LIBRO TERZO

CAPITOLO PRIMO

IN AVVICINAMENTO A PELL: 4/10/52; ore 1145
Pell.

La Norway procedeva come l’intera Flotta, scagliando sincronicamente la sua massa nello spazio reale. Schermi e comunicatori entrarono in azione, cercando il puntolino che era la gigantesca Tibet, e che li aveva preceduti su quella rotta in avanscoperta.

— Affermativo — fu il messaggio trasmesso ai comando, con consolante prontezza. La Tibet si trovava proprio là, intatta, senza alcun segno evidente della battaglia. Le navi erano sparse in tutto il sistema, e scoraggiavano gli approcci della sedicente milizia. La Tibet aveva costretto un mercantile a fuggire in preda a! panico, e questa era una cattiva notizia. Non avevano bisogno che qualcuno corresse a riferirlo alla Confederazione; ma forse quello era l’ultimo posto dove avrebbe fatto rotta un mercantile, in quel momento.

Dopo un istante arrivò la conferma dell’Europe, la nave ammiraglia: erano in uno spazio sicuro, senza probabilità di attacchi.

— Ricevo le comunicazioni da Pell — riferì Graff a Signy Mallory, continuando a restare in ascolto. — Sembra che tutto vada bene.

Signy allungò la mano e trasmise un segnale ai comandanti dei caccia-ricognitori. Incollati allo scafo della Norway come parassiti. Il servizio comunicazioni continuava a ricevere le identificazioni delle navi della milizia che deviavano dalle rispettive rotte, mentre loro penetravano nel sistema a folle velocità, fuori dal piano dell’eclittica. La stessa Flotta procedeva nervosamente, come un blocco compatto, dirigendosi verso l’ultima area sicura che ancora restava.

Adesso erano nove. La Lybia di Chenel era un ammasso di rottami e di vapori, e l’India di Keu aveva perduto due dei quattro ricognitori.

Erano in piena ritirata; erano fuggiti dopo la sconfitta di Viking, cercando una zona dove riprendere fiato. Tutte le navi avevano cicatrici; la Norway aveva un alettone che trascinava un ammasso di metallo contorto, se pure l’alettone c’era ancora, dopo il balzo. C’erano vittime a bordo, tre tecnici che si erano trovati in quella sezione. Non avevano avuto tempo di gettarli all’esterno, neppure di ripulire l’area; erano fuggiti, avevano salvato la nave, la Flotta, quel che restava della potenza dell’Anonima. I pannelli di Signy erano tutti un lampeggiare di spie rosse. Diede l’ordine al servizio controllo danni di sbarazzarsi dei cadaveri, o di quel che ne restava.

Anche lì potevano cadere in un’imboscata… ma no, non c’era questo rischio. Signy fissò le spie luminose, e guardò il pannello, con i sensi ancora appesantiti dalle droghe, muovendo le dita intorpidite per riprendere il comando della Norway. Avevano appena incominciato la battaglia, a Viking; e subito erano fuggiti… così aveva deciso Mazian. Lei non aveva mai contestato, aveva rispettato il genio strategico di quell’uomo… per anni. Avevano perso una nave e lui aveva ordinato la ritirata, dopo mesi di pianificazione, dopo manovre che erano costate quattro mesi e innumerevoli vite.

Li aveva costretti alla ritirata in una battaglia che ancora li sconvolgeva, al ricordo, una battaglia che avrebbero potuto vincere.

Signy non aveva il coraggio di volgere lo sguardo e di incontrare gli occhi di Graff e di Di, o le facce degli altri su! ponte; non avrebbe saputo rispondere alle loro domande. O alle proprie. Mazian aveva avuto un’altra idea… chissà quale. Signy cercava disperatamente di credere che quell’attacco abortito avesse una spiegazione razionale.

Andarsene, in fretta, per ritentare. Rivedere i piani. Ma questa volta erano stati esclusi dalle loro linee di rifornimento, avevano perduto tutte le stazioni.

Era possibile che i nervi di Mazian avessero ceduto. Signy insisteva nel dire a se stessa che non era così, ma intanto pensava che cosa avrebbe fatto lei, se avesse avuto il comando della Flotta. Ognuno di loro avrebbe saputo far meglio di quel disastro. Tutto era filato liscio secondo il piano. E Mazian l’aveva fatto fallire. Mazian, che loro veneravano.

Signy sentì in bocca il sapore del sangue. Si era morsicata le labbra.

— Stiamo ricevendo da Pell le istruzioni per l’avvicinamento tramite l’Europe — le annunciarono le comunicazioni.

— Graff — disse Signy, — le prenda lei. — Riservò la sua attenzione agli schermi e al collegamento d’emergenza attraverso l’auricolare, il collegamento diretto con Mazian, quando lui si sarebbe deciso finalmente a servirsene, a comunicare con la Flotta; e finora non l’aveva fatto, era rimasto in silenzio, dopo aver dato gli ordini per allontanarli da una battaglia che non avevano perduto.

Era un avvicinamento normale, un fatto di routine. Signy ricevette l’autorizzazione attraverso il servizio comunicazioni di Mazian, trasmise l’ordine ai comandanti dei ricognitori, disperdendo i piccoli caccia della Norway come le altre navi della Flotta disperdevano i propri, guidati stavolta dagli equipaggi di riserva. I caccia avrebbero tenuto d’occhio i mercantili militarizzati, avrebbero distrutto quelli che avessero mostrato un comportamento minaccioso, e poi sarebbero rientrati quando le grandi navi fossero state al sicuro nella stazione.

Da Pell continuava ad arrivare il flusso delle comunicazioni: procedere con cautela, raccomandava la stazione, i dintorni di Pell erano affollati. Di Mazian, nessuna notizia.


PELL: MOLO AZZURRO; ore 1200

Mazian… Mazian, non la Confederazione, non un altro convoglio. Stava arrivando l’intera Flotta.

La voce si sparse nei corridoi della stazione con la velocità di tutte le notizie incontrollate, negli uffici e sui moli, e persino nel settore Q, superando ogni barriera, dal momento che gli schermi mostravano la situazione reale. La reazione era passata dal panico aperto, allorché si era fatta l’ipotesi che fossero navi della Confederazione, a un panico di tipo diverso quando si era saputa la verità.

Damon osservava i monitor e di tanto in tanto camminava avanti e indietro, nella sala comando del molo azzurro. Elene era seduta al quadro delle comunicazioni, con l’auricolare inserito, e aggrottava la fronte, discutendo con un ignoto interlocutore. A bordo dei mercantili regnava il panico; le navi militarizzate non avrebbero esitato a fuggire, per il timore di venire arruolate d’autorità dalla Flotta. Altri temevano di vedersi confiscali gli equipaggi, il personale, le provviste, le armi. Quelle paure e quei reclami riguardavano Damon; parlava con molti di loro, quando poteva offrire qualche garanzia. L’ufficio Legale doveva impedire quelle confische per mezzo di ingiunzioni e decreti. Decreti… contro Mazian. Quelli dei mercantili sapevano bene che utilità potevano avere. Damon camminava avanti e indietro, in preda all’agitazione; alla fine si diresse al quadro delle comunicazioni, si inserì su un altro canale e si mise in contatto con la sicurezza.

— Dean — disse al responsabile — mi chiami il turno di altergiorno. Se non possiamo toglierli da Q, non possiamo lasciare i moli esposti a facili intromissioni. Mandi qualcuno a bloccare la strada. Metta in uniforme quelli della supervisione, se non ha uomini a sufficienza. Ordine generale: proteggete quei moli, e assicuratevi di tenerne lontani gli indigeni.

— Il suo ufficio lo autorizza?

— Sì, lo autorizza. — L’altro esito. Avrebbero dovuto esserci documenti scritti, firme e controfirme. Poteva farlo il dirigente della stazione; ma l’ufficio del dirigente della stazione era impegnatissimo nel tentativo di chiarire la situazione. Suo padre era a! comunicatole, e cercava di tenere a bada la Flotta.

— Mi faccia avere un ordine firmato appena può — disse Dean Gihan. — Manderò gli uomini.

Damon trasse un profondo sospiro, e tolse il contatto; poi riprese a camminare avanti e indietro e si fermò di nuovo dietro la sedia di Elene chinandosi lievemente. In un momento di pausa, lei si appoggiò alio schienale e gli sfiorò la mano. Quando lui era entrato, l’aveva vista pallidissima. Adesso aveva ritrovato il colore e la compostezza. I tecnici erano impegnati a trasmettere ordini dettagliati alle squadre del molo, ed alla centrale perché incominciasse ad allontanare i mercantili attraccati per fare spazio alla Flotta. Caos… non c’erano soltanto i mercantili attraccati, ma altri cento in orbita permanente, come la stazione, intorno alla Porta dell’Infinito, che non avevano trovato ospitalità. E stavano arrivando nove grosse navi, e altri mercantili si staccavano dai moli per aggiungersi a quelle già in orbita. Il comunicatore di Mazian continuava a sparare una serie di domande e di autorizzazioni, e rifiutava di specificare le sue vere intenzioni e dove intendeva attraccare, se pure aveva intenzione di attraccare veramente.

Ora toccherà a noi? L’incubo li ossessionava. Evacuazione. La gravidanza non era lo stato ideale per un viaggio per chissà dove, il grande balzo, in fuga verso una stazione delle Stelle delle Retrovie, abbandonata da molto tempo; verso Sol e la Terra… Damon pensò all’Hansford. Pensò a Elene… in una situazione simile.

All’inizio, erano stati uomini civili.

— Forse abbiamo vinto — disse un tecnico. Damon batté le palpebre, pensò che anche quella era una possibilità, ma troppo remota… sapevano bene che era impossibile, che la Confederazione era diventata troppo potente, che la Flotta avrebbe potuto concedere loro altri anni ancora, come aveva fatto finora… ma non la vittoria, mai. Le navi non sarebbero arrivate così numerose, se non fossero state in ritirata.

Damon calcolò i possibili rischi, se Pell avesse rifiutato l’evacuazione; pensò alla sorte che attendeva i Konstantin nelle mani della Confederazione. I militari non gli avrebbero mai permesso di restare. Posò la mano sulla spalla di Elene, mentre il cuore gli batteva da scoppiare al pensiero di venir separato da lei, di perdere lei e il bambino. Lo avrebbero fatto salire a bordo in stato d’arresto, se ci fosse stata l’evacuazione, come era accaduto sulle altre stazioni, per sottrarre il personale indispensabile alle mani della Confederazione… gente caricata a forza sulla prima nave in partenza. Suo padre… sua madre… Pell era la loro vita; significava la vita per sua madre… ed Emilio, e Miliko. Provò un senso di nausea. Il suo mondo era la stazione, così come era stato per le generazioni che lo avevano preceduto, e che non avevano mai cercato la guerra.

Avrebbe combattuto per Elene, per Pell, per tutti i loro sogni.

Ma non sapeva come cominciare.


NORWAY: ore 1300

Signy l’aveva inquadrato sullo schermo: l’anello a raggi della stazione di Pell, la luna lontana, la gemma fulgida della Porta dell’Infinito, velata da un vortice di nubi. Avevano ridotto la velocità e avanzavano lentamente ora, come in un sogno, mentre la forma levigata della stazione si risolveva in un caos di superfici angolate.

I mercantili erano ammassati in gran numero vicino ad ogni punto di attracco, sul lato visibile. C’era una confusione incredibile sullo schermo, e loro si muovevano lentamente, perché occorreva dare tutto il tempo, a quelle navi, di lasciare via libera. Tutti i mercantili che non erano caduti nelle mani della Confederazione dovevano trovarsi nei pressi della stazione, in orbita, o più lontano, o magari nello spazio interstellare, al di fuori del sistema. Graff era ancora ai comandi; una manovra noiosa, ormai. Affollamento e traffico senza precedenti. Un vero caos. Signy si accorse di avere paura, quando analizzò la crescente tensione che la attanagliava. La rabbia era svanita e adesso aveva paura, e provava un senso d’impotenza al quale non era abituata… il desiderio che qualcuno, molto tempo prima, si fosse rivelato così saggio da compiere scelte diverse, capaci di risparmiare a tutti loro quel momento, e quel luogo, e le scelte che ora dovevano affrontare.

— Le navi North Pole e Tibet resteranno lontane dalla stazione — recitò il messaggio dell’Europe. — Servizio di pattuglia.

Era disperatamente necessario; e in quella situazione, Signy avrebbe voluto che il compito fosse stato assegnato a lei e al suo equipaggio. Li attendeva una scelta amara. Preferiva non pensare a un’altra operazione come quella alla stazione Russell, dove il panico dei civili aveva anticipato l’intervento dei militari per smantellare la stazione, e le orde terrorizzate avevano invaso i moli… il suo equipaggio ne aveva avuto abbastanza. E anche lei, e ora detestava l’idea di lasciar scendere le truppe su una stazione dove tutti erano nello stesso stato d’animo dei suoi uomini.

Arrivò un altro messaggio. La stazione di Pell informava di aver allontanato un certo numero di mercantili dagli attracchi per accogliere le navi da guerra in una sola sequenza, e con ampio spazio di manovra. I mercantili sloggiati avrebbero attraversato il gruppo delle navi in orbita nella direzione opposta a quella del loro accesso. Intervenne la voce di Mazian, aspra e profonda, e annunciò che, se un mercantile avesse cercato di lasciare il sistema, sarebbe stato distrutto senza preavviso.

La stazione diede il segnale di ricevuto; non poteva fare altro.


PELL: ZONA Q; ore 1300

Non funzionava niente. Nella zona Q, sembrava che non funzionasse mai niente. Vassily Kressich premette i pulsanti inutilmente, li premette di nuovo, batté la mano sul comunicatore, e non ottenne risposta dalla centrale. Cominciò a camminare avanti e indietro, nel piccolo compartimento. Quei guasti lo esasperavano, quasi fino alle lacrime. Si ripetevano tutti i giorni: l’acqua, i ventilatori, il comunicatore, il video, i rifornimenti, le carenze che gli ricordavano quanto era tragica la sua esistenza, la rovina, l’affollamento, la violenza dissennata della gente impazzita per le ristrettezze e la precarietà della situazione. Lui aveva l’alloggio. Aveva le sue proprietà; le teneva scrupolosamente in ordine, le puliva spesso, con un’ossessione maniacale. L’odore della zona Q gli aderiva addosso, e a nulla serviva lavarsi, lucidare con diligenza i pavimenti e chiudere le porte per non fare entrare il fetore. Era un odore di antisettici, unito a quello delle altre sostanze chimiche usate dalla stazione per combattere le malattie e l’affollamento e mantenere l’equilibrio dei sistemi di supporto vitale.

Tornò indietro, e provò di nuovo, sperando che il comunicatore funzionasse, ma non funzionava. Sentiva il chiasso, fuori nel corridoio, e sperava che Nino Coledy e i suoi ragazzi tenessero la situazione sotto controllo. Lo sperava. Qualche volta lui non poteva uscire dalla zona Q, quando succedeva qualche guaio, perché le porte venivano bloccate e neppure il suo lasciapassare di consigliere serviva a ottenere un’eccezione. Sapeva che avrebbe dovuto essere fuori, a ristabilire l’ordine, a controllare Coledy, a cercare di impedire che la polizia di Q si abbandonasse ad altri eccessi.

Ma non poteva andare. Si sentiva accapponare la pelle al solo pensiero di affrontare la folla e le grida e l’odio e le brutture della zona Q… altro sangue, altre cose che gli avrebbero turbato il sonno. Sognava Redding. E altri. Persone che lui aveva conosciuto, e che erano state trovate morte nei corridoi, o fuori, nello spazio. Sapeva che quella vigliaccheria avrebbe finito per risultare fatale. La combatteva, sapendo a che cosa portava, sapendo che sarebbe stato perduto appena avesse dato segni di debolezza… e c’erano giorni in cui gli era difficile percorrere quei corridoi, quando sentiva di non averne il coraggio. Era uno di loro, non era diverso dagli altri; aveva un rifugio e non voleva uscirne, non voleva attraversare neppure il breve tratto per raggiungere il posto di blocco della sicurezza e le porte.

Lo avrebbero ucciso, Coledy o uno dei gruppi rivali. Oppure qualcuno che non aveva un movente. Un giorno, nella follia che investiva la zona Q, lo avrebbero ucciso; qualcuno deluso per una domanda respinta, qualcuno che lo odiava come simbolo dell’autorità. Sentiva una stretta allo stomaco, ogni volta che apriva la porta della sua stanza. Fuori c’erano tante domande, e lui non sapeva cosa rispondere; c’erano tante richieste, e lui non poteva soddisfarle; c’erano tutti quegli occhi, e non poteva affrontarli. Se fosse uscito, quel giorno, avrebbe dovuto poi tornare indietro, quando il disordine forse si sarebbe aggravato: non era autorizzato a restare fuori dalla zona Q per più di un turno alla volta. Aveva tentato, aveva cercato di mettere alla prova la propria credibilità… alla fine aveva trovato il coraggio di chiedere i documenti, di chiedere la liberazione, qualche giorno dopo l’ultimo disordine… l’aveva chiesto, sebbene sapesse che Coledy avrebbe potuto venirne informato; l’aveva chiesto, sebbene sapesse che poteva costargli la vita. E gliel’avevano negato. Il grande e potente consiglio di cui faceva parte… non voleva ascoltarlo. Aveva un ruolo troppo importante, aveva detto Angelo Konstantin, e lo aveva pregato, privatamente, di restare al suo posto. Lui non aveva insistito, temendo che la cosa si risapesse in giro, perché allora non gli sarebbe rimasto molto da vivere.

Un tempo era stato un brav’uomo, un tipo coraggioso. O almeno, si era considerato tale, prima del viaggio, prima della guerra, quando c’erano Jen e Romy. Nel settore Q era stato aggredito due volte, e una volta l’avevano picchiato fino a fargli perdere i sensi. Redding aveva cercato di ucciderlo, e non sarebbe stato l’ultimo. Era stanco e nauseato, e il trattamento di ringiovanimento non faceva effetto; sospettava che fosse di qualità scadente, sospettava che la tensione lo stesse uccidendo. Nuove rughe erano apparse sul suo volto ed ora aveva un aspetto scavato e disperato; non riconosceva più l’uomo che era stato un anno prima. Aveva un timore ossessivo per la propria salute, perché conosceva l’assistenza medica della zona Q, dove i medicinali erano rubati e potevano essere adulterati, dove lui doveva contare sulla generosità di Coledy per avere le medicine e il vino e un vitto decente. Non pensava più a casa sua, non rimpiangeva più il passato, non pensava più al futuro. C’era solo l’oggi, terribile come ieri; e se gli era rimasto un desiderio, era quello di trovare la certezza che la situazione non sarebbe peggiorata.

Provò di nuovo con il comunicatore, e questa volta non si accese neppure la spia rossa. I vandali smantellavano tutto, nella zona Q, non appena le squadre addette alle riparazioni rimettevano in funzione qualcosa… le loro squadre. Occorrevano giorni per far giungere sul posto gli operai di Pell, e certi guasti non venivano riparati. Kressich aveva l’incubo che quella sarebbe stata la fine per tutti loro, il sabotaggio di un impianto vitale da parte di un maniaco che non si fosse accontentato del proprio suicidio ricacciando nel vuoto l’intera sezione.

Era possibile farlo.

In un momento di crisi.

O in qualunque momento.

Kressich riprese a camminare avanti e indietro, più in fretta, con le braccia strette intorno allo stomaco che gli doleva sempre, nei momenti di tensione. Il dolore crebbe, cancellando le altre paure.

Alla fine chiamò a raccolta il suo coraggio, infilò la giacca, ma senza portare armi, al contrario della maggioranza degli abitanti di Q, perché doveva passare oltre il rilevatore del posto di blocco. Lottò contro la nausea, posò la mano sul comando della porta e finalmente si decise a uscire nel corridoio deturpato dalle scritte. Chiuse a chiave la porta. Non era stato ancora derubato, ma si aspettava che succedesse, nonostante la protezione di Coledy; tutti venivano derubati. Era più sicuro avere poche cose; ma si sapeva che lui ne aveva molte. Se era al sicuro, lo doveva al fatto che apparteneva a Coledy, agli occhi dei suoi uomini… se non era ancora arrivata fino a loro la notizia della domanda che aveva inoltrato.

Attraversò il corridoio, passò oltre le guardie… uomini di Coledy. Avanzò sul molo, in mezzo alla folla che puzzava di sudore, di sporcizia e di antisettici. Lo riconobbero e cercarono di afferrarlo con le mani sudicie chiedendogli notizie di quello che stava succedendo nella stazione.

— Non lo so, ancora non lo so; il comunicatore nel mio alloggio non funziona, vado a informarmi. Sì, lo chiederò. Lo chiederò, signore. — Lo ripeteva di continuo, sottraendosi a un paio di strette convulse, passando da uno all’altro, e molti avevano gli occhi stralunati, perduti nella follia delle droghe. Non correva; correre significava panico, il panico scatenava la marmaglia, e la marmaglia scatenata voleva dire morte; e là avanti c’erano le porte della sezione, la promessa di un luogo sicuro dove la zona Q non poteva arrivare, dove nessuno poteva entrare, senza il suo prezioso lasciapassare.

— È Mazian. — La voce circolava sul molo della Zona Q. E poi: — Se ne vanno. Tutti se ne vanno da Pelle e ci abbandonano qui.

— Consigliere Kressich. — Una mano lo afferrò per il braccio, con fermezza, e lo fece girare bruscamente. Kressich si trovò di fronte Sax Chambers, uno degli uomini di Coledy, e sentì la minaccia di quella stretta così violenta. — Dove va, consigliere?

— Dall’altra parte — disse lui, ansimando. Sapevano. Lo stomaco gli faceva ancora più male. — Il consiglio si riunisce per questa crisi. Lo dica a Coledy. È meglio che io ci vada. Non si può sapere altrimenti cosa deciderà il consiglio, nei nostri confronti.

Sax non disse nulla… non fece nulla, per il momento. Aveva la dote dell’intimidazione. Si limitò a fissarlo, abbastanza a lungo per ricordargli che aveva altre qualità. Lo lasciò andare, e Kressich passò oltre.

Non doveva correre. Non doveva. Non doveva voltarsi indietro. Non doveva tradire il suo terrore. Apparentemente era composto, sebbene avesse le viscere contratte.

Una folla s’era radunata intorno alla porta. Kressich si fece largo, ordinò di lasciarlo passare. Quelli si scostarono con sguardo torvo, e lui usò il suo lasciapassare per aprire la porta, la varcò in fretta e lo usò di nuovo per chiuderla prima che qualcuno trovasse il coraggio di seguirlo. Per un momento rimase solo sulla rampa, nella luce viva e nell’odore persistente della zona Q. Si appoggiò alla parete, tremando, con lo stomaco in subbuglio. Dopo un momento proseguì e premette il pulsante che avrebbe richiamato le guardie dall’altra parte della linea di confine.

Quel pulsante funzionava. Le guardie aprirono, accettarono il lasciapassare, presero nota della sua presenza nella stazione vera e propria. Passò attraverso la decontaminazione, e una delle guardie lasciò il suo posto per accompagnarlo; era normale, ogni volta che il consigliere della zona Q veniva ammesso nella stazione, almeno fino a quando avesse varcato i limiti della zona di confine; poi poteva proseguire da solo.

Kressich si rassettò gli abiti, cercando di liberarsi dell’odore, dei ricordi e dei pensieri della zona Q. Ma stava suonando l’allarme, le spie rosse lampeggiavano in tutti i corridoi e dovunque c’erano uomini della sicurezza e della polizia. Non c’era pace neppure da questa parte.


PELL: CENTRALE, UFFICIO COMUNICAZIONI; ore 1300

I quadri delle comunicazioni della centrale erano illuminati da una estremità all’altra, intasati dalle chiamate che arrivavano simultaneamente da ogni parte della stazione. Le comunicazioni private erano interrotte; in tutte le zone c’era l’allarme rosso, e ai residenti era stato raccomandato di restare dov’erano.

Non tutti rispettavano quella disposizione. Sul monitor si vedevano molti corridoi vuoti, altri pieni di residenti terrorizzati. E ciò che si vedeva sui monitor della zona Q era anche peggio.

— Chiamate la sicurezza — ordinò Jon Lukas, fissando gli schermi. — Azzurro tre. — Il capodivisione si chinò sul quadro e impartì istruzioni. Jon andò al banco principale avvicinandosi al capo delle comunicazioni. Tutti i membri del consiglio erano stati invitati a ricoprire tutti i posti d’emergenza più vicini, a occuparsi delle direttive principali, non dei dettagli. Lui, che si trovava a poca distanza, era accorso immediatamente, passando attraverso il caos esterno. Hale… sperò ardentemente che Hale avesse fatto quel che gli era stato detto, nel suo appartamento insieme a Jessad. Osservò la confusione del centro, cominciò ad andare da un quadro all’altro, scrutando il disordine dei corridoi. Il capo delle comunicazioni continuava a cercare di chiamare l’ufficio del dirigente della stazione, ma neppure lui ci riusciva; tentava di ottenere il contatto attraverso il comunicatore del comando della stazione, e riceveva sempre la stessa risposta, la scritta CANALE NON DISPONIBILE che lampeggiava sullo schermo.

Il capo imprecava e accettava le proteste dei suoi subordinati, stravolto, nel bel mezzo della crisi.

— Cosa sta succedendo? — chiese Jon. Attese, mentre l’altro ignorava per un momento la sua domanda per sbrigare la richiesta di un subordinato. — Cosa sta facendo?

— Consigliere Lukas — disse il capo, con voce tesa, — siamo occupatissimi. Non abbiamo tempo.

— Non riesce a mettersi in contatto.

— No, signore. Non ci riesco. Sono impegnati con il comando. Mi scusi.

— Lasci perdere — disse Jon, quando il supervisore fece per girarsi di nuovo verso il quadro; e quando quello lo guardò, sorpreso, aggiunse: — Mi dia la comunicazione generale.

— Ho bisogno dell’autorizzazione — rispose il supervisore. Dietro di lui, le spie rosse cominciarono a lampeggiare e a moltiplicarsi. — Ho bisogno dell’autorizzazione, consigliere. Deve darla il dirigente della stazione.

Faccia come le ho detto!

L’uomo esitò, si guardò intorno come in cerca di consiglio. Jon lo prese per la spalla e lo fece girare verso il quadro, mentre si accendevano altre spie luminose.

— Si sbrighi — ordinò Jon, e il capo allungò la mano e attivò un microfono.

— Precedenza generale al numero uno — ordinò, e in un attimo ricevette via libera. — Precedenza sul video e sul comunicatore. — Lo schermo principale del centro di comunicazioni si accese.

Jon trasse un profondo respiro e si lasciò inquadrare. L’immagine veniva diffusa dovunque, anche nel suo appartamento, dove c’era un uomo che si faceva chiamare Jessad. — Qui il consigliere Jon Lukas — disse, rivolto all’intera Pell, irrompendo in tutti i canali, dalle postazioni occupate a dirigere l’avvicinamento delle navi fino ai dormitori della zona Q, e a tutte le abitazioni. — Devo fare un annuncio generale. La flotta che si trova nelle nostre vicinanze risulta essere quella di Mazian, e sta procedendo alle normali operazioni di attracco. Questa stazione è sicura, ma resterà in condizione rossa fino al cessato allarme. L’attività, nel centro comunicazioni e altrove, sarà più agevole se ogni cittadino si asterrà dall’usare i comunicatori se non in caso di estrema necessità. Tutti i punti della stazione sono sicuri e non ci sono stati danni né situazioni critiche. Le chiamate verranno registrate e si prenderà nota della mancata osservanza di questa richiesta ufficiale. A tutti gli operai indigeni: presentatevi ai rispettivi alloggiamenti e attendete che qualcuno venga a impartire direttive. Restate lontani dai moli. Tutti gli altri operai continuino l’attività assegnata. Se potete risolvere i problemi senza chiamare la centrale, fatelo. Per ora abbiamo solo contatti operativi con la Flotta; non appena avremo informazioni, le renderemo pubbliche. Siete pregati di restare in attesa accanto ai vostri ricevitori: questa sarà la fonte di notizie più rapida e precisa.

Jon Lukas si scostò. Le spie smisero di lampeggiare sulla telecamera. Si guardò intorno e vide che il caos era diminuito, mentre l’intera stazione, per un momento, aveva altro a cui pensare. Certe chiamate si ripeterono subito — presumibilmente erano necessarie e urgenti — altre no. Jon trasse un profondo respiro, pensando con una parte della sua mente a ciò che poteva accadere nel suo appartamento o, peggio ancora, fuori… sperando che Jessad fosse là e temendo che venisse scoperto. Mazian. I militari, che forse avrebbero cominciato a controllare tutto, a fare domande imbarazzanti. E se si fosse scoperto che ospitava Jessad…

— Signore. — Era il capo delle comunicazioni. Il terzo schermo da sinistra s’era acceso. Angelo Konstantin, paonazzo per la collera. Jon premette il pulsante per ricevere la chiamata.

— Usa le procedure — sibilò Angelo, e tolse la comunicazione. Lo schermo si spense, mentre Jon stringeva i pugni e cercava di capire se era andata così percné Angelo non aveva una risposta pronta o perché invece era occupato.

Succeda pure, pensò, in un accesso d’odio, mentre il sangue gli pulsava nelle vene. Mazian poteva evacuare tutti quelli che volevano andarsene. Poi sarebbe arrivata la Confederazione… e avrebbe avuto bisogno di quelli che conoscevano la stazione. Era possibile raggiungere un’intesa; il suo accordo con Jessad gli avrebbe spianato la strada. Non era il momento di lasciarsi intimidire. Ormai era in ballo e non poteva tirarsi indietro.

Il primo passo… rendersi visibile, essere una voce rassicurante, e fare in modo che Jessad lo notasse. Farsi conoscere, rendere familiare la sua faccia a tutta la stazione. Era quello il vantaggio che i Konstantin avevano sempre avuto, il monopolio dell’immagine pubblica, la bellezza. Angelo sembrava un patriarca; lui no. Lui non aveva i modi e l’abitudine dell’autorità. Ma l’abilità… quella l’aveva; e quando il suo cuore aveva incominciato a controllare la paura iniziale del disordine là fuori, aveva trovato un vantaggio in quel disordine, in tutti gli avvenimenti che congiuravano contro i Konstantin.

Solo Jessad… Jon ricordava Mariner, che era caduta quando Mazian era intervenuto. C’era una sola cosa che li proteggeva, adesso… Jessad doveva contare su di lui e su Hale, perché non aveva ancora una rete propria; e in quel momento Jessad era imprigionato, e doveva fidarsi di lui, perché non si azzardava a girare nei corridoi senza documenti… non si azzardava a farsi vedere, adesso che stava arrivando Mazian.

Trasse un profondo respiro, pensando al proprio potere. Era nella posizione migliore. Jessad poteva fornire le garanzie… altrimenti, che cosa poteva contare un altro cadavere gettato nel vuoto, un altro cadavere senza documenti, come quelli che venivano scaricati dalla zona Q? Jon non aveva mai ucciso; ma dal momento in cui aveva accettato la presenza di Jessad, aveva compreso che c’era anche quella possibilità.

CAPITOLO SECONDO

NORWAY: ore 1400

Era un processo lento, far attraccare tutte quelle navi; prima la Pacific, poi l’Africa, l’Atlantic, l’India. La Norway ricevette l’autorizzazione e Signy, dal ponte di comando, passò l’ordine a Graff. La Norway sì mosse in fretta, impaziente dopo aver atteso così a lungo; stava aprendo i portelli perché le squadre dei moli di Pell assicurassero il condotto, quando si mosse l’Australia; mentre stava completando le manovre l’Europe attraccò, disdegnando la collaborazione della stazione.

— Non mi sembra che ci siano guai — disse Graff. — Dal molo sto ricevendo il segnale di tutto tranquillo. C’è un gran numero di uomini della sicurezza. Nessuna traccia di civili in preda al panico. Hanno in pugno la situazione.

Questo era abbastanza consolante. Signy si rilassò un po’, cominciò a sperare che le cose sarebbero andate normalmente, almeno finché la Flotta avesse finito di sbrigare i suoi affari.

— Messaggio — annunciò il centro comunicazioni. — Chiamata generale dal dirigente della stazione di Pell alla Flotta attraccata: benvenuti, e vi preghiamo di presentarvi al più presto al consiglio della stazione.

— Risponderà l’Europe — mormorò Signy, e dopo qualche istante l’ufficiale addetto alle comunicazioni dell’Europe rispose, chiedendo un breve rinvio.

— A tutti i comandi — si sentì finalmente sul canale di emergenza che Signy stava ascoltando da ore. Era la voce bassa di Mazian. — Conferenza in sala riunioni immediatamente. Lasciate il comando ai vostri luogotenenti e venite qui.

— Graff. — Signy si alzò di scatto. — Prenda il comando. Di, mi dia dieci uomini di scorta, subito.

Altri ordini stavano arrivando dall’Europe; cinquanta militari di ciascuna nave sui moli, in assetto da combattimento; il comando della Flotta veniva passato ad interim al secondo dell’Australia, Jan Meyis; i caccia-ricognitori delle navi attraccate dovevano rivolgersi alla direzione della stazione e chiedere istruzioni per l’avvicinamento. Adesso toccava a Graff occuparsi di quei dettagli. Mazian aveva qualcosa da dire: le spiegazioni tanto attese.

Signy Mallory andò nel suo ufficio; si trattenne solo per infilare in tasca una pistola, raggiunse l’ascensore e scese nel corridoio d’accesso. Si trovò fra le truppe che Graff stava inviando sul molo… in assetto da combattimento dal momento in cui avevano incominciato ad avvicinarsi alla stazione, s’erano dirette verso il portello prima ancora che gli echi della voce di Graff si fossero smorzati nei corridoi d’acciaio della Norway. Di era con loro; e gli uomini della sua scorta si staccarono dagli altri e si accodarono quando lei li superò.

Tutto il molo era sotto il loro controllo. Uscirono nello stesso istante in cui stavano arrivando le truppe delle altre navi, e gli uomini del servizio di sicurezza della stazione arretrarono confusi davanti all’efficiente avanzata delle truppe corazzate, che sapevano esattamente quale perimetro delimitare, occupandolo senza indugi. Gli operai si dispersero, senza sapere dove ci fosse bisogno di loro. — Al lavoro! — gridò Di Janz. — Passare qui i tubi dell’acqua! — Gli operai si decisero subito… non rappresentavano una minaccia, erano troppo vicini e troppo vulnerabili, in confronto alle truppe. Signy fissava le guardie armate della sicurezza al di là delle linee, e i grovigli semibui dei cavi e delle scale mobili che potevano nascondere un cecchino. La sua scorta la circondò, al comando di Bihan. Si avviò rapidamente, passando davanti alle navi attraccate, dove i cordoni ombelicali, le scale e le rampe si estendevano a perdita d’occhio lungo la curva ascendente del molo, come immagini riflesse in uno specchio, e interrotte soltanto dagli archi divisori delle sezioni e dall’orizzonte… dov’erano attraccati i mercantili. Le truppe si schierarono lungo l’intero percorso fra la Norway e l’Europe. Signy seguì Tom Edger, il comandante dell’Australia, e la sua scorta. Gli altri comandanti sarebbero venuti dopo di lei al più presto possibile.

Raggiunse Edger sulla rampa d’accesso dell’Europe, e proseguirono insieme. Keu dell’India arrivò quando erano all’ascensore, e subito dopo venne Porey dell’Africa. Non parlarono; erano tutti taciturni, forse presi dagli stessi pensieri e dalla stessa rabbia. Non facevano ipotesi. Ognuno di loro prese con sé soltanto un paio di guardie, e tutti salirono in silenzio con l’ascensore, e percorsero il corridoio fino alla sala del consiglio; i passi risuonavano pesantemente, lassù, nei corridoi ben più spaziosi di quelli della Norway; tutto era su scala più ampia. Ma l’ambiente era deserto: solo pochi militari dell’Europe montavano di guardia.

Anche la sala del consiglio era vuota; non c’era segno di Mazian, ma le luci brillavano per annunciare che erano attesi intorno a quel tavolo circolare. — Fuori — ordinò Signy alla sua scorta, che uscì con le altre. Signy Mallory e gli altri comandanti presero posto secondo l’ordine di anzianità. Prima Tom Edger, poi lei, tre posti vuoti, quindi Keu e Porey. Arrivò Sung della Pacific, e occupò la nona sedia. Poi venne Kreshov dell’Atlantic, e sedette sulla quarta, di fianco a Signy.

— Lui dov’è? — chiese finalmente Kreshov, spazientito. Signy alzò le spalle e incrociò le braccia sul tavolo, fissando Sung senza vederlo. Tanta fretta… e poi l’attesa. Ritirati dalla battaglia, tenuti in un lungo silenzio… e adesso attendevano ancora di sentirsi spiegare perché. Fisso il viso di Sung, una maschera classica un po’ invecchiata che non tradiva mai l’impazienza; ma gli occhi erano cupi. I nervi, si disse. Erano esausti. Erano stati bruscamente richiamati dal combattimento, avevano viaggiato nell’iperspazio e adesso… questo. Non era il momento per dare giudizi impegnativi o profondi.

Alla fine Mazian entrò, tranquillo, passò accanto a loro e prese posto all’estremità del tavolo, a testa bassa, scosso quanto loro. La sconfitta? si chiese Signy, con un nodo alla bocca dello stomaco. E poi Mazian alzò la testa e lei vide le labbra contratte e comprese che non era così… trattenne il respiro in uno scatto di rabbia. Riconosceva quella tensione, la maschera… Conrad Mazian recitava, inscenando le sue apparizioni come inscenava imboscate e battaglie, recitava di volta in volta la parte del raffinato o dell’individuo volgare. Questa era l’umiltà, la faccia più falsa di tutte; un abito sobrio, senza ostentazione di gradi; i capelli ingrigiti dal ringiovanimento erano immacolati, la faccia magra, gli occhi tragici… soprattutto gli occhi mentivano con la facilità di quelli di un attore. Signy osservò il gioco delle espressioni, la fluidità meravigliosa che avrebbe incantato un santo. Mazian si preparava a manovrarli. Lei strinse le labbra.

— State bene? — chiese loro. — Tutti quanti?

Perché siamo stati convocati? — chiese subito Signy; trovò un contatto diretto con quegli occhi, e un riflesso di collera. — Che cosa non si poteva dire per comunicatore? — In tutta la sua carriera non aveva mai discusso un ordine di Mazian. Ma adesso lo fece, e vide l’espressione di collera trasformarsi in un’altra che sembrava quasi d’affetto.

— Sta bene — disse Mazian. — Sta bene. — Girò gli occhi intorno a sé… c’erano ancora posti vuoti. Erano nove, e due erano in servizio di pattuglia. Lo sguardo si fissò su ognuno di loro, in successione. — C’è qualcosa che dovete sentire — disse Mazian. — Qualcosa di cui dobbiamo tenere conto. — Premette vari pulsanti sulla consolle davanti a sé, attivò gli schermi sulle quattro pareti, che mostravano immagini identiche. Signy vide gli stessi schemi che aveva visto per l’ultima volta a! Punto Omicron e, con un sapore amaro in bocca, vide l’area allargarsi, le stelle note rimpicciolire. Non c’era più il territorio dell’Anonima; non era più sotto il loro controllo; c’era soltanto Pell. Nell’inquadratura più ampia, poterono vedere le Stelle delle Retrovie. Non Sol. Ma anche questo entrava nel conto. Signy sapeva bene dove sarebbe apparso, se lo schema si fosse allargato ancora. Ma non si allargò.

— Cosa significa? — chiese Kreshov.

Mazian lasciò che continuassero a guardare.

A lungo.

— Che cosa significa? — ripeté Kreshov.

Signy respirò: si avvertì un certo sforzo, in quel silenzio. Il tempo sembrò fermarsi, mentre Mazian mostrava loro, nel silenzio, ciò che era già impresso nelle loro menti.

Avevano perduto. Un tempo quello era il loro dominio, e avevano perduto.

— Da un solo mondo abitato — disse Mazian, quasi in un bisbiglio, — da un solo mondo abitato, l’umanità si è estesa nello spazio. Una fascia ristretta, spinta all’indietro dalla Confederazione… le Stelle delle Retrovie; Pell… e le Stelle delle Retrovie. Con il personale di Pell… è possibile tenerlo.

— E fuggire ancora? — chiese Porey.

Un muscolo vibrò sulla mascella di Mazian. Signy sentì il proprio cuore battere forte; aveva le mani sudate. Tutto stava per sfasciarsi.

— Ascoltate! — sibilò Mazian, lasciando cadere la maschera! — Ascoltate!

Premette un altro pulsante. Incominciò a parlare una voce lontana, registrata. Signy la conosceva, conosceva l’inflessione straniera… la conosceva.

— Comandante Conrad Mazian — incominciò la registrazione — sono il secondo segretario Segust Ayres del Consiglio di Sicurezza, codice di autorizzazione Ornar serie tre, con autorità del Consiglio e dell’Anonima. Cessate il fuoco. Cessate il fuoco. Stiamo negoziando la pace. Come dimostrazione di buona fede chiedo di interrompere le operazioni e di attendere ordini. È una direttiva dell’Anonima. Si sta facendo ogni sforzo per garantire la sicurezza del personale civile e militare dell’Anonima durante questi negoziati. Ripeto: Comandante Conrad Mazian, sono il secondo segretario Segust Ayres…,

La voce s’interruppe bruscamente alla pressione di un tasto. Poi vi fu un lungo silenzio. Le espressioni erano di sbigottimento.

— La guerra è finita — mormorò Mazian. — La guerra è finita, capite?

Un brivido gelido scorse nel sangue di Signy. Tutto intorno a loro c’erano le immagini di ciò che avevano perduto, la situazione in cui si trovavano.

— L’Anonima si è finalmente decisa a fare qualcosa — disse Mazian. — A consegnare alla Confederazione… questo. — Alzò la mano verso gli schermi, in un gesto che includeva l’universo. — Ho registrato il messaggio trasmesso dall’ammiraglia della Confederazione, quel messaggio. Dall’ammiraglia di Seb Azov. Capite? La designazione in codice è valida. Mallory, i delegati dell’Anonima che volevano un passaggio… ecco che cosa ci hanno fatto.

Lei trasse un profondo respiro. Tutto il calore era svanito. — Se li avessi presi a bordo…

— Non avrebbe potuto fermarli, sia chiaro. Gli uomini dell’Anonima non prendono decisioni indipendenti. Era già stato stabilito altrove. Anche se li avesse uccisi tutti, non l’avrebbe impedito… l’avrebbe solo ritardato.

— Fino a quando noi avessimo stabilito un’altra linea — rispose Signy. Guardò gli occhi chiari di Mazian e ricordò ognuna delle parole che aveva detto ad Ayres, ogni movimento, ogni intonazione. Lo aveva lasciato andare… a far questo.

— Così hanno trovato un passaggio, in qualche modo — disse Mazian. — Il problema è: quali accordi hanno concluso prima su Pell… e che cosa esattamente hanno ceduto alla Confederazione? C’è anche la possibilità che questi cosiddetti negoziatori non siano indenni. Sottoposti al lavaggio del cervello, firmerebbero qualunque cosa, direbbero tutto ciò che vuole la Confederazione, conoscendo i codici dell’Anonima… e senza sapere che altro hanno detto, senza sapere quali altri codici, quali informazioni hanno rivelato; i nostri codici interni, no, ma non sappiamo quali codici di Pell hanno consegnato… tutte cose che permetterebbero alla Confederazione di piombare direttamente qui. Per questo ho interrotto il combattimento. Mesi di pianificazione, sì; le stazioni perdute; le navi e gli amici perduti; immense sofferenze umane… e tutto questo per niente. Ma dovevo prendere una decisione in fretta. La Flotta è intatta, e anche Pell; bene o male, questo l’abbiamo ancora. A Viking avremmo potuto vincere, ma saremmo rimasti inchiodati là, e avremmo perduto Pell… la fonte dei rifornimenti. Per questo ce ne siamo andati.

Nessuno disse niente, nessuno si mosse. Adesso tutto aveva un senso.

— Ecco quel che non volevo dire per comunicatore — spiegò Mazian. — Scegliete voi. Siamo a Pell, dove una possibilità di scelta l’abbiamo. Dobbiamo presumere che sono stati gli uomini dell’Anonima a trasmettere quell’ordine… in normali condizioni mentali? Senza esserci costretti? La Terra ci appoggia ancora? È dubbio. Ma… amici miei, ha importanza?

— In che senso? — chiese Sung.

— Guardate la mappa, amici, guardatela ancora. Qui… qui c’è un mondo. Pell. E una potenza può sopravvivere, senza di essa? Che cos’è la Terra… se non questo? Qui potete scegliere: seguire quelli che forse sono gli ordini dell’Anonima, oppure restare qui, radunare le risorse, agire. L’Europe rimane, indipendentemente dagli ordini. Se resteranno abbastanza navi, potremo costringere la Confederazione a pensarci due volte prima di mettere il naso qui. Non hanno equipaggi in grado di combattere come noi sappiamo fare; qui noi abbiamo i rifornimenti; abbiamo le risorse. Ma decidete voi… io non vi fermerò. Oppure potete restare e fare ciò che penso sia in vostro potere. E quando la storia scriverà ciò che qui è accaduto all’Anonima, potrà scrivere ciò che vorrà sul conto di Conrad Mazian. Io ho fatto la mia scelta.

— L’abbiamo fatta in due — disse Edger.

— In tre — disse Signy, non più rapidamente del mormorio degli altri. Mazian girò lentamente lo sguardo su di loro, annuì.

— Allora rimarremo, ma dovremo prendere Pell. Forse avremo collaborazione, qui, e forse no. Lo scopriremo… E non siamo ancora tutti d’accordo. Sung, voglio che raggiunga personalmente la North Pole e la Tibet per riferire. Lo spieghi come vuole. E se c’è un forte numero di dissenzienti in qualunque equipaggio o fra le truppe, daremo loro la nostra benedizione e li lasceremo andare; prenderemo uno dei mercantili che sono qui e li imbarcheremo. Lascio liberi i vari comandanti di regolarsi come credono!

— Non ci saranno dissensi — disse Keu.

Se ci saranno — disse Mazian. — La stazione, dunque… ci muoveremo e infiltreremo dovunque i nostri servizi di sicurezza, metteremo il nostro personale nei punti chiave. Vi basterà mezz’ora per informare i vostri comandi. Qualunque cosa decidano di fare, è fuori di dubbio che dobbiamo tenere saldamente Pell prima di poter intraprendere una qualunque azione, sia per liberare una nave per far partire qualcuno, sia per trattenerla.

— Possiamo andare? — chiese Kreshov quando il silenzio si protrasse.

— Andate — disse sottovoce Mazian, congedandoli.

Signy si alzò e uscì subito dopo Sung; superò il servizio di sicurezza di Mazian alla porta, e se ne andò seguita dalla sua scorta. L’incertezza le pesava ancora sulla coscienza. Aveva fatto parte dell’Anonima per tutta la vita… aveva detestato la sua politica e la sua cecità, ma adesso si sentiva nuda a starne fuori.

Era il timore, si disse. Studiava la storia, e ne apprezzava le lezioni. Le atrocità peggiori incominciavano con le mezze misure, con le scuse, i compromessi, i rifiuti di fare quanto era necessario. L’Abisso e le sue esigenze erano valori assoluti; e il compromesso che l’Anonima aveva concluso con le Stelle Sperdute non sarebbe durato più a lungo della convenienza del più forte… e la più forte era la Confederazione.

Loro servivano la Terra, si disse, meglio di quanto avessero fatto gli agenti dell’Anonima con i loro cedimenti.

CAPITOLO TERZO

PELL: SETTORE BIANCO DUE; ore 1530

Fuori, nel corridoio, dovevano essere ancora accese le luci dell’allarme. Il centro recupero continuava con il solito ritmo. Il supervisore passava nelle corsie tra le macchine e con la sua presenza faceva azzittire tutti. Josh teneva la testa bassa. Staccò un sigillo di plastica da un piccolo motore usurato, lo lasciò cadere su un vassoio, gettò i morsetti in un altro vassoio, divise i componenti secondo le varie categorie, per usarli di nuovo e riciclarli secondo le condizioni e il tipo di materiale.

Dopo il primo annuncio del comunicatore non erano arrivate altre notizie dallo schermo di fronte. Non erano state consentite altre discussioni dopo il brusio iniziale di sgomento. Josh teneva gli occhi lontani dallo schermo e dal poliziotto sulla porta. Avrebbe dovuto terminare il suo turno tre ore prima. Avrebbero dovuto andarsene tutti, quelli che lavoravano a orario parziale. Avrebbero dovuto arrivare gli altri operai. Era lì da più di sei ore. Non c’era la mensa. Alla fine, il supervisore aveva mandato a prendere tramezzini e bevande per tutti. C’era ancora una tazza di ghiaccio sul banco davanti a lui. Josh non la toccò; voleva sembrare completamente assorto nel lavoro.

Il supervisore si fermò un momento alle sue spalle. Josh non reagì, e non interruppe il ritmo dei movimenti. Sentì il supervisore passare oltre e non si voltò a guardarlo.

Non lo trattavano diversamente dagli altri. Era la sua mente sconvolta, si disse, a fargli sospettare che lo sorvegliassero in modo particolare. Erano tutti sorvegliati. La ragazza accanto a lui, dai movimenti lenti, solenni, sempre così attenta, eseguiva il suo lavoro con il massimo impegno, e la natura non le aveva concesso molte capacità. Molti, al centro recupero, appartenevano a quella categoria. C’erano alcuni che entravano giovani, magari per farsi strada e qualificarsi, per acquisire capacità meccaniche elementari e poi raggiungere posizioni più elevate come tecnici o nelle fabbriche. E c’erano alcuni i cui sintomi nervosi indicavano altre ragioni per la loro presenza, una concentrazione ansiosa, ossessiva… era strano osservare quei sintomi negli altri.

Ma lui non era mai stato un criminale, come forse erano stati gli altri, e forse per questo si fidavano meno di lui. Gli piaceva quel lavoro, che teneva occupata la sua mente e gli dava l’indipendenza… proprio come la ragazza seria al suo fianco che amava il suo posto, pensò. All’inizio, preso dallo zelo e dal desiderio di dimostrare la sua abilità, aveva lavorato con rapidità febbrile; ma aveva visto che ciò sconvolgeva la ragazza, e di riflesso anche lui, perché la ragazza non poteva fare di più. Allora era sceso a un compromesso e non aveva messo in mostra la sua efficienza. Era abbastanza per sopravvivere. Per molto tempo gli era parso che fosse sufficiente.

Adesso era in preda alla nausea e si rammaricava di aver mangiato tutto il tramezzino; ma anche in questo non aveva voluto apparire diverso dagli altri.

La guerra era giunta sino a Pell. I maziani. La Flotta era arrivata.

La Norway, e Signy Mallory.

Josh rifiutava certi pensieri. Quando il buio lo assillava, lavorava con maggiore impegno e scacciava i ricordi. Ma… la guerra… Accanto a lui, qualcuno mormorò che avrebbero dovuto evacuare la stazione.

Non era possibile. Non poteva accadere.

Damon! pensò. Avrebbe voluto alzarsi e uscire, andare in ufficio, a farsi tranquillizzare. Ma non avrebbe trovato nessuna certezza, e aveva paura di chiederlo.

La Flotta di Mazian. La legge marziale.

Lei era con loro.

Avrebbe potuto crollare, se non fosse stato prudente: l’equilibrio della sua mente era delicato, e lo sapeva. Forse era stata una pazzia chiedere quell’oblio, e l’Adattamento non l’aveva reso più squilibrato di quanto fosse mai stato. Sospettava di ogni suo sentimento, e perciò cercava di provarne il meno possibile.

— Riposo — disse il supervisore. — Dieci minuti di pausa.

Josh continuò a lavorare, come aveva sempre fatto durante le pause precedenti. Anche la ragazza che stava accanto a lui continuò a lavorare.


NORWAY: ore 1530

— Terremo Pell — disse Signy all’equipaggio e alle truppe, a quelli che erano presenti con lei sul ponte e a quelli che erano sparsi nella nave. — La nostra decisione… di Mazian, mia, degli altri comandanti, è tenere Pell. Gli agenti dell’Anonima hanno firmato un trattato con la Confederazione… hanno ceduto in blocco le Stelle Sperdute e ci hanno chiesto di tirarci in disparte; hanno consegnato il nostro codice alla Confederazione. È per questo che abbiamo rinunciato all’attacco… ecco perché ci siamo ritirati. Non sapevamo quale parte dei nostri codici fosse stata consegnata al nemico. — Tacque un momento, scrutando le facce cupe intorno a lei, pensando a tutta la nave, a tutti gli altri che l’ascoltavano. — Pell… le Stelle delle Retrovie, questa parte delle Stelle Sperdute… è tutto ciò che ci rimane. Non accetteremo quell’ordine dall’Anonima; non accetteremo la resa, comunque venga presentata. Siamo liberi, e questa volta possiamo combattere la guerra a modo nostro. Abbiamo un mondo e una stazione; e tutte le Stelle Sperdute cominciarono allo stesso modo. Possiamo ricostruire le stazioni delle Stelle delle Retrovie, tutte quelle che esistevano tra qui e Sol. Possiamo farlo. Forse l’Anonima non è abbastanza intelligente per desiderare un cuscinetto tra sé e la Confederazione; ma, credetemi, lo capirà, e almeno avrà il buon senso di non stuzzicarci. Adesso Pell è il nostro mondo. Abbiamo nove navi da guerra per difenderlo. Non facciamo più parte dell’Anonima. Siamo la Flotta di Mazian, e Pell è nostra. Qualcuno non è d’accordo?

Signy attese, sebbene conoscesse i suoi uomini… perché qualcuno poteva aver opinioni diverse, ripensamenti. Ne avrebbero avuto il motivo.

Un’acclamazione improvvisa si levò dai ponti delle truppe e trovò un’eco in tutti i canali aperti. Sul ponte, molti si scambiavano abbracci e sorrisi. Graff abbracciò Signy, e l’operatore militare, Tiho, fece altrettanto, e così gli altri che erano suoi ufficiali da molti anni. Alcuni piangevano. Gli occhi di Graff erano pieni di lacrime. Ma i suoi no; forse avrebbe pianto, ma c’era quel senso di colpa… un attaccamento irrazionale a una forma inveterata di devozione. Abbracciò Graff una seconda volta, poi si guardò intorno. — Prepariamoci — disse. Le sue parole arrivavano a tutta la nave, attraverso il comunicatore aperto. — Ci muoveremo per occupare la centrale della stazione prima che si rendano conto della situazione. Di, si sbrighi.

Graff cominciò a dare gli ordini. Signy Mallory sentì Di farli echeggiare nei corridoi delle truppe. Sul ponte di comando incominciò l’attività; i tecnici si agitavano, urtandosi nelle strette corsie, per raggiungere i loro posti. — Dieci minuti — gridò lei. — Armamento completo. Tutte le truppe disponibili si armino e si preparino a uscire.

Si sentivano altre grida, il comunicatore portava i suoni delle truppe che correvano a mettersi le tute prima ancora che gli ordini venissero trasmessi ufficialmente. I comandi presero a echeggiare nei corridoi. Signy tornò nel suo minuscolo ufficio-alloggio, ebbe la precauzione di indossare il casco e la corazza, senza protezione per gli arti, accettando il rischio pur di conservare la libertà di movimento. Cinque minuti. Sentì Di scandire il tempo attraverso il comunicatore, nel caos che giungeva dalle varie postazioni. Non aveva importanza. Il suo equipaggio e le sue truppe sapevano il fatto loro. Erano gente di famiglia. Gli individui incompatibili incappavano subito in qualche incidente e quelli che restavano erano tutti legati come fratelli, come bambini, come innamorati.

Signy uscì, infilando la pistola nella fondina, e scese con l’ascensore; le truppe corazzate si stavano riversando nel corridoio e si arrestarono lungo le pareti per farle largo appena la riconobbero, perché potesse uscire alla loro testa, come le spettava.

— Signy! — le gridarono, giubilanti. — Brava, Signy!

Erano di nuovo vivi, e lo sentivano.


CONSIGLIO DI PELL: SETTORE AZZURRO UNO

— No — disse subito Angelo. — No, non tentate di fermarli. Ripiegate. Ritirate immediatamente le nostre forze.

Il comando della stazione diede il ricevuto e continuò la sua attività. Nella Sala del consiglio gli schermi cominciarono a rispecchiare i nuovi ordini; la voce sommessa del comando della sicurezza riferiva i rapporti. Angelo si lasciò cadere sulla sedia, all’estremità del tavolo, tra i banchi parzialmente occupati e i mormoni soffocati di panico di coloro che erano riusciti ad arrivare fin lì. Intrecciò le mani e le portò davanti alla bocca, in atteggiamento pensoso, e studiò i rapporti che continuavano ad affluire dagli schermi in rapida sequenza, visioni dei moli invasi da truppe corazzate. Alcuni membri del consiglio avevano atteso troppo a lungo, non potevano uscire dalle sezioni dove lavoravano o dove svolgevano compiti di emergenza. Damon ed Elene arrivarono insieme, ansimanti, ed esitarono sulla soglia. Angelo chiamò con un cenno il figlio e la nuora — era un privilegio personale — e i due si avvicinarono, occuparono due dei posti liberi intorno al tavolo. — Ho dovuto lasciare l’ufficio del molo in tutta fretta — disse sottovoce Damon. — Sono salito con l’ascensore. — Dietro di loro sopraggiunsero Jon Lukas e il suo gruppo di amici; presero posto, gli amici sui banchi e Jon al tavolo. Arrivarono due Jacoby, con i capelli in disordine e le facce imperlate di sudore. Quello non era il consiglio; era un rifugio per evitare ciò che stava succedendo fuori.

Sugli schermi la situazione peggiorava; le truppe si dirigevano verso il cuore della stazione, il servizio di sicurezza cercava di seguire da lontano gli avvenimenti, passando in fretta da una telecamera all’altra, in un rapido succedersi di immagini.

— Il personale vuol sapere se blocchiamo le porte del centro di controllo — disse il consigliere, affacciandosi sulla soglia.

— Contro i fucili? — Angelo si umettò le labbra, scosse lentamente la testa, fissando l’alternarsi delle inquadrature.

— Chiami Mazian — disse Dee, un nuovo arrivato. — Protesti.

— L’ho fatto, signore. Non ho ricevuto risposta. Credo che sia dalla loro parte.

Disordini nella zona Q, riferì uno schermo. Tre morti accertati. Numerosi feriti…

— Signore — arrivò una chiamata, interrompendo il messaggio, — stanno premendo contro le porte della zona Q, cercano di abbatterle. Dobbiamo sparare?

— Non aprite — disse Angelo. Il cuore accelerava i battiti davanti a quel crescendo di follia. — Negativo. Non sparate a meno che le porte vengano sfondate. Che cosa volete? Farli uscire?

— No, signore.

— E allora non fateli uscire. — Il contatto s’interruppe. Angelo si asciugò il viso. Si sentiva male.

— Andrò io — si offrì Damon, alzandosi.

— Tu non vai in nessun posto — disse Angelo. — Non voglio che ti trovi coinvolto in un’azione militare.

— Signore — disse una voce ansiosa accanto a lui, qualcuno che era sceso dai banchi. — Signore…

Kressich.

Signore — disse Kressich.

— Il comunicatore della zona Q non funziona — riferì il comando della sicurezza. — L’hanno sfasciato di nuovo. Potremo cercare di provvedere. Non possono aver raggiunto gli altoparlanti del molo.

Angelo guardò Kressich, un uomo grigio e stralunato, il cui aspetto era peggiorato ancora di più negli ultimi mesi. — Ha sentito?

— Hanno paura — disse Kressich, — che ve ne andiate di qui e che la Flotta li consegni alla Confederazione.

— Noi non sappiamo che intenzioni abbia la Flotta, signor Kressich, ma se un’orda inferocita sta cercando di abbattere quelle porte per fare irruzione nella nostra area, non potremo far altro che sparare. Le consiglio di mettersi in contatto con quella sezione appena avranno ristabilito il collegamento, e se c’è un altoparlante che non hanno sfasciato, glielo faccia sapere chiaramente.

— Sappiamo di essere dei paria, qualunque cosa succeda — rispose Kressich con le labbra tremanti. — Abbiamo chiesto tante volte di accelerare i controlli, di distribuire le carte di identità, di abbreviare le pratiche. Ormai è troppo tardi, no?

— Non è detto, signor Kressich.

— Provvederete prima alla vostra gente, la sistemerete comodamente sulle navi disponibili. Vi prenderete le nostre navi.

— Signor Kressich…

— È stato fatto il possibile — disse Jon Lukas. — Alcuni di voi possono avere documenti regolari. Cerchi di non rovinare tutto, signore.

Kressich ammutolì di colpo, assunse un’espressione incerta e sbiancò in volto. Le labbra furono scosse da un tremito, e poi anche il mento; strinse convulsamente le mani.

È sorprendente, pensò acido Angelo, come riesce a scendere nei dettagli pratici.

Congratulazioni, Jon.

Era facile risolvere il problema dei profughi della zona Q. Bastava offrire documenti a tutti i loro capi, e farli ragionare. Certuni l’avevano proposto.

— Hanno preso il settore azzurro tre — mormorò Damon. Angelo seguì il suo sguardo verso i monitor, dove l’afflusso delle truppe corazzate e l’occupazione dei corridoi era diventato un processo rapido, meccanico.

— Mazian — disse Jon. — Mazian in persona.

Angelo fissò l’uomo dai capelli argentei in prima fila, contando mentalmente i secondi che quella marea di soldati avrebbe impiegato per salire le rampe d’emergenza e arrivare al loro livello, fino alla porta della sala del consiglio.

La stazione sarebbe rimasta in mano sua fino a quel momento.


SETTORE AZZURRO UNO; numero 0475

Le immagini cambiarono. Lily si scosse, balzò in piedi e camminò avanti e indietro, un passo verso i pulsanti, un passo verso la sognatrice, che aveva gli occhi turbati.

Finalmente trovò il coraggio di allungare la mano verso i comandi, per cambiare il sogno.

— No — le disse bruscamente la sognatrice; lei si voltò e vide la sofferenza… gli occhi scuri e bellissimi nel volto pallido, le lenzuola bianche, e c’era luce ovunque, ma non in quegli occhi che fissavano le immagini sulle pareti. Lily tornò da lei, s’interpose fra il sogno e la sognatrice, assestò il cuscino.

— Ti cambio posizione — propose.

— No.

Lily le accarezzò la fronte, delicatamente. — Dal-tes-elan, ti voglio bene, ti voglio bene.

— Sono soldati — disse Il-Sole-è-suo-amico, con quella voce così calma che trasfondeva pace negli altri. — Uomini-con-fucili, Lily. Sono guai. Non so che cosa può accadere.

— Sogna di farli andar via — implorò Lily.

— Non ho il potere di farlo, Lily. Ma vedi, non usano i fucili. Non fanno male a nessuno.

Lily rabbrividì e le restò vicina. Di tanto in tanto, sulle pareti sempre mutevoli, appariva la faccia del sole, e ciò le rassicurava, e le stelle danzavano, e la faccia del mondo brillava per loro come la falce della luna. E la fila degli uominì-nei-gusci si allungava, e riempiva tutte le strade della stazione.


Non ci fu resistenza. Signy non aveva estratto la pistola, sebbene tenesse la mano sul calcio. E neppure Mazian o Kreshov o Keu. Era compito delle truppe avanzare minacciose con i fucili spianati. Avevano sparato una raffica d’avvertimento sui moli, ed era bastato. Si muovevano in fretta, senza lasciare tempo di riflettere a chi si parava davanti a loro e senza lasciare alcuna possibilità di discussione. Erano ben pochi quelli che si mettevano sulla loro strada, in quelle sezioni. Angelo Konstantin aveva dato ordini precisi, pensò Signy… l’unica soluzione ragionevole.

Cambiarono livello, salirono una rampa in fondo al corridoio principale. I passi echeggiarono nel vuoto; il rumore delle truppe che avanzavano lentamente per andare a piazzarsi a intervalli prestabiliti sollevava echi ancor più profondi. Passarono dalla rampa d’emergenza e raggiunsero il comando della stazione; anche i soldati irruppero nella sala, agli ordini degli ufficiali, e spianarono i fucili, mentre altri drappelli si avviavano nei corridoi laterali per invadere altri uffici; niente spari. Continuarono a muoversi lungo i corridoi centrali; passarono dal freddo acciaio e dalla plastica alle superfici più morbide che attutivano i rumori; entrarono nella sala con le bizzarre statue lignee, i cui occhi non apparivano più turbati di quanto lo erano stati prima d’ora.

Ed anche gli umani, il piccolo gruppo radunato nell’anticamera della sala del consiglio, avevano gli occhi egualmente sbarrati.

Le truppe entrarono senza indugi, e spinsero con decisione le porte decorate. I battenti girarono, e due soldati si piazzarono immobili come statue, rivolti verso l’interno, con i fucili spianati. I consiglieri, nella sala tutt’altro che gremita, si alzarono e si girarono verso i fucili, mentre Signy, Mazian e gli altri facevano il loro ingresso. Nel loro atteggiamento c’era dignità, se non proprio un’aria di sfida.

— Comandante Mazian — disse Angelo Konstantin, — posso invitarla a sedere e a discutere con noi… lei e i suoi comandanti?

Mazian restò un momento immobile. Signy stava fra lui e Keu, con Kreshov dall’altra parte, scrutando quelle facce. Non c’era neppure una metà dei consiglieri. — Non vi porteremo via molto tempo — disse Mazian. — Ci avete invitati qui. Eccoci.

Nessuno si era mosso, per mettersi a sedere o cambiare posizione.

— Vorremmo — disse Konstantin, — una spiegazione di questa… operazione.

— Legge marziale per la durata dell’emergenza — disse Mazian. — E domande… domande dirette, signor Konstantin, circa gli accordi che potete aver concluso con certi agenti dell’Anonima. Le intese… con la Confederazione, e la trasmissione di informazioni riservate al servizio segreto della Confederazione. Tradimento, signor Konstantin.

Nella sala, tutti impallidirono.

— Nessuna intesa — disse Konstantin. — Non esiste nessuna intesa, comandante. Questa stazione è neutrale. Siamo una stazione dell’Anonima, ma non ci lasciamo coinvolgere in azioni militari e non consentiamo di venire utilizzati come base.

— E questa… milizia che avete sparso tutto intorno a Pell?

— Qualche volta la neutralità ha bisogno di rinforzi, comandante. È stata la comandante Mallory a metterci in guardia contro l’arrivo imprevisto e incontrollato di profughi.

— Afferma di non sapere che le informazioni… sono state consegnate alla Confederazione da agenti dell’Anonima. Non è al corrente di accordi o cessioni che quegli agenti possono avere concluso con il nemico?

Vi fu un attimo di assoluto silenzio. — Non sappiamo nulla di accordi del genere. Se c’erano accordi da concludere, Pell non ne è stata informata; e se ne fossimo stati informati, li avremmo scoraggiati.

— Adesso siete informati — disse Mazian. — Sono state passate informazioni, inclusi segnali e parole in codice che mettono in pericolo la sicurezza di questa stazione. Siete stati consegnati alla Confederazione, signor Konstantin, dall’Anonima. La Terra sta cessando le sue attività qui. A cominciare da voi. E da noi. Non accettiamo questa situazione. A causa di quello che è già successo, altre stazioni sono state perdute. Voi siete il confine. Con le forze di cui disponiamo, Pell ci è necessaria e possiamo tenerla. Lo capisce?

— Avrete tutta la nostra collaborazione — disse Konstantin.

— Accesso ai vostri archivi. Ogni problema per la sicurezza dovrà essere identificato e messo in quarantena.

Konstantin girò gli occhi verso Signy, poi tornò a fissare Mazian. — Abbiamo seguito tutte le procedure indicate dalla comandante Mallory. Scrupolosamente.

— Non ci saranno sezioni, documenti, macchine o appartamenti, dove i miei non abbiano accesso immediato, se sarà necessario. Preferirei ritirare la maggior parte delle mie forze e lasciar fare alle vostre, se resterà inteso chiaramente quanto segue: se ci sono problemi di sicurezza, se qualche nave non segue le istruzioni o se scoppia un qualunque disordine, noi abbiamo le nostre procedure, e apriremo il fuoco. È chiaro?

— Chiarissimo — disse Konstantin.

— I miei uomini avranno completa libertà, signor Konstantin, e spareranno, se lo riterranno necessario; e se dovremo sparare per aprire la strada a uno dei nostri, lo faremo, e questo vale per ogni uomo e ogni donna della Flotta. Ma questo non succederà. Provvederà la vostra sicurezza… da sola o con l’aiuto della nostra. Mi dica cosa preferite.

Konstantin strinse i denti. — Quindi parliamo chiaramente, comandante Mazian. Noi riconosciamo il vostro dovere di proteggere le vostre forze e di proteggere questa stazione. Collaboreremo; e ci aspettiamo collaborazione da voi. Da questo momento, quando io invio un messaggio, deve arrivare a destinazione.

— Assolutamente — disse Mazian senza esitare. Si guardò intorno, e alla fine si avviò verso la porta mentre Signy e gli altri restavano a fronteggiare il consiglio. — Comandante Keu — disse, — lei potrà continuare a discutere i particolari con i consiglieri. Comandante Mallory, occupi il centro operativo. Comandante Kreshov, controlli la documentazione e le procedure della sicurezza.

— Avrò bisogno di un esperto — disse Kreshov.

— Il direttore della sicurezza l’aiuterà — disse Konstantin. — Invierò l’ordine.

— Anch’io — disse Signy, lanciando un’occhiata verso una faccia nota, al tavolo centrale; il più giovane dei Konstantin. A quell’occhiata, l’espressione del giovane cambiò, e la ragazza che gli stava accanto gli strinse la mano.

— Comandante — disse lui.

— Damon Konstantin… lei, se vuole. Può esserci d’aiuto.

Mazian uscì, portando con sé parte della scorta, per compiere una visita generale dell’area o, più probabilmente, per svolgere altre operazioni, e occupare altre sezioni, quali il nucleo centrale con i suoi macchinari. Jan Meyis, il secondo dell’Australia, fu incaricato di quel compito delicato. Keu sedette al tavolo del consiglio; Kreshov uscì con Mazian. — Venga — disse Signy, e Damon indugiò per rivolgere un’occhiata a suo padre che stringeva le labbra, sconvolto, e poi per congedarsi dalla giovane donna. Non facevano gran caso a lei, pensò Signy. Attese, poi si avviò insieme a Damon verso la porta, dove rivolse un cenno a due soldati perché la scortassero, Kuhn e Dektin.

— Il centro di comando — disse a Konstantin, e lui le aprì la porta con incongrua, spontanea cortesia, indicando la direzione da cui erano arrivati.

Non disse una parola; aveva il volto serrato e impenetrabile.

— C’è sua moglie, là dentro? — chiese Signy. Ci teneva a conoscere i dettagli che riguardavano le persone importanti. — Chi?

— Mia moglie.

— Chi?

— Elene Quen.

Signy si stupì. — Una famiglia della stazione?

— I Quen. Dell’Estelle. Mi ha sposato e non ha partecipato all’ultimo viaggio.

— L’Estelle è perduta. Lo sa.

— Lo sappiamo.

— Peccato. Avete figli?

Passò un momento, prima che lui rispondesse. — Ne avremo uno.

— Ah. — La donna le era parsa un po’ appesantita. — Angelo Konstantin ha due figli, no?

— Ho un fratello.

— Dov’è?

— Sulla Porta dell’Infinito. — L’espressione del giovane era sempre più ansiosa.

— Non ha motivo di preoccuparsi.

— Non mi preoccupo.

Signy sorrise, ironicamente.

— Le vostre forze sono anche sulla Porta dell’Infinito? — chiese lui.

Signy continuò a sorridere, senza dir nulla. — Ricordo che lei è dell’Ufficio Legale.

— Sì.

— Quindi deve conoscere parecchi codici di accesso al computer per i fascicoli personali, no?

Lui le gettò un’occhiata che non era di paura. Di collera. Signy guardò il corridoio, più avanti, dove le truppe montavano la guardia al complesso della centrale. — Ci è stata promessa la vostra collaborazione — disse.

— È vero che siamo stati ceduti?

Signy Mallory sorrise; era sicura che i Konstantin, meglio di chiunque altro, conoscessero il loro valore e quello di Pell.

— Si fidi di me — gli disse con ironia. CENTRALE COMANDO, diceva un cartello con una freccia; COMUNICAZIONI, diceva un altro; AZZURRO UNO, 01-0122. — Quei cartelli — disse Signy, — vanno tolti. Dappertutto.

— Non è possibile.

— E anche le indicazioni dei colori.

— La stazione confonde le idee… persino i residenti potrebbero perdersi… i corridoi sono tutti eguali, e senza le indicazioni dei colori…

— È così anche sulla mia nave, signor Konstantin; noi non contrassegnamo i corridoi per non agevolare gli intrusi.

— Su questa stazione ci sono bambini. Senza i colori…

— Possono imparare — disse lei. — E tutti i cartelli vanno tolti.

La centrale della stazione si apriva davanti a loro… occupata dalle truppe. I fucili scattarono nervosamente al loro ingresso, poi tornarono in posizione. Signy abbracciò con lo sguardo il centro di comando, la lunga serie di pannelli di controllo, i tecnici e i funzionari della stazione al lavoro. Le truppe sembravano visibilmente tranquillizzate dalla sua presenza. Anche i civili ai loro posti sembravano sollevati… per la presenza del giovane Konstantin, pensò lei; lo aveva portato lì apposta.

— Tutto bene — disse Signy alle truppe e ai civili. — Abbiamo raggiunto un accordo con il dirigente della stazione e il consiglio. Non intendiamo evacuare Pell. La Flotta sta creando qui la sua base, e non intendiamo cederla. Qui la Confederazione non arriverà.

Un mormorio passò tra i civili, che si scambiarono occhiate di sollievo. Da ostaggi, erano diventati di colpo alleati. Le truppe avevano abbassato i fucili.

Mallory — lei sentì bisbigliare. — Quella è la Mallory. — Con quel tono, che non era d’affetto… ma non era neppure di disprezzo.

— Mi faccia da guida — disse Signy a Damon Konstantin.

Lui l’accompagnò nell’ispezione del centro di comando, le nominò le postazioni, e quali persone le occupavano; lei se ne sarebbe ricordata; ci riusciva bene, quando voleva. Signy si fermò un momento e girò gli occhi sugli schermi, verso la carta rotante della Porta dell’Infinito, costellata di punti verdi e rossi. — Basi? — domandò.

— Abbiamo parecchi campi ausiliari — disse lui. — Stiamo cercando di assorbire e di sfamare quello che ci avete lasciato.

— La zona Q? — Signy vide il monitor di quella sezione, una brulicante massa umana che premeva contro una porta bloccata. Fumo. Sfacelo. — Cosa ve ne fate di loro?

— Questo non ce l’avete detto — rispose il giovane Konstantin. Erano pochi ad assumere quel tono con lei. Il fatto la divertiva.

Ascoltò, guardandosi intorno nel grandioso complesso, file e file di banchi, strutture la cui funzione era per lo più sconosciuta a chi sbarcava da un’astronave. Già, qui c’era il commercio, e il mantenimento di un’orbita vecchia di secoli, la catalogazione delle merci e della produzione, della popolazione interna e di quella sul pianeta, indigeni e umani… una colonia attiva e movimentata. Signy assorbì ogni dettaglio, respirando lentamente, e provando un senso di proprietà. Avevano combattuto per tenere in vita tutto questo.

All’improvviso il comunicatore trasmise un annuncio del consiglio. — … voglio assicurare i residenti — disse Angelo Konstantin, sullo sfondo della sala del consiglio, — che la stazione non sarà evacuata. La Flotta è qui per proteggerci…

Il loro mondo.

Non rimaneva che ristabilire l’ordine.

CAPITOLO QUARTO

PORTA DELL’INFINITO; BASE PRINCIPALE: ore 1600
TEMPO DELLA STAZIONE; ALBA LOCALE

Il mattino era ormai prossimo, una linea rossa all’orizzonte. Emilio era all’aperto, respirando regolarmente attraverso la maschera; portava una giacca pesante per difendersi dal freddo perpetuo delle notti a quella latitudine e a quell’altezza. Le file si snodavano nel buio, in silenzio; figure chine che si affrettavano con il loro carico, come insetti impegnati a salvare le uova da un allagamento, uscendo da tutte le cupole-magazzino.

Una figura piccola e ansimante lo raggiunse correndo. — Sì? Sì, tu mandi, Konstantin-uomo?

— Freccia?

— Io Freccia. — la voce sibilò, accompagnata da un sogghigno. — Bravo correre, Konstantin-uomo.

Emilio toccò una spalla pelosa, e sentì un braccio scarno intrecciarsi al suo. Tolse dalla tasca un foglio ripiegato, e lo mise nella mano callosa dell’hisa. — Allora corri — disse. — Porta questo a tutti i campi degli umani, lascia che i loro occhi vedano, capisci? E dillo a tutti gli hisa. Dillo a tutti, dal fiume alla pianura; di’ che mandino i loro corridori, anche agli hisa che non vengono negli accampamenti umani. Di’ loro che siano prudenti con gli uomini, che non si fidino degli sconosciuti. Racconta quello che facciamo qui. Di’ loro che osservino, osservino, ma non si avvicinino senza un richiamo che conoscono. Gli hisa capiranno?

— Lukas-uomini vengono — disse l’hisa. — Sì. Capito, Konstantin-uomo. Io Freccia. Io sono come vento. Nessuno prende.

— Vai — disse lui. — Corri, Freccia.

Due braccia lo strinsero, con la forza spaventosa e disinvolta degli hisa. L’ombra si dileguò nell’oscurità, corse…

L’annuncio si diffondeva. Non poteva venire fermato tanto facilmente.

Emilio restò immobile, e guardò le altre figure umane sulla collina. Aveva dato ordini ai suoi uomini e aveva rifiutato di confidarsi, per risparmiar loro le responsabilità. Le cupole-magazzino erano ormai quasi tutte vuote; tutte le provviste che vi erano state depositate adesso venivano portate nella boscaglia. L’annuncio volava lungo il fiume, con mezzi che non avevano nulla in comune con le comunicazioni moderne, e che nessuno poteva captare con i monitor, un annuncio che volava con la velocità degli hisa e che non sarebbe stato arrestato da un ordine della stazione o di coloro che la occupavano. Da un campo all’altro, umani e hisa. Dovunque gli hisa fossero in contatto tra loro.

Un pensiero lo colpì… mai, prima della venuta dell’uomo, gli hisa avevano avuto motivo di parlare così ad altri della loro specie; non c’era mai stata la guerra, e non c’era mai stata unità fra le tribù disperse; ma in qualche modo la conoscenza dell’Uomo s’era diffusa da un luogo all’altro. E adesso gli umani inviavano un messaggio attraverso quella strana rete. Emilio immaginava che venisse trasmesso sulle rive del fiume e nella boscaglia, per mezzo di incontri casuali e deliberati.

E in tutta l’area del contatto, gli hisa, che non avevano il concetto di furto, avrebbero rubato; e avrebbero lasciato il lavoro, loro che non avevano il concetto del salario né quello della ribellione.

Aveva freddo, sebbene fosse protetto dagli indumenti che lo isolavano dalla brezza gelida. Lui non poteva fuggire, come Freccia. Poiché era un Konstantin e un umano, attendeva, mentre l’alba imminente rivelava le file di operai che portavano il loro carico e gli umani nelle altre cupole cominciavano a svegliarsi e a scoprire il furto sistematico delle provviste e degli equipaggiamenti, mentre il suo staff restava a guardare. Le luci si accesero sotto le cupole trasparenti… gli operai uscirono, sempre più numerosi, e si fermarono a guardare sconvolti.

Suonò una sirena. Emilio guardò verso il cielo, e vide solo le ultime stelle; ma al servizio comunicazioni avevano saputo qualcosa. Una presenza smosse del terriccio vicino a lui e sentì un braccio passargli intorno alla vita. Strinse a sé Miliko, cercando consolazione in quel contatto.

Dall’altra parte del pendio, qualcuno chiamò; c’erano braccia alzate a indicare qualcosa. La luce della nave che scendeva era già visibile nel cielo pallido… prima di quanto avessero desiderato.

— Minz! — Emilio chiamò una degli hisa, e lei arrivò; una femmina con la bianca cicatrice d’una vecchia ustione sul braccio; arrivò carica com’era e ansimante. — Nascondetevi — le disse, e lei tornò indietro di corsa, passando parola ai compagni.

— Dove stanno andando? — chiese Miliko. — Lo hanno detto?

— Lo sanno soltanto loro — disse Emilio. L’abbracciò più stretta, per ripararla dal vento. — E forse torneranno… dipende da chi sarà a chiederlo.

— Se ci porteranno via…

— Faremo tutto ciò che potremo. Ma nessun estraneo potrà dar loro ordini.

La luce della nave divenne più brillante, più intensa. Non era una delle loro navette: era più grande, più minacciosa.

Un mezzo militare, pensò Emilio. Un cargo speciale.

— Signor Konstantin. — Uno degli operai arrivò correndo, si fermò e allargò le braccia in segno di sbalordimento. — È vero? È vero che lassù c’è Mazian?

— Ci hanno informati che è proprio così. Non sappiamo che cosa sta succedendo lassù; a quanto sembra, la situazione è tranquilla. Non bisogna perdere la calma; avverta gli altri… cerchiamo di tenere la testa a posto e di far fronte agli eventi. Nessuno deve parlare delle provviste mancanti; nessuno deve farne cenno, chiaro? Ma non permetteremo che la Flotta ci depredi e poi se ne vada lasciando la Stazione ridotta alla fame: è questo che sta succedendo. Informi gli altri anche di questo. E prendete gli ordini soltanto da me, da me e da Miliko, chiaro?

— Signore — mormorò l’uomo, ma quando Emilio lo congedò con un cenno, corse via a dare la notizia agli altri.

— Meglio andare a Q — disse Miliko.

Emilio annuì, e si avviò in quella direzione, lungo il fianco della collina. Dalla cima si notava il chiarore delle luci del campo d’atterraggio che si erano attivate per guidare la nave. I due percorsero il sentiero che portava a Q e trovarono Wei. — C’è la Flotta, lassù — disse Emilio. E fra il brusio di panico che si levò immediatamente, aggiunse: — Stiamo cercando di salvare i viveri per la stazione e per noi, di evitare che la Flotta venga a spadroneggiare quaggiù. Non avete visto nulla. Non avete sentito nulla. Siete sordi e ciechi, e non avete nessuna responsabilità. La responsabilità è mia.

Si levò un mormorio da parte degli operai residenti, quelli di Q. Emilio e Miliko si voltarono, e si avviarono lungo il sentiero verso il campo d’atterraggio; intorno a loro si formò una folla di dirigenti e di operai… e c’erano anche quelli di Q; nessuno li trattenne. Non c’erano più guardie, né lì né agli altri campi; quelli di Q lavoravano secondo i programmi stabiliti, come gli altri operai. Non mancavano le discussioni e le difficoltà; ma erano senz’altro meno pericolosi di quel che stava scendendo dal cielo, e che avrebbe preteso rifornimenti per le navi cariche di truppe, e forse avrebbe chiesto anche del personale.

La nave scese con grande fragore, si posò sul campo d’atterraggio, e sul fianco della collina tutti si tapparono gli orecchi e si ripararono dal vento fetido, fino a quando i motori si spensero. Adesso la nave era immobile nella luce dell’alba, estranea a sgraziata, irta d’armi da guerra. Il portello si aprì, la rampa si posò sul terreno, e le truppe corazzate si precipitarono fuori, mentre loro li osservavano dal fianco della collina, senza corazze e senz’armi. I militari spianarono i fucili. Un ufficiale scese la rampa, e uscì nel chiarore del giorno. Era un uomo dalla pelle scura, con il respiratore e senza casco.

— Quello è Porey — mormorò Miliko. — Dev’essere Porey in persona.

Emilio sentì il peso che gli gravava addosso farsi ancora più opprimente, e lasciò la mano di Miliko; ma lei non lasciò la sua. Scesero insieme la collina, incontro al leggendario comandante… si fermarono a portata di voce, fin troppo consapevoli dei fucili che adesso erano molto più vicini.

— Chi dirige questa base? — chiese Porey.

— Emilio Konstantin e Miliko Dee, comandante.

— Siete voi?

— Sì, comandante.

— Vi comunico che è stata istituita la legge marziale. Tutte le provviste di questa base sono confiscate. Tutte le forme di governo civile, umano e indigeno, sono sospese. Consegnerete immediatamente tutti i documenti relativi all’equipaggiamento, al personale e alle provviste.

Emilio fece un gesto ironico con la mano, indicando le cupole appena ripulite. Porey non sarebbe stato molto soddisfatto, pensò. Erano scomparsi anche certi libri contabili. Aveva paura, per se stesso, per Miliko… per gli uomini e le donne di quella base e delle altre; e forse soprattutto per gli hisa, che non avevano mai visto la guerra.

— Voi resterete su questo pianeta — disse Porey, — per collaborare con noi secondo le necessità.

Emilio sorrise a denti stretti e non lasciò la mano di Miliko. Era un arresto, in pratica. Il messaggio di suo padre, che l’aveva strappato dal sonno, gli aveva dato un preavviso. Intorno a lui c’erano operai che non avevano mai chiesto di finire in quella situazione, che si erano offerti volontariamente per quel servizio. Contava non tanto sul loro silenzio, quanto sulla sveltezza degli hisa. Era addirittura possibile che i militari limitassero ancora di più i suoi movimenti. Pensò ai suoi familiari, nella stazione, alla possibilità che Pell venisse evacuata e che gli uomini di Mazian devastassero volutamente la Porta dell’Infinito, distruggendo tutto ciò che non volevano finisse nelle mani della Confederazione, arruolando a forza nella Flotta tutti quelli giudicati abili. Avrebbero armato anche gli hisa, pur di farli combattere contro la Confederazione.

— Discuteremo la cosa — disse, — comandante.

— Le armi devono essere consegnate ai miei uomini. Il personale verrà perquisito.

— Propongo di discuterne, comandante.

Porey fece un gesto brusco. — Portateli dentro.

I soldati si mossero verso di loro. La mano di Miliko strinse più forte quella di Emilio. Avanzarono spontaneamente, si lasciarono perquisire e condurre su per la rampa, nella luce cruda dell’interno della nave, dove Porey attendeva.

Emilio si fermò in cima alla rampa, accanto a Miliko. — Noi siamo i responsabili di questa base — disse. — Non voglio farne una questione pubblica. Sono disposto a soddisfare le sue richieste entro limiti ragionevoli.

— Lei sta minacciando, signor Konstantin.

— Sto solo facendo un’affermazione. Ci dica di che cosa ha bisogno. Conosco questo mondo. Una riorganizzazione militare, in un sistema operativo, richiede diverso tempo per poter funzionare, e in certi casi l’intervento potrebbe essere deleterio.

Fissò gli occhi di Porey, orlati di cicatrici, e comprese che quell’uomo non amava venire sfidato. Era pericoloso.

— I miei ufficiali verranno con voi — disse Porey, — per prendere i documenti.

CAPITOLO QUINTO

PELL: SETTORE BIANCO DUE; ore 1700

Erano entrati i poliziotti; uomini silenziosi, che si erano fermati accanto alla porta a parlare con il supervisore. Josh li guardava di sottecchi e teneva la testa bassa; le sue dita continuarono a rimuovere il pezzo. La ragazza accanto a lui aveva smesso di lavorare. Gli diede una gomitata.

— Ehi — gli disse. — Ehi, la polizia.

Erano cinque. Josh ignorò la gomitata nelle costole, e la ragazza lo colpì più forte.

Sopra di loro, lo schermo delle comunicazioni si accese. La luce attirò il suo sguardo; alzò gli occhi per un istante, mentre veniva dato un altro annuncio ufficiale: il ritorno di una limitata libertà di transito nella sezione verde. Josh chinò la testa e riprese a lavorare.

— Stanno guardando da questa parte — disse la ragazza.

Era vero. Stavano gesticolando nella sua direzione. Josh alzò gli occhi e li riabbassò, perché erano entrate le truppe corazzate. Soldati dell’Anonima. Uomini di Mazian. — Guarda — disse la ragazza. Josh riprese a lavorare. La voce vellutata della centrale continuava a parlare, assicurando che tutto era a posto. Adesso non ci credeva più.

I passi risuonarono nella corsia, dall’altra parte, passi pesanti, di molte persone. Lo raggiunsero e si fermarono dietro di lui. Josh continuò il suo lavoro con un’ultima, febbrile speranza. Damon, pensò, si augurò. Damon!

Una mano gli toccò la spalla, lo costrinse a voltarsi. Josh alzò gli occhi e vide la faccia del supervisore, sfocata, gli agenti del servizio di sicurezza della stazione e un soldato con la corazza e le insegne della Flotta di Mazian.

— Signor Talley — disse uno dei poliziotti, — vuol venire con noi, per favore?

Josh si rese conto che la chiave inglese che stringeva poteva essere un’arma; la posò meticolosamente sul banco, si pulì la mano sulla tuta e si alzò.

— Dove vai? — chiese la ragazza accanto a lui. Josh non aveva mai saputo come si chiamasse. Il volto scialbo era angosciato. — Dove vai?

Lui non rispose: non lo sapeva. Uno dei poliziotti lo prese per un braccio e lo condusse via lungo la corsia, verso la porta. Tutti guardavano sorpresi. — Silenzio — disse il supervisore. Vi fu un brusio. I poliziotti e i soldati lo condussero nel corridoio e si fermarono. La porta si chiuse e un ufficiale, che portava soltanto la corazza, lo mise con la faccia al muro e lo perquisì.

L’ufficiale gli tolse i documenti dalla tasca. Josh si voltò di nuovo, quando glielo permisero, appoggiandosi con le spalle alla parete, e guardò l’ufficiale che esaminava le sue carte. Atlantic, dicevano le loro mostrine. Fu preso dal terrore. I soldati dell’Anonima avevano in mano le sue carte, e quelle carte erano la sola cosa che dimostrava che lui era innocuo, che aveva quell’esperienza alle spalle, e che non era un pericolo per nessuno. Tese la mano per riprenderle, e l’ufficiale non gliele riconsegnò. Uomini di Mazian. L’ombra tornò ad addensarsi. Ritrasse la mano, ricordando precedenti incontri. Il cuore gli batteva forte.

— Ho un lasciapassare — disse, cercando di dominare il tic che lo prendeva quando era sconvolto. — È con le mie carte. Può vedere che lavoro qui. Devo stare qui.

— Soltanto al mattino.

— Ci hanno trattenuti tutti — disse Josh. — Oltre il solito orario. Controlli gli altri. Siamo tutti del turno del mattino.

— Verrà con noi — disse uno dei soldati.

— Chiedetelo a Damon Konstantin. Lui ve lo spiegherà. Lo conosco. Vi dirà che sono in regola.

Questo li fece indugiare. — Ne prenderò nota — disse l’ufficiale.

— Forse è vero — disse uno dei poliziotti della stazione. — Ne ho sentito parlare. Lui è un caso speciale.

— Abbiamo ricevuto ordini. Il computer ce lo ha segnalato; dobbiamo fare accertamenti. O lo mettete sottochiave voi o ci pensiamo noi.

Josh aprì la bocca per esprimere la sua preferenza. — Lo prendiamo noi — disse il poliziotto, prima che lui potesse parlare.

— I miei documenti — disse Josh, balbettando e arrossendo per la vergogna. Certe reazioni erano incontrollabili. Tese la mano per chiedere le carte; e la mano tremava visibilmente. — Signore.

L’ufficiale le piegò e le infilò nella borsa che portava alla cintura. — Non gli servono. Tanto, non deve andare in nessun posto. Portatelo via e chiudetelo da qualche parte. Se qualcuno di noi lo richiede, consegnatelo, chiaro? Potrà tornare nel settore Q, più tardi, ma prima dovrà occuparsene il comando.

— Sta bene — disse pronto il poliziotto. Prese Josh per un braccio, e lo condusse lungo il corridoio. I militari si avviarono dietro di loro e finalmente, a un incrocio, i due gruppi si divisero.

Ma c’erano uomini di Mazian dappertutto. Josh si sentiva nudo, indifeso… provò un profondo senso di sollievo quando i poliziotti si fermarono davanti a un ascensore e lo fecero salire; nel tragitto fino al settore rosso uno, almeno, non c’erano militari.

— Per favore, chiami Damon Konstantin — disse a un poliziotto. — Oppure Elene Quen. O qualcuno dei loro uffici. Conosco i numeri.

Il silenzio durò per quasi tutto il tragitto.

— Riferiremo per via gerarchica — disse finalmente uno di loro, senza guardarlo.

L’ascensore si fermò a rosso uno. Zona di sicurezza. Josh uscì tra i poliziotti, oltre un divisorio trasparente e la scrivania all’ingresso. Anche in quell’ufficio c’erano militari corazzati e armati, e quella vista gli diede un senso di panico, perché aveva sperato che almeno quel settore fosse ancora sotto l’autorità della stazione.

— Per favore — disse, mentre lo stavano registrando. Conosceva il giovane ufficiale che stava alla scrivania; era lì quando lui era prigioniero. Lui ricordava. Si chinò in avanti e abbassò la voce, disperatamente: — Per favore, chiami i Konstantin. Li informi che sono qui.

Anche questa volta non ci fu risposta, solo una deviazione inquieta dello sguardo. Avevano paura, tutti quelli della stazione… avevano terrore delle truppe corazzate. I soldati lo trascinarono via dalla scrivania, lungo il corridoio, verso le celle; lo rinchiusero in una di esse, spoglia e bianca, provvista solo di impianti igienici e di una panca bianca ribaltabile. Lo perquisirono di nuovo, spogliandolo, questa volta, e lasciarono gli indumenti sul pavimento.

Josh si rivesti, e si lasciò cadere sulla panca; sollevò le gambe e appoggiò la testa sulle ginocchia, stanco per il lavoro e con i muscoli contratti per la paura.


NAVE MERCANTILE HAMMER: SPAZIO; ore 1700

Vittorio Lukas lasciò il sedile e si avviò lungo la curva del ponte della Hammer, esitò nel vedere il movimento dell’arma nella mano del confederato che lo teneva d’occhio continuamente. Non gli avrebbero permesso di avvicinarsi ai comandi; nel minuscolo cilindro — quasi tutta la massa sgraziata della Hammer era costituita dal nucleo a gravità zero, a poppa — c’era una linea tracciata con il nastro adesivo che segnava i confini della sua prigione. Non sapeva che cosa gli sarebbe successo se avesse tentato di superarlo, ma non aveva intenzione di scoprirlo. Era autorizzato a fare quasi tutto il giro del cilindro; l’alloggio dell’equipaggio, dove dormiva; la minuscola sezione della sala centrale… e fino a quel punto, nell’area operativa. Da lì poteva scorgere uno degli schermi e il visore al di sopra della spalla del tecnico; indugiò, fissando le schiene degli uomini e delle donne che indossavano le divise del mercantile, ma che non appartenevano alla nave; e aveva ancora lo stomaco sconvolto dalle droghe, i nervi scossi dal balzo. Aveva passato quasi tutta la giornata a vomitare.

Il comandante era in piedi e guardava gli schermi; lo vide e gli fece un cenno, invitandolo ad avvicinarsi. Vittorio esitò; al secondo segnale si avventurò nella zona proibita, voltandosi per lanciare un’occhiata all’uomo armato. Lasciò che il comandante gli posasse amichevolmente una mano sulla spalla, mentre guardava più da vicino lo schermo. L’uomo aveva l’aria prospera… avrebbe potuto essere un uomo d’affari di Pell, e non impartiva ordini in tono secco al suo equipaggio. Lo trattavano abbastanza bene, addirittura con cortesia. Ma la situazione e i suoi potenziali sviluppi lo atterrivano. Vigliacco, avrebbe detto suo padre in tono di disgusto. Era vero. Era un vigliacco. Quello non era il posto adatto a lui, no, non era la compagnia per lui.

— Presto torneremo indietro — disse l’uomo… si chiamava Blass, Abe Blass. — Non è stato un balzo lungo, solo il necessario per tenerci lontani da Mazian. Si tranquillizzi, signor Lukas. Lo stomaco va meglio, adesso?

Lui non disse nulla. Sentirsi ricordare il suo malessere gli causò una contrazione alle viscere.

— Non è niente di grave — disse sottovoce Blass, continuando a tenergli la mano sulla spalla. — Assolutamente, signor Lukas. L’arrivo di Mazian non ci preoccupa.

Lukas lo guardò. — E se la Flotta ci individuasse al nostro ritorno?

— Possiamo sempre spiccare un balzo — disse Blass. — La Swan’s Eye non si sarà allontanata dalla sua posizione; e Ilyko non parlerà; sa qual è il suo interesse. Stia tranquillo, signor Lukas. Si direbbe che noi le ispiriamo ancora una certa apprensione.

— Se mio padre, a Pell, venisse compromesso…

— Non è probabile che questo avvenga. Jessad sa quello che fa. Mi creda. È tutto previsto. E la Confederazione si prende cura dei suoi amici. — Blass gli batté la mano sulla spalla. — Se la sta cavando bene, per essere al suo primo balzo. Ascolti il consiglio di un veterano e non si affatichi. Si rilassi. Torni nella sala, e io verrò a parlarle appena avremo calcolato il prossimo movimento.

— Signore — mormorò Lukas, e obbedì; passò di nuovo davanti alla guardia, e raggiunse la sala deserta. Sedette sulla panca, appoggiò il braccio sul tavolo e deglutì a fatica.

Non era soltanto la nausea dovuta al balzo. Era terrorizzato. Devo fare di te un uomo: gli sembrava di sentire la voce di suo padre. Era avvilito. Lui era fatto così, e non si trovava a suo agio, con i tipi come Abe Blass e quegli individui che sembravano tutti eguali. Suo padre lo riteneva sacrificabile. Se fosse stato ambizioso avrebbe cercato di approfittare della situazione, di ingraziarsi la Confederazione. Ma non lo faceva. Conosceva le sue capacità e i suoi limiti, e voleva Roseen, con le sue comodità; voleva bere un buon drink, ma gli veniva negato a causa delle droghe che aveva dovuto assumere.

Era tutto inutile; e l’avrebbero portato nella Confederazione, dove tutti rigavano diritto, e quella sarebbe stata la fine di tutto ciò che conosceva. I cambiamenti gli facevano paura. Quello che aveva a Pell gli andava bene. Non aveva mai chiesto molto alla vita, non aveva mai chiesto molto a nessuno, e il pensiero di trovarsi lì, in mezzo al nulla… gli dava gli incubi.

Ma non aveva scelta. A questo aveva provveduto suo padre.

Finalmente Blass arrivò, e si mise a sedere; stese le carte sul tavolo con aria solenne e gli spiegò varie cose, come se lui fosse un personaggio importante per la missione. Lukas guardò il diagramma e cercò di comprendere le premesse di quei movimenti nel nulla, mentre in realtà per lui non avevano alcun senso.

— Dovrebbe avere fiducia — disse Blass. — Le assicuro che in questo momento è molto più al sicuro qui che nella stazione.

— Lei è un alto ufficiale della Confederazione — disse Lukas. — Non è vero? Altrimenti non l’avrebbero mandato… così.

Blass alzò le spalle.

Hammer e Swan’s Eye… sono tutte le navi che avete nei pressi di Pell? — Blass alzò di nuovo le spalle. Quella fu la sua risposta.

CAPITOLO SESTO

MANUTENZIONE ACCESSO BIANCO 9-1042; ore 2100

C’era stato un grande viavai di umani per molto tempo, uomini-nei-gusci che portavano fucili. Satin rabbrividì e si rincantucciò nell’ombra, vicino al montacarichi. Molti erano fuggiti quando comandavano i Lukas, ed erano fuggiti di nuovo quando erano arrivati gli stranieri, per vie che solo gli hisa potevano seguire, le vie strette, le gallerie buie dove gli hisa potevano respirare senza maschera e gli uomini no. Gli uomini di lassù conoscevano quelle vie, ma non le avevano ancora mostrate agli stranieri, e gli hisa erano al sicuro, anche se alcuni di loro piangevano al buio sommessamente perché gli uomini non sentissero.

Non c’era speranza. Satin sporse le labbra e arretrò, acquattandosi; attese mentre veniva cambiata l’aria e ritornò in fretta nel buio, al sicuro. Una mano la sfiorò. C’era odore di maschio. Sibilò in tono di rimprovero e cercò con il fiuto il suo maschio. Un caldo abbraccio. Appoggiò stancamente la testa su una spalla robusta, per dare e ricevere conforto. Denteazzurro non le fece domande. Sapeva che non c’erano notizie migliori, perché così le era stato detto quando aveva insistito per uscire a vedere.

C’erano guai, brutti guai. I Lukas parlavano e davano ordini, e gli stranieri minacciavano. Il Vecchio non c’era… non c’era nessuno dei veterani, che se ne erano andati chissà dove a farsi i fatti loro, a proteggere cose importanti, pensava Satin. A svolgere compiti per ordine di umani importanti, forse compiti che riguardavano gli hisa.

Ma loro avevano disobbedito, non erano andati dai supervisori, come non c’erano andati i Vecchi, anch’essi ostili ai Lukas.

— Torniamo indietro? — chiese finalmente qualcuno.

Sarebbero stati nei guai, se si fossero presentati dopo essere fuggiti. Gli uomini si sarebbero arrabbiati con loro, e gli uomini avevano i fucili. — No — disse Satin, e quando si levarono mormorii di dissenso, Denteazzurro girò la testa ed espresse un rifiuto ancor più rabbioso. — Pensate — disse. — Se andiamo là, ci troveremo gli uomini e saranno grossi guai.

— Ho fame — protestò uno.

Nessuno rispose.

Forse gli uomini avrebbero tolto agli hisa la loro amicizia, per ciò che avevano fatto. Adesso se ne rendevano conto chiaramente. E senza quell’amicizia, avrebbero potuto restare per sempre sulla Porta dell’Infinito. Satin pensò ai campi della Porta dell’Infinito, alle nubi morbide che un tempo aveva creduto abbastanza solide per salirci sopra, alla pioggia e al cielo azzurro, e alle foglie grige-verdi-azzurre, ai fiori e ai muschi morbidi… e soprattutto all’aria che aveva l’odore di casa. Forse lo sognava anche Denteazzurro, via via che il calore della primavera svaniva, e lei non aveva concepito, perché era troppo giovane, per vivere quella prima stagione di adulta. Adesso Denteazzurro vedeva le cose con maggiore chiarezza. A volte rimpiangeva il mondo. A volte era lei a rimpiangerlo. Ma restare là per sempre…

Il-cielo-la-vede era il suo nome; e lei aveva visto la verità. L’azzurro era falso, una coltre stesa come una coperta; la verità era quella dei neri abissi, e la faccia del grande Sole che splendeva nel buio. La verità avrebbe aleggiato per sempre intorno a loro. Senza il favore degli umani, sarebbero ritornati sulla Porta dell’Infinito senza speranze, e avrebbero saputo di essere esclusi per sempre dal cielo. Ormai non c’era più una patria, ora che avevano guardato il Sole.

— I Lukas se ne andranno, prima o poi — le mormorò all’orecchio Denteazzurro.

Satin gli appoggiò la testa sul petto, cercando di dimenticare la fame e la sete, e non rispose.

— I fucili — disse un’altra voce, vicino a loro. — Ci spareranno, e ci perderemo per sempre.

— No, se restiamo qui — disse Denteazzurro. — E se faremo quello che ho detto io.

— Quelli non sono i nostri umani — disse la voce profonda di Colosso. — Quelli fanno male ai nostri umani.

— È una lotta tra umani — ribatté Denteazzurro. — Non riguarda gli hisa.

Un pensiero spuntò nella mente di Satin. Alzò la testa. — I Konstantin. Questa è una lotta dei Konstantin. Troveremo i Konstantin, chiederemo cosa dobbiamo fare. Troveremo i Konstantin, e troveremo anche i Vecchi, vicino al Luogo del Sole.

— Chiediamolo a Il-Sole-è-suo-amico — esclamò un altro. — Lei deve saperlo.

— Dov’è Il-Sole-è-suo-amico?

Silenzio. Nessuno lo sapeva. I Vecchi serbavano quel segreto.

— La troverò io. — Era stato Colosso a parlare. Si avvicinò, nel buio, tese la mano e le toccò la spalla. — Io vado in molti posti. Vieni. Vieni.

Satin trasse un profondo respiro e lambì, incerta, la guancia di Denteazzurro.

— Veniamo — accettò all’improvviso Denteazzurro, tirandola per la mano. Colosso si avviò in fretta, precedendoli, con uno scalpiccio nell’oscurità. Allora lo seguirono, e altri si accodarono, su per i corridoi bui e per le scalette e le strettoie, dove qualche volta c’era luce, qualche volta no. Alcuni rimasero indietro, perché procedevano a fatica fra le tubature, in luoghi freddi e in altri che invece bruciavano i loro piedi nudi, passando tra macchine che rombavano, potenti e minacciose.

A volte era Denteazzurro a guidare il gruppo, lasciando la mano di Satin; a volte Colosso lo spingeva di lato e tornava ad avanzare per primo. Satin dubitava che Denteazzurro conoscesse la direzione giusta, e come raggiungere Il-Sole-è-suo-amico; erano stati nel Luogo del Sole, e lei possedeva ancora, vagamente, quel senso d’orientamento che aveva avuto sul pianeta, e che suggeriva al suo cuore quale strada prendere… era in alto; e le sembrava che fosse a sinistra… ma qualche volta le gallerie non svoltavano a sinistra, ed erano tortuose. I due maschi continuavano a procedere in testa, alternandosi; e alla fine tutti ansimavano e continuavano a incespicare. Molti rimasero indietro; e alla fine quello che stava subito dietro a Satin le prese la mano, con un gesto implorante… ma Denteazzurro e Colosso continuavano ad andare avanti, e lei temeva di perderli. Si staccò dall’ultimo di quelli che seguivano e continuò a camminare, cercando di raggiungerli.

— Basta — supplicò quando li ebbe trovati, sulla scala di metallo. — Basta. Torniamo indietro. Vi siete persi.

Colosso non volle ascoltarla; ansimando, continuò a salire; Satin trattenne Denteazzurro per un braccio e lui sibilò, irritato, e seguì Colosso. Una follia. La follia s’era impadronita di loro. — Non mi mostrate niente! — gemette Satin. Scattò, disperata e si affrettò a seguirli, ansimando, cercando di ragionare con quei due che erano usciti di senno. Passarono davanti a pannelli e a porte che forse conducevano all’aperto; li ignorarono tutti. Ma finalmente giunsero in un luogo dove era necessario scegliere: una luce azzurra brillava sopra una porta, da cui le scalette si estendevano dovunque, in alto e in basso e in altre tre direzioni.

— Qui — disse Colosso dopo una breve esitazione, tastando i pulsanti accanto alla porta illuminata. — Si passa da qui.

— No — gemette Satin. — No — ripeté Denteazzurro, che forse stava ritrovando il buon senso; ma Colosso premette il primo pulsante e si insinuò nella camera di compensazione, quando la porta si aprì. — Torna indietro — esclamò Denteazzurro, e si precipitarono entrambi per fermare Colosso che era spinto da uno spirito di rivalità, e che faceva questo per lei, non per altro. Entrarono con lui. La porta si chiuse alle loro spalle. La seconda porta si aprì sotto la spinta di Colosso quando lo raggiunsero. E venne la luce… accecante.

E all’improvviso i fucili spararono, e Colosso stramazzò sulla soglia, con un odore di bruciato. Gridava e urlava orribilmente, e Denteazzurro si voltò di scatto e premette l’altro pulsante, trascinando via Satin mentre la porta si apriva e il vento turbinava intorno a loro. Voci di uomini lanciarono grida d’allarme, che si smorzarono quando la porta si chiuse. Raggiunsero la scaletta e fuggirono; scesero correndo alla cieca, nell’oscurità. Tolsero i respiratori, ma l’aria aveva un odore strano. Finalmente si fermarono, sudati e tremanti. Denteazzurro gemeva di dolore nell’oscurità, e Satin cercò di scoprire se aveva una ferita; si accorse che teneva le dita premute sul braccio. Leccò il punto dolorante, che scottava, abbracciò Denteazzurro e cercò di calmare la rabbia che lo faceva tremare. Erano perduti, entrambi, perduti in quegli oscuri recessi; Colosso era morto in un modo orribile, e Denteazzurro sibilava di dolore e di collera, con i muscoli tesi e frementi. Ma dopo un momento si scosse, le lambì la guancia e tremò quando lei lo cinse con un braccio.

— Oh, andiamo a casa — mormorò Denteazzurro. — Andiamo a casa, Tam-utsa-pitan, e basta vedere umani. Niente più macchine, niente più capi, niente più lavoro per gli umani, soltanto gli hisa, per sempre. Andiamo a casa.

Lei non disse nulla. Il disastro era colpa sua, perché era stata lei a suggerire l’idea; Colosso provava desiderio per lei, e Denteazzurro aveva accettato la sfida, come se fossero tra le alte colline. Il disastro era opera sua. E adesso anche Denteazzurro parlava di abbandonare il suo sogno, non era più disposto a seguirla. I suoi occhi si riempirono di lacrime; dubitava di se stessa, temeva di essersi spinta troppo lontano. Adesso erano in un guaio ancora più grande, perché per trovare una via d’uscita dovevano risalire nei luoghi degli uomini, aprire una porta e chiedere aiuto, e avevano visto quali erano le conseguenze. Si abbracciarono e non osarono più muoversi.


La Mallory aveva l’aria stanca, gli occhi vacui, mentre camminava avanti e indietro lungo le corsie della centrale di comando, interminabilmente, mentre le sue truppe montavano di guardia. Damon la osservava, appoggiato a un quadro di controllo. Anche lui era affamato e stanco, ma si rendeva conto che era una cosa da niente, in confronto a ciò che doveva provare il personale della Flotta, dopo aver compiuto il balzo ed essere passato a noiosi compiti di polizia; gli operai, che non ricevevano il cambio, erano esausti e facevano sentire le loro timide proteste… ma non c’era mai un cambio, per quelle truppe.

— Ha intenzione di restare qui tutta la notte? — le chiese.

Lei gli rivolse un’occhiata gelida, non disse nulla e continuò a camminare.

Damon la stava osservando da due ore: era una presenza malaugurante, nel centro. La Mallory si muoveva senza far rumore e senza prepotenza, ma sembrava sicura che chiunque le avrebbe ceduto il passo. E infatti era così. I tecnici che dovevano alzarsi lo facevano solo quando la Mallory controllava un’altra corsia. Lei non aveva mai pronunciato una minaccia… parlava di rado, quasi sempre ai soldati, e ciò che diceva rimaneva fra di loro. Qualche volta, prima che la stanchezza si facesse sentire, era addirittura gentile. Ma la minaccia c’era, indubbiamente. Quasi tutti gli abitanti della stazione non avevano mai visto da vicino l’armamentario che circondava la Mallory e le sue truppe, non avevano mai toccato un fucile, e quasi non avrebbero saputo descrivere ciò che vedevano. Damon aveva notato tre modelli diversi, solo in quella piccola sezione: pistole leggere, pistole a canna lunga, fucili pesanti, tutti di plastica nera e dalle minacciose simmetrie; corazze capaci di assorbire il fuoco di quelle armi… e che conferivano alle truppe lo stesso aspetto di fredda efficienza del resto dell’equipaggiamento, un aspetto non più umano. Era impossibile rilassarsi, in mezzo a individui simili.

In fondo alla sala un tecnico si alzò e si voltò come per vedere se qualcuna delle armi si era mossa… si avviò lungo la corsia come se fosse un campo minato. Consegnò a Damon un messaggio, senza leggerlo, consapevole della curiosità della Mallory. La donna s’era fermata. Damon non riuscì ad immaginare come avrebbe potuto sottrarsi alla sua attenzione; aprì il foglio e lo lesse.

PSSCIA/PACPAKONSTANT INDAMON/AU1-1-1-1-1-1030/10 4/52/2136MD/0936A / INIZIO / DOCUMENTI TALLEY SEQUESTRATI E TALLEY ARRESTATO PER ORDINE FLOTTA / UFFICIO SIC AVUTO POSSIBILITÀ SCELTA TRA DETENZIONE LOCALE O INTERVENTO MILITARE / TALLEY RINCHIUSO QUI / TALLEY CHIEDE MESSAGGIO INOLTRATO FAMIGLIA KONSTANTIN / ESEGUITO / SI RICHIEDONO ISTRUZIONI / SI RICHIEDONO CHIARIMENTI / SAUNDERSREDONESICCOM / FINEFINEFINE.

Damon alzò la testa, mentre il cuore gli batteva forte; provava sollievo perché poteva essere peggio, ma era angosciato. La Mallory lo stava fissando con un’espressione d’interesse e di sfida. Si avvicinò a lui. Damon pensò di mentire, sperando che lei non pretendesse di conoscere il messaggio e non ne facesse una questione. Poi ripensò a quel che sapeva di lei e cambiò idea.

— C’è un mio amico nei guai — le disse. — Devo andare ad occuparmi di lui.

— Nei guai con noi?

Per la seconda volta, Damon si chiese se era il caso di mentire. — Qualcosa del genere.

La Mallory tese la mano. Damon non le porse il messaggio.

— Forse posso aiutarla. — Lei aveva gli occhi freddi: la mano rimase protesa, con il palmo rivolto verso l’altro. — Devo supporre — chiese, vedendo che lui non si muoveva, — che si tratti di qualcosa d’imbarazzante per la stazione? O che altro?

Damon le consegnò il foglio, prima che gli venisse ordinato. La Mallory l’esaminò, assunse per un momento un’aria perplessa, e a poco a poco la sua espressione cambiò.

— Talley — disse. — Josh Talley?

Damon annuì, e lei sporse le labbra.

— Un amico dei Konstantin. Come cambiano i tempi.

— È Adattato.

Un lampo passò negli occhi della Mallory.

— Per sua richiesta — disse Damon. — Che altro gli restava da fare, dopo Russell?

Lei continuò a fissarlo, e Damon avrebbe voluto sfuggire a quello sguardo e poter essere altrove. L’Adattamento rivelava molte cose: poneva Pell e lei in un’intimità che Damon non voleva… che lei, chiaramente, non voleva… quelle registrazioni.

— Come sta? — chiese la Mallory.

A Damon anche quella domanda parve bizzarramente minacciosa e la fissò senza capire.

— Amicizia — disse lei. — Amicizia, tra due poli opposti. Oppure è protezione? Lui ha chiesto l’Adattamento, e voi gliel’avete dato; avete finito quello che aveva incominciato Russell… mi pare di capire che la vostra sensibilità era rimasta offesa, no?

— Noi non siamo Russell.

Un sorriso, smentito dall’espressione degli occhi. — Com’è luminoso un mondo dove esiste ancora questa capacità di indignarsi, signor Konstantin. E dove esiste Q… sulla stessa stazione. L’una accanto all’altra, e amministrate dal suo ufficio. O forse anche Q è una forma sbagliata di pietà. Sospetto che abbiate creato quell’inferno a forza di mezze misure. Grazie alla vostra sensibilità. È la ragione del suo sdegno personale, questo confederato? La sua apologia della morale… o la sua opinione sulla guerra, signor Konstantin?

— Voglio che venga liberato. Voglio che gli siano resi i documenti. Non ha più nulla a che fare con la politica.

Nessuno si rivolgeva mai in quel modo alla Mallory; era evidente. Dopo un lungo momento, lei distolse i suoi occhi da quelli di Damon e annuì, lentamente. — Se ne rende responsabile?

— Me ne rendo responsabile.

— A questa condizione… No. No, signor Konstantin, non ci vada lei. Non è necessario che vada di persona. Lo farò liberare per via gerarchica dalla Flotta, lo rimanderò a casa… se lei mi garantisce che le cose stanno come ha detto.

— Può vedere la documentazione, se vuole.

— Sono sicura che non contiene nulla di nuovo. — La Mallory alzò una mano, facendo un segnale a qualcuno che stava alle spalle di Damon, un piccolo movimento. Lui fu scosso da un brivido, rendendosi conto che aveva un fucile alle spalle. La Mallory si avvicinò alla consolle. — Qui Mallory. Rilasciate Joshua Talley, detenuto presso la stazione e restituitegli i documenti. Riferite alle autorità competenti della Flotta e della stazione. Passo.

Arrivò la risposta, impersonale e disinteressata.

— Posso — le chiese Damon, — posso mandargli una comunicazione? Avrà bisogno di istruzioni precise…

— Signore — disse uno dei tecnici, voltandosi verso di lui. — Signore…

Damon si voltò a guardare quel volto angosciato.

— Hanno sparato a un indigeno, signore, settore verde quattro.

Damon restò senza fiato. Per un attimo, la sua mente si rifiutò di funzionare.

— È morto, signore.

Damon scrollò la testa, nauseato, si voltò e fissò cupamente la Mallory. — Loro non fanno niente di male. Nessun indigeno ha mai alzato una mano su un umano se non per fuggire, per il panico. Mai.

La Mallory alzò le spalle. — Ormai è fatta, signor Konstantin. Si occupi degli affari suoi. Qualcuno ha sbagliato; c’era l’ordine di non sparare. Riguarda noi, non lei. Ci penseranno i nostri.

— Gli indigeni sono persone, comandante.

— Abbiamo sparato anche a persone — disse la Mallory, imperturbata. — Le ho detto di continuare a occuparsi degli affari suoi. Questa faccenda rientra nella legge marziale, e la risolverò io.

Damon restò immobile. Tutti i volti erano girati verso di loro, e i banchi lampeggiavano di segnali ignorati. — Al lavoro — ordinò lui, bruscamente, e tutti tornarono a voltarsi. — Mandate un assistente medico della stazione in quell’area.

— Lei sta mettendo alla prova la mia pazienza — disse la Mallory.

— Sono i nostri cittadini.

— Interpreta la cittadinanza in senso molto ampio, signor Konstantin.

— Le dico che hanno terrore della violenza. Se vuole scatenare il caos nella stazione, comandante, non ha altro da fare che gettare gli indigeni nel panico.

La Mallory rifletté, e alla fine annuì, senza rancore. — Se può risolvere la situazione, signor Konstantin, provveda pure. E vada dove ritiene più opportuno.

Proprio così. Vada. Damon si avviò, e si voltò a guardare con improvviso timore la Mallory, che era capace di liquidare così una discussione pubblica. Lui aveva perduto, s’era lasciato vincere dalla collera… e lei aveva detto vada, come se il suo orgoglio non contasse nulla.

Se ne andò, con la sensazione inquietante di aver fatto qualcosa di molto pericoloso.

Damon Konstantin è autorizzato a passare — tuonò la voce della Mallory nei corridoi; e i soldati che si erano mossi per fermarlo si trattennero.


Lasciò l’ascensore a quattro verde e corse, con i documenti in mano, mostrandoli a uno zelante soldato che cercava di sbarrargli la strada, e passò. Più avanti c’erano le truppe radunate, che bloccavano la visuale. Corse verso di loro: lo afferrarono bruscamente, ma lui mostrò i documenti e passò oltre.

— Damon. — Sentì la voce di Elene, prima di vederla, si voltò di scatto e si trovò fra le sue braccia, nella ressa dei militari corazzati.

— È uno degli operai temporanei — disse Elene. — Un maschio che si chiamava Colosso. Morto.

— Non devi rimanere qui — le disse Damon. Non si fidava del buon senso dei militari. Guardò alle spalle di Elene. C’era molto sangue sul pavimento, davanti alla porta di accesso. Avevano messo l’indigeno morto in un sacco, sopra una barella, per portarlo via. Elene, che gli aveva passato la mano sotto il braccio, sembrava intenzionata a non muoversi.

— È rimasto preso tra i battenti della porta — disse lei. — Ma può darsi che lo sparo l’avesse già ucciso… Il tenente Vanars, dell’India — mormorò, mentre un giovane ufficiale si faceva largo per raggiungerli. — Comandante di questa unità.

— Che cos’è successo? — chiese Damon al tenente. — Cos’è successo?

— Signor Konstantin? Un deplorevole errore. L’indigeno è apparso inaspettatamente.

— Questo è Pell, tenente. È piena di civili. La stazione richiederà un rapporto completo.

— Per il bene della sua stazione, signor Konstantin, le consiglierei di cambiare le procedure di sicurezza. Sono stati i vostri operai a far saltare la serratura. È stato questo che ha tagliato in due l’indigeno, quando è scattata la chiusura di sicurezza; qualcuno aveva aperto la porta interna fuori sequenza. Fin dove si estendono le gallerie? Vanno dappertutto?

— Sono fuggiti — disse prontamente Elene. — Sono andati giù, lontano da qui. Probabilmente sono operai temporanei e non conoscono bene le gallerie. E non usciranno più, con la minaccia dei fucili qui fuori. Staranno nascosti fino a quando moriranno tutti.

— Dia loro l’ordine di uscire — disse Vanars.

— Lei non capisce gli indigeni — disse Damon.

— Li faccia uscire tutti dalle gallerie. E le chiuda.

— Sono le gallerie della manutenzione di Pell, tenente; e i nostri operai indigeni ci vivono, con il loro sistema atmosferico. Non è possibile chiudere le gallerie. Andrò io — disse a Elene. — Forse a me daranno ascolto.

Elene si morse le labbra. — Resterò qui — disse, — fino a che non tornerai.

Damon avrebbe voluto obiettare. Ma non era il momento. Lanciò un’occhiata a Vanars. — Forse mi ci vorrà un po’. Gli indigeni non sono una questione negoziabile, su Pell. Sono spaventati, e possono cacciarsi in posti dove morirebbero causandoci guai molto gravi. Se dovessi trovarmi in difficoltà, si metta in contatto con le autorità della stazione, non faccia entrare le truppe; possiamo sbrogliarcela da soli. Se dovesse sparare un altro fucile, quando saremo loro vicini, potremmo trovarci senza un sistema di manutenzione, signore. Il nostro tutto vitale e il loro fanno parte di un tutto che si trova in un equilibrio delicato.

Vanars non disse nulla. Non reagì. Era impossibile capire se la ragione contasse qualcosa, per lui e per gli altri. Damon strinse forte la mano di Elene, si fece largo tra i militari corazzati, cercò di non calpestare una pozza di sangue mentre apriva il portello.

La porta si aprì, e si chiuse dietro di lui, iniziando automaticamente il ciclo. Damon prese il respiratore per gli umani che era sempre appeso alla destra dell’ingresso, in quelle camere, e lo applicò prima che gli effetti del cambiamento d’atmosfera diventassero fastidiosi. Il suo respiro divenne sibilante, come quello che associava inconsciamente alla presenza degli indigeni, e risuonava pesantemente nella camera metallica. Aprì la porta interna e l’eco gli ritornò da lontano. In quel punto c’era una fioca luce azzurra, ma si fermò per aprire lo sportello e prendere una lampada. Il raggio potente tagliò l’oscurità, rivelando una ragnatela d’acciaio.

— Indigeni! — gridò, e la sua voce echeggiò cavernosa. Sentì il freddo, quando varcò la porta, e lasciò che si richiudesse; si fermò sulla piattaforma dove le scalette partivano in tutte le direzioni. — Indigeni! Sono Damon Konstantin! Mi sentite? Rispondete, se mi sentite!

Gli echi si spensero molto lentamente, in lontananza. — Indigeni?

Un gemito salì dalle tenebre, un lamento che gli fece rizzare i capelli. Collera?

Avanzò, stringendo la lampada con una mano, la ringhiera con l’altra, e si fermò, in ascolto. — Indigeni?

Qualcosa si mosse, nelle profondità buie. Un passo leggero risuonò sul metallo, molto più in basso. — Konstantin? — balbettò una voce aliena. — Konstantin-uomo?

— Sono Damon Konstantin — gridò lui di rimando. — Sali, per favore. Niente fucili. Non c’è pericolo.

Rimase immobile e sentì un lieve tremito della struttura metallica mentre qualcosa avanzava nelle tenebre. Sentì respirare, e i suoi occhi scorsero la luce, in basso, fioca come un’illusione. C’era l’impressione di un corpo peloso, poi un altro baluginio d’occhi che s’avvicinavano, a poco a poco. Restò immobile; era solo, fragile in quel luogo buio. Gli indigeni non erano pericolosi… ma nessuno, prima, li aveva mai attaccati con i fucili.

Ora apparvero più nitidi nella luce della sua lampada; salirono l’ultima rampa. Uno era ferito, e l’altro aveva gli occhi sbarrati per il terrore.

— Konstantin-uomo — disse il secondo, con voce tremante. — Aiuto, aiuto, aiuto.

Tesero le mani verso di lui, supplichevoli. Damon posò la lampada sulla grata e li accolse come se fossero bambini, toccò cautamente il maschio, perché aveva il braccio coperto di sangue e contraeva le labbra in un ringhio di dolore.

— Tutto bene — disse. — Siete al sicuro. Adesso siete al sicuro. Vi farò uscire.

— Paura, Konstantin-uomo. — La femmina accarezzò la spalla del compagno, poi lo guardò con gli occhi sgranati. — Tutti nascondigli andati non trovato strada.

— Non ti capisco.

— Altri, altri, altri noi, fame da morire, morti di paura. Prego aiuta noi.

— Chiamateli.

L’indigena toccò il maschio in un gesto eloquente di preoccupazione. Il maschio le disse qualcosa, ciangottando, la spinse, e lei allungò la mano per toccare Damon.

— Aspetterò — le promise Damon. — Aspetterò qui. Non c’è pericolo.

— Ti voglio bene — disse lei in un soffio e ridiscese precipitosamente gli echeggianti gradini metallici, perdendosi subito nel buio. Dopo un momento, grida e strilli risuonarono in basso, raddoppiando gli echi; voci maschili e femminili, profonde e acute, fino a che l’oscurità parve impazzire. Accanto a Damon qualcuno urlò; il maschio stava gridando qualcosa agli altri.

Arrivarono nel silenzio che seguì: il vibrare dei passi sui gradini metallici, i richiami bruschi che risuonavano con insistenza e gemiti da far accapponare la pelle. La femmina risalì correndo e accarezzò la spalla del compagno, poi toccò la mano di Damon. — Io Satin, io chiamo. Fai lui stare bene, Konstantin-uomo.

— Dovranno passare attraverso la camera pochi alla volta, lo sai. E stare molto attenti alla porta.

— Io conosco porta — disse lei. — Io prudente. Vai, vai, io porto loro.

Satin stava già ridiscendendo, in fretta. Damon cinse il maschio con un braccio per sorreggerlo e lo condusse nella camera di compensazione; gli sollevò la maschera, perché l’indigeno era stordito per il trauma e ringhiava per il dolore, ma non cercava di colpirlo. La porta esterna si aprì sulla luce abbagliante e sugli uomini armati, e l’indigeno sussultò, ringhiò e sibilò, poi si calmò quando Damon lo strinse per rassicurarlo. Elene si fece largo tra i soldati, tendendo le mani per aiutare.

— Dica ai soldati di stare indietro — scattò Damon che, accecato dalla luce, non riusciva a distinguere Vanars. — Che si tolgano di mezzo. E la finiscano di puntare i fucili. — Fece sedere l’indigeno sul pavimento accanto alla parete, mentre Elene ordinava all’assistente medico di avvicinarsi. — Faccia togliere di qui i soldati! — disse di nuovo Damon. — Lasci fare a noi!

Fu dato un ordine. Con grande sollievo di Damon, i militari dell’India cominciarono ad allontanarsi. L’indigeno si lasciò convincere a mostrare il braccio ferito all’assistente medico che gli si era inginocchiato accanto. Damon abbassò la maschera che lo soffocava e strinse la mano di Elene che si chinava al suo fianco. L’aria puzzava di sudore e di paura, la paura provata dall’indigeno: un odore muschiato, pungente.

— Si chiama Denteazzurro — disse l’assistente medico, controllando la piastrina. Prese rapidamente un appunto e cominciò a curare la ferita, con delicatezza. — Ustione ed emorragia. Niente di grave, se si esclude lo shock.

— Bere — implorò Denteazzurro, e tese la mano verso la cassetta di pronto soccorso. L’assistente la prese e gli promise che gli avrebbe dato l’acqua appena avessero finito.

La porta si aprì e arrivarono sei indigeni. Damon si alzò, lesse il panico nei loro occhi. — Io sono Konstantin — si affrettò a dire, perché sapeva che il suo nome era importante per gli indigeni. Andò loro incontro a mani tese, e si lasciò abbracciare da quegli esseri sudati e sconvolti. Anche Elene li accolse allo stesso modo, e dopo un momento ne arrivarono altri, formando un gruppo che riempiva il corridoio, più numeroso dei militari piazzati in fondo. Gli indigeni lanciarono occhiate ansiose in quella direzione, ma rimasero in gruppo. Poi ne vennero altri ancora; e con loro c’era la compagna di Denteazzurro che ciangottò preoccupata fino a quando non riuscì a individuarlo. Vanars si fece largo in mezzo all’orda pelosa.

— Deve portarli in una zona sicura al più presto possibile — disse a Damon.

— Usi il suo comunicatore e avverta che passeremo dalle rampe di emergenza, dal settore quattro al nove, diretti ai moli — disse Damon. — Di là il loro habitat è accessibile; li riaccompagneremo. È la soluzione più rapida e sicura per tutti.

Non attese che Vanars rispondesse. Agitò un braccio per richiamare l’attenzione degli indigeni. — Venite — disse, e quelli ammutolirono e si mossero. Denteazzurro, con il braccio fasciato, si alzò in fretta per non restare indietro, e disse qualcosa agli altri. Satin intervenne a sua volta, e tra gli indigeni si diffuse all’improvviso l’allegria. Damon si avviò, tenendo Elene per mano, e gli indigeni li seguirono, nello strano accompagnamento costituito dai rumori dei respiratori. Si muovevano rapidi e soddisfatti. Le poche sentinelle piazzate lungo il percorso restarono immobili, ridotte improvvisamente a una minoranza, e gli indigeni parlavano tra loro ormai più liberamente, quando arrivarono in fondo al corridoio, e cominciarono a scendere l’ampia rampa a spirale che conduceva alle porte dei nove livelli. Un braccio s’infilò sotto a quello di Damon, mentre scendevano: era Denteazzurro, e con lui c’era Satin. Ora camminavano tutti e quattro affiancati: una bizzarra compagnia… cinque, anzi, perché un altro aveva preso la mano di Elene, sulla destra. Satin gridò qualcosa, e le rispose un coro. Satin parlò di nuovo con voce echeggiante, e di nuovo il coro risuonò tra i gradini. Un altro gridò dalla retroguardia, e molte voci gli risposero; e poi di nuovo. Damon strinse più forte la mano di Elene, allarmato da quel comportamento, ma gli indigeni sembravano accontentarsi di andare con lui e di gridare quella che sembrava una marcia.

Uscirono a verde nove, e percorsero il lungo corridoio; entrarono nei moli fra grida di esultanza. I militari allineati davanti agli accessi delle navi si agitarono minacciosamente, ma non fecero altro. — Restate con me — ordinò severamente Damon ai suoi compagni, e quelli obbedirono, salirono l’orizzonte curvilineo, ed entrarono nel loro habitat. Venne il momento del commiato. — Andate — disse Damon. — Andate e siate prudenti. Non spaventate gli uomini con i fucili.

Aveva previsto che scappassero via tutti; e invece, ad uno ad uno vennero ad abbracciare lui ed Elene, affettuosamente, e il commiato richiese un po’ di tempo.

Erano rimasti per ultimi Satin e Denteazzurro, che li abbracciarono, scambiandosi affettuose pacche sulle spalle. — Vi voglio bene — disse Denteazzurro. — Vi voglio bene — disse a sua volta Satin.

Non una parola, non una domanda sul morto. — Colosso s’era perduto — disse Damon, sebbene fosse sicuro che quei due erano in qualche modo coinvolti; l’aveva capito dall’ustione di Denteazzurro. — Morto.

Satin chinò solennemente la testa. — Tu mandi lui casa, Konstantin-uomo.

— Lo manderò — promise Damon. Gli umani morivano, e non avevano diritto al trasporto. Non avevano stretti legami con quel pianeta, o con qualunque altro pianeta; c’era il vago desiderio di una sepoltura, ma non al prezzo di un fastidio. Questo era un fastidio, ma lo era anche morire assassinato tanto lontano da casa. — Provvederò io.

— Ti voglio bene — disse solennemente Satin, e lo abbracciò una seconda volta, posò delicatamente la mano sul ventre di Elene, e si allontanò con Denteazzurro, correndo verso la porta che conduceva alle loro gallerie.

Elene restò immobile, con una mano sullo stomaco e un’espressione di stupore negli occhi. — Come faceva a saperlo? — chiese, con una risata sconcertata. Anche Damon era turbato.

— Si vede un po’ — disse.

— E una di loro se ne può accorgere?

— Loro non ingrossano — disse Damon. Poi guardò i moli e le schiere di soldati. — Vieni. Questa zona non mi piace.

Elene guardò nella stessa direzione, guardò i militari e i gruppi più eterogenei sparsi lungo l’orizzonte curvo dei moli, presso i bar e i ristoranti. Era gente dei mercantili che teneva d’occhio i soldati, su un molo da cui erano stati allontanati.

— Questo posto era proprietà dei mercantili, da quando esiste Pell — disse Elene. — E i bar e le foresterie. I locali stanno chiudendo, e gli uomini di Mazian non ne saranno soddisfatti. Gli equipaggi dei mercantili e i maziani… nello stesso bar, nella stessa foresteria… Sarà bene che il servizio di sicurezza della stazione sia molto rigoroso, quando le truppe avranno libera uscita.

— Vieni — disse Damon, prendendole il braccio. — Voglio portarti via. Correre fin qui, uscire in quel corridoio con gli indigeni…

— Dov’eri tu? — ribatté lei. — Giù nelle gallerie.

— Le conosco.

— E io conosco i moli.

— Allora cosa ci facevi al quattro?

— Ero quaggiù quando è arrivata la chiamata; ho chiesto a Keu il lasciapassare, l’ho avuto, e ho ottenuto che il suo luogotenente collaborasse con gli uffici del molo. Stavo facendo il mio lavoro, quando è arrivata la chiamata attraverso il comunicatore della Flotta e ho portato lassù Vanars prima che sparassero a qualcun altro.

Damon l’abbracciò, riconoscente, e la condusse a nove azzurro, un altro squallido panorama di truppe stazionate a vari intervalli. Non c’era nessuno, nei corridoi.

— Josh — disse lui all’improvviso, lasciando ricadere il braccio.

— Cosa?

Damon continuò a camminare, si diresse verso l’ascensore e si tolse i documenti dalla tasca: ma c’erano soldati dell’India di guardia, e li fecero passare immediatamente. — Avevano arrestato Josh. La Mallory sa che è qui e anche dove si trova.

— Che cosa hai intenzione di fare?

— La Mallory ha accettato di farlo rilasciare. Forse lo hanno già liberato. Devo controllare con il computer e scoprire dov’è, se è ancora detenuto o se è tornato al suo alloggio.

— Potrebbe venire a dormire da noi.

Damon rifletté sulla proposta.

— Altrimenti — chiese lei, — chi di noi potrà dormire veramente tranquillo?

— Non ci sarà molto da dormire neppure se sarà con noi. Non c’è molto spazio nel nostro appartamento. Sarebbe come averlo a letto con noi.

— Ho già dormito in condizioni di sovraffollamento. E potrebbe durare più di una notte. Se gli mettono le mani addosso…

— Elene. È un’altra cosa se la stazione inoltra una protesta. Ma in questa faccenda ci sono cose personali, cose che riguardano Josh…

— Segreti?

— Cose che non devono venire alla luce. Cose che la Mallory forse non vuole si sappiano, capisci? Quella donna è pericolosa. Ho parlato con molti pluriomicidi che avevano meno sangue freddo di lei.

— Comandante della Flotta. È una razza a sé, Damon. Chiedilo a quelli dei mercantili. Sai che probabilmente molti sono imparentati con quelli dei mercantili che si trovano sulla stazione; ma non romperebbero le righe per salutare la propria madre, no. Quello che la Flotta prende… non torna più. Non mi stai dicendo nulla che non sappia già, sul conto della Flotta. Ti assicuro che se vogliamo fare qualcosa, dobbiamo farlo subito.

— Se lo portiamo a vivere con noi, c’è il rischio che la cosa finisca negli schedari della flotta…

— Credo di aver capito che cosa vuoi fare.

Elene era ostinata. Damon rifletté, si fermò davanti all’ascensore, con la mano sul pulsante. — Credo sia meglio che andiamo a prenderlo — disse.

— Certo — disse Elene. — Come pensavo.

CAPITOLO SETTIMO

PELL: SETTORE BIANCO QUATTRO; ore 2230

Jon Lukas percorse nervosamente i corridoi vuoti, nonostante il lasciapassare che Keu aveva distribuito a tutti i presenti nella sala del consiglio. Forse le truppe sarebbero state ritirate progressivamente a partire dalla primalba, almeno così avevano promesso. Era inevitabile, pensò. Molti militari venivano già mandati a riposare a turno, e molti dell’equipaggio della flotta montavano regolarmente di guardia, senza corazze. Era tutto tranquillo; l’avevano fermato una volta sola, all’uscita dell’ascensore. Andò alla porta del suo alloggio e usò la scheda per aprirla.

Il salotto era deserto. Provò un tuffo al cuore, temendo che il suo ospite non invitato se ne fosse andato. Ma poi Bran Hale comparve nel corridoio accanto alla cucina e lo accolse con evidente sollievo.

— Tutto bene — disse Hale, e Jessad uscì. Dopo di lui uscirono altri due uomini di Hale.

— Era ora — disse Jessad. — Mi stavo annoiando.

— E continuerà così — ribatté irritato Jon. — Dovranno restare tutti qui, stanotte: Hale, Daniels, C!ay… Non voglio che i militari vedano un’orda di visitatori uscire dal mio alloggio. Domattina se ne andranno.

— La Flotta? — chiese Hale.

— I militari nei corridoi. — Jon andò al bar della cucina, esaminò una bottiglia che era stata piena quando lui era uscito e che adesso era semivuota. Si versò da bere e sorseggiò il liquore con un sospiro. Gli occhi gli bruciavano per la stanchezza. Andò a sedersi sulla poltrona preferita, mentre Jessad prendeva posto di fronte a lui, al di là del tavolino, e Hale e i suoi uomini rovistavano nel bar in cerca di un’altra bottiglia. — Per fortuna è stato prudente — disse Jon rivolto a Jessad. — Ero preoccupato.

Jessad sorrise, con occhi felini. — Lo immagino. Per un momento o due, ha pensato alle soluzioni. Forse ci sta ancora pensando. Dobbiamo discuterne?

Jon aggrottò la fronte e lanciò un’occhiata furtiva a Hale e ai suoi uomini. — Mi fido più di loro che di lei, questo è un fatto.

— Probabilmente pensava d’essersi sbarazzato di me — disse Jessad. — E non sarei sorpreso se in questo momento le interessasse più il «dove» che il «se». Potrebbe cavarsela, sa. Molto probabilmente.

Quella franchezza turbò Jon Lukas. — Dato che è lei stesso a parlarne, immagino che abbia una controproposta.

L’altro continuò a sorridere. — Uno: attualmente io non rappresento un rischio; forse vorrà considerare questo fatto. Due: l’arrivo di Mazian non mi sorprende.

— Perché?

— Perché era previsto.

Jon avvicinò il bicchiere alle labbra e bevve un sorso di liquore bruciante. — E cioè?

— Quando si compie un balzo per raggiungere l’abisso, signor Lukas, lo si può fare in tre modi sicuri; innanzi tutto, non mettere troppa energia nei balzo… se ci si trova in regioni che si conoscono molto, molto bene; oppure usare la gravità di una stella per farsi attirare; oppure, se si è molto abili… la massa in un punto zero. C’è parecchia roba nelle vicinanze di Pell, lo sa? Niente di molto grosso, ma quanto basta.

— Di cosa sta parlando?

— La Flotta della Confederazione, signor Lukas. Crede che non ci sia una ragione per il fatto che Mazian ha radunato le sue navi per la prima volta dopo vari decenni? Non gli resta altro che Pell; e la Flotta della Confederazione è là fuori. Mi hanno mandato avanti, sapendo da dove sarebbero venuti.

Hale e i suoi uomini s’erano seduti sul divano e sulla spalliera. Jon esaminò mentalmente la situazione. Pell era zona di battaglia. La peggiore di tutte le previsioni.

— E cosa sarà di noi, quando si scoprirà che non c’è modo di sloggiare Mazian?

— Mazian può essere allontanato. E quando questo sarà fatto, non avrà più basi. Sarà spacciato, e noi avremo la pace, signor Lukas, con tutto ciò che comporta. Sono qui per questo.

— La sto ascoltando.

— È necessario togliere di mezzo i dirigenti. È necessario togliere di mezzo i Konstantin. Lei deve prendere il loro posto. Ne avrà il coraggio, signor Lukas, nonostante i legami di parentela? So che c’è… una parentela. Lei e la moglie di Konstantin…

Jon Lukas strinse le labbra, rifuggendo come sempre dal pensiero di Alicia, ridotta in quello stato. Non poteva affrontarlo. Non era mai riuscito a rassegnarsi. Non era vivere, legata a quelle macchine. Non era vivere. Si passò una mano sul viso. — Io e mia sorella non ci parliamo. Da anni. È invalida. Dayin dovrebbe averglielo detto.

— Ne sono informato. Sto parlando del marito e dei figli di sua sorella. Ne avrà il coraggio, signor Lukas?

— Ne avrò il coraggio, sì, purché il piano sia sensato.

— In questa stazione c’è un uomo, un certo Kressich.

Jon respirò lentamente, appoggiando il bicchiere sul bracciolo della poltrona. — Vassily Kressich, eletto consigliere di Q. Come mai lo conosce?

— Dayin Jacoby ci ha dato il suo nome… come consigliere del settore quarantena; e abbiamo i nostri schedari. Questo Kressich… lo vediamo uscire da Q, quando si riunisce il consiglio. Ha un lasciapassare, in questo caso, oppure viene riconosciuto a vista?

— L’uno e l’altro. Ci sono le guardie.

— È possibile corrompere quelli che effettuano il controllo?

— Per certe cose, sì. Ma gli abitanti della stazione, signor chiunque-tu-sia, hanno un’innata riluttanza a fare qualunque cosa che possa danneggiare la stazione nella quale vivono. Può introdurre in Q droghe e liquori di contrabbando; ma un uomo… L’elasticità di una guardia nei confronti del liquore e il suo istinto di sopravvivenza sono due cose ben diverse.

— Allora dovremo avere con lui incontri molto brevi, no?

— Non qui.

— Sta a lei decidere. Forse con il prestito dei documenti. Sono sicuro che si potrà combinare qualcosa, con tutti i suoi fedeli dipendenti. Un alloggio vicino alla zona Q…

— Di che incontro sta parlando? E che cosa vuole da Kressich? Quell’uomo non ha spina dorsale.

— Quanti dipendenti ha, in tutto — chiese Jessad, — che siano fidati come quelli che si trovano qui ora davanti a noi? Uomini disposti a correre rischi, disposti a uccidere? Sono questi che ci occorrono.

Jon lanciò un’occhiata a Bran Hale. Gli mancava il fiato. — Be’, Kressich non è il tipo, glielo assicuro.

— Kressich ha certi contatti. Se non li avesse, come potrebbe essere il rappresentante di una mostruosità come la zona Q?


PELL: SETTORE VERDE SETTE: FORESTERIA DEI MERCANTILI; ore 2241

Il comunicatore ronzò. La spia s’era accesa: una chiamata in arrivo. Josh guardò l’apparecchio e smise di camminare avanti e indietro. Lo avevano lasciato andare. Vada a casa, gli avevano detto, e lui aveva obbedito, avviandosi lungo i corridoi sorvegliati dai poliziotti e dagli uomini di Mazian. Sapevano dov’era, in quel momento. E adesso qualcuno lo stava chiamando, poco dopo il suo arrivo.

Il ronzio era insistente e la spia rossa continuava a lampeggiare. Lui non voleva rispondere, ma poteva essere la polizia per controllare se era arrivato. Non aveva il coraggio di ignorare la chiamata. Attraversò la stanza e premette il pulsante.

— Josh Talley — disse al microfono.

— Josh. Josh, sono Damon. Che piacere sentire la tua voce. Tutto bene?

Lui si appoggiò alla parete per riprendere fiato.

— Josh?

— Tutto bene. Damon, sai cos’è successo.

— Lo so. Mi è arrivato il tuo messaggio. Mi sono assunto personalmente la responsabilità per te. Questa sera devi venire ne! nostro appartamento. Porta tutto quello che ti occorre. Vengo a prenderti.

— Damon, no. No. Non immischiarti.

— Ne abbiamo parlato: è tutto a posto. Niente discussioni.

— Damon, no. Se la cosa finisce negli schedari…

— Siamo i tuoi garanti, Josh. È già negli schedari.

— No.

— lo ed Elene stiamo venendo da te.

La comunicazione s’interruppe. Josh si asciugo il viso. Il nodo che gli aveva stretto lo stomaco era salito alla gola. Non vedeva le pareti, la stanza. Era tutto metallo, e Signy Mallory, con il viso giovane e ì capelli argentei, ma con gli occhi da cui trapelavano vecchiaia e morte. Damon ed Elene e il bambino che desideravano… erano pronti a rischiare tutto. Per lui.

Non aveva armi. Non ne avrebbe avuto bisogno, se fossero stati soli, come lo erano stati in quell’alloggio. Allora lui era morto, dentro. Esisteva odiando la propria esistenza. E adesso la stessa paralisi lo invitava… lasciare che le cose andassero come andavano, accettare il rifugio che gli veniva offerto; era sempre più facile. Lui non aveva minaccialo Signy Mallory, perché non aveva avuto nulla per cui battersi.

Si scostò dalla parete e si frugò in tasca per assicurarsi che i suoi documenti ci fossero ancora. Uscì nel corridoio, passò davanti al banco della foresteria, e andò all’esterno, dove c’erano le guardie. Un uomo del servizio di sicurezza locale lanciò un avvertimento. Josh guardò disperatamente lungo il corridoio, dove stava un militare.

Ehi! — gridò, rompendo il silenzio che regnava nel corridoio. I poliziotti e il militare reagirono; il militare spianò il fucile, fulmineamente, come se fosse sul punto di premere il grilletto. Josh deglutì a fatica, tenne le mani bene in vista. — Voglio parlarle.

Un lieve cenno con il fucile. Josh s’incamminò con le mani ben staccate dai fianchi verso il militare corazzato e la canna scura. — Fermo — disse il soldato. — Cosa c’è?

Aveva le mostrine dell’Atlantic. — Signy Mallory della Norway — disse Josh. — Siamo amici. L’avverta che Josh Talley vuole parlarle. Subito.

Il soldato lo guardò incredulo, poi fece una smorfia. Ma strinse il fucile nell’incavo del braccio e allungò la mano verso il pulsante del comunicatore. — Lo riferirò all’ufficiale di turno della Norway — disse. — Ci andrà in ogni caso… per sua volontà, se la Mallory la conosce. O per un’indagine, se non la conosce.

— Mi riceverà — disse Josh.

Il soldato premette il pulsante del comunicatore e s’informò. La risposta gli arrivò attraverso l’auricolare del casco, ma i suoi occhi ebbero un guizzo. — Allora controlli — disse alla Norway. E dopo un altro momento: — Centrale di comando. Ricevuto. Chiuso. — Riagganciò il comunicatore alla cintura e fece un cenno con la canna del fucile. — Prosegua lungo il corridoio e salga la rampa. Quel soldato laggiù l’accompagnerà dalla Mallory.

Josh si avviò a passo svelto, perché immaginava che Damon ed Elene non avrebbero impiegato molto a raggiungere la foresteria.


Lo perquisirono. Logicamente. Era la terza volta quel giorno, ma in questo caso non provò alcun fastidio. Aveva una calma interiore, e ciò che avveniva intorno a lui non lo toccava. Si rassettò i vestiti e salì la rampa, insieme alla scorta, passando davanti alle sentinelle, ad ogni livello. A verde due presero un ascensore e salirono ad azzurro uno. Non gli avevano neppure chiesto i documenti; li avevano appena guardati, solo per assicurarsi che il portafoglio contenesse soltanto carte.

Percorsero un breve tratto, lungo il corridoio. Nell’aria c’era un odore di sostanze chimiche. Numerosi operai erano occupati a staccare tutti i cartelli. La sezione con le finestre, al cui interno vi erano varie attrezzature per i computer e qualche tecnico al lavoro, era ben sorvegliata. Uomini della Norway. Aprirono una porta e lo introdussero insieme alla scorta nella centrale della stazione, tra le corsie dove si aggiravano i tecnici.

Signy Mallory, seduta in fondo ai banchi di controllo, si alzò e gli sorrise freddamente. Aveva l’aria stanca. — Dunque? — chiese.

Josh aveva pensato che rivederla non gli avrebbe fatto nessun effetto. Ma non fu così. Una stretta allo stomaco. — Voglio tornare — disse. — Tornare sulla Norway.

— Davvero?

— Non appartengo alla stazione; questo non è il mio posto. Chi altri potrebbe prendermi?

La Mallory lo fissò, senza dir nulla. Josh sentì un tremito che incominciava nel ginocchio sinistro; avrebbe voluto sedersi. Gli avrebbero sparato, se si fosse mosso; ne era certo. Il tic minacciava la sua compostezza, e gli contrasse l’angolo della bocca, quando Signy Mallory distolse gli occhi un momento, prima di guardarlo di nuovo. Rise, una risata secca. — È stato Konstantin a suggerirtelo?

— No.

— Sei stato Adattato. È vero?

Cominciò a balbettare. Annuì.

— E Konstantin si è reso garante del tuo comportamento.

Stava andando tutto a rotoli. — Nessuno è responsabile per me — disse Josh, inciampando nelle parole. — Voglio una nave. Se non c’è altro che la Norway, la voglio. — Doveva guardarla direttamente in faccia, doveva fissare quegli occhi che brillavano di pensieri facilmente immaginabili, di cose che non potevano venire espresse davanti ai soldati.

— L’avete perquisito? — chiese Signy Mallory alle guardie.

— Sì, signora.

Lei rifletté per un lungo istante, senza sorridere, né ridere apertamente. — Dove sei allogato?

— Ho una stanza nella foresteria.

— Te l’hanno procurata i Konstantin?

— Io lavoro. La pago.

— Che lavoro fai?

— Recupero.

Un’espressione di sorpresa, di derisione.

— Quindi voglio troncare — disse lui. — Immagino che questo tu me lo devi.

Vi fu un’interruzione, un movimento dietro di lui, che durò solo un attimo. La Mallory scoppiò a ridere, una risata stanca e annoiata, e fece un cenno. — Konstantin. Venga avanti. Si porti via il suo amico.

Josh si voltò. Damon ed Elene erano lì, accaldati, sconvolti e senza fiato. Lo avevano seguito. — Se è confuso — disse Damon, — deve andare in ospedale. — Si avvicinò e mise una mano sulla spalle di Josh. — Vieni. Vieni via, Josh.

— Non è confuso — disse la Mallory. — Era venuto qui per uccidermi. Si porti a casa il suo amico, signor Konstantin. E lo tenga d’occhio, altrimenti risolverò le cose a modo mio.

Vi fu un pesante silenzio.

— Ci penserò io — disse Damon, dopo un istante. Le sue dita affondarono nella spalla di Josh. — Vieni. Vieni via.

Josh si mosse, andò con lui e con Elene, passando davanti alle guardie, lungo il corridoio affollato dalle squadre degli operai e impregnato dell’odore di sostanze chimiche; le porte della centrale si chiusero dietro di loro. Nessuno parlò. Damon lo prese per un braccio. Entrarono in un ascensore e scesero al cinque. In quel corridoio le guardie erano più numerose, e c’erano anche molti poliziotti della stazione. Giunsero nella zona residenziale e arrivarono alla porta dell’appartamento di Damon. Lo fecero entrare e chiusero la porta. Josh rimase fermo, in attesa, mentre Damon ed Elene accendevano le luci e si toglievano la giacca.

— Manderò a prendere i tuoi abiti — disse laconicamente Damon. — Su, mettiti comodo.

Non era l’accoglienza che meritava. Josh scelse una poltrona di pelle, ricordando che la sua tuta da lavoro era macchiata di grasso. Elene gli portò un bicchiere e Josh bevve, senza sentire il sapore.

Damon sedette sul bracciolo della poltrona accanto alla sua. Si capiva che era irritato. Josh se ne rese conto e fissò il pavimento.

— Ci hai costretti a rincorrerti — disse Damon. — Non so come hai fatto a sfuggirci, ma ci sei riuscito.

— Ho chiesto io di andare.

Qualunque cosa avesse avuto intenzione di dire, Damon cambiò idea e deglutì. Elene andò a sedersi sul divano di fronte a lui.

— Che intenzioni avevi? — chiese Damon.

— Non avreste dovuto immischiarvi. Non voglio che ci andiate di mezzo.

— Sei scappato da noi?

Josh scrollò le spalle.

— Josh… volevi ucciderla?

— Prima o poi, succederà, non so quando né come.

I due non trovarono nulla da dirsi. Alla fine Damon scrollò la testa e distolse lo sguardo, ed Elene andò a mettersi dietro la poltrona di Josh, posandogli la mano sulla spalla, gentilmente.

— Non ha funzionato — disse finalmente Josh, inciampando nelle parole. — È andato tutto storto. E adesso, temo, lei si sarà convinta che sia stato tu a suggerirmelo. Mi dispiace. Mi dispiace.

La mano di Elene gli sfiorò i capelli, si posò di nuovo sulla sua spalla. Damon si limitava a guardarlo come se non lo avesse mai visto prima. — Non pensare mai più di fare una cosa simile — disse Damon.

— Non volevo che ci andaste di mezzo voi due. Non volevo che mi prendeste in casa vostra. Pensate come lo giudicheranno loro… voi, con me.

— Credi che Mazian comandi questa stazione, così di colpo? E credi che un comandante della Flotta possa rompere i rapporti con i Konstantin, della cui collaborazione Mazian ha bisogno… per una bega personale?

Josh rifletté. Aveva senso, e lui voleva crederci; per questo destava i suoi sospetti.

— Non succederà — disse Damon. — Quindi non ci pensare. Nessun militare piomberà in questo appartamento: ci puoi contare. Ma non dar loro un buon pretesto per farlo. E questa volta c’è mancato poco. Lo capisci? La cosa peggiore che puoi fare è dar loro un pretesto. Josh, è stato l’ordine della Mallory a farti rilasciare. Gliel’ho chiesto io. E poco fa lo ha fatto di nuovo… come favore. Non sperare che avvenga anche una terza volta.

Josh annuì, sconvolto.

— Hai mangiato oggi?

Lui rifletté, confuso; alla fine ricordò il tramezzino, e si accorse che il suo malessere era dovuto in parte alla mancanza di nutrimento. — Ho saltato la cena — disse.

— Ti presterò uno dei miei abiti che ti possa andare bene. Lavati, riposati. Domattina torneremo al tuo appartamento e prenderemo tutto quello che ti occorre.

— Per quanto tempo dovrò restare qui? — chiese Josh, voltando la testa per guardare Elene, e poi di nuovo Damon. L’appartamento era piccolo, e si rendeva conto di essere d’impaccio. — Non posso venire ad abitare con voi.

— Resterai qui fino a quando sarà tutto a posto — disse Damon. — Se dovremo trovare qualche altra sistemazione, lo faremo. Nel frattempo, modificherò i tuoi documenti e inventerò una scusa perché tu possa passare i prossimi giorni lavorativi nel mio ufficio.

— Non tornerò all’officina?

— Quando tutto sarà risolto. Per il momento, non ti perderemo d’occhio. Abbiamo detto chiaramente che se oseranno toccarti causeranno un grosso incidente. Informerò anche mio padre, in modo che nessuno, nei nostri uffici, venga colto di sorpresa da una richiesta sgradita. Ma per piacere, non provocare guai.

— D’accordo — promise Josh. Damon indicò con un cenno del capo la camera. Josh si alzò e lo seguì; Damon tirò fuori una bracciata di vestiti dagli armadi. Josh andò in bagno, si lavò e si sentì meglio, finalmente libero dal ricordo della cella. Indossò la morbida vestaglia che Damon gli aveva prestato e, quando uscì, lo accolse il buon odore della cena.

Mangiarono, un po’ stretti intorno al tavolo, e si raccontarono a vicenda quello che avevano visto nelle rispettive sezioni. Josh poteva parlare senza ansia, finalmente, adesso che non doveva più convivere da solo con quell’incubo.

Scelse un angolo della cucina, si preparò un giaciglio sul pavimento con tutte le coperte che Elene gli aveva offerto. Domani ti troveremo una branda, gli aveva promesso. O almeno un’amaca. Si sdraiò, udì gli altri due che si sistemavano nel soggiorno, e si sentì al sicuro. Finalmente credeva a quel che gli aveva detto Damon… era in un rifugio che neppure la Flotta di Mazian poteva violare.

CAPITOLO OTTAVO

PORTA DELL’INFINITO: MODULO D’ATTERRAGGIO DELL’AFRICA, BASE PRINCIPALE ore 2400 pg; ore 1200 ag; GIORNO LOCALE

Emilio si appoggiò allo schienale e fissò risoluto il viso irritato di Porey, mentre il comandante prendeva appunti sui fogli che aveva davanti a sé e li spingeva verso di lui, attraverso il tavolo. Emilio sfogliò le richieste dei rifornimenti e annuì, lentamente.

— Forse ci vorrà un po’ di tempo — disse.

— Al momento — disse Porey, — mi limito a trasmettere i rapporti e ad agire in base alle istruzioni. Lei e il suo personale non collaborano. Continui pure finché vuole.

Erano nella piccola area riservata al personale sulla nave di Porey, una nave con il ponte piatto, non adatta a voli spaziali prolungati. Porey aveva avuto un assaggio dell’atmosfera della Porta dell’Infinito, delle cupole, della polvere e del fango; era risalito sulla sua nave, pieno di disgusto, e l’aveva invitato a seguirlo anziché visitare la cupola principale. E questo gli sarebbe andato benissimo, se fosse servito a far risalire a bordo anche le truppe. Invece no. Loro erano ancora là fuori, con le maschere e le armi. Quelli del settore Q e i residenti lavoravano nei campi, sotto la minaccia di quelle armi.

— Anch’io ho ricevuto istruzioni — disse Emilio, — e agisco di conseguenza. Il meglio che possiamo fare, comandante, è riconoscere che entrambe le parti in causa si rendono conto della situazione, e che le sue ragionevoli richieste verranno soddisfatte. Tutti e due obbediamo a degli ordini.

Un uomo ragionevole si sarebbe placato. Ma Porey non lo era. Si limitò a fare una smorfia. Forse era risentito per l’ordine che l’aveva costretto a scendere sulla Porta dell’Infinito; o forse quella era la sua espressione naturale. Molto probabilmente non aveva dormito abbastanza; i brevi intervalli con cui i soldati, là fuori, ricevevano il cambio, indicava che non erano arrivati molto freschi, e s’era visto in giro l’equipaggio di Porey, non Porey… forse l’equipaggio d’altergiorno. — Prenda pure il suo tempo — ripeté Porey, ed era evidente che se ne sarebbe ricordato… quando avesse potuto fare le cose a modo suo.

— Con permesso — disse Emilio, ma non ricevette risposta; quindi si alzò e uscì. Le guardie lo lasciarono passare; camminò lungo il breve corridoio e scese nel grosso ventre della nave, dove l’ascensore fungeva da camera di compensazione, e tornò nell’atmosfera della Porta dell’Infinito. Si assestò la maschera e scese lungo la rampa, nel vento fresco.

Non avevano ancora inviato forze d’occupazione negli altri campi. Emilio pensava che avrebbero voluto farlo, ma le forze erano limitate, e negli altri campi non c’era possibilità di atterrare. In quanto alle richieste di viveri presentate da Porey, pensava che avrebbe potuto fornirgli quel quantitativo; avrebbero costretto loro stessi e la stazione ad accontentarsi del minimo indispensabile, ma la loro resistenza e le cupole vuote, se non altro, avevano fatto sì che le pretese della Flotta scendessero a un livello tollerabile.

Situazione migliorata, era stato il messaggio più recente di suo padre. Nessuna evacuazione in programma. La Flotta prevede di far base permanente a Pell.

Non era la migliore delle notizie. Non era neppure la peggiore. Per tutta la vita, Emilio aveva immaginato la guerra come un debito che un giorno sarebbe stato inevitabilmente pagato, dall’una o dall’altra generazione. Pell non poteva mantenere in eterno la sua neutralità. Finché gli agenti dell’Anonima erano rimasti con loro, aveva sperato, senza troppa convinzione, che qualche forza esterna fosse disposta a intervenire. Ma non era così. E invece adesso avevano Mazian, il quale stava perdendo una guerra che la Terra non poteva finanziare, e non era in grado di proteggere una stazione forse disposta a finanziarlo; inoltre, lui non sapeva nulla di Pell e non si curava dei delicati equilibri della Porta dell’Infinito.

Dove sono gli indigeni? avevano chiesto i militari. Hanno paura degli estranei, aveva risposto lui. Non c’era traccia degli hisa. E aveva fatto in modo che fosse così. Infilò la richiesta di Porey nella tasca della giacca e salì sulla collina, lungo il sentiero. Vedeva i militari piazzati qua e là tra le cupole, con i fucili bene in vista; vedeva gli operai nei campi lontani, tutti quanti, mandati al lavoro senza riguardo per i programmi, l’età e le condizioni di salute. C’erano militari al mulino, alla stazione di pompaggio. Facevano domande agli operai sulla produzione. Finora non erano riusciti a smentire la versione ufficiale, secondo la quale la stazione aveva assorbito tutto ciò che avevano prodotto. C’erano tutte quelle navi lassù, e tutti i mercantili in orbita intorno alla stazione. Non era probabile che Mazian cominciasse a portar via le provviste ai mercantili… erano troppo numerosi.

Eppure Mazian — e questo pensiero continuava ad assillarlo — non si era certo sforzato di tener testa alla Confederazione solo per farsi imbrogliare da Emilio Konstantin.

Scese il sentiero, superò il ponte sul fossato, e risalì verso il centro operativo. Vide che la porta era aperta. Miliko uscì e si fermò ad attenderlo, con i capelli agitati dal vento, le braccia incrociate sul petto per proteggersi dal freddo. Miliko aveva chiesto di andare alla nave con lui, preoccupata di vederlo da solo nelle mani di Porey, senza testimoni. Lui l’aveva dissuasa. Adesso cominciò ad andargli incontro, ed Emilio agitò le braccia, per farle sapere che le cose erano andate bene… per quanto era possibile.

La Porta dell’Infinito era ancora nelle loro mani.

CAPITOLO NONO

AZZURRO UNO: 6/10/52; ore 0900

C’era un militare di guardia all’angolo. Jon Lukas esitò, ma era inevitabile che quel gesto attirasse l’attenzione. Il soldato avvicinò la mano alla pistola. Jon si fece avanti, innervosito, porgendo il documento, e il soldato, tozzo e scuro di carnagione, lo prese e lo guardò aggrottando la fronte. — È un’autorizzazione del consiglio — disse Jon. — Al massimo livello.

— Sì, signore — disse il soldato. Jon riprese il documento, si avviò per il corridoio trasversale, con la sensazione che l’uomo continuasse a fissarlo. — Signore.

Jon si voltò.

— Il signor Konstantin è nel suo ufficio, signore.

— Sono il fratello di sua moglie.

Vi fu un momento di silenzio. — Sì, signore — disse blandamente il soldato e riprese la sua posa imperturbabile. Jon si voltò e prosegui.

Angelo si era sistemato molto bene, pensò amaramente; lì non c’era affollamento. Lui non aveva rinunciato al suo spazio per vivere. Tutta la parte terminale del corridoio trasversale quattro era di Angelo.

E di Alicia.

Si fermò davanti alla porta ed esitò. Lo stomaco gli si contrasse. Ormai era arrivato fin lì, e alle sue spalle c’era un soldato che avrebbe fatto domande, avrebbe rilevato un comportamento insolito. Non poteva tornare indietro. Premette il pulsante. Attese.

— Chi? — domandò una voce esile, facendolo trasalire.

— Chi tu?

— Lukas — rispose lui. — Jon Lukas.

La porta si aprì. Un’indigena magra e grigia lo guardò con occhi circondati da profonde rughe. — Io Lily — disse.

Jon le passò davanti, entrò e guardò nel soggiorno fiocamente illuminato: i mobili costosi, il lusso, la spaziosità. Lily gli ronzava intorno, ansiosa; aveva richiuso la porta. Jon si voltò, attirato dalla luce, e vide una stanza, un pavimento bianco, con l’illusione delle finestre aperte sullo spazio.

— Tu venuto vedere lei? — chiese Lily.

— Dille che sono qui.

— Io dico. — La vecchia indigena s’inchinò e si allontanò curva, fragile. C’era un silenzio di morte. Jon attese nel soggiorno buio, senza sapere che fare, con lo stomaco sempre più contratto.

Dalla stanza giunse un rumore di voci. — Jon — sentì. La voce di Alicia. Almeno era umana. Rabbrividì, in preda a un malessere fisico. Non era mai entrato in quell’appartamento. Mai. Aveva visto Alicia attraverso gli schermi, minuscola, rattrappita, un guscio tenuto in vita dalla macchine. Ma questa volta era venuto. Non sapeva perché l’aveva fatto… o forse si. Per scoprire qual era la verità… per scoprire se poteva affrontare Alicia, se la vita meritava di essere vissuta. Tutti quegli anni… con le foto, le trasmissioni, fredde immagini che potevano suscitare qualche emozione, ma trovarsi nella stessa stanza, guardarla in faccia e parlare con lei…

Lily ritornò, con le mani conserte, e fece un lieve inchino.

— Tu vieni. Tu vieni adesso.

Jon la seguì. Si avvicinò alla stanza piastrellata di bianco, la sterile stanza silenziosa, e sentì un nodo allo stomaco.

All’improvviso girò sui tacchi e si avviò verso l’uscita. — Tu vieni? — lo seguì la voce perplessa dell’indigena. — Tu vieni, signore?

Jon sfiorò l’interruttore e uscì; lasciò che la porta si chiudesse dietro di lui, e respirò a pieni polmoni l’aria più fresca e più libera del corridoio.

Si allontanò da quel luogo, dai Konstantin.

— Signor Lukas — disse il soldato quando lui girò l’angolo, e vide che i suoi occhi erano piuttosto interrogativi dietro la maschera di cortesia.

— Stava dormendo — disse lui. Deglutì, e continuò a camminare, cercando ad ogni passo di scacciare dalla mente quell’appartamento, quella stanza bianca. Ricordava una bambina, una ragazza, un’altra persona. Voleva che rimanesse così.

CAPITOLO DECIMO

PELL: SETTORE AZZURRO UNO; SALE DEL CONSIGLIO; 6/10/52; ore 1400

Il Consiglio si sciolse presto, dopo aver approvato le misure all’ordine del giorno, mentre Keu dell’India assisteva cupamente ai loro atti e ai loro discorsi, e il suo volto di pietra gettava un’ombra sulla discussione. Era il terzo giorno della crisi: Mazian aveva fatto le sue richieste, e aveva ottenuto quel che voleva.

Kressich raccolse gli appunti, e scese dai banchi più elevati verso il centro della sala, presso le sedie allineate intorno al tavolo; indugiò, mentre gli altri uscivano, e guardò ansiosamente Angelo Konstantin, che stava conferendo con Nguyen e Landgraf e alcuni degli altri rappresentanti. Keu era ancora seduto al tavolo e ascoltava; il suo volto bronzeo sembrava una maschera. Kressich aveva paura di Keu… aveva paura di parlare di fronte a lui.

Tuttavia ruppe gli indugi, avvicinandosi più che poteva a quel gruppo che circondava Konstantin, dove sapeva di essere indesiderato; lui, il rappresentante del settore Q, continuo memento di problemi che nessuno aveva il tempo di risolvere. Attese mentre Konstantin finiva di discutere con gli altri, e lo fissò perché si accorgesse che richiedeva la sua attenzione.

Finalmente Konstantin lo notò, e per un momento abbandonò l’evidente intenzione di andarsene insieme a Keu, perché Keu nel frattempo si era alzato. — Signore — disse Kressich. — Signor Konstantin. — Estrasse dalla cartelletta il foglio che aveva preparato e glielo porse. — Dispongo di mezzi limitati, signor Konstantin. Il computer e la stampa non mi sono accessibili, nel luogo in cui vivo. Lo sa. E là, la situazione… — Si umettò le labbra, nel vedere che Konstantin aggrottava la fronte. — Ieri sera, il mio ufficio è stato praticamente preso d’assalto. La prego, signore. Possiamo assicurare ai miei elettori… che continueranno gli invii alla Porta dell’Infinito?

— Stiamo trattando, signor Kressich. La stazione sta facendo il possibile per ristabilire la normalità delle procedure, ma i programmi vengono riesaminati e così pure le direttive di carattere generale.

— È l’unica speranza. — Kressich evitò lo sguardo di Keu, e tenne gli occhi fissi su Konstantin. — Altrimenti… non avremo più nulla in cui sperare. I nostri sono pronti ad andare sulla Porta dell’Infinito. Nella Flotta. Dovunque vengano accolti. Ma è necessario che le domande siano accettate. Devono convincersi che c’è una possibilità di uscire dalla quarantena. La prego, signore.

— E questo che cos’è? — chiese Konstantin, mostrando il foglio.

— Una proposta che non ho potuto riprodurre in modo da sottoporla al consiglio. Speravo che il suo ufficio potesse…

— Riguarda le domande.

— Sì, signore.

— Il programma — interruppe freddamente Keu, — è ancora in discussione.

— Vedremo di fare qualcosa — disse Konstantin, riponendo il foglio tra le altre carte. — Non posso presentare la sua proposta, signor Kressich. Se ne renderà conto anche lei. Prima è necessario risolvere ad altri livelli le questioni fondamentali. Dovrò attendere, e la prego di non sollevare il problema domani, anche se naturalmente lei può farlo. Una discussione pubblica rischierebbe di sconvolgere i negoziati. Lei è un esperto, e mi capisce. Ma per cortesia, se è possibile parlarne in qualche futura riunione… Naturalmente, darò disposizioni perché il mio personale prepari alcune copie della proposta, e altre eventuali, per distribuirle. Deve capire la mia posizione, signore.

— Sì, signore — disse Kressich, con una stretta al cuore. — La ringrazio.

Si voltò per andarsene. Aveva sperato, timidamente. E aveva anche sperato di avere la possibilità di chiedere alla stazione aiuto e protezione. Non voleva il genere di protezione che intendeva Keu. Non osava chiederla. Avevano visto cosa significava la generosità della Flotta, nelle persone della Mallory e di Sung e di Kreshov. Sarebbero intevenuti i militari, e per prima cosa avrebbero smantellato l’organizzazione di Coledy, che era la sua sicurezza, l’unica difesa che lui aveva.

Passò nel vestibolo, sotto gli occhi ironici e stupiti delle statue indigene, varcò la porta di vetro e giunse nel corridoio. Le guardie non gli chiesero nulla. Si avviò verso l’ascensore che l’avrebbe portato al livello azzurro nove, per ritornare a casa, nel settore Q.

Ormai la circolazione era quasi normale nei corridoi della stazione; era meno fitta del solito, ma gli abitanti andavano al lavoro e si muovevano liberamente, anche se con cautela; e nessuno indugiava mai all’esterno.

Qualcuno lo urtò, passandogli accanto. Una mano cercò la sua, gli passò una tessera. Kressich si fermò, ebbe l’impressione confusa di un uomo, di una faccia che non aveva visto bene. Atterrito, resistette all’impulso di guardarsi intorno. Finse di riordinare i fogli della sua cartella, proseguì e, quando fu più avanti nel corridoio, esaminò la tessera. Era una carta d’accesso, con una striscia ben visibile: verde nove 0434. Un indirizzo. Continuò a camminare, lasciando ricadere lungo il fianco la mano che stringeva la tessera, mentre il cuore gli martellava contro le costole.

Poteva far finta di nulla e tornare nel settore Q. Poteva consegnare la tessera, dichiarare di averla trovata per caso, oppure dire la verità: qualcuno voleva entrare in contatto con lui all’insaputa degli altri. Politica. Doveva essere una faccenda politica. Qualcuno, disposto a correre un rischio, voleva qualcosa dal rappresentante di Q. Una trappola… o una speranza, uno scambio di reciproca influenza. Qualcuno che forse poteva eliminare gli ostacoli.

Lui poteva arrivare a verde nove: bastava fingere di sbagliare nel premere il pulsante dell’ascensore. Si fermò davanti alla pulsantiera. Era solo. Premette il verde e rimase fermo in modo da nascondere la spia luminosa agli occhi di eventuali passanti. L’ascensore arrivò, le porte si aprirono. Kressich entrò e una donna s’infilò di corsa all’ultimo momento, e premette la pulsantiera interna, verde due. Le porte si chiusero. Kressich guardò furtivamente la donna mentre la cabina cominciava a muoversi, poi subito abbassò gli occhi. L’ascensore iniziò la discesa. La donna uscì al due; Kressich rimase, mentre salivano altri passeggeri, tutti sconosciuti. Si fermarono al sei, al sette, e ne salirono altri ancora. All’otto, scesero in due. Il nove: Kressich uscì insieme ad altri quattro, si avviò verso i moli, stringendo la carta con le dita sudate. Incrociò diversi militari, che sorvegliavano il movimento nei corridoi. Nessuno avrebbe notato un uomo dall’aspetto comune che camminava lungo un corridoio, si fermava davanti a una porta, usava una tessera per entrare. Era un comportamento normalissimo. Orinai era vicino al corridoio trasversale quattro. Non c’erano guardie. Kressich rallentò, con la mente angosciata, mentre il cuore gli batteva forte; era quasi deciso a passare oltre.

Qualcuno, dietro di lui, gli afferrò la manica e lo trascinò avanti bruscamente. — Venga — disse l’uomo, e svoltò l’angolo con lui. Kressich non oppose resistenza; aveva paura di una coltellata, un istinto che era nato nel settore Q. Naturalmente, anche l’uomo che gli aveva consegnato la carta era sceso… o forse aveva un complice. Si mosse come una marionetta, fino alla porta. Poi l’uomo lo lasciò andare e passò oltre, e lui usò la tessera.

Entrò. Era una stanzetta con il letto sfatto, e abiti sparsi dovunque. Un uomo uscì dal cucinino: era un individuo anonimo, fra i trenta e i quarant’anni. — Lei chi è? — chiese.

Kressich era frastornato. Fece per infilare la carta in tasca, ma quando l’uomo tese la mano, gliela consegnò.

— Nome? — disse l’uomo.

— Kressich. — Poi, disperatamente: — Devo tornare… si accorgeranno della mia assenza da un momento all’altro.

— Non la tratterrò a lungo. Lei viene dalla Stella di Russell, signor Kressich, no?

— Credevo che non mi conoscesse.

— Una moglie, Jen Justin; un figlio, Romy.

Kressich vide lì accanto una poltrona ingombra di vari oggetti e cercò un sostegno, provando una stretta dolorosa al cuore. — Cosa sta dicendo?

— È esatto, Vassily?

Lui annuì.

— La fiducia che i suoi concittadini del settore Q hanno riposto in lei… perché rappresenti i loro interessi. Naturalmente, rispettano le sue iniziative… nel loro interesse.

— Si spieghi.

— I suoi elettori sono in una brutta situazione… un caos burocratico. E quando i criteri della sicurezza militare diventeranno più rigorosi, e lo diventeranno, ora che comandano le forze di Mazian… mi domando, signor Kressich, quali misure verranno prese. Tutti voi avete avversato la Confederazione, naturalmente in un modo o nell’altro; alcuni per sincera antipatia; alcuni per interesse personale; altri per convenienza. Lei a quale categoria appartiene?

— Dove ha saputo tutte queste cose?

— Fonti ufficiali. So molte cose su di lei, cose che non ha mai detto a questo computer, ho fatto varie ricerche. Per dirla in breve, ho visto sua moglie e suo figlio, signor Kressich. Le interessa?

Kressich annuì. Non poté fare altro. Si appoggiò alla sedia, sforzandosi di respirare.

— Stanno bene. In una stazione di cui conosco il nome… dove appunto li ho visti. O forse adesso sono stati trasferiti. La Confederazione si è resa conto del loro valore potenziale, conoscendo il nome dell’uomo che a Pell rappresenta un numero tanto formidabile di persone. La ricerca a mezzo computer li ha individuati, e non si perderanno più. Vorrebbe rivederli, signor Kressich?

— Che cosa vuole da me?

— Un po’ del suo tempo. Qualche preparativo per il futuro. Lei può proteggere se stesso, i suoi cari, i suoi elettori che sotto il regime di Mazian sono semplici paria. Che aiuto potrebbe avere da Mazian per rintracciare la sua famiglia? E come potrebbe raggiungerla? E sicuramente vi sono altre famiglie divise, che forse ora sono pentite della decisione avventata a cui Mazian le ha costrette, e possono capire… che il vero interesse di un cittadino delle Stelle Sperdute sta nelle Stelle Sperdute.

— Lei è un confederato — disse Kressich, deciso a chiarirlo.

— Signor Kressich, io sono delle Stelle Sperdute. Lei no?

Kressich sedette sul bracciolo della poltrona, perché le ginocchia non lo reggevano. — Che cosa vuole?

— Sicuramente nel settore Q c’è una struttura di potere, qualcosa che lei conosce bene. Sicuramente, un uomo come lei… è in contatto.

— Ho contatti.

— E influenza?

— E influenza.

— Finirete prima o poi nelle mani della Confederazione; se ne rende conto? A meno che Mazian non adotti certe misure. Sa che cosa potrebbe fare Mazian, se decidesse di restare qui? Crede che tollererà il settore Q vicino alle sue navi? No, signor Kressich; voi altri da una parte siete manodopera a buon mercato; dall’altra, una seccatura. A seconda della situazione. Così come si metteranno le cose, molto presto, per lui sarete solo un peso. Che mezzi posso usare per mettermi in contatto con lei, signor Kressich?

— Oggi si è messo in contatto con me.

— Dov’è il suo ufficio?

— Arancione nove 1001.

— C’è un comunicatore?

— Quello della stazione. Solo la stazione mi può chiamare. Ed è sempre guasto. Ogni volta che devo fare una chiamata, devo passare attraverso la centrale comunicazioni. Lei non può… non può chiamarmi. E poi, è sempre rotto.

— Nel settore Q ci sono spesso disordini, vero?

Kressich annuì.

— E il consigliere del settore Q… potrebbe organizzarne uno?

Lui annuì per la seconda volta. Il sudore gli scorreva sul volto, sui fianchi. — Potrebbe farmi andar via da Pell?

— Quando avrà fatto per me quel che può fare, signor Kressich, le garantisco che potrà andarsene. Raduni le sue forze. Non le chiedo neppure quali sono. Ma riconoscerà il mio messaggio; sarà la parola Vassily. È tutto. Solo questa parola. E se le arriverà, dovrà fare in modo che ci siano… disordini immediati e diffusi. Può cominciare a pensare che rivedrà i suoi cari.

— Lei chi è?

— Ora vada. Non ha perso più di dieci minuti. Io mi affretterei, al suo posto, signor Kressich.

Kressich si alzò, si voltò a guardare, uscì in fretta. L’aria del corridoio era fredda. Nessuno lo fermò, nessuno lo notò. Adattò il suo passo a quello della gente che percorreva il corridoio principale e decise che, se gli avessero chiesto perché aveva impiegato tanto tempo, avrebbe risposto che s’era fermato a parlare con Konstantin e con altri nell’ingresso; che si era sentito male e che si era fermato da qualche parte. Lo stesso Konstantin avrebbe testimoniato che se ne era andato sconvolto. Si asciugò il viso con la mano, svoltò l’angolo del molo verde e proseguì verso il molo azzurro, verso la linea di confine.


Bussarono alla porta. Hale andò ad aprire, e Jon, che era al bar della cucina, si voltò, e sospirò di sollievo quando Jessad entro e la porta si chiuse dietro di lui.

— Nessuna difficoltà — disse Jessad. — Stanno coprendo i cartelli, sa. Si preparano a un’azione all’interno di Pell. È un po’ difficile orientarsi, così.

— Kressich, maledizione.

— Nessuna difficoltà. — Jessad si tolse la giacca e la buttò a Keifer, uno degli uomini di Hale che era uscito dalla camera da letto. Keifer frugò nella tasca della giacca e si riprese i suoi documenti con aria di sollievo. — Non l’hanno fermata — disse Keifer.

— No — disse Jessad. — Sono andato nel suo appartamento, ho mandato il suo coinquilino con la carta… tutto liscio,

— Ha accettato? — chiese Jon.

— Naturalmente. — Jessad era di umore inconsueto, ancora un po’ agitato, e i suoi occhi solitamente opachi brillavano. Andò al bar e si versò da bere.

— I miei vestiti — disse Keifer.

Jessad rise, sorseggiò il liquore, poi posò il bicchiere e cominciò a togliersi la camicia. — Adesso è tornato nel settore Q. E noi lo controlliamo.


NAVE CONFEDERALE UNITY, NELLA FLOTTA DELLA CONFEDERAZIONE: SPAZIO

Ayres sedette al tavolo nella sala principale, ignorando le guardie, si prese la testa fra le inani e cercò di riprendersi. Rimase così per qualche istante, poi si alzò e a passi malfermi andò al distributore dell’acqua. Si inumidì le dita e se le passò sul viso, prese un bicchiere di carta e bevve, per rimettersi a posto lo stomaco.

Qualcuno lo raggiunse. Ayres alzò gli occhi e fece una smorfia, perché il nuovo venuto era Dayin Jacoby, che andò a sedersi all’unico tavolo. Non avrebbe voluto tornarci, ma aveva le gambe troppo deboli per reggersi in piedi a lungo. Non sopportava il balzo. Jacoby ci riusciva meglio, e anche quello era un motivo di rancore nei suoi confornti.

— È vicino — disse Jacoby. — Credo di sapere dove siamo.

Ayres sedette, si sforzò di schiarirsi la vista. Le droghe facevano apparire tutto distante. — Dovrebbe essere fiero di sé.

— Mazian… ci sarà.

— Con me non si confidano. Ma mi pare logico che Mazian ci debba essere… La nostra conversazione viene registrata?

— Non ne ho idea. E anche se fosse? Il fatto è, signor Ayres, che non potrete conservare Pell all’Anonima, non potrete proteggerla. Avete avuto la vostra occasione, e ormai è passata. E Pell non vuole Mazian. Meglio l’ordine della Confederazione, piuttosto che Mazian.

— Questo lo dica ai miei compagni.

— Pell — continuò Jacoby, chinandosi verso di lui — merita più di quanto possa darle l’Anonima. Più di quanto le darà Mazian, questo è certo. Io sono per il nostro interesse, signor Ayres, e facciamo quel che dobbiamo fare.

— Avreste potuto trattare con noi.

— Lo abbiamo fatto… per secoli.

Ayres si morse le labbra, rifiutando di lasciarsi coinvolgere in quella discussione. Le droghe che aveva dovuto prendere per il balzo gli offuscavano la mente. Aveva già parlato, e aveva deciso che non ne valeva la pena. Volevano qualcosa da lui, altrimenti non lo avrebbero fatto uscire dall’isolamento, non lo avrebbero lasciato salire a quel livello della nave. Si passò una mano sulla fronte e cercò di scuotersi dallo stordimento, finché era ancora in tempo.

— Noi siamo pronti a intervenire — continuò Jacoby. — Lo sa.

Jacoby stava cercando di spaventarlo. Il terrore lo aveva prostrato, durante l’ultima manovra. Aveva sopportato per due volte il balzo, ormai, con la sensazione che le sue viscere si rivoltassero come un guanto. Rifiutava di pensare a una terza eventualità.

— Credo che parleranno con lei — disse Jacoby. — A proposito di un messaggio di Pell, l’annuncio che la Terra ha firmato un trattato; che la Terra sostiene il diritto all’autodeterminazione dei cittadini di Pell. Qualcosa del genere.

Ayres fissò Jacoby, e per la prima volta si chiese chi avesse torto e chi invece ragione. Jacoby era di Pell. Quali che fossero gli interessi della Terra, non li avrebbe serviti osteggiando un uomo che, nonostante i suoi desideri, poteva finire per occupare un posto elevato nel governo di Pell.

— Forse — continuò Jacoby, — le interesseranno gli accordi riguardanti Pell. Se la Terra non vuole restare tagliata fuori… e lei sostiene che ci tiene a commerciare… dovrà passare attraverso Pell, signor Ayres. Per voi siamo molto importanti.

— Me ne rendo conto. Me ne parli quando lei avrà autorità su Pell. Per ora l’autorità, a Pell, è Angelo Konstantin, e non c’è ancora nulla che provi il contrario.

— Tratti subito — disse Jacoby, — e attenda l’assenso. Il gruppo che io rappresento può garantire la difesa dei vostri interessi. Siamo a una svolta decisiva, signor Ayres, per la Terra e la mia patria. Una tranquilla presa di potere a Pell, un tranquillo soggiorno per lei in attesa che i suoi compagni la raggiungano, per tornare a casa a bordo di una nave che a Pell sarà facile noleggiare; oppure difficoltà… difficoltà prolungate che porteranno a un lungo assedio. Danni… forse la distruzione della stazione. E questo io non lo voglio; e non credo che lo voglia neppure lei. È un essere umano, signor Ayres. E la supplico… faciliti le cose a Pell. Basta che dica la verità. Gli faccia capire chiaramente che c’è un trattato, che devono scegliere la Confederazione. La Terra li ha abbandonati.

— Lei lavora per la Confederazione. Non c’è dubbio.

— Voglio che la mia stazione sopravviva, signor Ayres. Migliaia e migliaia di persone… potrebbero morire. Sa cosa accadrà, ora che se ne serve Mazian? Non può tenere Pell per sempre, ma può rovinarla. — Ayres fissava le proprie mani, sapeva che non poteva ragionare lucidamente in quelle condizioni, sapeva che quasi tutto ciò che gli era stato detto durante il suo soggiorno tra i confederati era falso. — Forse dovremmo collaborare, signor Jacoby, se questo può mettere fine a tutto senza altri spargimenti di sangue.

Jacoby batté le palpebre; forse era sorpreso.

— Probabilmente — disse Ayres. — Siamo entrambi realisti, signor Jacoby… sospetto che lei lo sia. Autodeterminazione è un bel termine per l’ultima scelta possibile, no? Capisco i suoi argomenti. Pell non ha difese. La neutralità della stazione… significa che voi sarete dalla parte dei vincitori.

— Mi ha capito perfettamente, signor Ayres.

— Infatti — disse Ayres. — L’ordine, tra le Stelle Sperdute, è benefico per il commercio, e questo sarebbe nell’interesse dell’Anonima. Era inevitabile che saltasse fuori l’indipendenza. Ma è venuta prima di quanto la Terra fosse pronta ad ammettere. Sarebbe stata riconosciuta molto tempo fa, se le ideologie non avessero accecato tanta gente. È possibile che vengano giorni migliori, signor Jacoby. Spero che vivremo abbastanza a lungo per vederli.

Era la menzogna più monumentale che avesse mai detto. Si appoggiò allo schienale della sedia, mentre lo assaliva la nausea causata dagli effetti del balzo e da un profondo senso di terrore.

— Signor Ayres.

Si girò verso la porta. Era Azov. L’alto ufficiale della Confederazione entrò, risplendente nella divisa nera e argento.

— Ci stavano ascoltando — commentò acido Ayres.

— Non m’illudo di aver conquistato la sua simpatia, signor Ayres, ma solo il suo buon senso.

— Farò la registrazione che mi chiede.

Azov scrollò la testa. — Arriveremo preannunciati — disse. — Ma in modo diverso. Non c’è speranza che tutte le navi di Mazian siano attraccate. Lei si trova qui con noi innanzi tutto a causa degli uomini di Mazian; e in secondo luogo perché per prendere la stazione di Pell sarà utile avere la voce dell’autorità precedente.

Ayres annuì, stancamente. — Se può servire a salvare vite umane, signore.

Azov si limitò a fissarlo, poi aggrottò la fronte. — Prendete pure tempo per ritrovare l’equilibrio, signori. E per riflettere su ciò che potreste fare per il bene di Pell.

Ayres guardò Jacoby, mentre Azov se ne andava, e si accorse che anche Jacoby era capace di provare una certa ansietà. — Qualche dubbio? — gli chiese, acido.

— Ho i miei parenti in quella stazione — disse Jacoby.

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