

— Signor Jessad — mormorò Jon, — può star certo che quest’uomo la condurrà a destinazione.

Con un sorriso teso, Jessad allungò la mano. Jon la strinse, e la sentì forte e sicura. Hale lo accompagnò fuori e Jon rimase accanto alla scrivania, seguendoli con lo sguardo. Il personale nell’altro ufficio era tutta gente come Hale, devota ai Lukas, fidata. Uomini e donne che aveva scelto personalmente… e non era probabile che qualcuno di loro figurasse anche sul libro paga di Konstantin: a questo aveva sempre provveduto lui. Era ancora teso. Andò all’armadietto, si versò da bere; Jessad era imperturbabile, ma a lui tremavano le mani per quell’incontro e per le possibilità che schiudeva. Un agente confederato. Era una farsa, un risultato troppo complesso del suo intrigo con Jacoby. Lui aveva tentato un sondaggio, e qualcuno aveva alzato incredibilmente la posta.

Le navi della Confederazione stavano per arrivare. Dovevano essere molto vicine, se avevano corso il rischio enorme di mandare uno come Jessad. Jon sedette di nuovo alla scrivania, stringendo il bicchiere, e bevve, cercando di ridare coerenza ai suoi pensieri. L’inganno al computer non poteva continuare. Poteva durare per pochi giorni al massimo, e se qualcosa fosse andato storto, il primo a venire preso sarebbe stato lui, non Jessad, che non figurava nella memoria del computer. Jessad era sacrificabile, secondo i piani della Confederazione, forse… ma lui lo era anche di più.

Bevve, cercando di riflettere.

Con un’ispirazione improvvisa, prese altri moduli e cominciò la procedura per far partire un mercantile. C’erano equipaggi alle dipendenze dei Lukas che non avrebbero parlato, come quello della Sheba, uomini che sarebbero partiti con una nave portando a bordo un fantasma, falsificando le note di carico e i ruolini del personale o l’elenco dei passeggeri… le rotte del mercato nero avevano fatto venire a galla una quantità di dati interessanti che certi comandanti non volevano si risapessero. Quindi, quel pomeriggio un’altra nave sarebbe partita per le miniere, e il numero di computer di Vittorio sarebbe stato cambiato sul registro della stazione.

Una cosa da poco, una nave che partiva; nessuno badava ai tragitti brevi. Alle miniere e ritorno; una nave che non poteva rappresentare una minaccia per la sicurezza, perché non aveva la velocità, né le armi, né la possibilità di raggiungere altre stelle. Forse avrebbe dovuto rispondere a qualche domanda da parte di Angelo, ma sapeva già cosa dire. Trasmise l’ordine al computer, osservò soddisfatto mentre il computer lo accettava e inviava alla società Lukas la notifica che una delle navi in partenza doveva portare gratuitamente una certa quantità di materiale dalla stazione alle miniere. Normalmente, si sarebbe infuriato per l’ammontare della tassa sul trasporto: era vergognosa. Batté sui tasti: Accettato 1/4 carico per stazione: partenza 1700 pg.

Il computer registrò tutto. Jon si appoggiò alla spalliera con un sospiro di sollievo, mentre il suo cuore riprendeva un ritmo più regolare. Il personale non era un problema; lui conosceva i suoi uomini migliori.

Riprese a lavorare, chiedendo i nominativi al computer, scegliendo l’equipaggio, una famiglia dei mercantili da molto tempo al servizio dei Lukas. — Faccia entrare i Kulin appena si presentano in ufficio — disse al segretario. — Ho un incarico per loro. Si sbrighi, e raduni in fretta tutto quello che dobbiamo spedire, e poi chiami un’altra squadra per caricare quello che dovremo trasportare gratis per conto della stazione; niente discussioni, accetti quello che le daranno e poi torni qui. Si assicuri che i documenti siano a posto e che non insorgano difficoltà… mi raccomando… con i dati del computer. Mi ha capito?

— Sì, signore — rispose il segretario. Poi, dopo un momento: — Mi sono messo in contatto con i Kulin. Stanno arrivando e la ringraziano per l’incarico, signore.

L’Annie andava bene: una nave abbastanza comoda per un giro prolungato fra le miniere dei Lukas. Abbastanza piccola per passare inosservata. Lui aveva fatto giri d’ispezione come quello, in gioventù, per imparare. Quindi avrebbe potuto farli anche Vittorio. Jon sorseggiò il suo drink e passò rapidamente in rassegna i documenti che aveva sulla scrivania.


PELL: CILINDRO CENTRALE; 9/9/52; ore 1200

Josh sedette sul tappetino e cadde all’indietro, nella gravità ridotta della palestra. Damon si chinò su di lui, appoggiando le mani sulle ginocchia nude e con un’espressione di vago divertimento.

— Sono sfinito — disse Josh, quando riprese fiato; gli dolevano i fianchi. — Avevo bisogno di fare un po’ d’esercizio, ma non così tanto.

Damon si lasciò cadere in ginocchio accanto a lui sulla stuoia, ansimando. — Ma te la cavi bene. Lo ammetto. — Aspirò una boccata d’aria e respirò lentamente, sorrise. — Hai bisogno di aiuto?

Josh borbottò e rotolò su se stesso, e facendo leva sul braccio, si alzò sgraziatamente, con tutti i muscoli scossi da un tremito, conscio della presenza di uomini e donne in condizioni migliori che passavano loro accanto sulla ripida pista che cingeva l’interno di Pell. Era un luogo affollato, ed echeggiava di grida e di conversazioni. Era la libertà, e lì il peggio che c’era da temere era qualche risata. Avrebbe continuato se avesse potuto… aveva già corso più di quanto avrebbe dovuto ma gli dispiaceva che fosse finita.

Le ginocchia gli tremavano e gli dolevano i fianchi. — Vieni — disse Damon, alzandosi con maggiore scioltezza. Damon gli afferrò il braccio e lo guidò verso gli spogliatoi. — Fai un bagno di vapore: almeno si scioglieranno i muscoli. Ho ancora un po’ di tempo, prima di tornare in ufficio.

Entrarono nel caos dello spogliatoio, si spogliarono e gettarono gli indumenti nella lavanderia comune. C’era una pila di asciugamani a loro disposizione. Damon ne buttò un paio a Josh e lo fece entrare dalla porta con la scritta SAUNA, attraverso una rapida doccia, e poi in una serie di cabine offuscate dal vapore e allineate lungo il corridoio. Molte erano occupate. Ne trovarono alcune libere, in fondo, ne scelsero una e sedettero sulle panche di legno. Tanta acqua sprecata… Josh guardò Damon mentre prendeva dell’acqua, se la versava sulla testa e rovesciava il resto su una lastra di metallo arroventato, fino a quando il vapore salì e lo avvolse in una nube bianca. Josh fece altrettanto e si asciugò, ansimante e stordito da quel calore.

— Tutto bene? — gli chiese Damon.

Josh annuì, preoccupato di non sprecare il tempo, come sempre quand’era in compagnia di Damon. Cercava disperatamente di mantenere l’equilibrio, di camminare sul filo di una fiducia eccessiva da una parte e dall’altra… il terrore di fidarsi di qualcuno. Detestava essere solo… non aveva mai… qualche volta c’erano certezze che balenavano nella sua memoria frammentata, concrete come verità… non gli era mai piaciuto star solo. Damon si sarebbe stancato di lui. La novità avrebbe perduto ogni interesse. La sua compagnia sarebbe diventata opprimente, dopo un po’.

E allora sarebbe rimasto solo, con una mente dimezzata e una libertà fittizia, nella prigione che era Pell.

— C’è qualcosa che ti preoccupa?

— No. — E disperatamente, cercò di cambiare argomento, perché Damon si era lamentato di non avere compagnia per venire in palestra: — Credevo che qui avremmo trovato Elene.

— La gravidanza comincia ad appesantirla un po’. Non se la sente.

— Oh. — Josh batté le palpebre e deviò lo sguardo. Era una domanda intima; si sentiva un intruso… era ingenuo, in queste cose. Le donne… pensava di averne conosciute, ma non donne incinte, non un rapporto come quello che c’era fra Damon ed Elene… permanente. Ricordava qualcuna che aveva amato. Più vecchia. Era passato. Un amore giovanile. Cercava di seguire quei fili conduttori, ma si aggrovigliavano. Non voleva pensare a Elene, così. Non poteva. Ricordava certi avvertimenti… menomazione psicologica, l’avevano chiamata. Menomazione…

— Josh… ti senti bene?

Lui batté di nuovo le palpebre: sarebbe diventato un tic nervoso, se l’avesse lasciato continuare.

— C’è qualcosa che ti rode.

Josh fece un gesto rassegnato: non voleva essere costretto a discuterne. — Non so.

— Sei preoccupato per qualcosa.

— Niente.

— Non ti fidi di me?

La vista di Josh si annebbiò. Il sudore gli cadeva negli occhi. Si asciugò la faccia.

— Va bene — disse Damon, come se ci credesse veramente.

Josh si alzò, avvicinandosi alla porta della cabina di legno, per creare una distanza fra loro. Aveva lo stomaco in subbuglio.

— Josh.

Un luogo buio, un luogo stretto… poteva fuggire, liberarsi. Ma così lo avrebbero arrestato, lo avrebbero rimandato all’ospedale fra quelle pareti bianche.

— Hai paura? — gli chiese apertamente Damon.

Il colpo arrivò a segno. Josh fece di nuovo quel gesto rassegnato, a disagio. Il suono di altre voci divenne come un silenzio, un rombo che sfocava i contorni della loro cabina.

— Che cosa pensi? — chiese Damon. — Che non sia sincero con te?

— No.

— Che non puoi fidarti di me?

— No.

— E allora che cosa?

Josh stava per vomitare. Urtava sempre quella barriera quando superava il condizionamento… lo sapeva.

— Vorrei che parlassi — disse Damon.

Josh si voltò a guardarlo, con le spalle contro la parete di legno. — La smetterai — disse, stordito, — quando ti sarai stancato del progetto.

— Smetterò cosa? Stai tornando all’idea dell’abbandono?

— Allora che cosa vuoi?

— Tu credi di essere una curiosità — domandò Damon, — o che altro?

Josh soffocò un attacco di bile.

— Hai avuto questa impressione — chiese Damon, — da me e da Elene?

— Non voglio pensarlo — riuscì a dire lui, finalmente. — Ma io sono una curiosità, se non altro.

— No — disse Damon.

Sulla guancia di Josh, un muscolo cominciò a vibrare. Sedette sulla panca e cercò di arrestare quel tic. C’erano le pillole, ma aveva smesso di prenderle. Avrebbe preferito continuare, però, per stare tranquillo e non pensare. Andarsene da lì, non essere più sondato.

— Ci sei simpatico — disse Damon. — Questo non ti va?

Josh rimase seduto, paralizzato, con il cuore che martellava.

— Vieni — disse Damon, alzandosi. — Sei stato anche troppo qui al caldo.

Anche Josh si alzò; aveva le ginocchia deboli, la vista offuscata dal sudore e dal caldo e dalla gravità ridotta. Damon gli porse la mano. Ma lui si ritrasse e lo seguì lungo il corridoio verso le docce in fondo al locale.

Il vapore più fresco gli schiarì un po’ la mente. Rimase nella cabina un po’ più a lungo del necessario, aspirò l’aria frizzante, e uscì più calmo; si avvolse nell’asciugamano e ritornò nello spogliatoio. Damon lo seguì. — Mi dispiace — disse Josh.

— Questione di riflessi — disse Damon. Aggrottò la fronte, lo prese per un braccio, prima che lui si voltasse dall’altra parte. Josh arretrò di scatto, urtando rumorosamente contro l’armadietto.

Un posto buio. Un caos di corpi. Mani che lo stringevano. Scacciò dalla mente quei pensieri, si appoggiò al metallo, rabbrividendo, fissando la faccia ansiosa di Damon.

— Josh?

— Mi dispiace — ripeté lui. — Mi dispiace.

— Sembravi sul punto di svenire. È stato il caldo?

— Non so — mormorò Josh. — Non so. — Si avvicinò alla panca, sedette per riprendere fiato. Dopo un momento si sentì meglio. Il buio si allontanò. — Mi dispiace, veramente. — Era depresso, convinto che Damon non l’avrebbe sopportato ancora per molto. La depressione aumentava. — Forse farei meglio a tornare in ospedale.

— A questo punto?

Josh non voleva pensare alla sua stanza, la camera spoglia nel ricovero, tetra, con le pareti nude. All’ospedale conosceva un sacco di gente e i dottori lo conoscevano, e potevano occuparsi di quei problemi, anche se erano motivati soltanto dal dovere.

— Chiamerò l’ufficio — disse Damon. — E avvertirò che sarò lì più tardi. Ti porterò all’ospedale, se senti di averne bisogno.

Josh si prese la testa fra le mani. — Non so perché faccio così — disse. — Ricordo qualcosa. Non so cosa. Mi prende allo stomaco.

Damon restò seduto a cavalcioni della panca, e attese.

— Capisco — disse alla fine, e Josh alzò gli occhi, ricordando con inquietudine che l’altro aveva accesso a tutta la sua documentazione.

— Che cosa?

— Forse là dentro era soffocante. Molti profughi si fanno prendere dal panico, in queste condizioni. È come una cicatrice.

— Ma io non sono arrivato con i profughi — disse Josh. — Questo lo ricordo.

— E che altro ricordi?

Un tic scosse la faccia di Josh. Si alzò, cominciò a vestirsi, e dopo un attimo Damon fece altrettanto. Altri uomini passavano davanti a loro, ed ogni volta che la porta si apriva, entravano le grida dall’esterno, il solito chiasso della palestra.

— Davvero vuoi che ti porti all’ospedale? — chiese finalmente Damon.

Josh infilò la giacca. — No. Sto meglio. — Ne era convinto: sebbene avesse ancora freddo, i vestiti lo avrebbero riscaldato. Damon aggrottò la fronte, indicò la porta. Uscirono nell’anticamera fredda e presero l’ascensore con altre cinque o sei persone precipitando a ritmo vertiginoso verso la gravità dell’involucro esterno. Josh trasse un profondo respiro, si avviò barcollando leggermente, fermandosi in mezzo al vortice della folla in movimento.

Damon lo prese per il gomito, e lo guidò gentilmente verso una panchina lungo la parete del corridoio. Per lui fu un sollievo sedersi, riposare un momento e guardare la gente che passava. Non era al livello dell’ufficio di Damon, bensì su un livello verde. La musica che arrivava dal salone fluttuava verso di loro. Avrebbero dovuto continuare a scendere, e s’erano fermati. Un’idea di Damon. Sulla strada verso l’ospedale, pensò Josh. O solo in un posto dove riposare. Rimase seduto, riprendendo fiato.

— Un po’ di vertigine — confessò.

— Forse sarebbe meglio se tu tornassi all’ospedale almeno per un controllo. Non avrei dovuto insistere a portarti là.

— Non è stato tutto quel moto. — Josh si piegò, appoggiando la testa sulle mani, respirò lentamente, e alla fine si raddrizzò. — Damon, i nomi… tu conosci i nomi che ci sono nel mio fascicolo. Dove sono nato?

— Sy Cyteen.

— Il nome di mia madre… lo conosci?

Damon aggrottò la fronte. — No. Non l’hai detto. Parlavi soprattutto di una zia. Si chiamava Maevis.

Il viso della donna anziana si riaffacciò nella memoria di Josh, in una calda luce di familiarità. — La ricordo.

— Avevi dimenticato anche questo?

Il tic ricominciò. Josh si sforzò di ignorarlo, cercando disperatamente di essere normale. — Non posso sapere che cosa sia un ricordo e che cosa sia invece frutto dell’immaginazione o dei sogni. Prova ad affrontare qualcosa, quando non conosci le differenze e non sai distinguere.

— Il nome era Maevis.

— Sì. E vivevi in una fattoria.

Josh annuì, aggrappandosi alla visione improvvisa di una strada soleggiata di campagna, una staccionata malconcia… percorreva spesso quella strada, nei sogni, i piedi nudi nella polvere, una casa prefabbricata, una cupola scrostata… ce n’erano molte, un campo dopo l’altro, dorato nel sole. — Una piantagione. Molto più grande di una fattoria. Vivevo là… vivevo là, prima di andare alla scuola militare. È stata l’ultima volta che mi sono trovato su un pianeta… no?

— Non ne hai mai nominati altri.

Josh restò immobile un momento, aggrappandosi all’immagine, esaltato da quella cosa bella, calda, reale. Cercò di ritrovare i dettagli. La grandezza del sole nel cielo, il colore dei tramonti, la strada polverosa che conduceva al piccolo insediamento. Una donna grande e grossa, dolce, rassicurante, e un uomo magro e preoccupato, che inveiva sempre contro il clima. I frammenti andarono a posto. Casa sua. Quella era casa sua. La nostalgia lo divorava. — Damon — disse, facendosi coraggio… perché non c’era soltanto quel sogno piacevole. — Non hai motivo di mentirmi, vero? Eppure l’hai fatto… quando ti ho chiesto la verità, poco fa… a proposito dell’incubo. Perché?

Damon lo guardò, a disagio.

— Ho paura, Damon. Ho paura delle menzogne. Lo capisci? Ho paura di altre cose. — Balbettava in modo frenetico, irritato con se stesso, con i muscoli scossi da un tremito, la lingua che non riusciva ad articolare i concetti, e la mente che sembrava un colabrodo. — Dimmi i nomi, Damon. Hai letto il mio fascicolo. Lo so. Dimmi come sono arrivato a Pell.

— Quando c’è stato il disastro di Russell. Come tutti gli altri.

— No. Incomincia da Cyteen. Dimmi i nomi.

Damon appoggiò un braccio sullo schienale della panchina, e lo guardò aggrottando la fronte. — Il primo incarico che hai nominato era su una nave di nome Kite. Non so per quanti anni; forse è stata l’unica nave. Mi sembra di capire che ti avevano portato via dalla fattoria, per mandarti alla scuola militare, o come altro si chiama. Hai studiato da operatore ai sistemi di difesa. Immagino che la nave fosse molto piccola.

— Un ricognitore — mormorò Josh; e vide mentalmente l’interno del Kite, dove l’equipaggio doveva muoversi a fatica a gravità zero. Un lungo periodo nella stazione Fargone; tanto tempo là… e fuori, in servizio di pattuglia; fuori, in missione, a cercare tutto quello che potevano vedere. Kitha… Kitha e Lee… la piccola Kitha… per lei aveva provato un affetto particolare. E Ulf. Ritrovava i volti, lieto di rammentarli. Avevano lavorato fianco a fianco… in più di un senso, perché quelle navi piccole e velocissime non avevano cabine né intimità. Erano stati insieme… per anni. Anni.

Adesso erano morti. Era come perderli di nuovo.

Attento! aveva gridato Kitha; anche lui aveva urlato qualcosa, rendendosi conto che erano stati individuati: un errore di Ulf. Lui sedeva disperato davanti al quadro, e non poteva puntare nessun cannone per scongiurare il pericolo. Scacciò quel ricordo.

— Qualcuno mi salvò — disse.

— Fu una nave chiamata Tigris a colpirti — disse Damon. — Una corazzata. Ma fu un mercantile a puntare su di voi, dopo aver individuato il vostro segnale.

— Continua.

Damon rimase in silenzio per un attimo, come se riflettesse, e non volesse continuare. Josh divenne sempre più ansioso. — Tu fosti portato alla stazione — disse alla fine Damon. — A bordo di un mercantile… eri piuttosto grave, ma non avevi ferite. Lo choc e il freddo, credo… il tuo sistema di supporto vitale aveva cominciato a guastarsi, e per poco non eri morto.

Josh scrollò la testa. Era tutto avvolto nella nebbia, un ricordo freddo e lontano. Ricordava i moli, i dottori; gli interrogatori, le domande che non finivano mai.

La folla. La folla che urlava. I moli e una guardia che cadeva. Qualcuno aveva sparato freddamente in faccia all’uomo, mentre lui giaceva a terra stordito. Morti dovunque, travolti, calpestati, un’ondata di gente davanti a lui e uomini intorno a lui… truppe corazzate.

Hanno i fucili! aveva gridato qualcuno. E si era scatenato il panico.

— Ti hanno raccolto a Mariner — disse Damon. — Dopo la sua esplosione, quando stavano cercando i superstiti di Mariner.

— Elene…

— Ti hanno interrogato a Russell — disse sottovoce Damon, ostinatamente. — Erano alle prese con… non so che cosa. Avevano fretta e paura. Hanno usato le tecniche illegali… come l’Adattamento. Volevano informazioni da te, i programmi, i movimenti delle navi, tutto il resto. Ma tu non eri in grado di dirglielo. Eri su Russell quando è incominciata l’evacuazione, e sei stato trasferito a questa stazione. Ecco com’è andata.

Uno scuro cordone ombelicale, dalla stazione alla nave. Truppe e fucili.

— Su una nave da guerra — disse Josh.

— La Norway.

Josh sentì un nodo alla gola. La Mallory. La Mallory e la Norway. Graff. Ricordava. L’orgoglio… era morto là. Lui era diventato nulla. Chi era, che cos’era… alle truppe e all’equipaggio non importava. Non era neppure odio, ma amarezza e noia, una crudeltà nella quale lui non contava, era solo una cosa viva che sentiva il dolore, sentiva la vergogna… urlava quando l’orrore diventava insopportabile, e si rendeva conto che non importava a nessuno… e allora smetteva di urlare, o di sentire, o di lottare.

Vuoi tornare da loro? Sentiva persino il tono di voce della Mallory. Vuoi tornare? No, lui non voleva. Non voleva nulla, allora, non voleva sentire nulla.

Era questa l’origine degli incubi, le figure nere e confuse, che di notte lo svegliavano.

Annuì, lentamente.

— Lì sei entrato in detenzione — disse Damon. — Sei stato raccolto; portato prima su Russell; poi sulla Norway; e infine qui. Se credi che abbiamo inserito qualche falso ricordo nel tuo Adattamento… la risposta è no. Credimi. Josh?

Josh sudava. E lo sentiva. — Sto bene — disse, sebbene per un momento faticasse a respirare. Aveva lo stomaco contratto. Il senso di soffocamento, emotivo o fisico, gli faceva quell’effetto; adesso se ne rendeva conto. Cercò di dominarsi.

— Resta qui seduto — disse Damon; si alzò prima che lui potesse obiettare, ed entrò in uno dei negozi lungo il corridoio. Josh rimase seduto, obbediente, con la testa contro la parete, e finalmente il battito del suo cuore ritornò normale. Ricordò che era la prima volta che si trovava libero, da solo, se escludeva il tragitto dall’ufficio alla sua stanza nel vecchio ricovero. Gli dava la strana impressione di essere nudo. Si chiese se quelli che passavano di lì sapessero chi era. Quell’idea lo spaventò.

Ricorderà certe cose, gli aveva detto il dottore, quando avevano smesso di dargli le pillole. Ma potrà vederle con distacco. Ricordare certe cose.

Damon tornò, portando due tazze; sedette e gliene porse una. Era succo di frutta e qualcosa d’altro, con ghiaccio e zucchero. Gli calmò lo stomaco. — Arriverai tardi in ufficio — ricordò.

Damon alzò le spalle e non disse niente.

— Mi piacerebbe… — Josh balbettò, con un senso di vergogna. — Mi piacerebbe invitare a cena te ed Elene. Adesso ho un lavoro. Ho messo da parte qualche credito.

Damon lo studiò per un momento. — D’accordo. Lo chiederò a Elene.

Josh si sentì molto meglio. — Vorrei — aggiunse, — tornare a casa da solo.

— Come vuoi.

— Avevo bisogno di sapere… che cosa ricordo. Scusami.

— Sono preoccupato per te — disse Damon, e Josh si sentì profondamente commosso.

— Ma posso andare da solo.

— Per quando fissiamo la cena?

— Decidete tu ed Elene. Io non ho molti impegni.

Non era gran che, come spiritosaggine. Damon sorrise, finì di bere. Josh trangugiò l’ultimo sorso e si alzò. — Grazie.

— Parlerò con Elene. Domani ti farò sapere. Prendila con calma. E chiamami, se hai bisogno di qualcosa.

Josh annuì, si voltò e si avviò tra la gente che… poteva… riconoscere la sua faccia. Come quelli sui moli, nel suo ricordo. La folla. Non era la stessa cosa. Era un mondo diverso, e lui stava camminando su di esso, lungo la sua porzione di corridoio come se avesse scoperto di esserne il proprietario… si diresse verso l’ascensore insieme a coloro che erano nati su Pell, e rimase in attesa insieme a loro come se fosse una cosa normale.

L’ascensore arrivò. — Verde sette — disse Josh, quando la ressa, all’interno, lo isolò dal pulsante, e qualcuno, gentilmente, lo premette per lui. Spalla a spalla nell’ascensore. Si sentiva bene. L’ascensore lo portò al suo livello. Si fece largo, scusandosi, tra gli altri passeggeri che non avevano tempo di badare a lui, e si avviò per il corridoio, verso il ricovero.

— Talley — disse qualcuno, facendolo trasalire. Guardò sulla destra: erano guardie della sicurezza, in uniforme. Uno degli uomini gli rivolse un cenno amichevole; il suo cuore batté più forte, poi si calmò. Era una faccia vagamente familiare. — Adesso vive qui? — gli chiese la guardia.

— Sì — rispose lui, e poi, in tono di scusa: — Non ricordo bene… quello che è successo prima. Forse lei era là, quando sono arrivato.

— Sì — disse la guardia. — Sono contento di vedere che adesso sta bene.

Lo disse con convinzione. — Grazie — disse Josh; continuò per la sua strada, e le guardie per la loro. L’oscurità che si era addensata si diradò.

Aveva creduto che fossero tutti sogni. Ma non l’ho sognato, pensò. È accaduto davvero. Passò davanti al banco nell’ingresso del ricovero, lungo il corridoio interno, fino al numero 18. Usò la sua scheda. La porta si aprì, e Josh entrò nel suo rifugio, una stanza semplice, senza finestre… un privilegio raro, a giudicare da quello che aveva saputo dell’affollamento. Anche quello era merito di Damon.

Solitamente, lui accendeva il video, e usava quel rumore per riempire la stanza di voci, perché i sogni venivano a riempire i silenzi.

Ma questa volta sedette sul letto e rimase così, in silenzio, frugando tra i sogni e i ricordi come se fossero ferite parzialmente rimarginate. La Norway.

Signy Mallory.

Mallory.


PELL: MOLO BIANCO: UFFICI DELLA SOCIETÀ LUKAS; ore 1830; ore 0630 ALTERGIORNO: ALTERALBA

Non c’erano complicazioni. Jon rimase nel suo ufficio, il più interno di tutti, ricevette le solite chiamate, esaminò le pratiche e i rapporti dei magazzini, mentre una parte della sua mente era tormentata dal pensiero di che cosa avrebbe dovuto fare, se fosse accaduto il peggio.

Restò in ufficio più a lungo del solito, dopo che le luci si furono abbassate sui moli, e dopo che quasi tutto il personale del primo turno se ne fu andato al termine dell’attività del primogiorno… tranne pochi impiegati, nell’altro ufficio, per rispondere alle chiamate e mandare avanti il lavoro fino all’arrivo del personale dell’altergiorno. La Swan’s Eye partì indisturbata alle 14.46; l’Annie e i Kulin partirono con i documenti di Vittorio alle 17.03, senza altre formalità oltre alle solite richieste sui piani di volo, per la milizia. Jon Lukas respirò con maggiore tranquillità.

E quando l’Annie fu ormai lontana dalla stazione, al di là di ogni ragionevole possibilità di protesta, prese la giacca, chiuse l’ufficio e si avviò verso casa.


Alla porta usò la sua scheda, perché anche il minimo dettaglio risultasse in regola, per il computer… trovò Jessad e Hale seduti uno di fronte all’altro, in silenzio, nel suo soggiorno. Era pronto il caffè, un aroma invitante dopo la tensione del pomeriggio. Si lasciò cadere sulla poltrona rimasta libera, prendendo possesso di casa sua.

— C’è un po’ di caffè? — disse rivolto a Bran Hale. Hale aggrottò la fronte e si alzò per portarglielo. Poi, a Jessad: — È stato un pomeriggio noioso?

— Sì — disse sottovoce Jessad. — Ma il signor Hale ha fatto del suo meglio.

— Avete avuto difficoltà per arrivare qui?

— Nessuna — disse Hale, dalla cucina. Portò il caffè, e Jon lo sorseggiò e si accorse che Hale stava aspettando.

Doveva mandarlo via… e restare solo con Jessad. Non era una prospettiva piacevole. — Le sono grato della sua discrezione — disse a Hale. Poi, cautamente: — Come ha capito, si sta preparando qualcosa. Ha molto da guadagnarci, non solo in termini finanziari. Ma cerchi di evitare che Lee Quale chiacchieri troppo. Le farò sapere di più in seguito. Vittorio è partito. Dayin è… perduto. Ho bisogno di un collaboratore fidato e intelligente. Mi capisce, Bran?

Hale annuì.

— Ne riparleremo domani — disse Jon, sottovoce. — Grazie.

— È tutto a posto qui? — chiese Hale.

— Se ci sarà qualche problema — disse Jon, — ci penserà lei. Chiaro?

Hale annuì e uscì, con discrezione. Jon si assestò sulla poltrona, più sicuro di sé, e guardò il suo ospite che gli stava di fronte, impassibile.

— Immagino che si fidi di quell’uomo — disse Jessad, — e che intenda coinvolgerlo in questo affare. Scelga con prudenza i suoi alleati, signor Lukas.

— Conosco i miei uomini. — Jon Lukas bevve un sorso di caffè bollente. — E non conosco lei, signor Jessad o come si chiama. Non posso consentirle di usare i documenti di mio figlio. Ho trovato una copertura diversa… per lui. Una visita alle miniere dei Lukas; una nave è partita con i suoi documenti a bordo.

Si aspettava una reazione indignata. L’altro si limitò a inarcare educatamente le sopracciglia. — Non ho niente da obiettare. Ma ho bisogno di documenti, e non credo che sia prudente espormi al rischio di un interrogatorio per procurarmeli.

— I documenti si possono ottenere. Quello è il problema minore.

— E il maggiore, signor Lukas?

— Voglio parecchie risposte. Dov’è Dayin?

— Al sicuro, oltre le linee. Non c’è da preoccuparsi. Sono stato mandato qui in base alla supposizione che la sua offerta sia valida. Se non lo è, io morirò… e spero che non sarà così.

— Che cosa può offrirmi?

— Pell — disse sottovoce Jessad. — Pell, signor Lukas.

— E siete disposti a consegnarmela?

Jessad scrollò il capo. — Sarà lei a consegnarla a noi, signor Lukas. Questa è la proposta. La guiderò io. Io sono l’esperto… e lei conosce la stazione. Mi informerà sulla situazione locale.

— E io che garanzie ho?

— La mia approvazione.

— Il suo grado?

Jessad alzò le spalle. — Non è ufficiale. Voglio i dettagli. Tutto, dai programmi delle spedizioni allo spiegamento delle vostre navi agli atti del consiglio… fino all’ultimo particolare della gestione dei suoi uffici.

— E intende continuare a vivere nel mio appartamento?

— Non vedo il motivo di uscirne. Forse ne risentirà la sua normale attività sociale. Ma c’è un luogo più sicuro? Questo Bran Hale… è un uomo discreto?

— Lavorava per me sulla Porta dell’Infinito. È stato silurato per aver sostenuto le mie direttive contro i Konstantin. Mi è devoto.

— È fidato?

— Hale? Sì. Ho qualche dubbio su qualcuno dei suoi uomini… almeno per quanto riguarda le loro capacità di giudizio.

— Allora deve essere prudente.

— Lo sono.

Jessad annuì lentamente. — Però mi procuri i documenti, signor Lukas. Mi sentirò più sicuro, quando li avrò.

— Che ne sarà di mio figlio?

— La preoccupa? Credevo che tra voi non ci fosse molto affetto.

— Le ho fatto una domanda.

— C’è una nave in attesa, piuttosto lontano… ora è sotto il nostro controllo ed è registrata a nome della famiglia Olvig, ma in pratica è militarizzata. Gli Olvig sono tutti prigionieri… come quasi tutti quelli della Swan’s Eye. La nave degli Olvig, l’Hammer, ci darà il preavviso. Non c’è molto tempo, signor Lukas. Per prima cosa… vuole mostrarmi uno schizzo della stazione?

L’esperto sono io. Esperto in queste cose: un uomo appositamente addestrato. Un pensiero terribile, agghiacciante, colpì Jon Lukas: che Viking fosse caduta dall’interno, e Mariner… fosse stata fatta esplodere. Sabotaggio. Qualcuno così pazzo da distruggere la stazione in cui si trovava… o forse dopo averla lasciata.

Fissò il volto anonimo di Jessad, gli occhi implacabili, e comprese che su Mariner c’era stato qualcuno come lui.

Poi era apparsa la Flotta, e la stazione era stata deliberatamente distrutta.


PELL: ZONA Q: ARANCIONE NOVE; ore 1900

C’era ancora gente in fila, là fuori, una coda che si estendeva lungo il corridoio del nove, fino al molo. Vassily Kressich si prese la testa fra le mani, mentre qualcuno veniva trascinato via e affidato alle cure sbrigative di uno degli uomini di Coledy, una donna che si era messa a gridare e che aveva denunciato un furto facendo il nome di uno della banda di Coledy. Gli faceva male la testa, la schiena gli doleva. Aborriva quelle sedute, e tuttavia doveva subirle, ogni cinque giorni. Almeno, era una valvola di sfogo, l’illusione che il consigliere del settore Q ascoltasse i problemi, prendesse nota delle lagnanze, cercasse di fare qualcosa.

Circa la denuncia della donna… non c’era rimedio. Conosceva l’uomo che lei aveva nominato. Probabilmente era vero. Avrebbe chiesto a Nino Coledy di tenerlo buono, di risparmiare il peggio alla donna. Era stata pazza a protestare. Un’isteria bizzarra, forse, una soglia che molti raggiungevano, lì, quando non rimaneva altro che la rabbia. Portava all’autodistruzione.

Un uomo si fece avanti. Redding. Toccava a lui. Kressich si fece coraggio, si appoggiò alla spalliera della sedia, preparandosi all’incontro settimanale. — Stiamo ancora tentando — disse.

— Ho pagato — disse Redding. — Ho pagato parecchio per avere il mio lasciapassare.

— Questo non garantisce che sia valido per la Porta dell’Infinito, signor Redding. La stazione prende semplicemente quelli che bastano a coprire le attuali necessità. Presenti un’altra domanda, e io l’inoltrerò. Prima o poi ci sarà un’occasione…

— Io voglio andarmene!

James! — gridò atterrito Kressich.

L’uomo della sicurezza arrivò subito. Redding si guardò intorno furiosamente e, con grande orrore di Kressich, si portò una mano alla cintura. Una corta lama gli lampeggiò nel pugno, e non era per l’uomo della sicurezza… Redding voltò le spalle a James… ma per lui.

Kressich si buttò all’indietro. Des James si avventò alle spalle di Redding. Redding finì bocconi sulla scrivania, facendo volare i fogli tutto intorno, sferrando colpi all’impazzata mentre Kressich balzava dalla sedia e si rifugiava contro la parete. All’esterno si udirono grida di panico e altra gente si precipitò nella stanza.

Kressich si spostò, mentre la lotta continuava, più vicina. Redding urtò contro la parete. Nino Coledy era sopraggiunto insieme agli altri. Alcuni buttarono Redding sul pavimento, mentre altri respinsero l’ondata di curiosi e di postulanti disperati. Tutti sventolavano moduli che speravano di consegnare. — È il mio turno! — stava urlando una donna che brandiva un foglio e cercava di avvicinarsi alla scrivania. La spinsero fuori insieme agli altri.

Redding era sul pavimento, e tre uomini lo tenevano bloccato. Un quarto gli sferrò un calcio alla testa, e quello si calmò.

Coledy aveva preso il coltello: lo esaminò attentamente e se lo mise in tasca mentre un sorriso si disegnava su quella giovane faccia sfregiata.

— Niente polizia dalla stazione, per lui — disse James.

— È ferito, signor Kressich? — chiese Coledy.

— No. — Kressich non badò ai lividi, e tornò alla scrivania. Fuori stavano ancora gridando. Accostò la sedia e sedette; gli tremavano le gambe. — Ha detto di aver pagato — riferì. Sapeva bene quello che succedeva, sapeva che i moduli arrivavano da Coledy e venivano concessi a pagamento. — Ha brutti precedenti, presso la stazione, e io non posso procurargli un lasciapassare. Che cosa gli ha venduto?

Coledy spostò lentamente lo sguardo da Kressich all’uomo sul pavimento, e poi di nuovo a Kressich. — Be’, adesso ha brutti precedenti anche con noi, e questo è peggio. Portatelo fuori. Dall’altra parte.

— Non voglio ricevere più nessuno — gemette Kressich, prendendosi la testa fra le mani. — Mandateli via.

Coledy uscì nel corridoio. — Fuori! — Kressich lo sentì gridare tra le esclamazioni di protesta e i singhiozzi. Alcuni degli uomini di Coledy cominciarono a far sfollare i postulanti… alcuni erano armati di sbarre metalliche. La folla arretrò e Coledy rientrò nell’ufficio. Stavano portando via Redding dall’altra porta, scuotendolo con violenza per farlo camminare, perché cominciava a rinvenire. Il sangue gli colava sulla faccia da una ferita alla tempia.

Lo uccideranno, pensò Kressich. Da qualche parte, nelle ore di minor traffico, sarebbe stato ritrovato il suo cadavere. Sicuramente Redding lo sapeva. Stava cercando ancora di lottare: ma lo trascinarono fuori e la porta si chiuse.

— Ripulisci — disse Coledy a uno di quelli che erano rimasti, e l’uomo cercò qualcosa per pulire il pavimento. Coledy sedette di nuovo sul bordo della scrivania.

Kressich si chinò, prese una delle bottiglie di vino che Coledy gli aveva fornito. Bicchieri. Ne riempì due, sorseggiò il vino della Porta dell’Infinito e cercò di riscaldarsi le membra tremanti, di soffocare i dolori al petto. — Sono troppo vecchio per queste cose — gemette.

— Non deve preoccuparsi per Redding — disse Coledy, prendendo l’altro bicchiere.

— Non può crearmi situazioni simili — scattò Kressich. — So quel che sta combinando. Ma non venda documenti, quando non c’è nessuna possibilità che io possa ottenerli.

Coledy sogghignò: un’espressione estremamente spiacevole. — Redding se la sarebbe cercata, prima o poi. Così ha pagato il privilegio.

— Non voglio saperlo — disse Kressich in tono acido. Trangugiò un’abbondante sorsata di vino. — Non mi riferisca i particolari.

— Sarà meglio che la portiamo nel suo alloggio, signor Kressich. Veglieremo su di lei. Fino a quando la faccenda sarà sistemata.

Finì di bere. Uno dei giovani del gruppo di Coledy aveva raccolto le carte che s’erano sparpagliate sul pavimento; le posò sulla scrivania. Kressich si alzò, con le ginocchia ancora deboli, e distolse lo sguardo dal sangue che macchiava la stuoia.

Coledy e quattro dei suoi uomini lo scortarono, passando dalla stessa porta da cui erano usciti Redding e le sue guardie. Raggiunsero il settore dove lui aveva il suo piccolo appartamento; usò la chiave manuale… il computer li aveva isolati, e lì funzionavano solo i comandi manuali.

— Non ho bisogno della vostra compagnia — disse Kressich, seccamente. Coledy gli rivolse un sorriso ironico e s’inchinò.

— Verrò a parlare più tardi — gli disse.

Kressich entrò, chiuse la porta con la chiave manuale, e si fermò, oppresso dalla nausea. Alla fine si lasciò cadere sulla sedia accanto alla porta, cercando di calmarsi.

Nella zona Q la situazione era quasi incontrollabile. I lasciapassare che per alcuni rappresentavano la speranza di uscire dalla quarantena accrescevano la disperazione di coloro che venivano scartati. Restavano i più duri, e la tensione saliva. Le bande regnavano incontrastate. Nessuno era al sicuro, se non apparteneva a una delle organizzazioni… uomo o donna, nessuno poteva camminare indisturbato per i corridoi, se non si era garantito una protezione… e la protezione veniva venduta, in cambio di viveri o di favori, qualsiasi altra merce di scambio. Entravano i medicinali e le droghe, e il vino; i metalli preziosi, tutti gli oggetti di valore uscivano dalla zona Q e finivano nella stazione. Le guardie alle barriere guadagnavano parecchio.

E Coledy vendeva le richieste per ottenere i lasciapassare per uscire dalla zona Q, per trasferirsi sulla Porta dell’Infinito. Vendeva persino il diritto di mettersi in coda per chiedere giustizia. E tutto quello che Coledy e la sua polizia consideravano redditizio. Le bande che vendevano le protezioni avevano l’autorizzazione di Coledy.

C’era solo la speranza sempre più esile della Porta dell’Infinito, e quelli che venivano respinti diventavano isterici, sospettando che negli archivi della stazione fossero stati registrati dati fasulli sul loro conto, macchie nere che li avrebbero fatti restare per sempre in quarantena. Il numero dei suicidi saliva; certuni si abbandonavano a ogni sorta di eccessi nei corridoi dei dormitori, diventati sentine dei peggiori vizi. Alcuni finivano per commettere i reati di cui temevano d’essere stati accusati; e altri diventavano le loro vittime.

— Laggiù li ammazzano! — aveva gridato un giovane che era stato respinto. — Non arrivano alla Porta dell’Infinito; li conducono fuori di qui e li ammazzano, ecco. Non accettano gli operai, non accettano i giovani; portano via i vecchi e i bambini, e li tolgono di mezzo.

— Zitto! — avevano urlato altri, e il giovane era stato picchiato a sangue da altri tre che stavano in fila, prima che la polizia di Coledy riuscisse a tirarlo fuori; ma altri piangevano, e continuavano a fare la coda, stringendo fra le mani i moduli delle richieste.

Lui non poteva chiedere di andarsene. Temeva che Coledy venisse a saperlo, se avesse inoltrato una domanda. Le guardie trafficavano con Coledy, e lui aveva troppa paura. Aveva il vino che arrivava per mezzo del mercato nero, aveva la sicurezza, aveva intorno a sé le guardie di Coledy, e se succedeva qualcosa di male a qualcuno nella zona Q, questi non era certo Vassily Kressich… almeno fino a quando Coledy non l’avesse sospettato di voler rompere il sodalizio.

Cercava di convincersi che faceva del bene. Finché lui restava nella zona Q, e teneva le sue udienze ogni cinque giorni, finché era almeno in condizione di opporsi agli eccessi peggiori, Coledy non avrebbe superato certi limiti. Gli uomini di Coledy ci avrebbero pensato due volte prima di sollevare questioni. Lui manteneva una parvenza d’ordine nella zona Q. Salvava qualche vita. Sapeva fin troppo bene ciò che la zona Q sarebbe diventata senza la sua influenza.

E aveva accesso all’esterno… aveva quella speranza, sempre; se la situazione fosse diventata davvero insostenibile, se fosse venuta la crisi inevitabile… lui avrebbe potuto chiedere asilo. Avrebbe potuto uscire. Non l’avrebbero rimandato li a morire. Non l’avrebbero fatto.

Finalmente si alzò, cercò la bottiglia di vino che teneva in cucina, si versò da bere, tentando di non pensare a quello che era accaduto, a quello che succedeva, a quello che sarebbe accaduto ancora.

Prima dell’indomani mattina, Redding sarebbe morto. Non poteva compiangerlo, vedeva soltanto gli occhi folli dell’uomo che lo fissavano mentre si avventava, sparpagliando le carte, cercando di colpirlo con il coltello… lui, non le guardie di Coledy.

Come se lui fosse il nemico.

Kressich rabbrividì e bevve il vino.


PELL: RESIDENZA DEGLI INDIGENI; ore 2300

Cambio degli operai. Satin stirò i muscoli indolenziti mentre entrava nel settore fiocamente illuminato; si tolse la maschera e si lavò meticolosamente nell’acqua fresca del bacino. Denteazzurro (che non si allontanava mai troppo da lei, sia di giorno che di notte) la seguì e si accoccolò sulla stuoia, le posò la mano sulla spalla, e si appoggiò dolcemente a lei. Erano stanchi, molto stanchi, perché quel giorno c’era stato un grosso carico da trasferire, e anche se erano le grandi macchine a sbrigare quasi tutto il lavoro, erano i muscoli degli indigeni che caricavano il materiale sulle macchine, mentre gli umani non facevano altro che gridare. Satin prese l’altra mano di Denteazzurro, girò il palmo verso l’alto, sfiorò con le labbra i punti doloranti, si sporse e gli lambì la guancia, dove la maschera aveva irruvidito il pelame.

— Lukas-uomini — ringhiò Denteazzurro. Teneva gli occhi fissi davanti a sé e aveva un’espressione incollerita. Quel giorno avevano lavorato per i Lukas-uomini: alcuni di loro erano gli stessi che avevano causato guai sulla Porta dell’Infinito, alla base. Satin aveva le mani doloranti e le spalle indolenzite, ma si preoccupava per Denteazzurro, con quell’espressione negli occhi. Non era facile far infuriare veramente Denteazzurro. Di solito era molto riflessivo, e mentre pensava non aveva tempo di arrabbiarsi, ma questa volta Satin aveva l’impressione che non avesse separato i due momenti; e se avesse perso la calma avrebbe avuto la peggio, in mezzo agli umani, con i Lukas-uomini intorno. Gli accarezzò il pelame ruvido, fino a quando lui sembrò calmarsi.

— Mangia — gli disse. — Vieni a mangiare.

Denteazzurro girò la testa verso di lei, le passò le labbra sulla guancia, le lambì il pelame, lisciandolo, e la cinse con un braccio. — Vengo — disse; si alzarono e si avviarono lungo la galleria di metallo, fino alla grande stanza dove c’era sempre del cibo pronto ad attenderli. I giovani addetti al servizio distribuivano a ognuno una ciotola abbondante, ed essi si ritirarono a mangiare in un angolo tranquillo. Finalmente, Denteazzurro ritornò di buon umore, ora che aveva la pancia piena, e si leccò le dita con aria estatica e soddisfatta. Arrivò un altro maschio, che rivolse a loro un sogghigno amichevole, finì una ciotola di zuppa di cereali e tornò a prendere una seconda razione.

Avevano simpatia per Colosso, arrivato anche lui dalla Porta dell’Infinito non molto tempo prima, dalla riva del loro stesso fiume, anche se da un altro campo, oltre le colline. Quando Colosso ritornò, altri si raccolsero insieme a loro, creando un’atmosfera d’intimità nell’angolo dove erano seduti. Erano quasi tutti lavoratori stagionali, che venivano su Lassù e poi ritornavano sulla Porta dell’Infinito; erano manovali e non capivano molto di macchine. Questi si comportavano con calore amichevole nei loro confronti. Poi c’erano altri hisa, al di fuori di quella cerchia di amici, i lavoratori permanenti, che sedevano nell’angolo lontano e guardavano nel vuoto, come se la lunga permanenza fra gli umani li avesse cambiati. Molti erano vecchi. Conoscevano i misteri delle macchine, si aggiravano per i tunnel profondi e sapevano i segreti di quei luoghi bui. Stavano sempre in disparte.

— Parlate di Bennett — chiese Colosso, perché anche lui, come gli altri di passaggio, da qualunque campo venissero, era passato dall’accampamento degli umani, e aveva conosciuto Bennett Jacint; e c’era stato grande cordoglio, a Lassù, quando era arrivata la notizia della morte di Bennett.

— Parlerò io — disse Satin, perché a lei, l’ultima arrivata, toccava raccontare quella storia, fra tutte quelle che gli hisa raccontavano in quel luogo, e lei si accalorava nel narrarla. Ogni sera, da quando erano arrivati, non si era parlato dei piccoli fatti degli hisa, le cui vite erano sempre uguali, ma delle vicende dei Konstantin, di Emilio e della sua amica Miliko, che avevano fatto sorridere di nuovo gli hisa… e di Bennett che era morto, l’amico degli hisa. Tra tutti quelli che erano venuti a Lassù a raccontare quella storia, non c’era nessuno che poteva dire di averla vista con i propri occhi; e perciò la pregavano continuamente di ripeterla.

— Lui andò al mulino — raccontò Satin, quando arrivò alla fase più trise della storia — e disse agli hisa che erano là di scappare, che ci avrebbero pensato gli umani, gli umani avrebbero lavorato perché il fiume non si prendesse gli hisa. E lavorava con le sue mani, sempre, sempre, Bennett-uomo lavorava con le sue mani, non gridava mai, no, lui voleva bene agli hisa. Gli avevamo dato un nome… io glielo avevo dato, perché lui mi aveva dato il mio nome umano e il mio buon spirito. Io lo chiamavo Venuto-dalla-luce.

Vi fu un mormorio, di apprezzamento e non di critica, sebbene fosse una parola degli spiriti, usata per indicare il Sole stesso. Gli hisa incrociarono le braccia e rabbrividirono, come sempre quando lei raccontava.

— E gli hisa non abbandonarono Bennett-uomo, no, no. Lavorarono con lui per salvare il mulino. Il vecchio fiume era in collera con gli umani e con gli hisa, sempre in collera, ma soprattutto perché i Lukas-uomini avevano spogliato le sue rive e preso la sua acqua. E noi avvertimmo Bennett-uomo che non doveva fidarsi del vecchio fiume, e lui ci ascoltò e tornò indietro; ma noi hisa lavorammo perché il mulino non andasse perduto e Bennett non si rattristasse. Il vecchio fiume salì e salì, e portò via le palizzate, e noi a gridare presto, presto, venite via!, agli hisa che lavoravano. Io, Satin, lavoravo là, io ho visto. — Si batté la mano sul petto e toccò Denteazzurro, abbellendo il suo racconto. — Denteazzurro e Satin hanno visto. Corremmo per aiutare gli hisa e Bennett e i buoni uomini amici suoi; tutti corremmo per aiutarli. Ma il vecchio fiume li prese, e noi arrivammo troppo tardi, troppo tardi. Il mulino si sfasciò, ssst! E Bennett tese le braccia verso gli hisa presi dal vecchio fiume. E il vecchio fiume prese anche lui, con gli uomini che l’aiutavano. Noi gridammo e piangemmo e pregammo il vecchio fiume di renderci Bennett; ma lui lo prese lo stesso. Restituì tutti gli hisa, ma si prese Bennett-uomo e i suoi amici. L’abbiamo ancora negli occhi. Ed egli morì. Morì mentre tendeva le braccia agli hisa, il suo buon cuore lo fece morire, e il vecchio fiume cattivo se lo prese. Gli umani lo trovarono e lo seppellirono. E io piantai i bastoni-spirito intorno a lui e gli portai i doni. E siamo venuti qui, io e il mio amico Denteazzurro, perché era Tempo. Sono venuta in pellegrinaggio qui, dov’è la casa di Bennett.

Vi fu un mormorio di approvazione, un movimento ondeggiante tra coloro che li circondavano. Molti occhi brillavano di lacrime.

Ed era accaduta una cosa strana e impressionante, perché alcuni degli hisa di Lassù si erano portati intorno al cerchio, e anche loro si dondolavano e ascoltavano.

— Lui — disse uno di costoro, sorprendendo tutti — lui voleva bene agli hisa.

— È vero — disse Satin. Un nodo le strinse la gola, di fronte a quell’ammissione da parte di uno degli estranei che avevano ascoltato la sua angoscia. Cercò a tentoni fra i sacchetti, i suoi doni degli spiriti. Estrasse il pezzo di stoffa colorata, lo mostrò, tenendolo delicatamente fra le dita. — Questo è il mio dono-spirito, il nome che mi ha dato lui!

Altri ondeggiamenti, altri mormorii di approvazione.

— Qual è il tuo nome, narratrice?

Lei si strinse al petto il dono-spirito fissando lo sconosciuto che aveva parlato, e trasse un profondo respiro. Narratrice. Si sentiva accapponare la pelle, per quell’onore che le faceva il Vecchio. — Io sono Il-Cielo-la-vede. Gli umani mi chiamano Satin. — Tese una mano carezzevole verso Denteazzurro.

— Io sono Sole-che-splende-tra-le-nubi — disse Denteazzurro, — amico di Il-Cielo-la-vede.

Lo sconosciuto si dondolò; ormai tutti gli altri hisa si erano avvicinati, tra mormorii di meraviglia, ma sempre mantenendosi a rispettosa distanza da lei.

— Ti abbiamo sentito parlare di questo Venuto-dalla-luce, questo Bennett-uomo. Questo umano era buono, buono, e hai fatto bene a portargli doni. Ti diamo il benvenuto e rendiamo onore al tuo pellegrinaggio, Il-Cielo-la-vede. Le tue parole ci riscaldano, accendono i nostri occhi. Abbiamo atteso molto tempo.

Satin si inchinò ondeggiando, in segno di rispetto per l’età del suo interlocutore e per tanta cortesia. Gli altri mormorarono di nuovo. — Questo è il Vecchio — le bisbigliò Colosso. — A noi non parla.

Il Vecchio sputò, si lisciò sdegnosamente il pelame. — La narratrice dice cose giuste. Segna un Tempo con il suo viaggio. Cammina con gli occhi aperti.

— Ah — mormorarono gli altri, sbalorditi, e Satin ascoltò, turbata.

— Noi lodiamo Bennett Jacint — disse il Vecchio. — Ci conforta, sentire queste cose.

— Bennett-uomo era il nostro umano — disse fieramente Colosso. — L’umano della Porta dell’Infinito; è stato lui a mandarmi qui.

— Ci voleva bene — disse un altro. E un altro ancora: — Tutti gli volevano bene.

— Ci difendeva dai Lukas — disse Satin. — E Konstantin-uomo è suo amico; mi ha mandata qui per la mia primavera, per il pellegrinaggio; ci siamo incontrati sulla tomba di Bennett. Sono venuta per il grande Sole, per vedere la sua faccia, per vedere Lassù. Ma, Vecchio, noi vediamo soltanto macchine, non il grande splendore. Lavoriamo con fatica. Non abbiamo i fiori e le colline, io e il mio amico, no, ma speriamo ancora. Bennett diceva che qui tutto era bello e buono; diceva che il grande Sole è qui vicino. Noi aspettiamo di vederlo, Vecchio. Abbiamo chiesto delle immagini di Lassù, e nessuno le ha viste. Dicono che gli umani ce le nascondono. Ma aspetteremo, Vecchio.

Vi fu un lungo silenzio, mentre il Vecchio continuava a dondolarsi. Alla fine si fermò e alzò una mano ossuta. — Il-Cielo-la-vede, le cose che tu cerchi sono qui. Noi le visitiamo. Le immagini stanno nel luogo dove si radunano i Vecchi degli umani, e le abbiamo viste. Il Sole veglia su questo luogo, sì, è vero. Il tuo Bennett-uomo non ti aveva ingannata. Ma qui ci sono cose che ti farebbero rabbrividire, narratrice. Noi non parliamo di questi segreti. Come potrebbero capirli gli hisa della Porta dell’Infinito? Come potrebbero accettarli? I loro occhi non hanno visto. Ma questo Bennett-uomo ha acceso i tuoi occhi e ti ha dato un nome. Ah! Noi abbiamo atteso a lungo, molto a lungo, e ci riscalda il cuore darti il benvenuto.

«Sst! Lassù non è quello che sembra. Ricordiamo le immagini della pianura. Io le ho viste. Io ho dormito vicino a loro e ho sognato. Ma le immagini di Lassù… non sono per i nostri sogni. Tu ci hai parlato di Bennett Jacint, e noi ti parliamo, narratrice, di uno di noi che non hai visto: gli umani la chiamano Lily. Il suo nome è Il-Sole-sorride-su-di-lei, e lei è la Grande Vecchia, ha molte più stagioni di me. Le immagini che abbiamo dato agli umani sono diventate immagini umane, e vicino a loro un’umana sogna nei luoghi segreti di Lassù, in un luogo pieno di luce. Il Grande Sole viene a visitarla… lei non si muove mai, no, perché il sogno è bello. Giace nella luce, e il Sole riscalda i suoi occhi; le stelle danzano per lei; lei vede tutto Lassù sulle sue pareti, forse ci osserva in questo momento. Lei è l’immagine che veglia su di noi. La Grande Vecchia si prende cura di lei, e l’ama, perché è sacra. Il suo amore è buono, e lei sogna tutti noi, tutto Lassù, e il suo viso sorride sempre al grande Sole. Lei è nostra. Noi la chiamiamo Il-Sole-è-suo-amico.

Ah — mormorarono i presenti, sbalorditi: una compagna del grande Sole! — Ah! — mormorò Satin insieme agli altri, rabbrividì e si tese verso il Vecchio. — Vedremo questa buona umana?

— No — disse laconicamente il Vecchio. — Solo Lily va da lei. E io. Una volta. Una volta l’ho vista.

Satin si ritrasse, profondamente delusa.

— Forse quell’umana non esiste — disse Denteazzurro.

Il Vecchio piegò gli orecchi all’indietro, e tutti gli altri trattennero il respiro.

— È un Tempo — disse Satin. — E il mio viaggio. Veniamo da molto lontano, Vecchio, e non possiamo vedere le immagini e non possiamo vedere la sognatrice; e non abbiamo ancora trovato la faccia del Sole.

Il Vecchio contrasse e distese le labbra, più volte. — Vieni. Te lo mostreremo. Vieni questa notte; la notte successiva toccherà agli altri… se non hai paura. Ti mostreremo un luogo. Non vi sono umani, per un breve tempo. Un’ora, secondo il computo degli umani. Io so calcolarla. Verrai?

Denteazzurro non disse nulla. — Vieni — disse Satin, e sentì la sua riluttanza, quando lo tirò per il braccio. Gli altri non sarebbero venuti. Non c’era nessuno che avesse tanto ardire… o tanta fiducia nel Vecchio sconosciuto.

Il Vecchio si alzò, e con lui si alzarono due suoi compagni. Satin fece altrettanto, e Denteazzurro l’imitò, più lentamente.

— Verrò anch’io — disse Colosso, ma nessuno dei suoi compagni si associò.

Il Vecchio li squadrò con una strana ironia, e indicò loro di seguirlo nelle gallerie, nelle vie interne, dove gli hisa potevano muoversi senza le maschere, nei luoghi bui dove bisognava arrampicarsi sul metallo fragile e persino gli hisa dovevano chinarsi per camminare.

— È pazzo — sibilò Denteazzurro all’orecchio di Satin, ansimando. — E noi siamo pazzi a seguire questo Vecchio squilibrato. Quelli che sono qui da tanto tempo sono tutti strani.

Satin non disse nulla; ascoltava solo il proprio desiderio. Aveva paura, ma seguiva il Vecchio, e Denteazzurro era dietro di lei. Colosso veniva per ultimo. E ansimavano perché dovevano percorrere lunghi tratti stando piegati, o arrampicandosi. Il Vecchio e i suoi due compagni avevano una forza inaudita come se vi fossero abituati e sapessero dove stavano andando.

O forse — quel pensiero raggelò Satin — era un capriccio bizzarro del Vecchio, portarli nelle vie buie, dove avrebbero potuto perdersi e morire. Forse lo faceva per dare una lezione agli altri.

E proprio mentre si convinceva della fondatezza di quella paura, il Vecchio e i suoi compagni si fermarono e si misero le maschere: stavano per entrare in una zona dove c’era l’aria degli umani. Satin si applicò la maschera sulla faccia, e Denteazzurro e Colosso fecero altrettanto, appena in tempo, perché la porta dietro di loro si chiuse mentre quella davanti a loro si aprì su un corridoio luminoso, con il pavimento bianco e il verde delle piante, e qua e là c’erano alcuni umani che si muovevano indaffarati in quello spazio vasto e solitario, così diverso dai moli. Lì c’era pulizia, e luce, e poi un buio immenso, dove il Vecchio intendeva condurli.

Satin sentì la mano di Denteazzurro stringere la sua, e Colosso si avvicinò a tutti e due, mentre avanzavano in un’oscurità ancora più grande della zona luminosa che avevano lasciato, e là non c’erano pareti, ma soltanto il cielo.

Le stelle giravano intorno a loro, abbagliandoli con il loro moto, stelle magiche che cambiavano posizione e splendevano più nitide e luminose di quanto apparissero dalla Porta dell’Infinito. Satin lasciò la mano di Denteazzurro e avanzò, reverente e sbalordita, guardandosi intorno.

E all’improvviso scaturì la luce, un grande disco fiammeggiante screziato di scuro, con enormi lingue di fuoco.

— Il Sole — intonò il Vecchio.

Non c’era fulgore, non c’era l’azzurro, solo la tenebra e le stelle e quel terribile fuoco così vicino. Satin tremava.

— È buio — obiettò Denteazzurro. — Come può esserci la notte dove c’è il Sole?

— Tutte le stelle appartengono alla famiglia del grande Sole — disse il Vecchio. — Questa è una verità. Il fulgore è un’illusione. Questa è una verità. Il grande Sole brilla nell’oscurità, ed è grande, così grande che noi siamo polvere al suo confronto. È terribile, e i suoi fuochi spaventano la tenebra. Questa è una verità. Il-Cielo-la-vede, questo è il vero cielo: questo è il tuo nome. Le stelle sono come il grande Sole, ma lontane, lontane da noi. Questo abbiamo appreso. Guarda! Le pareti ci mostrano Lassù, e le grandi navi, l’esterno dei moli. E quella è la Porta dell’Infinito. Ora la stiamo vedendo.

— Dov’è il campo degli umani? — chiese Colosso. — Dov’è il vecchio fiume?

— Il mondo è rotondo come un uovo, e in parte non è rivolto verso il Sole; così, da quella parte è notte. Forse, se guardate attentamente, potete vedere il vecchio fiume. A me è parso di vederlo. Ma non vedrete mai il campo degli umani. È troppo piccolo sulla faccia della Porta dell’Infinito.

Colosso si strinse le braccia e rabbrividì.

Ma Satin si avviò fra le tavole, avanzò nel luogo luminoso dove il grande Sole splendeva nella sua verità, vincendo la tenebra… era terribile, arancione come il fuoco, e riempiva tutto con il suo terrore.

Pensò alla sognatrice, chiamata Il-Sole-è-suo-amico, i cui occhi erano sempre riscaldati da quella vista, e si sentì rizzare il pelo sulla nuca.

Spalancò le braccia e si voltò, abbracciando il Sole e le sue sorelle lontane, e rimase senza fiato, perché era arrivata al luogo che era la meta del suo pellegrinaggio. Si riempì gli occhi di quella visione, mentre il Sole la guardava: e non sarebbe più stata la stessa, mai più.

CAPITOLO QUARTO

A BORDO DELLA NORWAY: PUNTO ZERO, SPAZIO DELLA CONFEDERAZIONE: 10/9/52
Punto Omicron.

La Norway non era la prima nave che si avvicinava a quel frammento planetario di roccia e di ghiaccio, visibile solo quando occultava le stelle. Altre l’avevano preceduta in quel rendezvous senza sole. Omicron era un vagabondo: un detrito fra le stelle. Ma la sua ubicazione era prevedibile e offriva una massa sufficiente per essere individuata, uscendo dal balzo… un luogo sperduto come pochi altri, scoperto casualmente da Sung della Pacific, molto tempo prima, e da allora usato dalla Flotta. Era uno di quei frammenti tanto temuti dai mercantili che viaggiavano a velocità inferiori a quelle della luce, e che le navi iperspaziali con missioni particolari preferivano tenere segreti.

I sensori captavano un’attività, la presenza di molte navi, trasmissioni che provenivano da quella notte eterna. I computer si scambiavano freneticamente informazioni, mentre si avvicinavano; e Signy Mallory seguiva attentamente i rilevamenti telemetrici, lottando contro l’ipnosi causata dal balzo e dalle necessarie droghe. Lanciò la Norway alla massima velocità nello spazio reale, dirigendosi verso quei segnali, con la sensazione che qualcosa la seguisse; si affidò alla precisione del suo equipaggio e tenne la nave sotto controllo, per quei pochi drammatici minuti in cui veniva sfiorata la velocità della luce, e durante i quali potevano contare solo sull’approssimazione.

Rapidamente, cominciò a ridurre la velocità; non era un procedimento piacevole; la telemetria ubriacata dalla velocità e il cervello umano ubriacato dalle droghe lottarono per trovare l’ubicazione precisa. Se avesse sopravvalutato il rallentamento, avrebbe rischiato di mandare la Norway a sbattere contro quella roccia o contro un’altra nave.

— Via libera, via libera, ci sono tutte tranne Europe e Lybia — riferirono le comunicazioni.

Non era un’impresa da poco, trovare Omicron con tanta esattezza; arrivare a media distanza, entro la portata del balzo, dopo essere partiti dai pressi di Russell, che era molto lontana. Se avessero calcolato male i tempi, si sarebbero trovati entro il raggio del balzo mentre arrivava qualcosa d’altro, e sarebbe stato il disastro. — Buon lavoro — comunicò Signy Mallory a tutte le postazioni, fissando il rilevamento che Graff trasmetteva sul suo schermo centrale: — Due minuti fuori bersaglio, ma distanza esatta; non potevamo avvicinarci di più. Riceviamo segnali, chiari. Restare in attesa.

Signy Mallory calcolò la sua posizione in relazione a Omicron, controllò i dati; entro mezz’ora arrivò un segnale dalla Lybia che era appena arrivata. L’Europe giunse un quarto d’ora dopo, da un altro piano.

Allora era proprio vero. Adesso si trovavano tutte nello stesso luogo, contemporaneamente, come non era mai accaduto fin dalle prime operazioni. Per quanto fosse estremamente improbabile che la Confederazione piombasse loro addosso in forze proprio adesso, erano ancora nervosi.

Dall’Europe arrivò il segnale del computer. Avevano il tempo di riposare, di respirare. Signy si rilassò, si tolse l’auricolare, slacciò la cintura di sicurezza e si alzò, finalmente, mentre Graff si avvicinava per prendere il suo posto. Non erano in svantaggio come altre navi; la Norway era una tra quelle che seguivano il turno di primogiorno… il suo personale di comando principale era abituato agli orari che stavano seguendo adesso. Altre, l’Atlantic, l’Africa, e la Lybia, avevano l’orario di altergiorno, così le ore dei loro attacchi non erano neppure lontanamente prevedibili, e quindi vi erano navi con il grosso dell’equipaggio disponibile in qualunque momento. Ma adesso avevano adottato tutte il primogiorno, una sincronizzazione che prima d’ora non avevano mai sperimentato, e i comandanti d’altergiorno soffrivano più di tutti, per l’effetto combinato del balzo e della diversità di orario.

— Prenda il comando — disse Signy Mallory a Graff; si avviò per la corsia, batté la mano sulla spalla ad alcuni subordinati, tornò alla sua nicchia nel corridoio… e passò oltre. Proseguì fino agli alloggi dell’equipaggio e si affacciò; c’era l’equipaggio dell’altergiorno, e quasi tutti erano sotto l’effetto della droga, per riposare nonostante il balzo. Certuni, che non tolleravano quella procedura, erano svegli, e sedevano nella sala di ritrovo; avevano un aspetto discreto, anche se forse non si sentivano propriamente in forma. — Tutto stabile — annunciò Signy. — Va bene?

Risposero di sì. Adesso avrebbero preso altre droghe per combattere l’effetto delle prime: erano al sicuro. Signy li lasciò, prese l’ascensore e scese ai quartieri delle truppe, percorse il corridoio principale dietro l’area di deposito delle tute, fermandosi in un dormitorio dopo l’altro, interrompendo i gruppetti di uomini e di donne che si scambiavano ipotesi su quello che li aspettava… occhiate sorprese e colpevoli, soldati che balzavano in piedi sbigottiti di trovarsi davanti a lei, afferravano brancolando gli indumenti, e nascondevano in fretta quello che poteva venire disapprovato; lei non disse niente, ma l’equipaggio e le truppe avevano strane reticenze. Anche lì alcuni erano sotto l’effetto delle droghe, e giacevano privi di sensi sulle loro cuccette; in maggioranza non dormivano… giocavano d’azzardo, mentre la nave stessa lanciava i suoi dadi contro l’Abisso, mentre la carne e il metallo sembravano dissolversi e il gioco continuava per ciò che rimaneva di un momento protratto molto a lungo.

— Ci vorrà un po’ di tempo — diceva Signy, ogni volta. — Siamo stabili; state pure tranquilli, qui, ma tenetevi pronti a muovervi con un minuto di preavviso. Non c’è ragione di pensare che avremo problemi, ma non vogliamo correre rischi.

Di Janz l’intercettò nel corridoio principale dopo la terza ispezione, le rivolse un cenno di cortesìa, e l’accompagnò attraverso il suo dominio privato; sembrava compiaciuto della presenza di Signy. Le truppe si scuotevano quando Di entrava insieme a lei, e si mettevano sull’attenti. Era meglio, pensò Signy, continuare quella presunta ispezione, far loro sapere che lei non li aveva dimenticati. Quello che li attendeva era il tipo di operazione che le truppe temevano, un attacco a più navi, che aumentava le probabilità di venire colpiti. E le truppe dovevano rimanere cieche e inerti, ammucchiate nelle condizioni di scarsa sicurezza offerte dalla struttura interna della nave. Non vi erano soldati più coraggiosi quando si trattava di affrontare il fuoco, di salire a bordo di un mercantile intercettato in volo, di compiere un raid a terra; e se la cavavano abbastanza bene con la tattica abituale: la Norway che si avventava da sola, colpiva e fuggiva. Ma adesso erano nervosi… Signy se n’era accorta dai commenti che filtravano attraverso le comunicazioni aperte… sempre aperte; era una tradizione della Norway, e tutti lo sapevano, fino all’ultima recluta. Obbedivano, e avrebbero obbedito, ma il loro orgoglio era menomato in quella fase nuova della guerra in cui non avevano alcun ruolo. Era importante andare lì in mezzo a loro, compiere almeno quel gesto. Nauseati dal balzo e dalle droghe, avevano il morale a terra, e Signy vedeva i loro occhi illuminarsi a una parola, a una pacca sulla spalla. Li conosceva per nome, tutti quanti, e li chiamava per nome, uno qui e uno là. C’era Mahler, che lei aveva preso fra i profughi di Russell, aveva l’aria molto seria e spaventata; Kee, che veniva da un mercantile; anche Di era arrivato per la stessa strada, molti anni prima. E ce n’erano tanti altri. Alcuni erano ringiovaniti come lei, la conoscevano da anni… e conoscevano anche la situazione. Erano amareggiati perché quella fase critica non li vedeva coinvolti, né poteva essere diversamente.

Signy Mallory percorse il limbo buio della stiva di prua, intorno al bordo del cilindro, nel mondo degli equipaggi dei ricognitori, un luogo che era come casa sua, un ricordo di altri tempi, quando lei alloggiava in un posto analogo; la sezione bizzarra dove vivevano, chiusi nel loro mondo privato, gli equipaggi dei caccia, i loro meccanici, le loro squadre. Lì esisteva un altro comando, in quel momento proprio sopra di loro, per effetto della rotazione, ma la posizione s’invertiva nelle rare volte in cui attraccavano. C’erano due degli otto equipaggi, quello di Quevedo e quello di Almarshad, dell’Odin e del Thor; quattro erano fuori servizio; due stavano salendo, o erano già a bordo dei loro caccia, perché per far passare gli equipaggi attraverso l’ascensore speciale, e farli uscire dal cilindro rotante era necessaria una rotazione dello scafo, e non potevano perdere tanto tempo, in caso di guai. Viaggiare in condizioni di gravità zero durante il balzo… Signy ricordava bene quell’esperienza. Non era il modo più piacevole di viaggiare, ma toccava sempre a qualcuno. Non avevano intenzione di lanciare i caccia-ricognitori lì a Omicron, altrimenti ce ne sarebbero stati altri due lassù, nella scatola di latta, come loro la chiamavano, in quella specie di esilio. — Tutto a posto — disse Signy a quelli che trovò in preallarme. — Riposatevi, non bevete liquori; siamo ancora in fase di attesa e continueremo a esserlo finché siamo qui. Non so quando ci ordineranno di muoverci, e con quale preavviso. Può darsi che si debba scappare, ma non è probabile. Secondo me, non faremo altri balzi prima di avere avuto tempo per riposare. Questa operazione rispetterà le nostre tabelle orarie, non quelle della Confederazione.

Nessuno obiettò. Signy Mallory prese l’ascensore per salire al livello principale, e percorse la distanza più breve intorno al corridoio numero uno; si sentiva ancora le gambe molli, ma l’effetto delle droghe stava passando. Andò nel suo alloggio-ufficio, camminò avanti e indietro per un po’ nella stanza, e alla fine si sdraiò sulla cuccetta per riposare: solo chiudere gli occhi e lasciar defluire la tensione, l’energia nervosa che il balzo riusciva sempre a trasmetterle, perché di solito uscirne significava prepararsi a un combattimento, prendere decisioni rapide, uccidere o morire.

Questa volta no; questa volta era tutto previsto: l’obiettivo verso il quale si muovevano da mesi, fra piccoli attacchi, incursioni che avevano tolto di mezzo installazioni vitali, che avevano colpito e distrutto dove era stato possibile.

Dovevano riposare un po’ e dormire, se potevano. Lei non poteva. Fu contenta quando arrivò la convocazione.


Era una sensazione strana, trovarsi di nuovo nei corridoi dell’Europe, e ancora più strana essere in compagnia di tutti gli altri, seduti nella sala del consiglio della nave ammiraglia… una strana sensazione di panico, a quell’incontro fra tutti coloro che avevano lavorato insieme per tanti anni senza incontrarsi, che avevano scrupolosamente evitato di avvicinarsi l’uno all’altro, se non per i brevi contatti, necessari per trasmettere ordini da nave a nave. Era improbabile che, in quegli ultimi anni, lo stesso Mazian avesse saputo dov’era tutta la sua flotta, se determinate navi erano tornate indenni dalle missioni alle quali erano state assegnate… o dalle operazioni pazzesche che avevano intrapreso di propria iniziativa. Non era una vera flotta quanto un gruppo di guerriglieri che si avvicinavano furtivamente all’obiettivo, colpivano e fuggivano.

Adesso erano lì, gli ultimi dieci, i superstiti delle manovre: lei; Tom Edger dell’Australia, magro e torvo; il grosso Mika Kreshov dell’Atlantic, con ie sue smorfie incessanti; Carlo Mendez della North Pole, un uomo piccolo, bruno e taciturno. C’era Chenel della Lybia, che era stato sottoposto al ringiovanimento… i suoi capelli erano diventati completamente argentei da quando Signy l’aveva visto un anno prima; c’era Porey dell’Africa, un uomo dall’aspetto estremamente lugubre… nella Flotta non erano disponibili trattamenti di chirurgia estetica per ferite. Keu dell’India, mellifluo e sicuro di sé; Sung della Pacific, tutto efficienza; Kant della Tibet, un altro dello stampo di Sung.

E Conrad Mazian. Un uomo alto e bello, con i capelli inargentati dal ringiovanimento, vestito di blu, che mentre teneva le braccia appoggiate sul tavolo girò lentamente lo sguardo su di loro. Forse c’era un affetto sincero, in quello sguardo aperto. Il senso teatrale e Mazian erano inseparabili; lui non ne poteva fare a meno. Sebbene conoscesse le sue abitudini, Signy si sentiva attratta da un’antica eccitazione.

Nessun preliminare, nessuna frase di benvenuto, solo quell’occhiata e un cenno. — I fascicoli sono davanti a voi — disse Mazian. — Massima sicurezza; ci sono i codici e le coordinate. Portateli con voi e fate conoscere i dettagli al personale, ma non discutete niente da nave a nave. Date disposizioni ai vostri computer per le alternative A, B, C, e così via, e adottatele a seconda della situazione. Ma riteniamo di non dovere usare queste alternative. Tutto è stabilito come deve essere. Schema… — Mazian fece proiettare un’immagine sullo schermo davanti a loro, mostrò l’area in cui si erano svolte le loro operazioni recenti, condotte eliminando personale ini portante e lasciando il caos nelle stazioni, che avevano conservato intatta una sola stazione, in un imbuto che si restringeva in direzione di Pell, verso l’ampio gruppo di Stelle delle Retrovie. Una sola stazione. Viking. Signy l’aveva previsto da molto tempo; era una tattica vecchia coma la Terra, vecchia come la guerra, e la Confederazione non poteva resistere, perché non poteva permettere che si creasse un vuoto di potere, non poteva permettere che le stazioni conquistate precipitassero nel disordine, depredate dei tecnici e dei dirigenti e delle forze di sicurezza, abbandonate deliberatamente al loro destino di distruzione. Era stata la Confederazione a cominciare i! gioco, a prendere le stazioni. Perciò loro avevano cacciato le stazioni in gola alla Confederazione; e allora la Confederazione doveva farsi avanti e prendere le stazioni, doveva fornire i tecnici e il personale specializzato, per sostituire quelli evacuati. E navi per proteggerle, in fretta, una dopo l’altra. La Confederazione aveva dovuto sfruttare al massimo le sue enormi possibilità per reggere tutto il peso che le veniva scaricato addosso.

Aveva dovuto prendere Viking così com’era, con tutte le complicazioni interne di una stazione mai evacuata… l’aveva presa per ultima perché cacciando le stazioni in gola alla Confederazione in rapida sequenza, le avevano imposto l’ordine e la direzione dei movimenti delle navi e del personale.

Viking era stata l’ultima.

Era in posizione centrale, rispetto alle altre, circondata dalla desolazione, da stazioni che lottavano per sopravvivere.

— Tutto indica — disse Mazian, senza alzare la voce, — che hanno deciso di fortificare Viking. Una scelta logica; Viking è l’unica con gli archivi dei computer completi, l’unica dove hanno avuto la possibilità di rastrellare tutti i dissidenti, tutta la resistenza, dove hanno potuto applicare la loro tattica poliziesca e schedare tutti, immediatamente. Adesso è tutto a posto, per la loro base operativa; abbiamo lasciato che vi riversassero tutto quel che potevano; e adesso prendiamo Viking e colpiamo le altre, che vivono sospese a un filo… e non resterà altro che desolazione, tra noi e Fargone, tra Pell e la Confederazione. Renderemo poco pratica l’espansione, troppo dispendiosa; spingeremo la preda nell’altra direzione… finché possiamo. Nei fascicoli ci sono le vostre istruzioni specifiche. I dettagli possono venire improvvisati entro certi limiti, secondo la situazione che si potrà creare nei vostri settori. Norway, Lybia, India, unità uno; Europe, Tibet, Pacific, due; North Pole, Atlantic, Africa, tre; l’Australia ha un suo compito. Se avremo fortuna non dovremo temere attacchi alle spalle, ma è prevista ogni evenienza. Sarà una seduta molto lunga; per questo vi ho lasciato riposare. Continueremo con le simulazioni fino a che non ci saranno altre domande.

Signy trasse un lungo respiro, aprì il fascicolo e, nel silenzio che Mazian aveva appositamente concesso per esaminare i documenti, studiò l’operazione come veniva prospettata, stringendo le labbra. Non c’era bisogno di esercitazioni: sapevano di cosa si trattava, variazioni su vecchi temi che ogni nave aveva messo in atto separatamente. Ma c’era il problema della navigazione che avrebbe messo a dura prova tutta la loro abilità, un attacco in massa, una precisione d’arrivo non sincronizzata, ma separata, e sarebbe stato il disastro se le navi fossero uscite dal balzo troppo vicine l’una all’altra, e se una massa come quella del nemico si fosse trovata nei pressi. Doveva avvicinarsi abbastanza a Viking per non lasciare possibilità agli avversari, sfiorare il disastro. La presenza di una nave nemica dove, statisticamente, non avrebbe dovuto trovarsi, lo spiegamento delle navi partite dalla stazione in formazioni impreviste… ogni sorta di eventualità. Dovevano considerare anche le posizioni dei pianeti e dei satelliti nel sistema alla data del loro arrivo, per usarli come schermi, se possibile. Uscire dall’iperspazio con i nervi ancora fragili, spingere all’azione le nienti intorpidite e cercare di calcolare istantaneamente le posizioni di alleati e nemici, coordinare un attacco in modo così preciso che alcune navi avrebbero dovuto uscire al di là di Viking e alcune al di qua, e piombare da tutte le parti, contemporaneamente, dallo stesso punto di partenza…

Avevano un unico vantaggio sulle nuove, agili navi della Confederazione, sulle splendide attrezzature, sugli equipaggi giovani, perfettamente addestrati e pronti a ogni evenienza. La Flotta aveva esperienza, poteva spostare le sue navi rabberciate con una precisione che gli ottimi strumenti della Confederazione non avevano ancora eguagliato, con un’audacia che la mentalità conservatrice e l’aderenza ai regolamenti scoraggiavano nei comandanti della Confederazione.

Potevano perdere una nave, in un’operazione di quel tipo, e forse più di una, potevano uscire troppo vicino, eliminarsi a vicenda. Era probabile che potesse capitare. Contavano sulla leggendaria fortuna di Mazian. Quello era il loro margine di vantaggio; fare quello che nessun individuo sano di mente avrebbe fatto, e approfittare del fattore sorpresa.

Gli schemi si susseguirono sullo schermo, uno dopo l’altro. Si scambiarono opinioni, ma soprattutto ascoltarono e annuirono, perché avevano poche obiezioni da fare. Fecero una pausa per il pranzo, poi ritornarono nella sala e terminarono la discussione.

— Un giorno di riposo — disse Mazian. — Partiremo alla primalba di dopodomani. Regolate i computer; controllate e ricontrollate.

Annuirono e si separarono, e ognuno ritornò alla sua nave, e anche quel commiato aveva un sapore speciale… il presagio che, al loro successivo incontro, sarebbero stati meno numerosi.

— Ci rivedremo all’inferno — mormorò Chenel, e Porey sogghignò.

Un giorno per trasmettere tutto ai computer; e poi l’appuntamento.

CAPITOLO QUINTO

STAZIONE CYTEEN: AREA DI SICUREZZA: 14/9/52

Ayres si svegliò, senza sapere bene che cosa l’avesse destato, nel silenzio del loro alloggio. Marsh era tornato… per l’ennesima volta si erano spaventati, quando non li aveva raggiunti dopo la ricreazione. La tensione ossessionava Ayres. Si rendeva conto che da un po’ di tempo dormiva troppo teso, perché gli dolevano le spalle e aveva le mani contratte. Adesso stava immobile, con il viso imperlato di sudore, senza sapere quale fosse la ragione.

La guerra dei nervi non era finita. Azov aveva ottenuto quel che voleva, un messaggio che richiamava Mazian. Adesso stavano discutendo su alcuni punti degli accordi secondari, per il futuro di Pell, che Jacoby dichiarava di cedere alla Confederazione. Aveva ottenuto le ore di ricreazione, ma continuavano ad essere inutilmente trattenuti durante i colloqui, e assillati come prima da tattiche fastidiose. Sembrava che il suo appello ad Azov avesse aggravato la situazione, perché da cinque giorni Azov era inaccessibile… se ne era andato, affermavano i suoi subordinati, e le difficoltà che adesso erano sorte sapevano di premeditazione.

Fuori qualcuno si stava avvicinando. Passi smorzati. La porta si aprì, senza che il visitatore si annunciasse. La Dias si affacciò nella stanza. — Segust — disse, — venga. Deve assolutamente venire. È Marsh.

Ayres si alzò, prese la vestaglia, e seguì la Dias. Anche Karl Bela stava uscendo dalla camera accanto. La stanza di Marsh era dall’altra parte del salotto, vicino a quella della Dias, e la porta era aperta.

Marsh si era impiccato con la sua cintura, appesa ad un gancio che reggeva una lampada mobile, e girava lentamente su se stesso. La faccia era orribile. Ayres restò impietrito per un istante, poi spostò la sedia che era scivolata di lato, salì, e cercò di staccare Marsh. Non aveva un coltello, non aveva niente per tagliare la cintura. Era penetrata nel collo di Marsh, e Ayres non poteva staccarla e sostenere nello stesso tempo il corpo. Bela e la Dias cercarono di aiutarlo, reggendo le ginocchia di Marsh, ma non servì a nulla.

— Dobbiamo chiamare la sicurezza — disse la Dias.

Ayres scese dalla sedia, ansimando, guardò gli altri due.

— Forse avrei potuto impedirglielo — disse la Dias. — Ero ancora sveglia. Ho sentito dei rumori, un certo trambusto. Poi alcuni suoni strani. Quando sono cessati, all’improvviso, così a lungo… finalmente mi sono alzata e sono venuta a vedere.

Ayres scrollò la testa, guardò Bela, poi andò in salotto, al quadro del comunicatore vicino alla porta, e chiamò la sicurezza. — È morto uno dei nostri — disse. — Mi faccia parlare con un responsabile.

— La richiesta verrà inoltrata — rispose una voce. — La sicurezza sta arrivando.

Il contatto fu interrotto.

Ayres sedette, con la testa fra le mani, cercò di non pensare all’orribile cadavere che ruotava lentamente nella stanza accanto. Era inevitabile; aveva temuto di peggio, e cioè che Marsh crollasse nelle mani dei suoi tormentatori. A modo suo era un uomo coraggioso, non aveva ceduto. Ayres cercava di convincersene.

O forse era il rimorso? Il rimorso avrebbe potuto spingerlo al suicidio.

La Dias e Bela erano seduti vicino a lui e attendevano, cupi, con i capelli ancora in disordine. Ayres cercò di pettinarsi con le dita.

Gli occhi di Marsh. Non voleva pensarci.

Passò molto tempo. — Che cosa aspettano? — chiese Bela, e Ayres recuperò un po’ di lucidità; lo guardò duramente, rimproverandogli quella manifestazione di umanità. Era la solita guerra; continuava nonostante questo, soprattutto dopo questo.

— Forse dovremmo tornare a letto — disse la Dias.

In un altro momento e in un altro luogo sarebbe stata una proposta demenziale. Lì era logica. Avevano bisogno di riposare. Era in atto uno sforzo sistematico per non farli dormire. Ancora un po’ e si sarebbero ridotti tutti come Marsh.

— Probabilmente arriveranno tardi — dichiarò Ayres, a voce alta. — Tanto vale che torniamo a letto.

Come se fosse la cosa più razionale del mondo, si ritirarono nelle loro stanze. Ayres si tolse la vestaglia e l’appese sulla sedia accanto al letto; pensò, ancora una volta, che era fiero dei suoi compagni perché avevano resistito così bene, e che odiava… odiava la Confederazione. Non era compito suo odiare, ma solo ottenere risultati. Marsh era libero, finalmente. Si chiese come la Confederazione trattasse i propri morti. Forse li macinava per ricavare fertilizzanti. Sarebbe stato tipico di una società simile. Economico. Povero Marsh.

C’era da aspettarsi che la Confederazione si comportasse in un modo studiato apposta per irritarli. Ayres si era appena messo a letto, portando la mente a un livello che escludeva i pensieri lucidi e chiudendo gli occhi nel tentativo di dormire, quando la porta esterna si apri, i passi risuonarono nel salotto, la porta della sua stanza si aprì bruscamente, e i soldati armati apparvero, stagliati in controluce.

Si alzò in piedi, con calma studiata.

— Si vesta — disse un soldato.

Ayres obbedì. Era inutile discutere con i manichini.


— Ayres — disse il soldato, facendo un cenno con il fucile. Erano stati condotti in uno degli uffici, lui e la Dias e Bela, e fatti sedere per almeno un’ora su scomode panche, in attesa di qualcuno. Presumibilmente, la sicurezza aveva bisogno di esaminare con cura l’appartamento. — Ayres — disse il soldato una seconda volta, bruscamente, indicandogli di alzarsi e di seguirlo.

Ayres obbedì, lasciando la Dias e Bela con un senso di apprensione.

Avrebbero cercato di intimidirli, forse li avrebbero addirittura accusati di aver assassinato Marsh. Forse questo sarebbe capitato anche a lui.

Un altro modo per spezzare la loro resistenza, pensò. Poteva essere lui al posto di Marsh, adesso; era stato separato dagli altri. Fu condotto fuori dall’ufficio, scortato da una squadra di soldati nel corridoio esterno, lontano dai luoghi abituali. Lo fecero scendere con un ascensore e gli fecero percorrere un altro corridoio. Ayres non protestò. Se si fosse fermato, lo avrebbero portato di peso; era impossibile discutere con mentalità come quelle, lui era troppo vecchio per farsi trascinare lungo un corridoio.

Erano i moli… i moli, affollati di militari, squadre e squadre di truppe armate, e di navi che stavano caricando. — No — disse Ayres, dimenticando la sua tattica, ma si ritrovò la canna di un fucile premuta contro le spalle, e fu spinto avanti, su per la rampa e il cordone ombelicale che collegava una nave al molo. Poi a bordo; e l’aria era ancora più fredda che sul molo.

Tre corridoi, un ascensore, numerose porte. La porta in fondo era aperta e illuminata. Lo fecero entrare, tra l’acciaio e la plastica dell’arredamento della nave, forme oblique, sedie di disegno ambiguo, panche fisse, ponti più incurvati di quelli della stazione, poco spazio e angoli strani. Ayres vacillò, perché non era abituato a quei pavimenti, e fissò sorpreso l’uomo seduto sul tavolo.

Dayin Jacoby si alzò per riceverlo.

— Che cosa succede? — chiese a Jacoby.

— Non lo so, davvero — disse Jacoby. Sembrava sincero. — Questa notte mi hanno svegliato e condotto a bordo. Sto aspettando qui da un’ora.

— Chi è che comanda, qui? — chiese Ayres ai manichini. — Informatelo che voglio parlare con lui.

Quelli non si mossero; restarono dov’erano, allineati. Ayres sedette, lentamente come Jacoby. Era spaventato. Forse era spaventato anche Jacoby. Ayres si chiuse nell’abituale silenzio; tanto, non aveva nulla da dire a un traditore. Non era possibile una conversazione educata.


La nave si mosse: uno schianto echeggiò attraverso lo scafo e i corridoi, turbando il silenzio. I soldati si aggrapparono alle maniglie quando sopravvenne il momento nauseante della gravità zero. Liberati della gravità della stazione, ci voleva un attimo prima che entrassero in azione i sistemi della nave, ripristinando la gravità artificiale. Abiti che svolazzavano spiacevolmente, lo stomaco in subbuglio; si provava la sensazione di essere sul punto di precipitare; e la caduta, quando venne, fu un lento assestamento.

— Siamo partiti — borbottò Jacoby. — Allora è venuto il momento.

Ayres non disse nulla, pensando angosciato a Bela e alla Dias, rimasti indietro. Abbandonati.

Un ufficiale vestito di nero apparve sulla soglia, seguito da un altro.

Azov.

— Andate — disse Azov ai manichini, e quelli uscirono ordinatamente, in silenzio. Ayres e Jacoby si alzarono.

— Che cosa succede? — chiese Ayres. — Che cosa significa?

— Cittadino Ayres — disse Azov, — stiamo effettuando manovre difensive.

— I miei compagni… che ne sarà di loro?

— Sono in un posto sicuro, signor Ayres. Lei ci ha fornito il messaggio che volevamo; potrà risultare utile, e per questo è ancora con noi. Il suo alloggio è in fondo al corridoio. Abbia la gentilezza di restarci.

— Che cosa sta succedendo? — chiese Ayres, ma l’aiutante lo prese per il braccio e l’accompagnò alla porta. Lui si aggrappò allo stipite, resistette, e si voltò a guardare Azov. — Cosa sta succedendo?

— Ci prepariamo — disse Azov, — a recapitare a Mazian il suo messaggio. Ed è giusto che lei sia presente… se verranno sollevate altre questioni. L’attacco è imminente; cerco di prevedere dove avverrà, e so che sarà un attacco in forze. Mazian non cede le stazioni per niente; e noi, signor Ayres, andremo dove lui ci ha obbligati… ad accettare la sfida, per così dire. Non ci ha lasciato scelta, e lo sa; ma naturalmente, ci auguriamo che terrà conto del suo ordine di richiamo. Se vuole preparare un secondo messaggio, più energico, le verrà fornito il necessario.

— E il messaggio verrà riveduto e corretto dai vostri esperti.

Azov sorrise a denti stretti. — Vuole la Flotta intatta? Francamente, dubito che potrete recuperarla. Non credo che Mazian terrà conto del suo messaggio; ma dato che si trova privo di basi, può darsi che lei abbia ancora un ruolo umanitario da svolgere.

Ayres non disse nulla. Anche ora, riteneva che tacere fosse la cosa più saggia. L’aiutante lo prese per il braccio e lo condusse lungo il corridoio, lo fece entrare in una cabina dai mobili di plastica e chiuse a chiave la porta.

Ayres camminò avanti e indietro per un po’, nello spazio limitato della cabina. Poi cedette alla debolezza delle ginocchia e sedette. Era andata male, pensò. La Dias e Bela erano… dovunque fossero, a bordo di una nave o ancora sulla stazione, e lui non sapeva neppure che stazione fosse. Poteva succedere di tutto. Rabbrividì, rendendosi improvvisamente conto che erano perduti, che i soldati e le navi erano diretti verso Pell e verso Mazian… perché a bordo c’era anche Jacoby. Nella sua stupidità, lui aveva puntato a restare vivo, a tornare in patria. Adesso sembrava sempre meno probabile. Stavano per perdere tutto.

— È stato concluso un accordo di pace — aveva detto nella semplice dichiarazione che gli avevano permesso di registrare, in mancanza dei codici essenziali. — Il rappresentante del Consiglio di Sicurezza, Segust Ayres, per autorità dell’Anonima Terra e del Consiglio di Sicurezza, invita la Flotta a prendere contatti per negoziare.

Era il momento peggiore per una grande battaglia. La Terra aveva bisogno che Mazian restasse dov’era, con tutte le sue navi, e colpisse la Confederazione a casaccio, creandole difficoltà, impedendole di allungare il braccio verso la Terra.

Mazian era impazzito… contro l’immensa estensione della Confederazione, lanciare quelle poche navi che gli restavano, impegnarsi su scala massiccia, e perdere. Se la Flotta fosse stata annientata, la Terra non avrebbe avuto più a disposizione il tempo che lui aveva cercato di ottenere per arrivare fin lì e uscire vittorioso. Niente Mazian, niente Pell, e tutto allo sfascio.

E un messaggio come quello che aveva redatto non poteva provocare un’azione avventata, o confondere le manovre già in corso, riducendo ancora le possibilità di successo di Mazian?

Ayres si alzò, ricominciò a camminare avanti e indietro in quella che sembrava la sua prigione definitiva. Un secondo messaggio, dunque. Una richiesta oltraggiosa. Se la Confederazione era fanatica come i suoi manichini, se era altrettanto convinta del proprio scopo, forse l’avrebbero lasciato passare, purché lo considerassero in linea con le loro esigenze.

— Considerando i comuni interessi dell’Anonima e della Confederazione negli accordi commerciali — compose, mentalmente, — e i negoziati ormai avanzati, come dimostrazione di buona fede, cessate tutte le operazioni militari; cessate il fuoco e accettate la tregua. Restate in attesa di ulteriori istruzioni.

Tradimento… per indurre Mazian alla ritirata, a quel tipo di resistenza alla spicciolata di cui aveva bisogno la Terra in quella fase. Era l’unica speranza.

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