LIBRO QUARTO

CAPITOLO PRIMO

PELL 10/10/52; ore 1100

La stazione era più calma. Erano incominciate le richieste all’Ufficio Legale, e questo era segno che la tensione si andava attenuando. Fioccavano le richieste sulle azioni dei militari, le minacce di azioni legali, le proteste indignate da parte dei commercianti della stazione che pretendevano risarcimento per i danni causati dal coprifuoco sui moli. C’era la protesta del mercantile Finity’s End per la scomparsa di un giovane, il che era motivo di grande preoccupazione, perché si temeva che i militari l’avessero arruolato a forza. In effetti, probabilmente il giovane era in quel momento in qualche alcova con un’amichetta appartenente ad un’altra nave. Il computer stava svolgendo con discrezione una ricerca sull’eventuale utilizzazione della sua tessera personale, e non era una cosa semplice, perché i lasciapassare dei mercantili non venivano usati con la stessa frequenza delle tessere degli abitanti della stazione.

Damon sperava di ritrovarlo sano e salvo, e rifiutava di preoccuparsi prima che arrivassero i risultati della ricerca; aveva visto troppi casi del genere, e aveva scoperto quasi sempre che il giovane scomparso aveva litigato con i familiari o era troppo ubriaco per accorgersi che lo stavano cercando attraverso il video. L’intera faccenda era di competenza dei servizi di sicurezza; ma la sicurezza aveva già il suo daffare, e tutti svolgevano il loro lavoro con gli occhi stralunati ed erano al limite della sopportazione. L’Ufficio Legale, almeno, poteva premere i pulsanti e sbrigare parte del lavoro burocratico. Un altro assassinio nel settore Q. Era deprimente, e non potevano assolutamente far altro che prenderne atto. C’era un rapporto su una guardia che era stata sospesa, accusata di aver contrabbandato nel settore Q una cassa di vino indigeno. Un ufficiale aveva deciso che il problema non poteva attendere, quando era molto probabile che il contrabbando fiorisse dovunque, tra i mercantili là fuori. Così, si era stabilito di dare un esempio.

Damon aveva dovuto rimandare varie udienze al pomeriggio. Quasi di sicuro avrebbe dovuto rimandarle ancora, dato che si stava riunendo il consiglio, e doveva parteciparvi anche la commissione di giustizia. Decise di mettersi d’accordo con i difensori e passò la comunicazione, riservando il pomeriggio al disbrigo delle richieste che i suoi subordinati non potevano affrontare.

Poi girò la poltroncina e guardò verso Josh, che se ne stava seduto tranquillo a leggere un libro e cercava di darsi un’aria non troppo annoiata. — Ehi — disse Damon. Josh alzò gli occhi. — Andiamo a pranzo. Possiamo prenderci una pausa e andare in palestra.

— Possiamo andarci?

— È aperta.

Josh spense il lettore.

Damon si alzò, andò a prendere la giacca e tastò i documenti per essere sicuro che ci fossero. I militari di Mazian montavano ancora di guardia, qua e là, ed erano imprevedibili come sempre.

Anche Josh indossò una giacca… avevano più o meno la stessa taglia, e l’aveva avuta in prestito. Josh accettava i prestiti, se non i regali, e arricchiva il suo modesto guardaroba, in modo da poter entrare e uscire dagli uffici senza attirare troppo l’attenzione. Damon premette il pulsante della porta e avvertì l’ufficio di tenere in sospeso le chiamate per due ore.

— Tornerà all’una — disse il segretario, e si voltò per ricevere una comunicazione in arrivo. Damon indicò a Josh di uscire nel corridoio.

— Mezz’ora in palestra — disse Damon. — Poi uno spuntino. Ho fame.

— Sta bene — disse Josh. Si guardò intorno nervosamente. Anche Damon guardò, e si sentì inquieto. Non c’era ancora molto traffico, nei corridoi. La gente non si fidava della situazione. C’erano alcuni militari, fermi in lontananza.

— Dovrebbero ritirare tutte le truppe — disse Josh, — entro la fine della settimana. Il nostro servizio di sicurezza sta assumendo interamente il controllo del settore bianco; il verde, forse, fra un paio di giorni. Abbi pazienza. Ci stiamo lavorando.

— Loro continuano a fare quello che vogliono — disse Josh, cupamente.

— Uh. Anche la Mallory, dopotutto?

Un’ombra passò sul viso di Josh. — Non lo so. Quando ci penso, ancora non lo so.

— Credimi. — Avevano raggiunto l’ascensore, ed erano soli. Un militare stava all’angolo di un altro corridoio, discretamente. Damon premette il pulsante. — Questa mattina mi è arrivata una buona notizia. Ha chiamato mio fratello. Ha detto che laggiù le cose si stanno appianando.

— Bene — mormorò Josh.

All’improvviso, il militare si mosse. Venne verso di loro. Damon lo guardò. Altri, più lontani, cominciarono ad avanzare tutti insieme, quasi correndo. — Annulli — disse il primo, raggiungendoli. Tese la mano verso la pulsantiera. — Ci hanno chiamati.

— Posso farvi avere la priorità — disse Damon… per sbarazzarsi di loro. C’erano guai nell’aria; pensò che agli altri livelli stessero facendo valere la loro autorità.

— Lo faccia.

Damon estrasse la tessera dalla tasca, l’inserì nella fenditura e chiese la priorità. Le spie rosse si accesero. Gli altri soldati arrivarono quando l’ascensore si aprì, e si affollarono a bordo. L’ascensore ripartì, diretto verso la destinazione che i militari avevano richiesto all’interno della cabina. Nel corridoio, non era rimasto neppure un soldato. Damon guardò Josh, che era diventato pallido.

— Prenderemo il prossimo — disse Damon, alzando le spalle. Anche lui era turbato; premette azzurro nove.

— Elene? — chiese Josh.

— Voglio andare laggiù — disse Damon. — Tu verrai con me. Se c’è qualche guaio, è probabile che finisca sui moli. E voglio esserci anch’io.

L’ascensore tardò ad arrivare. Attese per un po’, e finalmente usò di nuovo la tessera, chiedendo la priorità. Si accesero le spie rosse che indicavano una cabina in chiamata di priorità, e poi lampeggiarono, indicando che non c’erano cabine disponibili. Damon batté il pugno contro la parete e lanciò un’altra occhiata a Josh. Era troppo lontano per andare a piedi; era più semplice aspettare che si liberasse un ascensore… a lungo andare avrebbero impiegato meno tempo.

Damon andò al comunicatore più vicino, e chiese la priorità, mentre Josh attendeva accanto alla porta dell’ascensore. — Trattienilo, se arriva — disse Damon. — Centrale Comunicazioni, qui Damon Konstantin, emergenza. I militari se ne sono andati di corsa. Cosa sta succedendo?

Vi fu un lungo silenzio. — Signor Konstantin — disse una voce, — questa è un’unità di comunicazione pubblica.

— Al momento no, centrale. Cosa succede?

— Allarme generale. Tutti ai posti d’emergenza, prego.

— Che cosa succede?

La centrale aveva tolto la comunicazione. Cominciò a suonare una sirena, le spie rosse presero a pulsare. Molte persone uscirono dagli uffici, si scambiarono occhiate interrogative sperando che fosse un’esercitazione o un errore. Anche il segretario di Damon era uscito.

— Tornate dentro! — gridò. — Chiudete quelle porte. — Tutti indietreggiarono, e rientrarono negli uffici. La spia rossa accanto alla spalla di Josh lampeggiava ancora, indicando che non c’erano ascensori liberi; dovevano essere tutti bloccati ai moli.

— Vieni — disse Damon a Josh, indicando il fondo del corridoio. Josh era confuso; lui lo raggiunse, e lo prese per un braccio. — Vieni.

C’era altra gente nel corridoio, più avanti. Damon gridò un ordine, e li fece rientrare. Li capiva: c’erano altri, oltre ai Konstantin, che avevano i loro cari sparsi nella stazione, i bambini nella scuola e nei nidi d’infanzia, i malati in ospedale. Alcuni continuarono a correre, disobbedendo agli ordini. Un agente del servizio di sicurezza della stazione urlò di fermarsi; quando nessuno gli badò, portò la mano alla pistola.

— Li lasci andare — scattò Damon. — Li lasci fare.

— Signore. — Il viso del poliziotto si rilassò. — Signore, non riesco a comunicare.

— Tenga quella pistola nella fondina. O ha imparato dai militari? Resti ai suo posto. Calmi la gente. L’aiuti, se può. C’è un gran movimento. Potrebbe essere anche un’esercitazione. Si calmi.

— Sì, signore.

Proseguirono verso la rampa d’emergenza, nel corridoio silenzioso… senza correre. Un Konstantin non poteva correre, o avrebbe sparso il panico. Camminava, cercando di allontanare il panico da se stesso. — Non c’è tempo — disse sottovoce Josh. — Prima che l’allarme arrivi qui, le navi ci saranno addosso. Se Mazian si è fatto cogliere con le navi attraccate…

— Ha la milizia e due navi in orbita intorno alla stazione — disse Damon, e di colpo ricordò chi era Josh. Trattenne il respiro, lo guardò, e scorse un’espressione disperata quanto la sua. — Vieni — disse.

Raggiunsero una rampa d’emergenza, e sentirono gridare quando aprirono le porte. C’era parecchia gente che scendeva a precipizio da altri livelli. — Più adagio! — gridò Damon a quelli che lo avevano superato; quelli rallentarono, dopo moire giravolte della rampa, ma divennero più numerosi, e all’improvviso altri cominciarono ad arrivare, correndo… il sistema dei trasporti era bloccato dovunque, e da tutti i livelli la gente si precipitava sulla rampa. — Calmatevi! — gridava Damon. Afferrava per le spalle quelli che gli capitavano a tiro, cercando di farli rallentare, ma la corsa accelerò, la calca diventò più fitta, uomini, donne, bambini, e cimai era impossibile uscirne. Le porte erano bloccate dalla gente che stava cercando di scendere.

— I moli! — gridò qualcuno. Il grido si sparse come un incendio, mentre la luce rossa dell’allarme brillava sul soffitto. Erano ormai convinti che stava per succedere ciò che avevano sempre paventalo da quando erano arrivati i militari… e cioè che la stazione sarebbe stata attaccata, e che fosse in atto l’evacuazione. La massa premeva per scendere, e non c’era modo di trattenerla.


NORWAY: ore 1105

CFX/ KNIGHT/ 189-8989-687/ CALMACALMACALMA/ SCORPIONEDOD1CI/ ZEROZEROZERO/ FINE.

Signy trasmise il segnale di ricevuto e si rivolse a Graff con un ampio gesto della mano. — Allarme! — trasmise Graff; l’allarme risuonò in tutta la nave, e si diffuse ai moli. All’esterno, i militari finirono di staccare i cavi di collegamento. — Non possiamo prenderli a bordo — disse Signy Mallory, quando Di Janz si fece sentire attraverso il comunicatore. Le dispiaceva abbandonare gli uomini. — Sta bene così.

— Cavi staccati — gridò Graff. Era il segnale dell’Europe, che aveva lasciato le sue truppe, già pronta a partire. La Pacific si stava muovendo. Il ricognitore della Tibet continuava ad avvicinarsi, sulla scia del primo messaggio, segnalando con la sua presenza quello che la Tibet aveva già comunicato; ciò che stava accadendo alla periferia del sistema di Pell apparteneva al passato, esattamente come il segnale che era giunto alla velocità della luce, un’ora prima. Le spie verdi si accesero sul quadro dei comandi della Norway, in successione, e Signy sganciò la nave, mentre i militari che erano riusciti a salire a bordo si stavano ancora affrettando con le cinture di sicurezza. Per un momento, la Norway si mosse in assenza di gravità, sotto la spinta dolce dei razzi direzionali, continuò a ruotare su se stessa e attivò i motori principali con un margine ristrettissimo, quasi sfiorando l’Australia e probabilmente facendo suonare l’allarme in tutta Pell. La gravità aumentò, mentre il cilindro interno veniva sincronizzato per il combattimento e ruotava per compensare le tensioni; il peso crebbe, si ridusse, crebbe di nuovo.

Si avviarono, con una quantità di navi mercantili che seguivano una rotta parallela. L’Europe e la Pacific aprivano la strada, mentre dietro di loro l’Australia si sganciava. L’Atlantic sarebbe partita da un momento all’altro; Keu, il comandante dell’India, era nella stazione e si stava dirigendo verso la sua nave; Porey, il comandante dell’Africa, era giù sul pianeta. L’Africa sarebbe partita agli ordini del vicecomandante e avrebbe atteso Porey che doveva risalire dalla Porta dell’Infinito, e quindi sarebbe rimasta alla retroguardia.

Erano di fronte all’inevitabile. Il ricognitore seguiva di pochi minuti il messaggio della Tibet, a conferma. E il suo messaggio stava arrivando adesso insieme ad altre trasmissioni dalla stessa Tibet, e poi si aggiunse anche la voce della North Pole, insieme agli allarmi delle navi della milizia, che si trovavano sulla traiettoria d’attacco. La Tibet stava combattendo, e cercava di costringere la flotta in avvicinamento a ridurre la velocità. La North Pole si stava muovendo. Le navi mercantili militarizzate stavano cambiando rotta, ma erano navi lente, adatte a brevi tragitti, praticamente ferme in confronto alla velocità della flotta in arrivo. Avrebbero potuto farla rallentare se ne avessero avuto il fegato. Ma c’era un se…

— Il ricognitore ha virato — nell’orecchio li Signy Mallory risuonò la voce dell’operatore. Lei lo vide sullo schermo. Il ricognitore aveva captate, il loro segnale di ricevuto qualche minuto prima, e aveva virato; sullo schermo, l’immagine stava arrivando soltanto adesso. Il computer aveva ricostruito il resto dell’arco e il tecnico aveva calcolato i rimanenti dati in base al ragionamento… i confusi segni gialli che si allargavano a partire dalla linea rossa dell’avvicinamento rappresentavano la nuova stima del computer circa la posizione del ricognitore; la vecchia stima sbiadiva in un celeste pallido, un semplice avvertimento di tener d’occhio quella linea di avvicinamento, per ogni eventualità. Erano diretti da quella parte, sul piano esterno, mentre il ricognitore in arrivo era costretto a puntare verso il nadir. E si stavano allontanando tutti insieme, lungo la linea.

Signy si morse le labbra, ordinò agli operatori degli schermi e dei comunicatori di seguire gli avvenimenti in tutta la sfera, preoccupata perché Mazian li aveva fatti uscire su un unico vettore. Avanti, pensò, mentre sentiva in bocca il sapore del disastro. Che non succeda come a Viking. Lasciaci qualche possibilità, amico.


CFX/ KNIGHT/ 189-9090-687/ NOVENOVENOVE/ SFINGE/ DUEDUEDUE TRIPLETTA/ DOPPIETTA/ QUARTETTO/ FILODIFUMO/ FINE.


Nuovi ordini. Alle navi che erano partite più tardi venivano dati altri vettori. La Pacific e l’Atlantic e l’Australia si portarono sulle nuove rotte, disegnando il lento sviluppo dello schema destinato a proteggere il sistema.


PELL: UFFICI DEL DIRIGENTE DELLA STAZIONE

MERCANTILE HAMMER A ECS IN VICINANZA/ AIUTOAIUTOAIUTO/NAVI CONFEDERATE IN MOVIMENTO/DODICI NAVI NOSTRE VICINANZE/DIRETTE PER BALZO/AIUTO AIUTO AIUTO…

SWAN’S EYE A TUTTE LE NAVI/ FUGGITEFUGGITEFUGGITEFUGGITE…

ECS TIBET A TUTTE LE NAVI/METTERSI IN CONTATTO/…


I messaggi erano vecchi di oltre un’ora, e proliferavano attraverso i sistemi in collegamento con il comunicatore di ogni nave che continuava a riceverli ed a ritrasmetterli, in un’eco incessante. Angelo si appoggiò alla consolle del computer e si mise in comunicazione con i moli, dove il trauma de! massiccio ritiro faceva ancora accorrere gli equipaggi; i militari avevano fatto a modo loro, ed erano partiti senza intervalli. La centrale era nel caos, e c’era il rischio di una grave alterazione della gravità se i sistemi non fossero riusciti a compensare l’enorme contraccolpo. Le instabilità ormai si facevano sentire. I comunicatori erano intasati. E da quasi due ore la situazione al margine del sistema solare continuava ad evolversi, mentre il messaggio procedeva verso di loro alla velocità della luce.

Molti militari erano rimasti sul molo. Quasi tutti erano già a bordo al momento dell’allarme, acquartierati sulle navi; alcuni non ce l’avevano fatta, e i canali militari della stazione echeggiavano di messaggi incomprensibili, di voci incollerite. Perché avevano ritirato le truppe, perché avevano tardato per prenderne a bordo il più possibile, con lo spettro di un attacco imminente… con il sottinteso che la Flotta era libera di abbandonarli. Ordine di Mazian…

Emilio, pensò angosciato Angelo Konstantin. Sullo schermo di sinistra, l’immagine schematica della Porta dell’Infinito brillò di un punto che era la navetta di Porey. Non poteva chiamare; nessuno poteva farlo…, ordini di Mazian… silenzio radio. Restate in formazione, stava trasmettendo il controllo del traffico ai mercantili in orbita; di più non potevano dire. Le richieste di comunicazione si susseguivano senza posa dai mercantili attraccati, superando l’abilità degli stessi operatori e in pratica bloccando le lìnee.

Era inevitabile che la Confederazione si comportasse così. Anticipato, gli aveva trasmesso Mazian, quando lui aveva ottenuto una comunicazione diretta. Per giorni e giorni i comandanti erano rimasti vicini alle navi… con le truppe ammassate a bordo, in condizioni disagevoli… e non per cortesia verso la stazione, non per esaudire la loro richiesta di sgombrare i militari dai corridoi.

Si erario preparati per sganciarsi. Nonostante tutte le promesse, si erano preparati per sganciarsi.

Konstantin allungò la mano verso il pulsante del comunicatore, per chiamare Alicia che forse stava seguendo tutto attraverso gli schermi…

— Signore. — Era Mills, il suo segretario. — La sicurezza richiede la sua presenza alla centrale comunicazioni. C’è una situazione difficile giù al verde.

— Che situazione?

— Folla, signore.

Konstantin si alzò dalla scrivania, e afferrò la giacca.

— Signore…

Konstantin si voltò. La porta del suo ufficio si aprì, mentre Mills protestava per l’intrusione di Jon Lukas e di un altro. — Signore — disse Mills. — Mi dispiace. Il signor Lukas ha insistito… gli ho detto…

Angelo aggrottò la fronte, irritato dall’intrusione, ma subito sperò di aver trovato aiuto. Jon era efficiente, se aveva un interesse. — Ho bisogno di aiuto — disse, e i suoi occhi colsero allarmati il piccolo movimento della mano dell’altro, il lampo improvviso dell’acciaio. Mills non lo vide… Angelo gridò mentre l’uomo colpiva Mills, arretrò mentre l’uomo si avventava su di lui. Hale: riconobbe quella faccia, all’improvviso.

Mills urlò, sanguinante, e si accasciò contro la porta aperta; vi furono grida nell’altro ufficio; il colpo arrivò a segno. Angelo cercò di afferrare la mano che l’aveva vibrato e incontrò l’arma che gli spuntava dal petto, guardò incredulo Jon… l’odio. C’erano altri, sulla soglia.

Oltre al sangue, sentì sgorgare dentro di sé un profondo senso di orrore.


ZONA Q

Vassily — disse la voce attraverso il comunicatore. — Vassily, mi sente?

Kressich, seduto alla scrivania, rimase paralizzato. Fu Coledy, tra quelli che sedevano intorno a lui, aggobbiti nell’attesa, a tendere la mano per premere il pulsante. — La sento — disse Kressich, nonostante il nodo alla gola. Guardò Coledy. Aveva negli orecchi il ronzio delle voci sui moli, della gente spaventata, che già minacciava una rivolta.

— Tenetelo al sicuro — disse Coledy a James, il capo degli altri cinque che attendevano fuori. — Tenetelo al sicuro.

E Coledy se ne andò. Avevano atteso vicino al comunicatore, uno di loro sempre pronto a rispondere, rimanendo uniti in tutta quella confusione. E adesso era arrivato il segnale. Dopo un momento, il chiasso della folla all’esterno aumentò, un suono sordo e bestiale che faceva tremare le pareti.

Kressich nascose la faccia tra le mani, e restò così a lungo. Non voleva sapere.

— Le porte — udì finalmente un grido dall’esterno. — Le porte sono aperte!


VERDE NOVE

Corsero, ansimanti, inciampando più volte, urtandosi nel corridoio, un mare di individui in preda al panico che le luci dell’allarme coloravano di rosso. Una sirena continuava a suonare; la gravità era precaria mentre i sistemi della stazione si sforzavano di mantenere la stabilità. — I moli — mormorò Damon, mentre la vista gli si offuscava. Qualcuno, correndo, lo urtò, e lui lo respinse, facendosi largo a spintoni, seguito da Josh, verso il punto dove la rampa si apriva sul settore nove. — Mazian è partito. — Era la sola cosa che avesse un senso.

Incominciarono le urla, e tra la folla ci fu un movimento ondeggiante che la bloccò. All’improvviso, la gente cominciò a muoversi nella direzione opposta, ritirandosi di fronte a qualcosa. C’erano urla frenetiche, una massa di persone che premeva disperatamente.

— Damon! — gridò Josh, più indietro. Era inutile. Furono costretti a indietreggiare, e spinti contro la massa di coloro che premevano alle loro spalle. Qualche sparo risuonò sopra le loro teste e l’intera marea di gente bloccata fu scossa da tremiti e urla. Damon puntò le braccia in avanti, per far leva, per non venir soffocato… aveva le costole schiacciate.

Poi una parte della folla cambiò direzione e scese correndo, in preda al panico, cercando una via di scampo; e la calca divenne un’ondata. Damon cercò di resistere, di mantenere una sua direzione. Una mano gli afferrò il braccio, e Josh lo raggiunse, vacillò mentre la folla spingeva. Cercarono di lottare contro la corrente.

Altri spari. Un uomo cadde; più d’uno… colpiti. Stavano sparando tra la folla.

— Basta! — urlò Damon; c’era ancora una muraglia di gente davanti a lui, una muraglia che diminuiva come se fosse colpita da una falce. — Cessate il fuoco!

Qualcuno l’afferrò da tergo, lo tirò indietro, mentre gli spari continuavano. Un proiettile lo scalfì e Damon sussultò per il dolore, cercando di non perdere l’equilibrio. Ormai correva… C’era Josh, con lui, e se lo trascinava dietro nella ritirata. La schiena di un uomo esplose a poca distanza da loro ed egli cadde, subito travolto dagli altri.

— Di qua! — gridò Josh. Lo strattonò verso sinistra, lungo un corridoio laterale dove si stava riversando una parte della folla. Damon lo seguì; quella direzione ne valeva un’altra… vide una possibilità di tornare indietro, raddoppiò gli sforzi per arrivare ai moli, correndo attraverso il labirinto dei corridoi secondari per ritornare al nove.

Riuscirono a superare tre intersezioni, mentre la gente impazzita si sparpagliava dovunque, a ogni incrocio dei corridoi, barcollando per le alterazioni della gravità. E poi scoppiarono le urla nei corridoi più avanti.

— Attento! — urlò Josh, afferrandolo. Damon ansimò, volgendo lo sguardo e corse lungo la parete interna ricurva, che saliva verso quella che stava diventando una muraglia invalicabile, il divisorio tra i settori.

Non era invalicabile. C’era un varco. Josh gridò e cercò di trascinarlo indietro, quando vide quel vicolo cieco. — Vieni! — gridò Damon e afferrò Josh per la manica, continuò a correre mentre la parete scendeva all’orizzonte, e si portava a livello della muraglia sulla quale c’erano un affresco e, sulla destra, la pesante porta di una galleria usata dagli indigeni.

Si appoggiò alla parete, estrasse convulsamente la sua tessera e l’infilò nella fenditura. La porta si aprì, con un soffio d’aria fetida, e Damon trascinò Josh all’interno, nel freddo e nell’oscurità.

La porta si chiuse. Il ricambio dell’aria venne lentamente attivato e Josh si guardò intorno atterrito; Damon prese due maschere dal ripostiglio, ne passò una a Josh, indossò l’altra e cominciò a respirare. Tremava tanto che non riusciva a regolare la cinghietta.

— Dove stiamo andando? — chiese Josh, con la voce alterata dalla maschera. — Che cosa dobbiamo fare?

Nel ripostiglio c’era una lampada, Damon la prese e l’accese. Fece scattare l’interruttore della porta interna, un suono che echeggiò verso l’alto. Il raggio obliquo rivelò le passerelle. Si trovavano su una grata, e una scala a pioli scendeva ancora più in basso, all’interno di un tubo cilindrico. La gravità diminuì di colpo. Damon si afferrò alla ringhiera.

Elene… Elene si sarebbe trovata nel posto peggiore; avrebbe dovuto bloccare le porte dell’ufficio… era inevitabile. Lui non aveva potuto arrivare fin là; doveva cercare aiuto, trovare un punto dove potesse far muovere le forze della sicurezza in un fronte capace di arrestare quel disastro. Doveva salire. Salire ai livelli più alti; c’era il settore bianco, al di là del divisorio. Cercò di trovare l’accesso, ma il raggio della lampada non gli mostrò nulla di utile. Non c’erano collegamenti diretti, da una sezione all’altra, se non attraverso i moli, al livello numero uno. Lo ricordava… un complicato sistema di camere di compensazione… gli indigeni sapevano dov’erano… lui no. Doveva arrivare alla centrale, pensò; doveva arrivare a uno dei corridoi superiori e mettersi in comunicazione. Non funzionava più niente, la gravità non era più sotto controllo… la Flotta era partita… e forse anche i mercantili, alterando la loro stabilità, e la centrale non compensava lo squilibrio. C’era qualcosa che assolutamente non andava, lassù.

Si voltò, e barcollò quando la gravità crebbe, provando un senso di nausea; si aggrappò a un corrimano e cominciò a salire.

Josh lo seguì.


MOLO VERDE

La centrale non rispondeva; il comunicatore continuava a trasmettere il segnale di attesa, tra una scarica e l’altra. Elene lo spense, gettò un’occhiata frenetica alle file di militari che sbarravano l’accesso del verde nove. — Fattorino — chiamò. Un ragazzo corse subito da lei. Erano ridotti a questo, con le comunicazioni in avaria. — Fai il giro delle navi tutto intorno all’orlo, passando dall’una all’altra più in fretta che puoi, e di’ loro di passar parola al comunicatore, se possono. Devi dire… be’, lo sai. Devi dire che ci sono guai, là fuori, e che ci finiranno dentro a testa bassa, se partono. Vai!

Forse anche il video era fuori uso. Elene aveva immaginato che l’interruzione dei contatti fosse voluta dalla Flotta: ma l’India e l’Africa erano partite, lasciando le truppe a tenere il molo, truppe che non avevano potuto imbarcare per mancanza di spazio; eppure il segnale era ancora interrotto. Era impossibile sapere quali informazioni stavano ricevendo i mercantili, quali messaggi potevano aver ricevuto i militari. Non si sapeva chi comandasse le truppe abbandonate, forse un alto ufficiale, forse un sottufficiale confuso e disperato. Bloccavano le entrate al livello nove dei moli verde e azzurro… una muraglia di soldati rivolti verso gli orizzonti incurvati che isolavano i moli dai due lati, con i fucili pronti a sparare. A Elene facevano paura non meno del nemico che stava arrivando. Avevano sparato, ucciso; e si udiva ancora qualche colpo sporadico. Lei aveva dodici subordinati, e sei mancavano all’appello… isolati dall’interruzione delle comunicazioni. Gli altri dirigevano il lavoro delle squadre dei moli per bloccare i cavi staccati, ed evitare che sfondassero le partizioni stagne… l’intero settore avrebbe dovuto venire isolato per precauzione… sempre che i suoi, lassù al comando azzurro, fossero riusciti a sistemare tutto; c’erano interruttori che non funzionavano, l’intero sistema era bloccato. Gli sbalzi di gravità li investivano ancora, a intervalli; le masse dei liquidi nei serbatoi dovevano essere travasate non appena fosse stato possibile usare i tubi, per scaricarle in altri serbatoi e compensare; la stazione aveva comandi di assetto; forse se ne stavano servendo. Era terrificante, in uno spazio enorme come quello dei moli, la fluttuazione del peso, la sconvolgente premonizione che da un momento all’altro potesse arrivare un aumento superiore a un chilo o due.

— Signora Quen!

Elene si voltò. Il fattorino non era riuscito a passare; qualche idiota, nelle file dei militari, doveva averlo rimandato indietro. Si avviò velocemente verso di lui e verso la fila che all’improvviso, inesplicabilmente, stava facendo dietro-front, e puntava verso di loro, con i fucili spianati.

Un grido echeggiò dietro di lei. Elene guardò in direzione dell’orizzonte incurvato, e vide un’ondata indistinta di gente che scendeva correndo verso di loro, al di là dell’arcata. Una rivolta!

— Chiudete! — gridò nel comunicatore portatile, sebbene sapesse che non funzionava. I militari si stavano muovendo, e lei si trovava tra loro e i bersagli. Corse verso il lato più lontano, fra il groviglio di scalette e passerelle, con il cuore in gola; si voltò di nuovo a guardare mentre la linea dei soldati avanzava, restringendo il perimetro, e poi le passò accanto, mentre alcuni di essi si piazzavano in posizione al riparo delle scalette. Elene premette il pulsante del comunicatore, disperatamente; cercò di mettersi in contatto con il suo ufficio. — Chiudete! — Ma l’orda aveva superato il punto di controllo del settore azzurro, forse era già entrata. Il chiasso aumentò: una marea che avanzava verso di loro, mentre altri continuavano a scendere dall’orizzonte, una folla impressionante che sembrava non finisse mai. All’improvviso, Elene comprese l’espressione delle facce lontane, il comportamento che non era dovuto al panico, bensì all’odio; le armi… pezzi di tubo, mazze…

I militari spararono. Ci furono urla, quando cadde la prima fila. Elene, che si trovava a meno di venti metri dietro le truppe, rimase paralizzata, vedendo l’orda che continuava ad avanzare verso di loro, scavalcando i morti.

Q. Quelli del settore Q erano usciti. Avanzavano brandendo le armi e urlando, un suono che passò da un rombo lontano a un ruggito assordante, ed erano innumerevoli.

Elene si voltò, e corse via, vacillando per gli sbalzi di gravità, sulla scia degli addetti ai moli che fuggivano, e degli indigeni che vedevano gli uomini combattere e cercavano riparo.

Dietro di lei, il frastuono divenne assordante.

Affrettò l’andatura, tenendo una mano sul ventre, per attutire i sussulti della corsa. C’erano urla, dietro di lei, quasi sommerse dal grande rimbombo. Avrebbero travolto anche i militari, si sarebbero impadroniti dei fucili… con la sola forza del numero. Elene si voltò a guardare… vide il settore verde nove vomitare altri fuggitivi sparsi, in preda al panico. Si fermò per riprendere fiato e continuò a correre, nonostante il dolore sordo dell’arco pelvico, rallentando un po’ quando era necessario, vacillando per gli sbalzi della gravità. I fuggitivi cominciarono a superarla; pochi, dapprima, poi altri, un’onda travolgente che la raggiunse mentre lei stava superando l’arcata della sezione bianca; e all’orizzonte, più avanti, una marea che irrompeva di traverso dagli ingressi del nove: migliaia e migliaia di persone correvano verso i mercantili attraccati, lanciando grida che si mescolavano alle urla più indietro, e spintonandosi.

Gli uomini che la superavano erano sempre più numerosi… insanguinati, puzzolenti, urlanti. Qualcuno le urtò la schiena, la fece cadere su un ginocchio. L’uomo continuò a correre. Un altro la urtò, barcollò e passò oltre. Elene si rialzò a stento, con il braccio informicolito, cercò di raggiungere le scalette e le passerelle, un riparo… davanti a lei risuonarono gli spari, dall’accesso di una nave.

— Quen! — gridò qualcuno. Elene non riuscì a capire chi l’avesse chiamata, si guardò intorno, cercò di lottare con la marea umana e inciampò nella calca.

— Quen! — Girò la testa; una mano le strinse il braccio e la trascinò via, e un fucile sparò sopra la sua testa. Altri due l’afferrarono e la rimorchiarono attraverso la ressa… un colpo le sfiorò la testa e lei barcollò, poi corse insieme agli uomini che cercavano di farla passare in mezzo alla rete dei cavi e delle passerelle. C’erano urla e spari: altri cercavano di raggiungerli, ed Elene si preparò a lottare, credendo che fosse la folla inferocita; ma la muraglia umana la assorbì insieme agli uomini che erano con lei. Erano dei mercantili. — Ripiegate! — stava urlando qualcuno. — Ripiegate! Hanno sfondato! — Stavano salendo una rampa, verso un portello aperto, un freddo tubo snodato che brillava di un bianco giallognolo, l’accesso di una nave.

— Non voglio salire a bordo! — protestò Elene; ma non aveva più fiato, e tutto intorno c’era una massa compatta di gente. La trascinarono su lungo il tubo, e quelli che avevano difeso l’entrata si affrettarono a seguirli appena furono arrivati alla camera di compensazione interna. Si ammassarono gli uni sugli altri mentre arrivavano gli ultimi, disperati fuggitivi. La porta si chiuse con un sibilo e un tonfo, ed Elene rabbrividì… per un miracolo, la porta non aveva stritolato qualcuno.

Il portello interno si aprì nel corridoio dell’ascensore. Due uomini grandi e grossi spinsero avanti gli altri e soccorsero Elene mentre una voce stava tuonando ordini attraverso il comunicatore. Le doleva il ventre, ed aveva le cosce intorpidite; si appoggiò alla parete e riposò fino a quando uno dei due le toccò la spalla, gentilmente.

— Sto bene — disse lei. — Sto bene.

La fatica della corsa stava passando… Elene ricacciò indietro i capelli, e guardò gli uomini, i due che l’avevano aiutata a passare tra la folla, facendole largo in mezzo ai rivoltosi. Li conosceva, e conosceva anche lo stemma che portavano, nero e senza simboli: Finity’s End. La nave che aveva perduto un figlio sulla stazione; gli uomini con i quali lei aveva parlato quella mattina. Forse stavano andando verso la loro nave, e s’erano trattenuti per salvare una dei loro, per tirare fuori una Quen dall’orda. — Grazie — mormorò. — Il comandante… per favore, devo parlargli… subito.

Nessuna obiezione. L’uomo grande e grosso — Tom, Elene ricordava il suo nome — la cinse con un braccio, e l’aiutò a camminare. Il cugino aprì la porta dell’ascensore e premette il pulsante. Uscirono nel settore centrale, affollato a causa della mancanza di rotazione. La sala principale e la sala comando erano in basso, e di due la condussero da quella parte. Adesso Elene si sentiva meglio, molto meglio. Camminava da sola, tra le file di apparecchi e l’equipaggio schierato. Neihart. La famiglia della nave era Neihart; base Viking. Sul ponte c’erano gli anziani e alcuni dei più giovani… i bambini dovevano essere sistemati in alto. Elene riconobbe Wes Neihart, il comandante della famiglia, con il volto rugoso, i capelli argentei e l’aria triste.

— Quen — disse Neihart.

— Signore. — Elene strinse la mano che le veniva offerta, ma rifiutò la sedia, e si appoggiò allo schienale. — Quelli del settore Q sono in libertà; le comunicazioni sono interrotte. La prego, si metta in contatto con le altre navi… faccia passare parola… non so cosa sia successo alla centrale, ma Pell è nei guai.

— Non prendiamo a bordo passeggeri — disse Neihart. — Abbiamo visto il risultato. E anche lei. Quindi non lo chieda.

— Mi ascolti. Là fuori ci sono i confederati. Noi formiamo un guscio… intorno a questa stazione. Dobbiamo restare fermi. Mi permetta di comunicare.

Lei parlava a nome di Pell, rivolgendosi a quel comandante, e a tutti gli altri; ma quella era la nave di Neihart, non Pell, e lei era una mendicante senza nave.

— È il diritto del dirigente della capitaneria di porto — disse all’improvviso Neihart, con un cenno. — Il comunicatore è suo.

Con un gesto di gratitudine, Elene si fece condurre al banco più vicino, si lasciò cadere sul sedile con un crampo al basso ventre… Non il bambino, pregò. Aveva il braccio e la schiena intorpiditi, dove l’avevano urtata. Le immagini parvero confondersi quando tese la mano verso l’auricolare. Batté le palpebre per mettere a fuoco gli strumenti, cercando di schiarirsi la vista e la mente. Inserì la comunicazione da nave a nave. — A tutte le navi: registrare e trasmettere: qui il comando dei moli di Pell. Ufficiale di collegamento di Pell, Elene Quen, a bordo di Finity’s End di Neihart, molo bianco. Chiedo che tutti i mercantili attraccati chiudano i portelli e non, ripeto, non prendano a bordo nessun abitante della stazione. Pell non sta per essere evacuata. Trasmettetelo all’esterno, se potete farvi sentire con gli altoparlanti. Le navi attraccate, se possono staccare i collegamenti dall’interno, sono pregate di procedere. Ma non salpate. Le navi in formazione mantengano la formazione. La stazione compenserà lo squilibrio e ritroverà la stabilità. Ripeto, Pell non sta per essere evacuata. C’è un’azione militare in corso nel sistema. Sarebbe inutile evacuare la stazione. Prego trasmettere all’esterno quanto segue, se possibile: Attenzione. Per ordine della capitaneria di porto, tutte le forze di polizia della stazione dovranno fare il possibile per ristabilire l’ordine nelle aree in cui si trovano. Non cercate di raggiungere l’area centrale. Restate dove siete. Cittadini di Pell; siete minacciati da una rivolta. Barricate tutti gli accessi e tutte le sezioni, e preparatevi a difenderli per impedire l’azione dei ribelli. Il settore quarantena è stato sfondato. Se cedete al panico e alla disperazione, favorite i rivoltosi e metterete in pericolo le vostre vite. Difendete le barricate. Riuscirete a tenere la stazione area per area. Le comunicazioni della stazione sono interrotte a causa dell’azione militare, e gli sbalzi di gravità sono dovuti alla partenza non autorizzata delle navi militari. La stabilità sarà ripristinata al più presto possibile. A tutti i profughi usciti dalla quarantena: conto sulla vostra collaborazione per creare linee di difesa e barricate insieme ai cittadini di Pell. La stazione negozierà con voi per quanto riguarda la vostra situazione; la vostra collaborazione in questa crisi vi darà diritto alla gratitudine di Pell, e potrete contare su un occhio di riguardo quando la situazione si sarà stabilizzata. Restate dove siete, difendete le vostre aree e ricordate che questa stazione tiene in vita anche voi. A tutto il personale dei mercantili: vi prego di collaborare con me. Se avete informazioni, inoltrate i messaggi alla Finity’s End. Questa nave fungerà da capitaneria di porto finché durerà l’emergenza. Vi prego di comunicare da nave a nave e di trasmettere le sezioni indicate di questo discorso mediante gli altoparlanti esterni. Resto in attesa di risposta.

I messaggi cominciarono ad affluire, richieste ansiose di ulteriori informazioni, domande brusche, minacce di decollare immediatamente. Intorno a Elene, l’equipaggio della Finity’s End si stava preparando alla partenza.

Da un momento all’altro, si augurava Elene, da un momento all’altro i comunicatori potevano rientrare in funzione, la centrale poteva farsi sentire di nuovo e stabilire il contatto con il comando… con Damon, che forse era nella centrale e forse no. Non in quei corridoi, sperava, dove si erano scatenati quelli del settore Q. Era mezzogiorno di primogiorno… il momento peggiore, quando quasi tutti gli abitanti di Pell lasciavano il lavoro e si trovavano nei corridoi…

Damon era assegnato al molo azzurro, in caso d’emergenza. Forse aveva tentato di raggiungerlo; avrebbe cercato di farlo. Lo conosceva bene. Le lacrime le offuscavano gli occhi. Strinse il pugno sul bracciolo della poltrona, e cercò di scacciare il dolore al ventre.

— Chiusura sezione bianca appena attivata. — La notizia arrivò dalla Sita, che era in buona posizione. Altre navi annunciarono la chiusura di altre paratie. Pell si era segmentata per difendersi: il primo segno che era ancora in grado di reagire.

— Il video ha inquadrato qualcosa — disse con voce preoccupata qualcuno alle sue spalle, un membro dell’equipaggio. — Potrebbe essere un mercantile fuori formazione. Non so.

Elene si asciugò il viso e cercò di concentrarsi. — Restate fermi — disse. — Se spezziamo i cavi, là fuori moriranno a migliaia. Usate i comandi manuali. Non spezzateli, non spezzateli.

— Ci vorrà tempo — disse qualcuno. — E forse non l’avremo.

— E allora cominciate subito — mormorò Elene.


PELL: SETTORE AZZURRO UNO: CENTRALE DI COMANDO

Le spie rosse che avevano lampeggiato sui quadri di controllo erano meno numerose, adesso. Jon Lukas andava da una postazione all’altra, e osservava i movimenti dei tecnici, gli schermi, e le attività che si svolgevano dovunque ci fosse qualcosa da controllare. Hale montava di guardia al di là dei vetri, al comunicatore della centrale, insieme a Daniels; Clay si trovava a un’estremità della sala, Lee Quale dall’altra, e c’erano altri membri del servizio di sicurezza della Società Lukas, ma nessuno della stazione. I tecnici e i dirigenti non discutevano, lavoravano febbrilmente, troppo presi dall’emergenza.

C’era paura, nella sala, una paura che non era ispirata solo dall’attacco esterno. La presenza delle armi, l’interruzione prolungata… Jon immaginava che sapessero che era successo qualcosa, perché Angelo Konstantin taceva, perché nessuno dei Konstantin o dei loro luogotenenti si era fatto vedere.

Un tecnico gli consegnò un messaggio e tornò correndo al suo posto, senza guardarlo negli occhi. Era una nuova richiesta da parte della base principale della Porta dell’Infinito. Quello era un problema che si poteva rimandare. Per il momento tenevano la centrale e gli uffici, e Jon Lukas non intendeva rispondere alla richiesta. Emilio doveva pensare che fosse stato un ordine dei militari a imporre il silenzio alla stazione.

Sugli schermi l’assenza d’attività era malaugurante. Là fuori se ne stavano seduti ad aspettare. Jon Lukas fece di nuovo il giro della sala, e alzò bruscamente la testa quando la porta si aprì. Tutti i tecnici si fermarono, ignorando i loro compiti, con le mani sollevate, nel vedere il gruppo di civili che era apparso con le armi spianate.

Jessad, seguito da due degli uomini di Hale, da un agente del servizio di sicurezza, e da uno dei loro.

— L’area è in mano nostra — riferì Jessad.

— Signore. — Un dirigente si alzò dal suo posto. — Consigliere Lukas… che cosa sta succedendo?

— Lo faccia sedere — scattò Jessad, e il dirigente si aggrappò allo schienale e lanciò a Jon uno sguardo in cui non vi era più spazio per la speranza.

— Angelo Konstantin è morto — disse Jon, squadrando quelle facce spaventate. — È stato ucciso nei disordini, con tutti i suoi uomini. I sicari hanno attaccato gli uffici. Riprendete il lavoro. Non è ancora finita.

Le facce si abbassarono, le schiene si voltarono, e i tecnici cercarono di rendersi invisibili nella loro efficienza. Nessuno parlò. Jon Lukas si sentì rincuorare da quell’obbedienza. Fece un altro giro della sala, e si fermò.

— Continuate a lavorare e ascoltatemi — disse a voce alta. — Il personale della Società Lukas garantisce la sicurezza di questo settore. Altrove, abbiamo la situazione che potete vedere sugli schermi. Ristabiliremo le comunicazioni, per trasmettere annunci da questo centro, e soltanto gli annunci autorizzati da me. Al momento, nella stazione l’unica autorità è quella della Società Lukas e per salvare la stazione da ogni danno sono pronto a uccidere, se sarà necessario. Ho al mio comando uomini che lo faranno senza esitare. È chiaro?

Non vi furono commenti; e nessuno osò voltare la testa. Forse per il momento erano tutti d’accordo, con i sistemi di Pell in equilibrio precario e gli evasi dalla quarantena che tumultuavano sui moli.

Jon Lukas respirò, più calmo, e guardò Jessad, che annuì soddisfatto.


Il labirinto di scalette si estendeva avanti e dietro di loro, un viluppo di tubi s’intrecciava al di sopra, e c’era un freddo pungente. Damon puntò il raggio della lampada da una parte all’altra, si afferrò a un corrimano, e si lasciò cadere sulla grata mentre Josh faceva altrettanto; i sibili dei respiratori erano profondi e faticosi. Gli doleva la testa. Non c’era abbastanza aria, per compensare lo sforzo; e il labirinto si ramificava. Era logico, gli angoli erano precisi; bastava contare. Damon si sforzava di farlo.

— Ci siamo perduti? — chiese Josh tra un ansito e l’altro.

Damon scrollò la testa; puntò il raggio verso l’alto, nella direzione dove avrebbero dovuto andare. Era stato un tentativo pazzesco, ma erano vivi e illesi. — Il prossimo livello — disse, — dovrebbe essere il due. Credo… dovremmo uscire, dare un’occhiata e vedere come stanno le cose…

Josh annuì. Gli sbalzi della gravità erano cessati. Sentivano ancora rumori, e in quei meandri non riuscivano a capire da dove provenissero. Grida lontane. A un certo momento, un rombo e un fremito: probabilmente qualche sezione che veniva isolata. Così andava meglio; sperava… Si mosse, con un clangore sonante di metallo, si afferrò di nuovo al corrimano e cominciò a salire l’ultimo tratto. Era in ansia per Elene, per tutto ciò che aveva abbandonato rifugiandosi lì… A qualunque costo, doveva uscire.

Vi fu il crepitio di una scarica. Echeggiò nelle gallerie.

— Il comunicatore — disse Damon. Stava riprendendo a funzionare.

— Questo è un annuncio generale. Ci stiamo avvicinando alla stabilizzazione della gravità. Invitiamo tutti i cittadini a rimanere nelle aree in cui si trovano e a non cercare di attraversare le linee di sezione. Non si hanno ancora notizie della Flotta, e al momento non ne attendiamo. Gli schermi sono ancora vuoti. Non prevediamo azioni militari nelle vicinanze di questa stazione… È con estremo rammarico che annunciamo la morte di Angelo Konstantin, ucciso dai rivoltosi, e la scomparsa di altri membri della famiglia. Se qualcuno dei Konstantin si fosse messo al sicuro, è pregato di mettersi in contatto con la centrale al più presto possibile, e così pure chiunque abbia notizie sul loro conto. Il consigliere Jon Lukas svolgerà le funzioni di dirigente della stazione per tutta la durata della crisi. Siete invitati a collaborare con il personale della Società Lukas che svolge mansioni di sicurezza in questa emergenza.

Damon si lasciò cadere sui gradini. Un freddo più intenso di quello del metallo lo pervase. Non riusciva a respirare. Si accorse che stava piangendo; le lacrime offuscavano la luce e quasi lo soffocavano.

— … generale — cominciò a ripetere il comunicatore. — Ci stiamo avvicinando alla stabilizzazione della gravità. Invitiamo tutti i cittadini…

Una mano si posò sulla spalla di Damon, e cercò di scuoterlo. — Damon? — chiese Josh.

Damon era stordito. Nulla aveva più senso. — Morto — disse, e rabbrividì. — Oh, Dio…

Josh lo fissò e gli tolse la lampada dalla mano. Damon, con uno sforzo, si alzò in piedi, per l’ultima salita verso l’accesso che stava lassù.

Josh lo prese per un braccio, e lo fece voltare contro la parete. — Non andare — lo supplicò. — Damon, non uscire, adesso.

Gli incubi paranoici di Josh. Aveva sul volto quell’espressione. Damon rimase appoggiato alla parete, mentre i suoi pensieri volavano in tutte le direzioni, confusamente. Elene. — Mio padre… mia madre… è azzurro uno. Le nostre guardie erano in azzurro uno. Le nostre guardie.

Josh non disse nulla.

Damon si sforzò di pensare. Continuava a non capire. I militari erano stati ritirati; la Flotta era partita. E subito le uccisioni… nella zona più sicura di Pell.

Si voltò dall’altra parte, nella direzione da cui erano appena arrivati. Le mani gli tremavano tanto che faticava a tenersi stretto alla ringhiera. Josh girò il raggio della lampada, e lo afferrò per il gomito per fermarlo. Lui si voltò, sui gradini, e guardò la faccia mascherata di Josh, deformata dalla luce.

— Dove? — chiese Josh.

— Non so chi comanda, lassù. Dicono che è mio zio. Non lo so. — Damon tese la mano verso la lampada. Josh gliela consegnò, riluttante, e lui si voltò, cominciando a ridiscendere le scalette più in fretta che poteva, mentre l’altro lo seguiva disperatamente.

Giù, di nuovo. Scendere era facile. Si affrettò per quanto glielo permettevano il fiato e l’equilibrio, finché fu preso dalle vertigini e il raggio della lampada oscillò all’impazzata. Scivolò, si riprese, e continuò a scendere.

— Damon — protestò Josh.

Lui non aveva il fiato per ribattere. Continuò fino a quando la vista si confuse per la mancanza d’aria, e allora sedette sui gradini cercando di respirare, per non svenire. Sentì Josh chinarsi accanto a lui; lo sentì ansimare. — I moli — disse Damon. — Dobbiamo andare là… alle navi. Elene sarà andata là.

— Non potremo passare.

Damon fissò Josh, e si rese conto che lo stava trascinando in quella situazione. Ma non aveva scelta. Si alzò e ricominciò a scendere, sentendo le vibrazioni dei passi di Josh che continuava a seguirlo.

Le navi dovevano essere isolate. Elene doveva essere là, oppure barricata negli uffici. O morta. Se per qualche ragione… la stazione veniva paralizzata per preparare una presa di possesso da parte della Confederazione…

Ma Jon Lukas, dicevano, era lassù nella centrale.

C’era stata un’azione fallita? Jon era riuscito a impedire che colpissero la centrale?

Perse il conto delle soste per riprendere fiato, dei livelli che passavano. Giù. Finalmente arrivò in fondo, a una grata più ampia, e non capì di che cosa si trattasse, fino a quando girò il raggio della lampada e non trovò più altre scale che scendevano. Si avviò lungo la grata, e vide il baluginio fioco di una lampada azzurra, sopra la porta di accesso. La raggiunse e premette l’interruttore. La porta scivolò di lato con un sibilo e Josh lo seguì nella luce più viva della camera stagna. La porta si chiuse e incominciò il ciclo del ricambio d’aria. Damon abbassò la maschera e aspirò a pieni polmoni quell’aria fredda. Gli doleva la testa. Fissò il volto sudato di Josh che portava ancora il segno della maschera. — Resta qui — disse, spinto dalla pietà. — Resta qui. Se riesco a sistemare tutto, tornerò. Se no… deciderai tu stesso cosa fare.

Josh restò appoggiato alla parete. Aveva gli occhi vitrei.

Damon rivolse l’attenzione alla porta, riprese a respirare normalmente, strofinandosi gli occhi per schiarirsi la vista e finalmente premette il pulsante e mise in funzione la porta. La luce li abbagliò. Là fuori c’erano grida e urla e odore di fumo. I sistemi vitali, pensò, agghiacciato. L’accesso si apriva su uno dei corridoi secondari, e lui uscì, cominciò a correre, ma sentì un passo precipitoso alle spalle e si voltò.

— Torna indietro — disse a Josh. — Torna là dentro.

Non aveva tempo di discutere con lui. Riprese a correre lungo il corridoio… doveva essere nel settore verde; doveva essere il nove, in quella direzione… tutti i cartelli erano spariti. Vide un tumulto, più avanti, gente che correva; alcuni brandivano pezzi di tubo, e c’era un corpo sul pavimento… lo evitò e continuò a correre. Gli individui che vedeva non sembravano di Pell… in disordine, con la barba lunga… all’improvviso comprese chi erano, e corse più forte; sfrecciò lungo il corridoio, dirigendosi verso i moli per quanto possibile senza avventurarsi nella galleria principale. Alla fine dovette entrarvi, schivando gli altri che correvano. C’erano altri corpi sul pavimento, e gli sciacalli erano al lavoro. Si fece largo a spallate tra uomini che impugnavano tubi e coltelli… qualcuno aveva un fucile…

L’entrata del molo era chiusa, bloccata. Damon lo vide, e si scostò barcollando mentre uno di quelli che erano intenti a far bottino lo minacciava brandendo un tubo, semplicemente perché lui gli stava davanti.

L’uomo passò oltre; girò su se stesso e andò a finire contro il muro insieme a Josh, che sbatté la testa dell’uomo contro la parete e si rialzò con il tubo in mano.

Damon si voltò e corse verso le porte chiuse… si frugò in tasca per cercare la sua tessera, per aprire.

Konstantin! — gridò qualcuno dietro di lui.

Damon si voltò e vide un uomo che gli spianava contro una pistola. Un pezzo di tubo volò nell’aria e colpì l’uomo, e gli sciacalli si precipitarono per impadronirsi della pistola. Preso dal panico, Damon si voltò di scatto, e inserì la tessera nella fenditura; la porta si spalancò, e più oltre c’erano il molo e altri saccheggiatori. Corse, aspirando l’aria fredda, verso il settore bianco, dove vedeva le grandi porte bloccate, alte due livelli e completamente stagne. Barcollò per lo sfinimento e si riprese. Salì in fretta la curva; sentì qualcuno, dietro di lui, e si augurò che fosse Josh. La fitta al fianco che all’inizio s’era sentita appena divenne un dolore lancinante… Passò davanti a negozi saccheggiati, bui e con le porte aperte, raggiunse la parete accanto all’enorme porta, e si fermò davanti alla porticina riservata al personale e inserì la tessera nella fenditura.

La serratura non reagì. Non funzionava. Spinse più forte, pensando che non fosse stato stabilito il contatto, inserì la tessera per la seconda volta. Niente da fare. Avrebbe dovuto almeno illuminare i pulsanti, dargli la possibilità di comporre il codice di priorità o di dar l’allarme.

— Damon! — Josh lo raggiunse, l’afferrò per la spalla, e lo costrinse a voltarsi. C’era gente che avanzava alle loro spalle, trenta, cinquanta uomini, e arrivavano da ogni parte del molo… da verde nove, in numero sempre crescente.

— Sanno che hai aperto una porta — disse Josh. — Sanno che tu puoi farlo.

Damon li fissò. Estrasse la tessera dalla fenditura. Inutile, annullata; la centrale gliel’aveva annullata.

Damon.

Afferrò Josh per il braccio e corse, e l’orda avanzò con un ululato. Corse verso le porte aperte, verso i negozi… entrò nel primo che trovò. All’interno si voltò di scatto, premette il pulsante per bloccare la porta. Quello, almeno, funzionava.

La folla investì la porta, la percosse. Facce atterrite premevano contro la plastica, i tubi martellavano, la scalfivano: era una chiusura di sicurezza, come ne avevano tutti i negozi dei moli… senza finestre, tranne quel cerchio a doppio rinforzo.

— Reggerà — disse Josh.

— Non credo — disse Damon, — che potremo più uscire. Non credo che potremo uscire di qui fino a che non verranno a prenderci.

Josh lo guardò, dall’altro lato della porta, pallido nella luce che filtrava dalla finestra.

— Hanno annullato la mia tessera — disse Damon. — Non funziona più. Chiunque ci sia nella centrale della stazione ha appena annullato la mia tessera. — Guardò la finestra di plastica, ove le intaccature diventavano più profonde. — Credo che ci siamo cacciati in trappola.

Fuori continuavano a martellare. Erano in preda alla follia; non erano assassini, non volevano prendere ostaggi. Erano disperati che avevano un bersaglio per la loro disperazione. Residenti del settore Q con un paio di abitanti della stazione a portata di mano. I segni sulla plastica si infittivano quasi nascondendo le facce e le mani e le armi. Era possibile che riuscissero a sfondarla.

E se questo fosse accaduto, non ci sarebbe stato bisogno di un sicario.

CAPITOLO SECONDO

NORWAY: ore 1300

Ormai era un gioco d’attesa: sondare e sparire. Spettri. Ma erano piuttosto solidi, là fuori, oltre i limiti del sistema. La Tibet e la North Pole avevano perduto il contatto con il nemico; i confederati avevano fatto dietro-front, al prezzo di un ricognitore della Tibet… al prezzo di uno della Confederazione. Ma non era finita. Le comunicazioni continuavano ad affluire dalle due navi. Signy Mallory si morse le labbra e fissò gli schermi, mentre Graff dirigeva le operazioni. La Norway era in posizione, come il resto della Flotta… avevano ridotto la velocità ed erano andati alla deriva, non troppo lontano dalle masse gravitazionali di Pell IV e III e dalla stella stessa. S’erano fermati. Avevano evitato di lasciarsi attirare. Adesso dovevano usare quella massa per proteggersi da un arrivo troppo ravvicinato. Non era probabile che i confederati fossero tanto avventati da usare il balzo. Non era nel loro stile. Ma dovevano prendere precauzioni, dato che erano un facile bersaglio. Se l’attesa fosse stata abbastanza lunga, anche i più tradizionalisti fra i comandanti confederati sarebbero stati capaci di guardarsi intorno per trovare nuove linee di attacco, dopo aver sondato la situazione; come lupi attirati dal chiarore del fuoco, mentre loro cercavano di rimanere immobili in quella luce, ben visibili e vulnerabili. La Confederazione aveva tutto lo spazio che voleva, là fuori, e avrebbe potuto prendere un buon margine, e acquisire una velocità troppo elevata perché loro potessero contrastarla.

E per diverso tempo da Pell erano arrivate brutte notizie, notizie di gravi disordini.

Mazian continuava a tacere, e nessuno di loro osava interrompere il silenzio radio per chiedere precisazioni. Avanti, disse Signy, mentalmente. Avanti, Mazian, fai uscire qualcuno di noi a caccia. I ricognitori erano raccolti intorno alla Norway nello spiegamento più ampio, come quelli delle altre navi, ventisette ricognitori, sette navi da trasporto; e trentadue navi della milizia che cercavano di integrare lo schieramento… alcune, inquadrate da lontano, non si distinguevano dai ricognitori, e altre due sembravano navi da trasporto. Finché la Flotta restava immobile, senza tradirsi con la velocità e le manovre, chi la vedeva sugli schermi era costretto a chiedersi se qualcuna di quelle navi lente non fosse per caso una corazzata che mimetizzava le proprie mosse. Il ricognitore della Tibet era tornato alla nave-madre; la Tibet e la North Pole avevano sette ricognitori e undici navi della milizia, in quell’area, mezzi adatti a tragitti brevi, dalla velocità modesta, diventati eroici per necessità; non potevano andarsene, e per questo erano entrati a far parte della barriera. Come se avessero la certezza che l’attacco sarebbe arrivato da quella direzione. I confederati avevano tastato il terreno. Li avevano punzecchiati e poi erano spariti, portandosi fuori tiro. Probabilmente c’era Azov, là fuori; uno dei più vecchi comandanti della Confederazione e uno dei migliori. Un tocco lieve e una finta. Con quel sistema, aveva attirato in trappola più di un comandante esperto.

Signy aveva i nervi scossi. Sul ponte, i tecnici la guardavano di tanto in tanto. Il silenzio regnava a bordo delle navi come tra le navi stesse, del resto, e l’inquietudine era contagiosa.

Un tecnico delle comunicazioni si voltò verso di lei. — A Pell la situazione sta peggiorando — disse. Dai tecnici piazzati nelle altre postazioni si levò un mormorio.

— Badate al vostro lavoro — scattò Signy Mallory, rivolgendosi a tutti quanti. — L’attacco può arrivare da qualunque direzione. Non pensate a Pell o ci prenderemo un pugno in faccia, chiaro? Butterò nel vuoto tutti quelli che scoprirò distratti.

Poi, a Graff: — Stato di allerta.

Sul soffitto si accesero le luci azzurre. Così si sarebbero svegliati. Una spia lampeggiò sulla consolle davanti a lei, indicando che il quadro dei sistemi di attacco era attivato, mentre l’operatore e i suoi aiutanti erano pronti.

Signy Mallory allungò la mano, batté il codice per un’istruzione registrata. L’avvistatore della Norway incominciò a scrutare in direzione della stella indicata, eseguì l’identificazione e si bloccò. Questo nell’eventualità che accadesse qualcosa di non previsto nei loro piani e che Mazian, il quale riceveva a sua volta notizie da Pell, pensasse di fuggire: il collegamento per raggio diretto era puntato sull’Europe, e l’Europe continuava a tacere. Mazian stava riflettendo; o forse aveva già deciso, e contava che i suoi comandanti prendessero le precauzioni necessarie. Signy trasmise un segnale al tecnico addetto all’iperpropulsione, dato che quello doveva aver già notato la mossa precedente. Il quadro si accese, l’afflusso dell’energia dei generatori aumentò, per dare alla nave la possibilità di abbandonare lo spazio reale. Se la Flotta abbandonava Pell, era probabile che non tutti arrivassero dove avevano l’ordine di arrivare, al più vicino punto zero. E non ci sarebbe più stata una Flotta, non ci sarebbe stato più nulla tra la Confederazione e Sol.

Le notizie che giungevano da Pell diventavano sempre più allarmanti.


ACCESSO DEGLI INDIGENI

Uomini-con-fucili. L’udito finissimo captava ancora le grida là fuori, il terribile combattimento. Satin rabbrividì a un tonfo contro la parete e tremò. Non c’era motivo perché fosse accaduto… ma i Lukas l’avevano fatto, ed erano i Lukas che davano gli ordini, che avevano preso il comando di Lassù. Denteazzurro l’abbracciò, le rivolse parole di conforto e lei si mosse in silenzio, come gli altri. Lo scalpiccio dei piedi nudi degli hisa passò sopra e sotto di loro. Si muovevano nel buio, con calma. Non osavano accendere le luci, perché avrebbero potuto rivelare la loro posizione agli uomini.

Alcuni erano più avanti di loro, altri più indietro. In testa c’era il Vecchio in persona, l’hisa che era sceso dai luoghi più alti e che li guidava senza dir loro il perché. Alcuni avevano indugiato, timorosi; ma dietro c’erano i fucili, e gli umani impazziti, e quindi anche loro sarebbero arrivati molto presto.

Una voce umana echeggiò lontano, nelle gallerie. Denteazzurro fischiò e cominciò a spingere, salendo più in fretta, e Satin fece appello a tutte le sue forze, stravolta dalla fatica. Aveva il pelame umido, e le sue mani scivolavano sulla ringhiera, mentre altri si erano afferrati saldamente ad essa.

— Presto — bisbigliò la voce di un hisa da uno dei livelli superiori nei luoghi bui di Lassù; e molte mani li sospinsero verso un punto dove brillava una luce fioca che illuminava la figura di un hisa fermo in attesa. Una porta. Satin si assestò la maschera e corse, afferrando la mano di Denteazzurro per timore di perderlo.

La camera di compensazione si apri davanti a loro. Si affollarono insieme agli altri, e la porta interna lasciò intravedere una massa di corpi bruni, di mani che si tendevano per aiutarli a uscire in fretta, mentre altri hisa stavano rivolti verso l’esterno e impedivano loro di vedere quello che c’era più oltre.

Erano armati di pezzi di tubo, come gli uomini. Satin, sgomenta, cercò Denteazzurro con la mano, per accertarsi della sua presenza in quella folla rabbiosa e brulicante, nelle luci bianche degli umani. C’erano soltanto gli hisa, in quel corridoio. Stipati fino alle porte chiuse in fondo. C’erano macchie di sangue su una delle pareti, un odore che non arrivava fino a loro attraverso le maschere. Satin lanciò uno sguardo angosciato nella direzione in cui la calca li stava trascinando, sentì una mano morbida che non era quella di Denteazzurro stringersi sul suo braccio e guidarla. Varcarono una porta e si trovarono in un luogo degli umani, immenso e semibuio, e la porta si richiuse, portando il silenzio.

— Zitti — dissero le loro guide. Satin si voltò, atterrita, per vedere se Denteazzurro fosse ancora con lei, e Denteazzurro allungò un braccio e le prese la mano. Camminavano nervosamente insieme agli anziani che facevano da guida, in quello spazioso luogo degli uomini, con la massima prudenza, perché temevano e rispettavano le armi e la rabbia che là fuori regnavano incontrollate. Altri Vecchi emersero dall’oscurità e vennero loro incontro. — Narratrice — le disse un Vecchio, e la sfiorò per darle il benvenuto. Alcuni l’abbracciarono; altri arrivarono dal vano luminosissimo di una porta e abbracciarono lei e Denteazzurro, e Satin si sentì stordita da quell’onore. — Venite — dissero i Vecchi, guidandola, ed entrarono in quell’ambiente luminoso, una stanza sconfinata, con un letto bianco, e un’umana che dormiva, e un’hisa vecchissima accoccolata accanto a quel letto. Tutto intorno c’erano il buio e le stelle, le pareti evanescenti, e all’improvviso un grande Sole illuminò la stanza, brillando su di loro e sulla Sognatrice.

— Ah — mormorò Satin, sconvolta, ma la vecchia hisa si alzò e tese le mani in segno di benvenuto. — La Narratrice — stava dicendo il Vecchio, e la più anziana fra tutti loro lasciò per un momento la Sognatrice e venne ad abbracciarla. — Bene, bene — disse teneramente la Grande Vecchia.

— Lily — disse la Sognatrice, e la Vecchia si voltò, s’inginocchiò accanto al letto, e le accarezzò la testa grigia. Due occhi meravigliosi si girarono verso di loro, luccicanti in quel volto bianco e immobile. Il corpo era avvolto di bianco e tutto era bianco, tranne l’hisa chiamata Lily e l’oscurità che li avvolgeva, tempestata di stelle. Il Sole era sparito. C’erano soltanto loro.

— Lily — chiese la Sognatrice, — chi sono?

La Sognatrice guardava lei, lei; e Lily fece un cenno. Satin s’inginocchiò, mentre Denteazzurro la imitava, e guardò con venerazione l’ardore degli occhi della Sognatrice, la Sognatrice di Lassù, la compagna del grande Sole che danzava sulle sue pareti. — Ti voglio bene — mormorò Satin. — Ti voglio bene, Il-Sole-è-suo-amico.

— Ti voglio bene — mormorò a sua volta la Sognatrice. — Cosa succede là fuori? C’è pericolo?

— Noi facciamo sicuro — disse il Vecchio, in tono fermo. — Tutti, tutti hisa facciamo sicuro questo posto. Uomini-con-fucili stanno lontani.

— Sono morti. — Gli occhi meravigliosi si velarono di lacrime e cercarono Lily. — È stato Jon. Angelo… Damon… Emilio, forse… ma io no, non ancora. Lily, non lasciarmi.

Con estrema delicatezza, Lily cinse con un braccio la Sognatrice, appoggiandole la guancia sui capelli grigi. — No — disse Lily. — Ti voglio bene, mai lasciare, no, no, no. Sogna loro se ne vanno, uomini-con-fucili. Indigeni tutti stanno tuo posto. Sogna per grande Sole. Noi tuoi mani e piedi, noi tanti, noi forti, noi svelti.

Le pareti erano cambiate. Adesso mostravano scene di violenza, uomini che lottavano contro altri uomini, e tutti gli hisa si strinsero in gruppo, intimoriti. L’immagine svanì. Solo la Sognatrice rimase tranquilla.

— Lily. Il mondo di Lassù rischia di morire. Avrà bisogno degli hisa, quando i combattimenti saranno finiti, avrà bisogno di voi, capisci? Siate forti. Tenete questo luogo. Restate con me.

— Noi combattiamo, combattiamo uomini vengono qui.

Vivere. Loro non osano uccidervi, capite? Gli uomini hanno bisogno degli hisa. Non verranno qui. — Gli occhi si oscurarono, poi si addolcirono di nuovo. Il Sole era riapparso, e il suo volto terribile riempiva tutta la parete, smorzando la loro ira. Si rifletteva negli occhi della Sognatrice, e colorava il suo pallore.

— Ah — mormorò Satin, dondolandosi. Altri la imitarono, in un bisbiglio sommesso di venerazione.

— Lei è Satin — disse il Vecchio alla Sognatrice. — Denteazzurro suo compagno. Amica di Bennett-uomo, visto lui morire.

— Dalla Porta dell’Infinito — disse la Sognatrice. — Emilio vi ha mandato quassù.

— Konstantin-uomo tuo amico? Tutti indigeni lui vogliono bene. Bennett-uomo lui amico.

— Sì. Era suo amico.

— Lei dice — intervenne il Vecchio. Poi, nella lingua degli hisa: — Narratrice, Il-Cielo-la-vede, racconta la storia alla Sognatrice, illumina i suoi occhi e riscalda i suoi sogni; canta per il suo Sogno.

Satin si sentì avvampare in volto e stringere la gola per la paura, perché lei non era una grande narratrice, sapeva comporre soltanto piccoli canti, e narrare una storia nelle parole degli umani… alla presenza della Sognatrice e del grande Sole, con tutte le stelle intorno, diventare parte del Sogno…

— Su, coraggio — l’esortò Denteazzurro. Quella fiducia le riscaldò il cuore.

— Io, Il-Cielo-la-vede — cominciò Satin, — vengo da Porta dell’Infinito, e dico a te Bennett-uomo, dico a te Konstantin, canto cose di hisa. Sogna cose di hisa, Il-Sole-è-suo-amico, come Bennett faceva sogno. Fai lui vivere, fai lui camminare con hisa, ah! Ti voglio bene, lui voglio bene. Sole sorride e guarda lui. Tanto, tanto tempo noi sogniamo sogni di hisa. Bennett fatto noi vedere sogno umano, mostrato noi cose vere, detto noi Sole tiene in sue braccia tutto Lassù, tutta Porta dell’Infinito, detto noi navi vanno e vengono, grandi, grandi, vengono e vanno, portano uomini da buio lontano. Fatto spalancare noi occhi, fatto più grandi noi sogni, fatto noi sognare come umani, Il-Sole-è-suo-amico. Questa cosa Bennett dato me; e lui dato sua vita. Lui detto noi cose buone in Lassù, riscaldato nostri occhi con desiderio queste buone cose. Noi venuti. Noi visto. Così grande e buio, noi visto Sole sorridere in buio, fatto sogno per Porta dell’Infinito, cielo azzurro. Bennett fatto noi vedere, fatto noi venire, fatto noi sogni nuovi.

«Ah! Io, Satin, dico te tempo che umani venuti. Prima di umani, niente tempo, soltanto sogni. Noi aspettiamo e non sappiamo aspettare. Noi veduto umani e noi venuti Lassù. Ah! Tempo di Bennett viene, tempo freddo, e vecchio fiume tranquillo…

Gli occhi scuri e bellissimi erano fissi su di lei, attenti alle sue parole, come se Satin fosse abile quanto i vecchi cantori. Lei intessé la verità, meglio che poteva, facendo in modo che quello fosse vero, e non le cose terribili che accadevano altrove, rendendolo sempre più vero, perché la Sognatrice potesse farlo diventare verità, e perché nei cicli futuri quella verità potesse rinnovarsi come i fiori, e le piogge e tutte le cose che da sempre esistevano.


CENTRALE DELLA STAZIONE

I quadri si erano stabilizzati. La centrale si era rassegnata al panico come se fosse una condizione permanente, che traspariva nell’attenzione febbrile per i dettagli, nel rifiuto, da parte dei tecnici, di accorgersi del crescente andirivieni di uomini armati nel centro di comando.

Jon passeggiava nervosamente lungo le corsie con il viso corrucciato, disapprovando ogni movimento non indispensabile. — Un’altra chiamata dal mercantile Finity’s End — gli disse un tecnico. — Parla Elene Quen. Chiede notizie.

— Negativo.

— Signore…

— Negativo. Risponda che stiano calmi e aspettino. Non devono fare altre chiamate non autorizzate. Pretende che trasmettiamo informazioni che potrebbero essere utili al nemico?

Il tecnico tornò a voltarsi, sforzandosi visibilmente di non notare i fucili.

Quen. La giovane moglie di Damon, a bordo di un mercantile; cominciava già a causare difficoltà, chiedeva informazioni, rifiutava di uscire allo scoperto. Le notizie si erano già sparse, e senza dubbio la Flotta adesso le stava ricevendo dai mercantili schierati intorno alla stazione. Ormai Mazian sapeva cos’era accaduto. La Quen con quelli dei mercantili e Damon sul molo della sezione verde; gli indigeni intruppati intorno al letto di Alicia, a bloccare il corridoio trasversale numero quattro in quell’area. Alicia poteva tenersi i suoi indigeni; la porta della sezione era chiusa. Lukas incrociò le mani dietro la schiena e si sforzò di apparire calmo.

Un movimento accanto alla porta attirò il suo sguardo. Jessad era tornato dopo una breve assenza, e sembrava che avesse qualcosa da riferire. Jon si avviò verso di lui. La cupa sobrietà di Jessad non prometteva nulla di buono.

— Qualche progresso? — chiese al confederato, uscendo con lui.

— Abbiamo individuato Kressich — disse Jessad. — È qui con una scorta: chiede un colloquio.

Jon fece una smorfia, guardò in fondo al corridoio dove Kressich attendeva circondato dalle guardie e da un eguai numero di uomini del suo servizio di sicurezza.

— La situazione è immutata all’azzurro uno quattro — disse Jessad. — Gli indigeni continuano a bloccarlo. L’ingresso è sotto controllo. Potremmo effettuare la decompressione.

— Abbiamo bisogno di loro — disse Jon, con voce tesa. — Lasci perdere.

— Per lei? Le mezze misure, signor Lukas…

— Abbiamo bisogno degli indigeni, e sono con lei. Lasci perdere, le dico. Sono Damon e la Quen che ci preoccupano. Che cosa state facendo al riguardo?

— Non possiamo salire su quella nave; la Quen non ha intenzione di scendere e loro non aprono. In quanto a lui, sappiamo dov’è. Ci stiamo lavorando.

— Cosa vuol dire, ci stiamo lavorando?

— Gli uomini di Kressich — sibilò Jessad. — Dobbiamo insistere, là fuori, mi capisce? Si decida e gli parli; gli prometta tutto quello che vuole. Ha in pugno quell’orda scatenata. Può dirigerla dove vuole. Gli parli.

Jon guardò il gruppo nel corridoio e pensò a tante cose, Kressich, Mazian, i mercantili… la Confederazione. La flotta della Confederazione doveva agire al più presto. — Come sarebbe a dire, dobbiamo insistere là fuori? Sa dov’è o non lo sa?

— C’è ancora un lieve margine di dubbio — ammise Jessad. — Se gli scateniamo contro quell’orda, non resterà abbastanza per identificarlo. E dobbiamo sapere, mi creda. Parli con Kressich. E subito, signor Lukas.

Jon girò la testa, e vide che Kressich lo fissava, annuì, e il gruppo si avvicinò… Kressich, grigio e desolato come sempre. Ma quelli che l’attorniavano erano diversi… giovani, arroganti, baldanzosi.

— Il consigliere vuole essere ascoltato — disse uno di loro, un tipo piccolo e bruno, con una cicatrice sul volto.

— Lei parla a nome suo?

— Il signor Nino Coledy — lo presentò Kressich, sorprendendo Lukas con una risposta diretta e un’espressione dura che non aveva mai mostrato in consiglio. — Vi suggerisco di ascoltarlo, signor Lukas, signor Jessad. Il signor Coledy è il capo della sicurezza di Q. Abbiamo le nostre forze, e possiamo ristabilire l’ordine quando vogliamo. Siete pronti a questa eventualità?

Jon volse lo sguardo, turbato, verso Jessad, ma non ottenne riscontro; il confederato non fece commenti. — Se può fermare quell’orda… lo faccia.

— Sì — disse Jessad, senza alzare la voce. — In questa fase, la calma ci sarebbe utile. Benvenuti nel nostro consiglio, signor Kressich, signor Coledy.

— Mi dia accesso alle comunicazioni — disse Coledy. — Per un annuncio generale.

— Glielo dia — disse Jessad.

Jon trasse un profondo respiro; mille domande gli si affollarono improvvisamente sulle labbra: che gioco stava giocando Jessad con lui? Perché ammetteva quei due nel consiglio? Erano fedeli a Jessad, come Hale lo era verso di lui? Trattenne le domande, e soffocò la rabbia, ricordando quel che c’era là fuori, ricordando che tutto era estremamente fragile. — Venga con me — disse. Rientrò e condusse Coledy al più vicino quadro comunicazioni. Da quel punto si vedeva uno schermo; Mazian era ancora immobile. Era troppo sperare che fosse facile togliere di mezzo Mazian. Troppo. La Flotta aveva circondato l’area… le navi di Mazian, sparse qua e là intorno all’alone a molti livelli che costituiva l’orbita dei mercantili intorno a Pell.

— Si sposti — disse a un tecnico, facendolo alzare; fece sedere Coledy e chiamò personalmente la centrale comunicazioni. La faccia di Bran Hale apparve sullo schermo. — Ho una chiamata da inoltrare — disse a Hale. — Priorità assoluta, e va trasmessa sull’intero sistema.

— Bene — disse Hale.

— Signor Lukas — chiamò qualcuno, spezzando il silenzio. Jon si voltò. Gli schermi lampeggiavano sul segnale di allerta.

— Dov’è? — esclamò Jon. Lo schermo non mostrava nulla di preciso. Un pulviscolo giallo rivelava che qualcosa si stava avvicinando velocemente. Il computer cominciò ad attivare le sirene dell’allarme. Vi furono esclamazioni soffocate, imprecazioni, mentre i tecnici si chinavano sui loro quadri.

— Signor Lukas! — gridò qualcuno, freneticamente.


FINITY’S END

— Lo schermo! — Elene vide quel guizzo e lanciò uno sguardo angosciato a Neihart.

— Sganciamoci — disse Neihart, evitando di fissarla. — Via!

L’ordine passò da una nave all’altra. Elene si rannicchiò per prepararsi allo scossone della partenza… era troppo tardi per ridiscendere sul molo, troppo tardi: i cavi erano stati staccati da tempo, e le navi erano trattenute soltanto dalle grappe.

Un secondo scossone. Erano liberi, e si stavano staccando dalla stazione, mentre l’intera fila dei mercantili ancora attraccati li seguiva in senso antiorario intorno all’orlo; ogni errore nella chiusura dei collegamenti interni poteva causare la rottura dei cavi, e intere sezioni dei moli potevano venire decompresse. Elene restò immobile, provando quelle sensazioni familiari che aveva pensato di non sentire mai più, libera, come la nave, diretta verso ciò che si stava avventando su di loro; e aveva l’impressione che le venisse strappata una parte del suo essere.

Un secondo invasore sfrecciò… raggiunse lo zenith, eludendo gli schermi, ma fece scattare gli allarmi… e passò oltre, diretto verso la Flotta. Erano vivi, liberi e con grande lentezza si allontanavano lungo una rotta prestabilita, seguiti dalle altre navi in partenza. Elene incrociò le braccia sul ventre e guardò gli schermi davanti a lei, nel centro di comando della Finity’s End, pensando a Damon, pensando a tutto ciò che si lasciava alle spalle.

Forse era morto; avevano detto che Angelo era morto; forse era morta anche Alicia; forse Damon… forse… cercò di accettare razionalmente quel pensiero, se era possibile accettarlo, se c’era una speranza di vendicarsi. Trasse alcuni respiri profondi, pensando all’Estelle, a tutti i suoi parenti. Era stata risparmiata per la seconda volta, dunque. Aveva il dono di sfuggire ai disastri. Portava in grembo una vita, un bambino che era un Quen e un Konstantin, nomi che significavano qualcosa tra le Stelle Sperdute; nomi che i confederati avrebbero trovato scomodi in futuro, e lei li avrebbe costretti a ricordarli per sempre.

— Ci porti lontano da qui — disse a Neihart, in tono secco e adirato. E quando Neihart la guardò, sbalordito da quel cambiamento, continuò: — Ci porti fuori di qui. Pronti per il balzo. Trasmetta l’ordine. Punto Matteo. Lo comunichi a tutto il sistema. Ce ne andiamo, passando in mezzo alla Flotta.

Elene era una Quen, e una Konstantin, e Neihart si mosse. La Finity’s End si allontanò dalla stazione, trasmettendo istruzioni a tutti i mercantili vicini e lontani sparsi nel sistema. Mazian, la Confederazione, Pell… nessuno poteva impedirlo.

Gli strumenti diventarono una macchia confusa davanti ai suoi occhi, e poi si fecero di nuovo nitidi. — Dopo Matteo — disse a Neihart, — faremo un altro balzo. Troveremo altri, nello spazio. Altri che ne hanno avuto abbastanza, che non sono venuti a Pell. Li troveremo.

— Non c’è speranza per i suoi cari, Quen?

— No — ammise lei, scuotendo la testa. — Per nessuno dei miei. Sono morti. Ma io conosco le coordinate. Le conosciamo tutti. Io vi ho aiutati, vi ho fatto riempire le stive e non ho mai discusso sulle vostre note di carico.

— Quelli dei mercantili lo sanno.

— Anche la Flotta conoscerà quei luoghi. Quindi restiamo insieme, comandante. Muoviamoci in blocco.

Neihart aggrottò la fronte. Non era abitudine di quelli dei mercantili stare insieme… se non nelle risse, sui moli.

— Ho un figlio su una delle navi di Mazian — disse Neihart.

— E io ho un marito su Pell — disse Elene. — Che cosa ci resta, ormai, se non saldare il conto?

Neihart rifletté per un momento, poi annuì. — I Neihart si fidano di lei.

Elene si appoggiò allo schienale e fissò lo schermo che le stava davanti. Segnali dei confederati all’interno del sistema, spettri che passavano nel buio. Era un incubo. Come Mariner, dove l’Estelle e tutti gli altri Quen erano morti, restando intorno a una stazione condannata fino a quando era stato troppo tardi… dove la Flotta aveva lasciato passare qualcosa, o dove qualcosa li aveva colpiti dall’interno. Era la stessa cosa… ma questa volta i mercantili non sarebbero rimasti ad aspettare.

Continuò a fissare lo schermo, decisa a seguire i rilevamenti fino all’ultimo, ad osservare ogni cosa finché la stazione fosse stata distrutta o loro avessero raggiunto il punto per il balzo… qualunque delle due cose avvenisse per prima.

Damon, pensò, e maledisse Mazian, Mazian più della Confederazione, perché era stato Mazian la causa di tutto.


MOLO VERDE

Per la seconda volta la gravità subì uno sbalzo. Damon si afferrò alla parete e Josh si aggrappò a lui; ma era uno squilibrio da poco, nonostante le urla di panico là fuori, al di là della porta danneggiata. Damon voltò le spalle alla parete e scrollò stancamente la testa.

Josh non fece domande. Non era necessario. Le navi si erano staccate dal resto dell’orlo. Anche da lì, si sentivano le sirene… forse c’era una falla. Era incoraggiante, il fatto che potessero sentire le sirene. C’era ancora aria, là fuori sul molo.

— Se ne vanno — disse Damon, con voce rauca. Elene se ne andava, con quelle navi: voleva crederlo. Era la soluzione più ragionevole. Elene era ragionevole, e aveva molti amici, gente che la conosceva, che era disposta ad aiutarla, mentre lui non poteva. Se ne era andata… per tornare, forse, quando tutto si fosse sistemato… ma c’era davvero questa possibilità? E lui sarebbe stato ancora vivo? Aveva seri dubbi in proposito. Forse sulla Porta dell’Infinito era tutto a posto; forse Elene era su una di quelle navi. La sua speranza era con loro. E se invece si fosse sbagliato…? Preferiva non saperlo.

La gravità cambiò di nuovo. Le grida e i colpi sulla porta erano cessati. Il grande molo non era il posto più adatto per fare i conti con i capricci della gravità. Chiunque avesse un po’ di buon senso era scappato a rifugiarsi in posti più piccoli.

— Se i mercantili se ne sono andati — disse Josh con un filo di voce, — hanno visto qualcosa… sapevano qualcosa. Credo che Mazian abbia il suo daffare.

Damon lo guardò, pensando alle navi della Confederazione, a Josh… uno di loro. — Cosa sta succedendo là fuori? Tu puoi immaginarlo?

Il viso di Josh era madido di sudore e luccicava nel chiarore che filtrava dalla porta danneggiata. Si appoggiò alla parete e alzò lo sguardo al soffitto. — Mazian è capace di fare qualunque cosa; è impossibile prevederlo. È del tutto improbabile che i confederati distruggano la stazione: dobbiamo preoccuparci solo di qualche colpo occasionale.

— Possiamo assorbirne parecchi. Potremmo perdere intere sezioni, ma finché abbiamo la forza motrice e il nucleo centrale intatto, possiamo sopportare i danni.

— Con quelli del settore Q scatenati? — chiese Josh, con voce rauca.

Un’altra variazione della gravità li investì, infierendo sul loro stomaco. Damon deglutì, lottando contro la nausea. — Finché continua così, non dovremo preoccuparci dei Q. Dobbiamo rischiare e cercare di uscire da questa trappola.

— Per andar dove? Per far che?

Damon emise un brontolio soffocato. Attese una nuova variazione della gravità; ma quando venne, era meno forte. Stavano incominciando a ristabilire l’equilibrio. Le pompe sovraffaticate avevano retto, i motori funzionavano. Damon riprese fiato. — C’è questo, di buono: non ci sono più navi che possano rifarci questo brutto scherzo. Non so per quanto ancora potremmo reggere.

— Potrebbero essere là fuori ad aspettarci — disse Josh.

Damon rifletté. Alzò la mano, premette l’interruttore. Non accadde nulla. La porta si era bloccata. Estrasse la tessera dalla tasca, esitò, l’inserì nella fenditura, e i pulsanti non si accesero. Se qualcuno, nella centrale, voleva sapere dove lui si trovasse gli aveva appena dato l’informazione necessaria. E lo sapeva.

— A quanto pare, resteremo qui — disse Josh.

Le sirene avevano smesso di ululare. Damon si avvicinò, e guardò attraverso la finestra, cercando di scorgere qualcosa tra le scalfitture opache e la diffrazione della luce. Qualcosa si mosse, in fondo ai moli: una figura furtiva, e poi un’altra. L’altoparlante proruppe in una serie di scariche, come se cercasse di funzionare, poi tacque di nuovo.


NORWAY

I mercantili della milizia erano sparsi ovunque: un vero incubo. Uno di essi esplose come un minuscolo sole, divampò sul video e si spense mentre l’audio trasmetteva una serie di scariche. La pioggia di particelle incandescenti tagliò la rotta della Norway, e alcune delle più grosse risuonarono contro lo scafo, con l’urlo della materia agonizzante.

Nessuna manovra acrobatica: diritti sul bersaglio scatenando tutta la potenza del loro sistema coordinato di attacco. Un ricognitore della Confederazione fece la stessa fine del mercantile e i quattro ricognitori della Norway sfrecciarono lungo un vettore concentrato in anticipo e vomitarono fuoco, crivellando una nave della Confederazione che per un attimo s’era trovata parallela a loro.

— La distrugga! — urlò Signy al suo ufficiale quando ebbe un attimo di incertezza; e il fuoco eruppe di nuovo al suono delle sue parole e si concentrò sul punto che la nave nemica doveva occupare. Questo obbligò i confederati a ridurre la velocità per schivare i colpi. Si levò un urlo di gioia, soffocato dalle sirene, quando il timone automatico costrinse la massa della nave ad una virata improvvisa; i computer reagivano più rapidamente di quanto potesse farlo il cervello umano… la Norway tornò indietro e si portò parallela alla preda. L’ufficiale lanciò un’altra raffica e lo schermo incominciò a mostrare un campo costellato di foschia.

— Bene! — gridò l’avvistatore attraverso il comunicatore generale. — Colpita in pieno!

Poi si udì un gemito, quando la Norway, con un mezzo giro su se stessa, cambiò di nuovo direzione. I mercantili le passarono accanto, come tante belle statuine immobili nello spazio; era la Norway a condurre la danza, lanciata in una folle corsa all’inseguimento delle navi della Confederazione, costringendole a zigzagare, e impedendo loro di trovare lo spazio necessario per accelerare.

Finta e attacco: la solita tattica… una nave per attirarli, e poi l’attacco da un altro vettore. La Tibet e la North Pole si stavano avvicinando per intercettare; s’erano mosse nel momento in cui l’immagine era apparsa sullo schermo: adesso la loro posizione era cambiata, venivano date in rapido avvicinamento, calcolando che viaggiassero alla velocità massima.

I confederati si mossero. Quell’immagine li aveva raggiunti nello stesso istante; cambiarono vettore sotto il fuoco della Norway, dell’Atlantic, dell’Australia. I confederati perdevano ricognitori, subivano danni, ma puntavano verso l’orlo del sistema, nonostante il fuoco di sbarramento, per andare incontro alla Tibet e alla North Pole. Attraverso il comunicatore risuonò una sonante imprecazione; la voce di Mazian, che prorompeva in una sfilza di oscenità. Erano rimasti dodici ricognitori dei quattordici che erano arrivati, un nugolo di navi che si allontanavano dalla stazione, dirette verso le due navi all’avanguardia, che erano sole, là fuori, ignare delle distanze.

— Colpiteli alle spalle! — esclamò la voce di Porey.

— Negativo, negativo — scattò Mazian. — Mantenete le posizioni.

Il computer li teneva ancora sincronizzati; il segnale irradiato dal comando dell’Europe li trascinava con Mazian, contro la loro volontà. Videro la flotta della Confederazione uscire dalla loro zona di tiro e dirigersi verso la Tibet e la North Pole. Dietro di loro, un lampo d’energia… scariche che si smorzarono… — Preso! — echeggiò il comunicatore. La Pacific doveva aver tolto di mezzo la nave confederata già qualche minuto prima. C’erano tante altre possibilità, nel sistema, e non avrebbero potuto prenderle tutte in considerazione. Potevano perdere Pell. Un colpo sarebbe bastato per eliminarla, se quella fosse stata la volontà della Confederazione.

Signy sollevò una mano per asciugarsi il viso, e chiamò Graff, che prese i comandi immediatamente… stavano riducendo di nuovo la velocità, manovrando di concerto con Mazian. Attraverso il comunicatore arrivarono proteste confuse. — Negativo — ripeté Mazian. A bordo della Norway si fece un gran silenzio.

— Non hanno nessuna possibilità — borbottò Graff, a voce troppo alta. — Avrebbero dovuto muoversi prima… avrebbero dovuto…

— Il senno del poi, signor Graff. Prenda le cose come vengono. — Signy si inserì sul comunicatore generale. — Non possiamo andarcene di qui. Se è una finta, potrebbe arrivare una nave a togliere di mezzo Pell. Non possiamo aiutarli… non possiamo rischiare più di quello che già stiamo per perdere. Loro hanno una possibilità… hanno ancora lo spazio per fuggire.

Forse, stava pensando, forse, nell’istante in cui li avessero inquadrati e lo schermo avesse mostrato loro dove andavano a cacciarsi… forse avrebbero virato e avrebbero tentato il balzo. Se i tecnici della Tibet e della North Pole avessero trasmesso i dati esatti, e se l’immagine sui loro schermi non avesse mostrato Mazian che accorreva in loro aiuto in coda ai confederati, e non avessero interpretato la manovra in modo errato…

La Flotta rallentò ancora. Lo schermo mostrò in dissolvenza i mercantili; il loro volo lento aveva raggiunto il limite del balzo. La vita di Pell si disperdeva negli abissi dello spazio.

Signy Mallory calcolò il fattore tempo. La velocità dei confederati, la proliferazione della loro immagine, la velocità della Tibet e della North Pole in avvicinamento. Da un momento all’altro la Tibet avrebbe dovuto capire la situazione, rendersi conto che aveva addosso i confederati. Se lo schermo diceva la verità…

Per un momento il loro schermo continuò a mostrare le immagini precedenti, poi si bloccò, e rimase stazionario, poiché il rilevatore aveva esaurito tutte le ipotesi. Movimento sincrono, una nebbiolina gialla, mentre alcune linee rosse intersecavano lo sfondo, le linee rosse che indicavano il rilevamento reale.

Più vicino. La linea rossa arrivò al punto critico… continuò. Diritta. Signy rimase a guardare, come tutti loro, del resto. Strinse i pugni e si trattenne a stento dal prendere a calci qualcosa, il quadro dei comandi, il cuscino, qualunque cosa.

E accadde; loro lo videro accadere, ciò che in realtà era già accaduto: la difesa vana, l’attacco soverchiante. Due navi. Sette ricognitori. In quaranta e più anni, la Flotta non aveva mai subito perdite in maniera così assurda.

La Tibet si lanciò… Kant proiettò la sua nave nel balzo vicino alla massa dei suoi nemici, e portò con sé nell’oblio i suoi ricognitori e una nave confederata… vi fu un vuoto improvviso sullo schermo… un’acclamazione rabbiosa; e poi di nuovo, quando la North Pole e i suoi ricognitori si avventarono in mezzo ai confederati…

Per poco non riuscirono a passare nel varco aperto da Kant. Poi l’immagine si frantumò. Il segnale del computer della North Pole, che stava incominciando a trasmettere… cessò bruscamente.

Signy non aveva gridato, s’era limitata ad annuire lentamente, ogni volta, senza rivolgersi a qualcuno in particolare, ricordando gli uomini e le donne a bordo, nomi conosciuti… disprezzando la situazione in cui erano stati cacciati. Gli schermi tornarono nitidi, adesso che i problemi erano risolti. Le immagini superstiti mostrarono le navi confederate le quali continuarono ad accelerare, compirono il balzo, sparirono dagli schermi. I confederati sarebbero ricomparsi, alla fine, con i rinforzi; dovevano solo chiamare altre navi. La Flotta aveva vinto, aveva resistito, ma adesso erano in sette: sette navi.

E sarebbe accaduto ancora e poi ancora. La Confederazione poteva sacrificare le navi. Le navi della Confederazione si aggiravano alla periferia del sistema, e loro non osavano andare alla loro caccia. Abbiamo perduto, disse silenziosamente Signy a Mazian. Lo capisci? Abbiamo perduto.

— Pell — disse la voce di Mazian, attraverso il comunicatore — è in stato di rivolta. Non sappiamo quale sia la situazione. Ci troviamo di fronte a disordini. Mantenete la formazione. Non possiamo escludere un altro attacco.

Ma all’improvviso, sui quadri della Norway, cominciarono a lampeggiare le spie luminose; un intero settore riguadagnò la sua indipendenza. La Norway era liberata dalla sincronia dei computer. Gli ordini lampeggiarono sullo schermo, inviati dal computer.

… IMPADRONIRSI DELLA BASE.

La Norway era stata liberata. E anche l’Africa. Due navi, per tornare indietro e prendere una stazione in preda ai disordini, mentre le altre restavano sul perimetro, con lo spazio per manovrare.

Signy attivò il comunicatore generale. — Di, armi e tute. Dobbiamo procurarci un attracco. Tutte le forze disponibili si tengano pronte. La squadra dell’altergiorno dovrà sorvegliare i moli. Andiamo a riprenderci i soldati che abbiamo dovuto abbandonare.

Un grido proruppe attraverso il collegamento, un brusio di voci; i militari, rabbiosi e frustrati, adesso sapevano che c’era di nuovo bisogno di loro, ed erano ansiosi di entrare in azione.

— Graff — chiamò Signy.

Accesero le luci rosse nonostante le truppe non fossero ancora pronte, virarono e puntarono diritto verso la stazione. L’Africa di Porey abbandonò la formazione e li seguì.


CENTRALE DI PELL

— Dateci accesso all’attracco — disse la voce della Mallory, attraverso il comunicatore. — E apriteci le porte della centrale, altrimenti cominceremo a rimuovere intere sezioni.

Collisione, lampeggiavano gli schermi. Pallidissimi, i tecnici rimasero ai loro posti, e Jon stringeva lo schienale della sedia, paralizzato all’idea delle navi che si stavano avventando verso Pell.

— Signore! — urlò qualcuno.

L’immagine era eloquente: masse enormi che riempivano tutto lo schermo, mostri che venivano verso di loro, una muraglia di tenebra che alla fine si squarciò, uscendo dal raggio delle telecamere sulla parte superiore e quella inferiore della stazione. Dai quadri uscivano scariche incessanti, e le sirene ululavano, mentre le navi erano ormai vicinissime. Uno schermo si spense, e risuonò l’allarme che segnalava un’avaria: pericolo di depressurizzazione.

Jon si girò di scatto, cercò Jessad che poco prima si trovava accanto alla porta. C’era soltanto Kressich, che ascoltava a bocca aperta il suono lamentoso delle sirene.

— Stiamo aspettando una risposta — disse una voce più profonda, attraverso il comunicatore.

Jessad era sparito. Jessad, o qualcun altro, aveva fallito a Mariner, e la stazione era distrutta. — Mi trovi Jessad! — gridò Jon a uno degli uomini di Hale. — Lo cerchi! Lo porti qui!

— Si stanno avvicinando di nuovo! — gridò un tecnico.

Jon si voltò di scatto, fissò gli schermi; cercò di parlare e gesticolò all’impazzata. — Collegamento del comunicatore! — gridò, e il tecnico gli passò un microfono. Jon deglutì, fissando i colossi che si avvicinavano sul video. — Accesso accordato — gridò nel microfono, cercando di dominare la voce: — Ripeto: qui è il dirigente della stazione di Pell, Lukas. Accesso accordato.

— Lo dica ancora. — Era di nuovo la voce della Mallory. — Lei chi è?

— Jon Lukas, facente funzioni di dirigente della stazione. Angelo Konstantin è morto. Per favore, aiutateci.

Silenzio. Le immagini cambiarono; le grandi navi abbandonarono la rotta di collisione e rallentarono in modo percettibile.

— Per primi attraccheranno i nostri ricognitori — annunciò la voce della Mallory. — Ricevuto, stazione di Pell? I ricognitori attraccheranno per primi, e il personale fungerà da squadre d’attracco per le navi. Limitatevi a fornire assistenza all’arrivo e poi toglietevi di torno, o spareranno. Per ogni ostacolo che incontreremo, ci metteremo a sparare.

— Ci sono disordini, nella stazione — disse Jon, in tono implorante. — Il settore Q ha rotto l’isolamento.

— Ha ricevuto le mie istruzioni, signor Lukas?

— Pell riceve chiaramente. Ha capito il nostro problema? Non possiamo garantire che non ci saranno guai. Alcuni dei nostri moli sono bloccati. Accettiamo l’assistenza delle vostre truppe. Siamo devastati dai disordini. Potete contare sulla nostra collaborazione.

Vi fu una lunga esitazione. Altri punti luminosi erano apparsi sullo schermo, i ricognitori che accompagnavano le navi. — Ricevuto — disse la Mallory. — Scenderemo con le truppe. Fate attraccare il mio ricognitore numero uno, altrimenti ci apriremo un passaggio con gli esplosivi e faremo saltare una stazione dopo l’altra, senza lasciare superstiti. Potete scegliere.

— Ricevuto. — Jon si asciugò il volto. Le sirene tacevano. C’era un silenzio di tomba nel centro di comando. — Mi dia il tempo di radunare le forze della sicurezza necessarie per i moli. Passo.

— Le do mezz’ora, signor Lukas.

Jon si voltò, e chiamò con un cenno una delle sue guardie della sicurezza, accanto alla porta. — Qui Pell. Ricevuto. Mezz’ora. Vi sgombreremo un molo.

— Azzurro e verde, signor Lukas. Provveda.

— I moli verde e azzurro — ripeté lui, rauco. — Faremo del nostro meglio.

La Mallory tolse la comunicazione. Jon andò ad attivare il centro comunicazioni principale. — Hale — esclamò. — Hale.

Apparve la faccia di Hale.

— Annuncio generale. Tutte le forze di sicurezza ai moli. Sgombrare i moli verde e azzurro.

— Ricevuto — disse Hale, e tolse la comunicazione.

Jon attraversò la sala, e raggiunse la soglia, dove Kressich stava ancora in attesa. — Torni al comunicatore. Dica alla sua gente che si calmi, se è vero che può controllarla. Chiaro?

Kressich annuì. Nei suoi occhi c’era un misto di follia e di disperazione. Jon l’afferrò per il braccio e lo trascinò al quadro del comunicatore, mentre il tecnico si affrettava a scostarsi. Lo fece sedere, gli passò il microfono, e restò in ascolto mentre Kressich chiamava i suoi luogotenenti e ordinava di sgombrare i due moli. Il panico perdurava nei corridoi dove c’erano ancora le telecamere in funzione. Il verde nove mostrava una folla inquieta e del fumo; e qualunque settore avessero liberato, la gente in preda al panico vi si sarebbe precipitata come l’aria nel vuoto.

— Allarme generale — disse Jon al responsabile della stazione uno. — Dia il segnale di gravità zero.

La donna si voltò, aprì lo sportello di sicurezza, e premette il pulsante. Si udì un segnale acustico, diverso e più allarmante di tutti gli altri avvertimenti che erano risuonati nei corridoi di Pell. — Cercate un posto sicuro — diceva una voce, interrompendo a intervalli quel ronzio. — Evitate le aree di vaste dimensioni. Entrate nel compartimento più vicino e afferratevi alle maniglie. Se dovesse verificarsi una perdita estrema di gravità, ricordate le frecce d’orientamento e osservatele mentre la stazione si stabilizza… Cercate un posto sicuro…

Nei corridoi, il panico lasciò il posto a una fuga frenetica; la gente premeva contro le porte, urlando.

— Tolga la gravità — disse Jon al coordinatore operativo. — Ci dia una variazione che loro possano sentire, là fuori.

Gli ordini partirono. La stazione si destabilizzò per la terza volta. Il corridoio verde nove cominciò a vuotarsi, via via che la gente fuggiva in cerca di spazi più ristretti. Jon chiamò di nuovo Hale. — Mandi qualcuno là fuori. Faccia sgombrare quei moli; una possibilità ve l’ho data, accidenti a voi.

— Sì, signore — disse Hale, e tolse di nuovo la comunicazione. Jon si voltò, guardando angosciato i tecnici e Lee Quale, che stava aggrappato a una maniglia presso la porta. Fece un segnale a Quale, e quando quello si avvicinò, l’afferrò per la manica e lo tirò più vicino. — Quel problema rimasto in sospeso — disse. — Giù al molo verde. Scenda e veda di risolverlo, capito? Definitivamente!

— Sì, signore. — Quale sospirò e corse via: aveva abbastanza buon senso, sicuramente, per capire che ne andava della loro vita.

Forse avrebbe vinto la Confederazione. Fino a quel momento, avrebbero rivendicato la neutralità della stazione. Jon camminò avanti e indietro lungo la corsia, afferrandosi ai sedili e ai banchi quando la variazione di gravità si accentuava, cercando di evitare che l’intero centro si abbandonasse al panico. Lui aveva Pell. Aveva già quello che la Confederazione gli aveva promesso, e l’avrebbe avuto sotto Mazian e sotto la Confederazione, se fosse stato prudente; e lo era stato, molto più di quanto Jessad gli avesse ordinato d’essere. Non c’era rimasto un solo testimone vivo negli uffici di Angelo, e nell’Ufficio Legale, anche se lì l’incursione era fallita. Soltanto Alicia… che non sapeva nulla, che non dava fastidio a nessuno, che non aveva autorità, e i suoi figli…

Il pericolo era Damon. Damon e sua moglie. Non poteva mettere le mani sulla Quen… ma se Damon avesse incominciato a lanciare accuse…

Girò la testa e si guardò indietro, e all’improvviso si accorse che Kressich non c’era più, Kressich e gli altri due che avrebbero dovuto sorvegliarlo. La diserzione dei suoi uomini lo fece infuriare; quella di Kressich… era un sollievo. Kressich sarebbe sparito di nuovo tra le orde di Q, spaventato e irraggiungibile.

Soltanto Jessad… se non l’avevano ucciso, se era libero, vicino a qualche ganglio vitale…

Sullo schermo i ricognitori si stavano avvicinando. Pell aveva ancora un po’ di tempo, prima che arrivassero le truppe di Mazian. Un tecnico gli porse l’identificazione delle navi che attendevano là fuori: la Mallory e Porey, i due giustizieri di Mazian. Avevano una bella reputazione: una era spietata, l’altro crudele. L’altro era Porey. Non era una buona notizia.

Nell’attesa, cominciò a sudare.


MOLO VERDE

Fuori stava succedendo qualcosa. Damon camminò sul pavimento cosparso di detriti nell’oscurità del negozio e cercò ancora una volta di guardare attraverso la finestra sventrata. Sussultò nel vedere la rossa fiammata di uno sparo. C’erano grida, mescolate allo stridore di macchinari in funzione.

— Chiunque ci sia, là fuori, stanno venendo da questa parte e hanno fucili, — Damon si allontanò dalla porta, muovendosi cautamente nella gravità ridotta. Josh si chinò, raccattò un’asta metallica che aveva fatto parte d’una vetrina sfondata, l’offrì a Damon, e ne prese un’altra per sé. Damon si piazzò accanto alla porta, e Josh andò dalla parte opposta, con la schiena contro la parete. Non c’erano suoni, fuori, vicino a loro; si sentiva gridare in lontananza. Damon si arrischiò a dare un’occhiata, e si ritrasse di scatto quando scorse alcune ombre accanto alla finestra.

La porta si spalancò, aperta dall’esterno con una tessera; qualcuno che aveva la priorità. Due uomini si precipitarono all’interno, con le armi spianate. Damon calò l’asta d’acciaio su di una testa, con gli occhi appannati per l’orrore, e Josh colpì dall’altra parte. Gli uomini caddero in modo strano nella gravità ridotta, e una pistola scivolò via. Josh la raccolse, sparò due volte per essere sicuro, e uno dei due uomini sussultò e rimase stecchito. — Prendi la pistola — sibilò Josh, e Damon si chinò, spinse il corpo, e trovò il calcio della pistola in una mano inerte. Josh, in ginocchio, girò l’altro cadavere e cominciò a spogliarlo. — Abiti — disse. — Tessere che funzionano.

Damon posò la pistola, e cercando di vincere la ripugnanza, spogliò il corpo inerte, si tolse gli abiti e indossò la tuta insanguinata… dovevano esserci molti uomini macchiati di sangue, nei corridoi. Frugò le tasche, e trovò i documenti, mentre la tessera era sul pavimento, dove l’uomo l’aveva lasciata cadere. Esaminò sotto la luce il documento d’identità. Lee Anton Quale… Società Lukas…

Quale. Quale, che aveva partecipato all’ammutinamento sulla Porta dell’Infinito… e alle dipendenze di Jon Lukas; al soldo di Jon, e Jon aveva il controllo del computer… quando Q aveva trovato le porte aperte, quando i Konstantin erano stati assassinati nel settore a maggior sicurezza di Pell… quando la sua tessera aveva smesso di funzionare… e poi gli assassini sapevano dove trovarlo… c’era Jon Lukas, lassù.

Una mano gli strinse la spalla. — Vieni, Damon.

Damon si alzò, e rabbrividì nel vedere che Josh usava la pistola per bruciare la faccia di Quale e renderla irriconoscibile. Fece lo stesso con l’altro. Vide che il viso di Josh era madido di sudore nella luce che filtrava dalla porta, irrigidito per l’orrore; ma la reazione era esatta. Era un uomo i cui istinti sapevano quel che bisognava fare. Josh si avviò verso il molo e Damon corse con lui, in piena luce, e subito rallentò, perché i moli erano virtualmente spogli. La paratia del molo bianco era chiusa; quella del molo verde era nascosta dall’orizzonte. Cautamente, passarono davanti all’enorme paratia del molo bianco, si infilarono tra le scalette dall’altro lato, e proseguirono al coperto, mentre l’orizzonte si abbassava gradualmente rivelando un gruppo di uomini al lavoro con i macchinari d’attracco. Si muovevano lentamente, guardinghi, nella gravità ridotta. C’erano cadaveri, documenti e rottami sparpagliati sui moli, in un’area allo scoperto che sarebbe stato difficile raggiungere senza farsi scorgere. — Lì ci sono abbastanza documenti per prendere tutti i nomi che vogliamo — disse Josh.

— Per tutte le serrature che non siano regolate sulla voce — mormorò Damon. Tenne d’occhio gli uomini che lavoravano e quelli che montavano di guardia all’ingresso di verde nove, visibile a quella distanza. Poi si accostò cautamente al cadavere più vicino, augurandosi che fosse davvero un cadavere, e non qualcuno che era solo stordito o un simulatore. S’inginocchiò, continuando a guardare gli operai, frugò le tasche e trovò una tessera e altre carte. Le intascò e passò a un altro cadavere, mentre Josh faceva altrettanto. Poi il nervosismo lo costrinse a tornare indietro al riparo, e Josh lo raggiunse subito. Proseguirono lungo il molo.

— Il passaggio dell’azzurro è aperto — disse, scorgendo l’arco all’orizzonte. Per un momento sperò di potersi nascondere, di arrivare nel settore azzurro, quando il traffico nei corridoi fosse ritornato normale, e di salire all’azzurro uno per fare qualche domanda con la pistola in pugno. Ma era una fantasia. Non sarebbero vissuti tanto a lungo. Non ci contava.

— Damon.

Damon guardò nella direzione che Josh gli indicava, tra le scalette e le passerelle, il primo attracco del molo verde. Una nave si stava avvicinando, ma era impossibile sapere se era di Mazian o della Confederazione. Il comunicatore tuonò istruzioni nel vuoto. La nave stava per attraccare. — Vieni — gli sussurrò Josh, tirandolo per un braccio, e insistendo per trascinarlo in verde nove.

— La gravità non viene a mancare — mormorò, resistendo. — Non capisci che è un trucco? La centrale ha fatto sgomberare i corridoi per mandare le sue forze. Quelle navi non attraccheranno con la gravità completamente instabile; è un rischio che non possono correre. Soltanto qualche sbalzo per far cessare i disordini. E non resteranno deserti, quei corridoi. Se andiamo, ci troveremo presi in mezzo. No. Resta qui.

— ECS501 — disse una voce attraverso l’altoparlante, e Damon sospirò di sollievo.

— Uno dei ricognitori della Mallory — mormorò Josh, al suo fianco. — La Mallory. I confederati si ritirano.

Damon guardò Josh: l’odio ardeva in quel viso scarno e angelico… una speranza cancellata.

Passarono i minuti. La nave attraccò. La squadra corse a fissare i cavi. L’accesso si chiuse con un sibilo che echeggiò a distanza. I macchinari ronzavano. La camera di compensazione entrò in funzione, e la squadra del molo corse via.

Alcuni uomini uscirono dalla periferia buia delle scalette, senza corazze… Due corsero dalla parte opposta, e si piazzarono con i fucili spianati. Si sentirono altri passi affrettati, e il comunicatore si fece sentire di nuovo, per annunciare che stava per attraccare la Norway.

— Tieni giù la testa — sibilò Josh, e Damon si mosse lentamente, inginocchiandosi accanto a uno dei serbatoi mobili, e cercando di vedere cosa stava accadendo più lontano, ma c’era un groviglio di cavi che bloccava la visuale. La Mallory aveva mandato i suoi uomini a provvedere alle operazioni. Ma Jon Lukas doveva essere ancora al comando, su nella centrale, a collaborare con Mazian. Nell’imminenza di un attacco della Confederazione, Mazian avrebbe preferito l’efficienza alla giustizia. E se fosse uscito, avvicinandosi alle truppe armate e innervosite dall’Anonima, e avesse formulato un’accusa di omicidio e di cospirazione mentre Jon Lukas teneva la centrale e la stazione, e Mazian pensava alla Confederazione?

— Potrei uscire — disse, incerto delle proprie conclusioni.

— Ti divorerebbero vivo — disse Josh. — Tu non hai niente da offrirgli.

Damon scrutò il viso di Josh. Non era rimasto nulla, dell’uomo mite che era uscito dall’Adattamento, tranne forse la sofferenza. Se l’avessero messo davanti a un banco del computer, aveva detto Josh una volta, forse avrebbe ricordato; ma bastava spingerlo in una situazione di guerra, e rivelava subito altri istinti. Stringeva con le mani scarne la pistola tra le ginocchia, e teneva gli occhi fissi sull’arco del molo, dove la Norway stava per attraccare. Odio. Il suo viso era pallido e intenso. Sarebbe stato capace di fare qualunque cosa. Damon strinse a sua volta la pistola, e portò l’indice sul grilletto. Un confederato… il cui Adattamento si andava cancellando; odiava, e poteva crollare a pezzi. Era un giorno adatto per uccidere, quello, quando là fuori i morti erano troppi per poterli contare, quando non restavano più leggi, né legami di parentela, né amicizia. La guerra aveva raggiunto Pell, e lui era vissuto sempre nell’ingenuità. Josh era pericoloso… era stato addestrato per essere pericoloso, e quello che avevano fatto alla sua mente non era bastato per cambiarlo.

Il comunicatore annunciò l’atterraggio. Si udì il boato dell’avvenuto contatto. Josh deglutì visibilmente, gli occhi fissi davanti a sé. Damon allungò la mano sinistra, e gli afferrò il braccio. — No. Non fare niente, capito? Non puoi raggiungerla.

— Non ne ho l’intenzione — disse Josh, senza guardarlo. — È questione di buon senso.

Damon lasciò andare la pistola, scostando lentamente l’indice dal grilletto. Aveva in bocca un sapore amaro. La Norway era saldamente agganciata; vi fu un secondo schianto, e poi un sibilo, che segnalava il definitivo attracco.

Le truppe uscirono sul ponte, e si misero in formazione, in un susseguirsi di ordini perentori, pronte a dare il cambio agli uomini armati di fucile. I nuovi arrivati, protetti da robuste corazze, avevano volti anonimi e spietati. E all’improvviso apparve un’altra figura, in alto sulla curva. Un ordine secco, e altre truppe uscirono dai negozi e dagli uffici lungo quel tratto della sezione, dai bar e dai dormitori: erano i militari rimasti a Pell, e che ora si riunivano ai loro camerati della Flotta, portando con sé morti e feriti. Un’improvvisa agitazione serpeggiò fra le truppe bene allineate, e vi furono abbracci e grida di gioia. Damon si avvicinò ancora di più ai macchinari che gli servivano da riparo, e Josh si acquattò dietro di lui.

Un ufficiale lanciò un ordine e le truppe cominciarono a dirigersi verso l’entrata di verde nove, e mentre alcuni si piazzavano in posizione strategica con i fucili spianati, altri continuarono ad avanzare.

Damon indietreggiò nell’ombra, e Josh lo imitò. Udirono delle grida e il gracchiare di un altoparlante: Sgombrate il corridoio. All’improvviso, seguirono urla e spari. Damon appoggiò la testa contro la struttura metallica e rimase in ascolto, ad occhi chiusi, e un paio di volte udì Josh sobbalzare a quei suoni ormai familiari. Damon ebbe l’impressione che anche il suo corpo reagisse a quel modo.

La stazione sta agonizzando, pensò con calma, esausto, e gli vennero le lacrime agli occhi. Rabbrividì. Qualunque fosse la loro versione, Mazian non aveva vinto; era impossibile che le navi dell’Anonima, inferiori di numero, avessero veramente sconfitto i confederati. Era stata solo una scaramuccia, e ogni decisione era rinviata. Ve ne sarebbero state altre, fino a quando non ci sarebbe stata più nessuna Flotta, e neppure l’Anonima, e ciò che restava di Pell sarebbe finito in altre mani. Il balzo nell’iperspazio aveva reso superflue le grandi stazioni stellari. Adesso c’erano i pianeti, e le priorità erano cambiate. I militari l’avevano capito. Solo i Konstantin non avevano compreso la situazione. Suo padre aveva seguito una strada che non era quella dell’Anonima o della Confederazione, ma quella di Pell… che aveva preso sotto la sua protezione il mondo intorno al quale orbitava, che disdegnava di prendere precauzioni, che preferiva la fiducia alla sicurezza, che cercava di mentire a se stessa, e di credere che i valori di Pell potessero sopravvivere in tempi simili.

C’erano quelli capaci di passare indifferentemente da una parte all’altra, di adeguarsi a qualunque politica. Jon Lukas era uno di loro, e si era comportato esattamente in quel modo. Se Mazian sapeva giudicare gli uomini, avrebbe sicuramente compreso chi era Jon Lukas, e l’avrebbe trattato come meritava. Ma Mazian non aveva bisogno di uomini onesti, ma soltanto di uomini che gli obbedissero e imponessero la sua legge.

E Jon sarebbe sopravvissuto, da una parte o dall’altra. Era l’ostinazione di sua madre, il rifiuto di morire; forse anche la sua, che non cercava di avvicinarsi a suo zio, qualunque cosa avesse fatto. Forse adesso Pell aveva bisogno di un governatore capace di cambiare schieramento e di sopravvivere, piegandosi al compromesso.

Ma lui non poteva farlo. Se avesse avuto di fronte Jon in quel momento… odio… un odio così profondo era un’esperienza nuova. Un odio impotente… come quello di Josh… ma avrebbe potuto vendicarsi, se fosse riuscito a sopravvivere. Non per danneggiare Pell. Ma per turbare il sonno di Jon Lukas. Finché c’era in libertà un Konstantin, chiunque avesse il controllo di Pell doveva sentirsi meno sicuro. Mazian, la Confederazione, Jon Lukas… nessuno di loro avrebbe avuto Pell, se prima non avesse liquidato lui; e lui avrebbe cercato di rendere quel compito molto difficile, finché era possibile.

CAPITOLO TERZO

PORTA DELL’INFINITO, BASE PRINCIPALE; ore 1300; NOTTE LOCALE

La risposta non arrivava ancora. Emilio strinse la mano di Miliko e continuò a restare chino su Ernst, al comunicatore, mentre gli altri si stringevano intorno a loro. Non una parola dalla stazione; non una parola dalla Flotta; Porey e tutti i suoi erano partiti precipitosamente in un silenzio che continuava a durare.

— Lasci stare — disse a Ernst, e quando si levò un mormorio tra il personale, aggiunse: — Non sappiamo neppure chi comandi, lassù. Niente panico, chiaro? Non voglio sciocchezze. Se intendete restare intorno alla base principale e aspettare che i confederati sbarchino, benissimo. Non ho nulla da obiettare. Ma non lo sappiamo. Se Mazian viene sconfitto, è capace di distruggere questa base, capite? Pe renderla inservibile. Restate pure qui, se volete. Io ho altre idee.

— Non possiamo allontanarci abbastanza — disse una donna. — Non possiamo vivere, là fuori.

— Non abbiamo molte probabilità neppure qui — disse Miliko.

Il mormorio assunse toni di panico.

— Ascoltatemi — disse Emilio. — Ascoltatemi. Non credo che per loro sia tanto facile atterrare nella boscaglia, a meno che dispongano di un equipaggiamento che non riesco neppure a immaginare. E forse cercheranno di far saltare questa base; ma forse lo farebbero comunque, e io preferirei mettermi al riparo. Io e Miliko andiamo giù, lungo la strada. Non intendiamo lavorare per la Confederazione, se è così che finirà. E neppure restare qui a vedercela con Porey quando tornerà.

Questa volta il mormorio era più sommesso, una sensazione di pausa più che di panico. — Signore — disse Jim Ernst — vuole che resti qui al comunicatore?

— Vuole restarci?

— No — disse Ernst.

Emilio annuì lentamente, e si guardò intorno. — Possiamo prendere i compressori portatili, la cupola da campo… sistemarci in qualche posto sicuro. Possiamo sopravvivere là fuori. Le nostre nuove basi ce lo permettono. Possiamo farcela.

Molti annuirono, storditi. Era troppo difficile capire cosa avrebbero dovuto affrontare. Lui stesso non lo capiva, e se ne rendeva conto.

— Avvertite gli altri lungo la strada — disse. — Si preparino a partire, o restino, come preferiscono. Non costringo nessuno ad avventurarsi nella boscaglia, se crede di non farcela. A una cosa abbiamo già provveduto: la Confederazione non metterà le mani sugli indigeni. Quindi adesso assicuriamoci che non metta le mani su di noi. Prendiamo i viveri dalle scorte d’emergenza che non abbiamo segnalato a Porey, il comunicatore portatile, e le unità essenziali delle macchine che non possiamo portare con noi… e seguiamo la strada, addentrandoci in mezzo agli alberi con i camion fin dove potremo arrivare. Poi nasconderemo il materiale più pesante, e lo trasporteremo pezzo per pezzo alla nuova base. Potrebbero far saltare la strada e i camion, ma ogni altra soluzione richiederà tempo. Se qualcuno vuol restare qui a lavorare per la nuova gestione… o per Porey, nell’eventualità che ricompaia, lo faccia pure. Non posso oppormi e voglio neppure tentare.

Era quasi sceso il silenzio. Poi qualcuno uscì dal gruppo e cominciò a raccogliere i suoi effetti personali, e altri l’imitarono. Il cuore di Emilio batteva forte. Spinse Miliko verso il loro alloggio, per prendere le poche cose che potevano portare via. Poteva finire in un altro modo. Gli altri potevano mettersi d’accordo, consegnare lui e Miliko ai nuovi padroni, cercando in tal modo di ingraziarsi gli avversari. Avrebbero potuto farlo. Erano abbastanza numerosi… quelli di Q, e gli operai là fuori…

Dei suoi familiari… neppure una parola. Suo padre gli avrebbe mandato un messaggio, se avesse potuto. Se avesse potuto.

— Affrettati — disse a Miliko. — La notizia si sta già spargendo. — Infilò in tasca una delle poche pistole della base, mentre indossava la giacca più pesante; raccolse uno scatolone di bombole per i respiratori, prese una borraccia e l’ascia a manico corto. Miliko prese il coltello e un paio di coperte arrotolate, e uscirono di nuovo, nella confusione della gente intenta a fare i bagagli in mezzo al pavimento. Passarono in mezzo. — Spenga la pompa — disse Emilio a un operaio. — Tolga il connettore. — Diede altre istruzioni, e gli uomini e le donne che lo attorniavano si mossero, alcuni diretti verso i camion, altri per andare a compiere atti di sabotaggio. — Sbrigatevi — gridò Emilio. — Si parte fra quindici minuti.

— I Q — disse Miliko. — Cosa facciamo con loro?

— Saranno anche loro liberi di scegliere. Come pure gli operai regolari, se ancora non lo sanno. — Attraversarono la prima porta della camera di compensazione, poi la seconda e salirono i gradini di legno, verso il caos notturno, dove la gente si muoveva con tutta la rapidità consentita dall’aria rarefatta. Si sentì il rumore di un cingolato che si avviava. — Sii prudente! — gridò Emilio a Miliko, quando le loro strade si separarono. Scese il sentiero sassoso e risalì il dosso della collina dei Q, dove la cupola irregolare e rabberciata lasciava filtrare una fioca luce gialla. I Q erano all’esterno, già pronti, e sembrava che quella notte non avessero dormito più degli altri.

— Konstantin — gridò uno di loro, avvertendo gli altri, e l’annuncio si diffuse nella cupola in un baleno. Emilio continuò a camminare, e andò in mezzo a loro, con il cuore in gola. — Avanti, uscite tutti — gridò, e quelli cominciarono a muoversi, bisbigliando, allacciandosi le giacche e assestandosi le maschere. Dopo un momento, la cupola cominciò ad afflosciarsi, e dalla camera di compensazione uscì un soffio d’aria calda, insieme a una fiumana di persone che circondò Emilio. Erano silenziosi; un bisbiglio, niente di più. E quel silenzio non lo tranquillizzava. — Ce ne andiamo — disse Emilio. — Non abbiamo avuto notizie dalla stazione ed è possibile che ormai sia nelle mani dei confederati; non lo sappiamo. — A questo punto ci furono grida d’angoscia; altri cercarono di zittirli. — Non lo sappiamo, vi ripeto. Siamo più fortunati della stazione. Abbiamo un mondo sotto i nostri piedi, e viveri. E se saremo prudenti… anche aria da respirare. Quelli di noi che hanno vissuto qui a lungo sanno come fare… anche all’aperto. Potete scegliere, come noi. Restare qui e lavorare per la Confederazione, oppure venire con noi. Non sarà facile, là fuori, e non lo consiglierei agli anziani e ai più giovani, ma non sono certo che qui sarete al sicuro. Là fuori una possibilità l’avremo: penseranno che non valga la pena di venirci a cercare. È tutto. Non abbiamo sabotato nessuno dei macchinari che vi serviranno per vivere. La base è vostra, se volete; ma potete venire con noi. Noi andiamo… non deve interessarvi dove, a meno che non vogliate unirvi a noi. E se verrete, sarà su un piede di parità. Subito. Immediatamente.

Cadde un profondo silenzio. Emilio era terrorizzato. Era stata una pazzia venire da solo in mezzo a loro. Tutto il campo non sarebbe bastato a trattenerli, se avessero ceduto al panico.

Qualcuno, in fondo al gruppo, aprì la porta della cupola, e all’improvviso vi fu un brusio di voci, gente che tornava all’interno; alcuni gridavano che avrebbero avuto bisogno di coperte, che avrebbero avuto bisogno di tutte le bombole, e una donna gemeva temendo di non farcela a camminare. Emilio restò immobile mentre tutti i Q rientravano nella cupola; si voltò a guardare le altre cupole, dalle quali uomini e donne stavano affluendo in gran fretta, portando coperte e altri oggetti, una fiumana che scendeva nell’infossatura fra le colline, dove i motori ronzavano e i fari si erano accesi. I camion erano pronti. Emilio scese, a passo sempre più svelto, addentrandosi nel caos intorno ai veicoli. Stavano caricando la cupola da campo e fogli di plastica; uno dei suoi dipendenti gli mostrò un elenco, come se stessero partendo per andare a consegnare provviste. Alcuni cercavano di caricare sui camion i bagagli personali, e discutevano con gli autisti, mentre stavano arrivando i Q, e alcuni di loro portavano più di quanto avrebbero dovuto.

— I camion sono per il materiale indispensabile — gridò Emilio. — Tutti quelli che sono sicuri di farcela, andranno a piedi; i vecchi e i malati potranno salire insieme ai bagagli, e se resta spazio, potete mettere gli oggetti più pesanti… ma dovrete dividervi i carichi, chiaro? Nessuno deve viaggiare a mani vuote. Chi non è in grado di camminare?

Alcuni dei Q che erano sopraggiunti gridarono e spinsero avanti alcuni dei bambini più fragili, e alcuni dei più vecchi. Segnalarono che ne stavano arrivando altri; e le voci avevano toni di panico.

— Calma! Li caricheremo tutti. Noi viaggeremo veloci. Un chilometro più avanti comincia la foresta, e non è probabile che le truppe corazzate ci inseguano là dentro.

Miliko lo raggiunse. Emilio sentì la mano sul braccio e la strinse a sé. Era un po’ stordito: un uomo aveva il diritto di esserlo, quando il suo mondo crollava. Erano prigionieri, lassù sulla stazione. O morti. Cominciò a pensare a quella possibilità, con uno sforzo. Era scosso dalla nausea e da una collera che cercava di scacciare dai suoi pensieri. Aveva voglia di prendersela con qualcuno… e non c’era nessuno a portata di mano.

Caricarono l’unità del comunicatore. Ernst la fece sistemare sul pianale del camion; con le batterie d’emergenza e il generatore portatile avrebbero avuto modo di ricevere notizie… se fossero arrivate.

Infine, caricarono le persone, e c’era ancora spazio per i sacchi a pelo e le coperte, una specie di nido protettivo. I movimenti erano rapidi e frenetici, ma c’era meno panico; mancavano ancora due ore all’alba. Le luci erano accese, grazie alle batterie, e le cupole brillavano ancora. Ma mancava un suono, nel chiasso dei motori. I compressori tacevano. La pulsazione non si sentiva più.

— Avanti — gridò Emilio, quando gli sembrò che ci fosse finalmente un po’ d’ordine, e i veicoli cominciarono ad avviarsi lentamente lungo la strada.

Gli altri si accodarono ai veicoli, una lunga colonna sulla strada che correva parallela al fiume. Passarono oltre il mulino ed entrarono nella foresta, dove gli alberi e le colline si stringevano sulla destra, avvolti nell’oscurità. Quella marcia dava una sensazione d’irrealtà: i fari dei camion che brillavano sulle canne e sull’erba fitta, sui fianchi delle colline e sui tronchi degli alberi, le sagome degli umani in movimento, i sibili e gli schiocchi dei respiratori e il rombo dei motori. Nessuno si lamentava, e questa era la cosa più strana, nessuna obiezione, come se tutti fossero preda di una curiosa forma di pazzia. Avevano provato cosa significava l’autorità di Mazian.

Un fruscio nell’erba lungo la strada, una linea serpeggiante tra le canne. Le foglie si agitavano tra i cespugli, dalla parte delle colline. Miliko indicò uno di quei movimenti; e anche altri l’avevano notato, e mormoravano per l’apprensione.

Emilio si sentì sollevato. Strinse la mano di Miliko, la lasciò e si addentrò fra l’erba, nel fitto degli alberi, mentre i camion e la colonna proseguivano. — Hisa! — chiamò a voce alta. — Hisa, sono Emilio Konstantin! Ci vedete?

Gli hisa apparvero, avanzando timidamente nella luce. Erano pochi. Uno tese le mani, ed Emilio lo imitò. L’indigeno lo abbracciò energicamente. — Ti voglio bene — disse il giovane maschio. — Tu vai camminare, Konstantin-uomo?

— Freccia? Sei Freccia?

— Io Freccia, Konstantin-uomo. — Il volto nell’ombra si levò verso di lui, e la luce dei camion che si erano fermati illuminò il suo sogghigno. — Io corro, corro, corro, torno ancora indietro guardare voi. Tutti noi occhi per voi, fare voi sicuri.

— Ti voglio bene, Freccia, ti voglio bene.

L’hisa si dondolò soddisfatto; era quasi una danza. — Voi andate camminare?

— Stiamo fuggendo. Ci sono guai sul mondo di Lassù, Freccia, uomini-con-fucili. Forse verranno sulla Porta dell’Infinito. Fuggiamo come gli hisa, e ci sono vecchi, e bambini, e alcuni di noi non sono molto resistenti, Freccia. Cerchiamo un posto sicuro.

Freccia si voltò verso i suoi compagni, gridò qualcosa che venne ripetuto da varie voci, a toni alti e bassi, tra gli alberi e i rami. E la mano robusta di Freccia strinse quella di Emilio; l’hisa cominciò a ricondurlo verso la strada, dove la colonna si era fermata, e quelli che stavano alla retroguardia si avvicinavano per vedere cosa succedeva.

— Signor Konstantin — chiamò uno dei suoi collaboratori, dal sedile di un camion, in tono innervosito — è d’accordo che vengano con noi?

— Sì, sono d’accordo — disse Emilio. Poi, agli altri: — È una vera fortuna. Gli hisa sono tornati. Gli indigeni sanno chi è il benvenuto sulla Porta dell’Infinito e chi non lo è. Ci hanno osservati per tutto questo tempo. Voi! — disse, alzando la voce per rivolgersi ai gruppi più indietro, che non riusciva a vedere. — Sono tornati per noi, capite? Gli hisa conoscono tutti i posti dove possiamo rifugiarci, e sono disposti ad aiutarci, capite?

Vi fu un mormorio preoccupato.

— Nessun indigeno ha mai fatto male a un umano — gridò Emilio nel buio, tra il rombo costante dei motori. Strinse con maggiore fermezza la mano di Freccia, si avviò in mezzo agli altri, e Miliko lo prese sottobraccio. I camion si avviarono di nuovo, proseguendo lentamente. Gli hisa cominciarono a unirsi alla colonna, camminando tra l’erba a fianco della strada. Alcuni umani cercavano di evitarli. Altri tolleravano il tocco timido di una mano protesa… persino alcuni dei Q, seguendo l’esempio dei veterani che ormai si erano abituati.

— Sono buoni — gridò uno degli operai ai suoi compagni. — Lasciate che vadano dove vogliono.

— Freccia — disse Emilio, — abbiamo bisogno di un posto sicuro… dobbiamo trovare tutti gli umani degli altri campi e portarli in molti posti sicuri.

— Tu bisogno posto sicuro, bisogno aiuto; vieni, vieni.

La mano piccola e robusta non si staccò dalla sua, come se fossero padre e figlio; ma nonostante tutto era vero il contrario… adesso gli umani erano come bambini, avviati lungo una strada umana e conosciuta verso un luogo umano e conosciuto, ma non sarebbero tornati; forse, ammise Emilio, non sarebbero tornati mai più.

— Venite noi posto — disse Freccia. — Voi fate noi sicuri; noi sogniamo uomini cattivi via e loro vanno; e voi venite adesso, noi andiamo sognare. No sogni hisa, no sogni umani; sogni insieme. Venite posto sogno.

Emilio non capiva. C’erano luoghi oltre i quali gli umani non si erano spinti insieme agli hisa. Luoghi-del-sogno… era già un sogno, quella fuga mista di umani e di hisa, nell’oscurità, nel sovvertimento di tutto ciò che era stata la Porta dell’Infinito.

Loro avevano salvato gli indigeni; e nei lunghi anni del dominio della Confederazione, quando sarebbero venuti umani che non si curavano degli hisa… tra gli hisa vi sarebbero stati umani che potevano metterli in guardia e proteggerli. Restava ancora questo da fare.

— Un giorno verranno — disse a Miliko, — e vorranno abbattere gli alberi e costruire fabbriche e imbrigliare il fiume e tutto quanto. È così, no? Se li lasceremo fare. — Strinse la mano di Freccia, e guardò il viso teso della moglie. — Andiamo ad avvertire gli altri campi. Vogliamo portare tutti gli umani nella foresta insieme a noi, fare una lunga, lunga marcia. Abbiamo bisogno di acqua buona, di buon cibo.

— Hisa trovano — sorrise Freccia, come se pensasse a un grosso scherzo combinato tra gli hisa e gli umani. — Non nascondono voi cibo buono.

Non erano capaci di conservare a lungo un’idea… così sostenevano alcuni. Forse il gioco avrebbe perduto interesse, quando gli umani avessero esaurito tutti i loro doni. Forse avrebbero perduto ogni rispetto per gli umani e se ne sarebbero andati per i fatti loro. E forse no. Gli hisa erano cambiati da quando erano arrivati gli umani.

E anche gli umani erano cambiati, sulla Porta dell’Infinito.

CAPITOLO QUARTO

MERCANTILE HAMMER: SPAZIO; ore 1900

Vittorio si versò da bere, per la seconda volta da quando lo spazio intorno a loro s’era riempito della flotta logorata dalla battaglia. Le cose non erano andate come avrebbero dovuto. Il silenzio aveva invaso l’Hammer, il silenzio amareggiato di un equipaggio che sentiva la presenza di un nemico, d’un testimone della loro umiliazione. Vittorio non guardava nessuno negli occhi, non diceva nulla… voleva soltanto anestetizzarsi con la dovuta rapidità, perché nessuno potesse rimproverargli nulla: non voleva dare consigli o giudizi.

Era evidentemente un ostaggio: così aveva deciso suo padre. E pensò, inevitabilmente, che suo padre poteva aver fatto il doppio gioco con tutti, e che forse lui ormai era meno di un ostaggio inutile… e che forse la sua carta stava per essere giocata.

Mio padre mi odia: aveva cercato di dirlo agli altri, ma quelli non se ne curavano. Non erano loro a prendere le decisioni. Era stato Jessad a stabilire che doveva andare così. E adesso, dov’era Jessad?

Doveva esserci in arrivo un visitatore, un personaggio piuttosto importante.

Lo stesso Jessad, che veniva a riferire l’insuccesso e a sbarazzarsi di un inutile fardello umano?

Vittorio Lukas ebbe il tempo di finire il suo secondo bicchiere prima che l’attività dell’equipaggio e un lieve sussulto contro lo scafo segnalassero un contatto. Udì il rumore sordo dei macchinari, il suono di un ascensore in funzione e uno stridio quando la cabina si sincronizzò con il cilindro rotante. Qualcuno stava salendo. Vittorio rimase immobile con il bicchiere in mano, e si augurò di essere un poco ubriaco. La curvatura del ponte nascondeva l’uscita dell’ascensore. Non poteva vedere quel che succedeva; ma notò che alcuni membri dell’equipaggio dell’Hammer non erano più al loro posto. Alzò gli occhi, sgomento, quando li sentì arrivare dal lato opposto, alle sue spalle, attraverso gli alloggiamenti.

Blass dell’Hammer. Due membri dell’equipaggio, seguiti da un gruppo di militari a lui sconosciuti, alcuni in borghese. Vittorio si alzò, tremante, e li fissò. Un ufficiale ringiovanito, con i capelli grigi, splendente di gradi e decorazioni. E Dayin. Dayin Jacoby.

— Vittorio Lukas — l’identificò Blass. — Comandante Seb Azov della flotta; il signor Jacoby della sua stazione; e il signor Ayres dell’Anonima Terra.

— Del Consiglio di Sicurezza — lo corresse Ayres.

Azov sedette al tavolo e gli altri presero posto nei banchi tutt’intorno. Vittorio era immerso in una nube alcolica che a tratti gli offuscava la mente. Cercò di assumere un atteggiamento naturale. Erano venuti a parlare con lui… con lui… e lui non era in grado di aiutare nessuno.

— L’operazione è cominciata, signor Lukas — disse Azov. — Abbiamo eliminato due delle navi di Mazian. Non sarà facile stanarle tutte: orbitano nei pressi della stazione. Abbiamo richiesto altre navi; ma ci siamo liberati di tutti i mercantili, quelli per i lunghi percorsi. Restano solo i mercantili per brevi tragitti, e servono da camuffamento.

— Che cosa vuole da me? — chiese Vittorio.

— Signor Lukas, lei conosce quelli dei mercantili che hanno le basi fuori dalla stazione… lei ha diretto la Società Lukas, almeno in una certa misura, e conosce quelle navi.

Vittorio annuì, preoccupato.

— La sua nave, l’Hammer, signor Lukas, tornerà nei pressi di Pell, e per quanto riguarda i mercantili, lei sarà l’addetto alle comunicazioni dell’Hammer… non con il suo vero nome, no; le daremo un fascicolo sulla famiglia dell’Hammer, e lei lo studierà molto attentamente. Risponderà come se fosse uno di loro. Ma se l’Hammer venisse fermata dalla milizia dei mercantili, o da Mazian, la sua vita dipenderà dalla sua capacità di improvvisare. L’Hammer dirà ai mercantili rimasti che per sopravvivere dovranno portarsi alla periferia del sistema e non immischiarsi in questa faccenda, insomma, togliersi di torno e interrompere i contatti con Pell. Vogliamo che quelle navi se ne vadano, signor Lukas; e non sarebbe opportuno far capire a quelli dei mercantili che ci siamo intromessi con l’Hammer e la Swan’s Eye. Non vogliamo che si sappia, è chiaro?

Gli equipaggi di quelle navi, pensò Vittorio, non sarebbero mai stati liberati senza l’Adattamento. Pensò che anche la sua memoria era pericolosa per la Confederazione, che non sarebbe stato opportuno far sapere a quelli dei mercantili che la Confederazione aveva violato la loro neutralità, colpa che imputava soltanto a Mazian. Che si era impadronita del personale, delle navi, dei nomi… soprattutto i nomi, la fiducia, l’identità di quella gente. Strinse il bicchiere vuoto, si accorse di ciò che stava facendo e smise subito, sforzandosi di assumere un’aria sobria e lucida. — I miei interessi coincidono — disse. — Il mio futuro su Pell è tutt’altro che assicurato.

— Perché, signor Lukas?

— Speravo di far carriera nella Confederazione, Azov. — Vittorio alzò gli occhi verso la faccia cupa di Azov, augurandosi che la propria voce avesse un tono calmo. — I rapporti tra me e mio padre… non sono dei migliori, e per questo mi ha consegnato tanto volentieri a voi. Ho avuto il tempo di riflettere. Molto tempo. Preferisco accordarmi direttamente con la Confederazione.

— Pell sta restando senza amici — osservò sottovoce Azov, lanciando un’occhiata alla faccia triste di Ayres. — Adesso gli indifferenti l’abbandonano. La volontà del popolo, signor ambasciatore.

Ayres rivolse uno sguardo di sottecchi ad Azov. — Abbiamo accettato la situazione. La mia missione non ha mai avuto lo scopo di ostacolare la volontà di chi risiede in quelle aree. Ma sono preoccupato per la sorte della stazione di Pell. Stiamo parlando di migliaia di vite umane, signore.

— È un assedio, signor Ayres. Blocchiamo i rifornimenti e disturbiamo le loro attività fino a quando si sentiranno a disagio. — Azov si girò verso Vittorio e lo fissò per un momento.

— Signor Lukas… dobbiamo impedire che abbiano accesso alla risorse delle miniere e alla Porta dell’Infinito. Un attacco laggiù… è possibile, ma da un punto di vista militare il prezzo sarebbe troppo alto. Quindi procederemo in un altro modo. Mazian tiene in pugno Pell; se verrà sconfitto lascerà soltanto rovine, farà esplodere la Porta dell’Infinito e la stazione, ripiegherà verso le Stelle delle Retrovie… verso la Terra. Vuole che il suo mondo diventi una base degli uomini di Mazian, signor Ayres?

Ayres gli lanciò uno sguardo turbato.

— Ah, Mazian ne è capace — disse Azov, senza distogliere gli occhi da Vittorio, freddamente. — Signor Lukas, questo è il suo dovere. Procurarsi informazioni… dissuadere quelli dei mercantili dal commerciare con la stazione. Capisce? Crede di poterlo fare?

— Sì, signore.

Azov annuì. — Signor Lukas, ci capirà se a questo punto dobbiamo accomiatare lei e il signor Jacoby.

Vittorio esitò, stordito; si rese vagamente conto che era un ordine e che l’espressione di Azov non ammetteva alternative. Si alzò. Dayin si congedò, e passò davanti ad Ayres. Rimasero Blass, Ayres e Azov. Il comandante dell’Hammer si preparava a ricevere ordini che lui avrebbe desiderato conoscere.

Avevano perduto diverse navi. Azov non aveva detto tutta la verità. Ma lui aveva sentito parlare l’equipaggio. Mancavano diverse navi.

Si fermò dove la curvatura nascondeva l’area di ritrovo, voltandosi a guardare Dayin, e si lasciò cadere su una panca.

— Tutto bene? — chiese a Dayin, per il quale non aveva mai nutrito un grande affetto; ma una faccia familiare era gradita in quel luogo così freddo, in quelle circostanze.

Dayin annui. — E tu? — Di solito, zio Dayin non era tanto cortese, con lui.

— Benissimo.

Dayin gli sedette di fronte.

— La verità — gli chiese Vittorio. — Quante navi hanno perduto nello scontro?

— Hanno subito gravi danni — disse Dayin. — Credo che Mazian gli sia costato caro. So che mancano alcune navi… la Victory e l’Endurance sono perdute, credo.

— Ma la Confederazione può costruirne ancora. Ne stanno chiamando altre. Quanto durerà?

Dayin scrollò la testa e alzò gli occhi verso il soffitto. I ventilatori ronzavano e coprivano il suono delle voci, ma non impedivano l’intercettazione. — Lo hanno messo con le spalle al muro — disse poi Dayin. — Loro possono ricevere rifornimenti all’infinito, ma Mazian è imbottigliato. Azov ha detto la verità. È costato caro; ma loro gli sono costati ancora di più.

— E noi?

— È meglio essere qui che a Pell, francamente.

Vittorio proruppe in una risata amara. Gli occhi gli si offuscarono; sentì un dolore improvviso alla gola, e scrollò la testa. — Sul serio — disse per quelli che probabilmente li stavano ascoltando. — Darò alla Confederazione il meglio che possa fare; è la migliore occasione che mi sia mai capitata.

Dayin lo guardò in modo strano, aggrottò la fronte e forse comprese il vero significato delle sue parole. Per la prima volta in venticinque anni, Vittorio provava un’autentica affinità con qualcuno. Il fatto che fosse Dayin, che aveva trent’anni più di lui e un’esperienza diversa… be’, lo sorprendeva. Ma un po’ di tempo nello spazio poteva far nascere uno spirito di cameratismo tra gli individui più distanti fra loro, e forse, pensò Vittorio, forse Dayin aveva già fatto quelle scelte, e Pell non era più la patria, per nessuno dei due.

CAPITOLO QUINTO

PELL: MOLO VERDE; ore 2000 pg; 0800 ag.

Il fuoco investì la parete. Damon si rannicchiò nell’angolo, e resistette per un istante quando Josh lo afferrò, ma poi balzò in piedi per correre via, e lo seguì, tra la folla urlante e atterrita che si riversava sui moli da verde nove. Qualcuno fu colpito, rotolò ai loro piedi, e loro lo scavalcarono e continuarono a correre, nella direzione dove li spingevano i militari.

Residenti della stazione, evasi dalla quarantena… non c’erano distinzioni. Fuggivano mentre gli spari crivellavano le travature e le facciate dei negozi, esplosioni silenziose nel caos di urla, spari diretti alle strutture e non all’involucro vulnerabile della stazione. I colpi passavano sopra le loro teste, adesso che la folla era in movimento; corsero finché i più deboli vacillarono. Damon rallentò imitando Josh, e si trovò sul molo bianco tra quelli che ancora fuggivano in preda al panico, gli ultimi che, atterriti, erano convinti che si continuasse ancora a sparare. Vide un riparo tra i negozi sul lato interno; si diresse da quella parte e Josh lo seguì, verso la porta di un bar che era stato chiuso per difenderlo dai rivoltosi: un posto tranquillo per riprendere fiato, al sicuro dalle eventuali sparatorie.

C’erano parecchi cadaveri sul molo. Morti da poco o da molto, chissà. Era diventato uno spettacolo abituale, in quelle ultime ore. Vi furono diversi atti di violenza, mentre loro stavano lì seduti, contro la porta… combattimenti tra abitanti della stazione ed evasi dalla quarantena. Molti si aggiravano, gridando nomi, genitori che cercavano i figli, amici o compagni che lanciavano appelli disperati. Qualche volta riuscivano a ritrovarsi… e una volta, un uomo identificò uno dei morti e si mise a urlare e a singhiozzare. Damon nascose il viso tra le braccia. Alla fine, alcuni condussero via l’uomo disperato.

Poi i militari inviarono nell’area distaccamenti di truppe corazzate, per rastrellare le squadre degli operai, e ordinarono di portar via i morti e di gettarli nel vuoto. Damon e Josh si nascosero nell’androne, e nessuno li vide; i soldati reclutavano i più scalmanati.

Finalmente tutti gli indigeni uscirono dai nascondigli, timidamente, a passo silenzioso, guardandosi intorno impauriti. Cominciarono a ripulire i moli, cancellando i segni di morte, fedeli alle loro abituali mansioni di pulizia e d’ordine. Damon li guardò con un lieve fremito di speranza; era la prima cosa positiva che aveva visto in tutte quelle ore, il fatto che i miti indigeni ritornassero al servizio di Pell.

Dormì un po’, come parecchi altri che si erano rintanati nei moli, e Josh faceva altrettanto, accanto a lui, raggomitolato contro la porta. Di tanto in tanto si svegliava quando la voce dell’altoparlante annunciava la ripresa di un’attività o prometteva che i viveri sarebbero stati distribuiti in tutte le aree.

Il cibo. Quel pensiero cominciava a ossessionarlo. Non ne parlava. Se ne stava con le braccia strette intorno alle ginocchia e si sentiva debole per la fame. Non aveva fatto colazione, non aveva pranzato né cenato… e non era abituato alla fame. Per lui era un pasto saltato in una giornata di duro lavoro. Un fastidio. Un disagio. Adesso diventava qualcosa d’altro. Dava un carattere nuovo alla sua resistenza ostinata; stravolgeva la sua mente; preannunciava nuove dimensioni di avvilimento. Se si fossero messi in coda dove distribuivano il cibo, probabilmente li avrebbero riconosciuti e catturati; eppure dovevano farlo, per non morire di fame. Il fatto stesso di rimanersene lì fermi sarebbe stato notato, mentre l’odore del cibo si diffondeva nei moli e tutti si agitavano, mentre passavano i carrelli spinti dagli indigeni. La gente assediava i carrelli, gridando; ma ciascuno di essi era scortato dai militari, e questo servì a riportare la calma, I carrelli, ormai semivuoti, si avvicinarono. Damon e Josh si alzarono e attesero.

— Io esco — disse alla fine Josh. — Tu rimani qui. Dirò che sei ferito, e ne prenderò abbastanza per tutti e due.

Damon scrollò la testa. Era coraggio e spirito di rivalsa, l’impulso di mettere alla prova la sua capacità di sopravvivere. Era spettinato e sudato e portava una tuta sporca e insanguinata. Se avesse rinunciato ad attraversare il molo per paura che un sicario gli sparasse o un militare lo riconoscesse, sarebbe impazzito. Almeno, sembrava che non chiedessero le carte d’identità per distribuire i viveri. Lui ne aveva tre, più la sua, che non osava adoperare; Josh ne aveva due oltre alla sua, ma le foto non corrispondevano.

Un’azione semplicissima: uscire sotto gli occhi di una guardia, prendere un panino imbottito e una confezione di succo di frutta tiepido, e tornare indietro. Ma ritornò nel suo rifugio con una sensazione di trionfo, e si accoccolò per mangiare, mentre Josh lo raggiungeva… Mangiò e bevve, come se l’incubo fosse in gran parte svanito, e lui fosse prigioniero di una nuova, strana realtà, dove non era necessario il sentimento umano, ma soltanto la prudenza animale.

E poi si udirono improvvisamente le voci acute degli indigeni; quello che spingeva il carrello parlava, attraverso il molo, agli altri compagni. Damon si stupì; di solito gli indigeni erano molto timidi quando tutto era tranquillo; il soldato di scorta si meravigliò, abbassò il fucile e si guardò intorno. Ma era tutto tranquillo; facce di gente spaventata e indigeni dall’aria solenne, che si erano fermati per un attimo e adesso stavano riprendendo il lavoro. Damon finì di mangiare mentre il carrello passava oltre, diretto verso il settore verde.

Un indigeno si avvicinò, trascinando uno scatolone nel quale raccoglieva i contenitori di plastica. Josh lo guardò ansioso; quando l’indigeno gli tese la mano, gli consegnò gli involucri; Damon gettò i suoi nello scatolone e alzò gli occhi, spaventato, appena l’indigeno gli posò gentilmente la mano sul braccio. — Tu Konstantin-uomo.

— Vattene — mormorò Damon, rauco. — Indigeno, non dire il mio nome. Mi uccideranno, se mi vedono. Taci e vattene, subito.

— Io Denteazzurro. Denteazzurro, Konstantin-uomo.

— Denteazzurro. — Damon ricordò. Le gallerie, l’indigeno ferito. Le dita robuste di Denteazzurro strinsero più forte.

— Hisa chiamata Lily manda da Il-Sole-è-suo-amico, tu chiami lei ’Licia. Lei manda noi, fa Lukas quieti, non venire in lei posto. Ti voglio bene, Konstantin-uomo. ’Licia lei al sicuro, indigeni tutto intorno a lei, tengono sicura. Noi portiamo te, vuoi?

Per un momento, Damon non riuscì a respirare. — Viva? È viva?

— ’Licia lei sicuro. Mandato tu venire, fare te sicuro con lei.

Damon si sforzò di riflettere, strinse la mano pelosa e guardò i tondi occhi azzurri; avrebbe voluto saperne di più. Scosse la testa. — No. No. È pericolo per lei, se ci vado. Uomini-con-fucili, capisci, Denteazzurro? Uomini che mi danno la caccia. Dille… dille che sono salvo. Dille che mi sono nascosto, dille che Elene è partita con le navi. Va tutto bene. Ha bisogno di me, Denteazzurro? Ha bisogno di me?

— Sicura in lei posto. Indigeni siedono con lei, tutti indigeni di Lassù. Lily con lei. Satin con lei. Tutti, tutti.

— Dille… dille che le voglio bene. Dille che sono salvo, e anche Elene. Ti voglio bene, Denteazzurro.

Le braccia brune lo strinsero. Damon abbracciò con calore l’indigeno, e si congedò da lui, sgattaiolando via come un’ombra; poi cominciò a raccogliere i rifiuti, e si allontanò. Damon lo seguì con lo sguardo, temendo che li avessero notati, ma non vide altro che l’espressione incuriosita di Josh. Si asciugò gli occhi sul braccio appoggiato al ginocchio. Il torpore diminuì; ricominciò ad avere paura, perché adesso aveva motivo di temere, qualcuno a cui potevano far del male.

— Tua madre — disse Josh. — È di lei che parlava?

Damon annuì, senza dir nulla.

— Sono contento — disse Josh, di slancio.

Damon annuì di nuovo. Batté le palpebre, e cercò di riflettere. Era così sconvolto che gli pareva di non riuscire a ragionare.

— Damon.

Alzò la testa e seguì lo sguardo di Josh. Dall’orizzonte spuntarono squadre di militari, provenienti dal molo verde. Avanzavano in formazione. Si alzò, con fare noncurante, si spolverò la tuta, e voltò le spalle al molo per nascondere Josh mentre si alzava. Si avviarono nell’altra direzione facendo finta di nulla.

— Sembra che comincino a organizzarsi — disse Josh.

— Va tutto bene — insistette Damon. Non erano i soli a muoversi. Il corridoio di bianco nove non era lontano. Si avviarono insieme ad altri che sembravano avere la stessa destinazione, e trovarono una sala pubblica di ricreazione vicino a uno dei bar all’angolo di bianco nove; Josh entrò, e Damon lo seguì. Poi uscirono a passo normale. C’erano sentinelle alle intersezioni dei corridoi, ma si limitavano a guardarsi intorno distrattamente. Damon proseguì lungo il nove, si fermò a una cabina pubblica.

— Coprimi — disse, e Josh si appoggiò alla parete, nascondendolo alla vista delle guardie. — Voglio vedere che tessere abbiamo, quanti crediti, e chi sono i legittimi proprietari. Non ho bisogno della mia priorità per farlo; basta il numero.

— Io so una cosa — disse sottovoce Josh. — Non sembro un cittadino di Pell. E la tua faccia…

— Nessuno ci tiene a farsi notare; e nessuno può denunciarci senza mettersi in mostra. È la nostra speranza; nessuno vuole attirare l’attenzione. — Damon inserì la prima tessera e premette il pulsante. Altener, Leslie: 789,90 crediti presso il computer; sposato, un figlio. Commesso presso una concessionaria d’abbigliamento. Infilò la tessera nella tasca sinistra; non voleva usarla, non voleva derubare i superstiti. Lee Anton Quale, scapolo, dipendente della Società Lukas, autorizzazioni limitate, 8967,89 crediti… una somma sorprendente, per un tipo simile. William Teal, sposato, senza figli, caposquadra del carico, 4567,67 crediti, autorizzazioni per i magazzini.

— Vediamo le tue — disse a Josh. L’altro gli porse le tessere, e Damon inserì la prima, febbrilmente, chiedendosi se tutte quelle richieste da un posto pubblico non avrebbero insospettito la centrale. Cecil Sazony, scapolo, 456,78 crediti, macchinista, scaricatore occasionale, diritto d’alloggio; Louis Diban, matrimonio per cinque anni scaduto, nessuno a carico, 3421,56, caposquadra dei moli. Damon intascò le tessere e si avviò, seguito da Josh. Svoltarono, e poi alla prima intersezione piegarono di nuovo sulla destra. Là c’era un magazzino; tutti moli erano eguali, visti dai corridoi centrali, e nei pressi doveva esserci un magazzino per la manutenzione. Damon trovò la porta, usò la tessera del caposquadra per aprirla e accese le luci. La ventilazione era attivata e videro mucchi di carta, attrezzi per le pulizie e altri utensili. Entrò, seguito da Josh, e chiuse la porta. — Un buco per nasconderci — disse, e intascò la tessera che aveva usato: era la chiave migliore che avevano. — Aspetteremo, e fra un giorno o due usciremo con il turno d’altergiorno. Due delle nostre tessere sono di individui che lavoravano d’altergiorno, scapoli, autorizzati a entrare nei moli. Siediti. Fra un momento le luci si spegneranno. Non potranno restare accese… il computer si accorgerà che la luce di una magazzino è accesa e la spegnerà per risparmiare energia.

— Qui siamo al sicuro?

Damon rise amaramente, e sedette contro la parete, piegando le ginocchia in quello spazio limitato per far posto a Josh. Sfiorò la pistola che aveva in tasca, per assicurarsi che ci fosse ancora. Trasse un profondo respiro. — Non siamo al sicuro in nessun posto. — Il viso d’angelo era stanco, sporco di grasso, e con i capelli scomposti. Josh sembrava atterrito, sebbene fosse stato il suo istinto a salvarli, sotto il fuoco. Loro due in coppia, uno che conosceva gli accessi e l’altro che aveva i riflessi pronti, erano un grosso problema per Mazian. — Ti avevano già sparato — disse Damon. — Non solo in una nave… da vicino. Lo sai?

— Non ricordo.

— No?

— Ho detto di no.

— Io conosco la stazione. Ogni angolo, ogni passaggio; se ricominciano a muoversi le navette, e se riprende regolarmente il traffico delle navi da e per le miniere, potremo usare le tessere per avvicinarci ai moli, unirci a una squadra addetta al carico, e salire su una nave…

— Per andare dove?

— Sulla Porta dell’Infinito. O nelle miniere degli asteroidi. Nessuno farà domande. — Era un sogno. Damon lo evocava per consolare entrambi. — O forse Mazian deciderà che non può continuare a restare qui. Forse se ne andrà.

— Se se ne andrà, farà esplodere tutto. La stazione e le installazioni sulla Porta dell’Infinito. Credi che voglia lasciare alla Confederazione una base da usare contro di lui quando tornerà?

Damon aggrottò la fronte, davanti a quella verità che già conosceva. — Hai una soluzione migliore da proporre?

— No.

— Potrei consegnarmi, negoziare per riprendere il controllo, far evacuare la stazione…

— Lo credi?

— No — disse Damon. Se ne era già reso conto. — No.

Le luci si spensero. Le aveva spente il computer. Soltanto la ventilazione continuò a funzionare.


PELL: CENTRALE DELLA STAZIONE; ore 2130 pg; ore 0930 ag

— Ma non è più necessario — disse Porey sottovoce, con un’espressione implacabile sul volto sfregiato. — Non è più necessaria la sua presenza, signor Lukas. Ha fatto il suo dovere di cittadino. Adesso torni nel suo alloggio. Uno dei miei uomini la scorterà per assicurarsi che ci arrivi sano e salvo.

Jon girò lo sguardo sul centro di comando, sui militari che montavano di guardia con i fucili pronti a sparare e gli occhi puntati sui tecnici al lavoro. Gli altri erano sotto sorveglianza, per la notte. Si spostò per dare ordini al responsabile del computer, e si fermò quando un militare si mosse, con un rumore secco dell’armatura, e puntò il fucile. — Signor Lukas — disse Porey, — noi spariamo a quelli che disobbediscono agli ordini.

— Sono stanco — disse nervosamente Jon. — Sono ben contento di andarmene, signore. Non ho bisogno della scorta.

Porey fece un cenno. Uno dei soldati alla porta si scostò, attendendo Lukas. Jon uscì, seguito dal soldato che subito gli si affiancò. Una compagnia indesiderata. Incontrarono altri militari che montavano di guardia nel settore azzurro uno. Era tutto tranquillo, ma c’erano ancora tracce visibili dei disordini.

Altre navi della Flotta stavano attraccando. Si erano avvicinate in un cerchio sempre più stretto, e alla fine avevano deciso di attraccare. A Jon sembrava una pazzia, da un punto di vista militare, un rischio per lui incomprensibile. Un rischio per Mazian. E per lui, adesso. Per Pell, dato che Mazian era tornato.

Forse — gli era difficile pensarlo — forse la Confederazione aveva davvero subito una dura batosta. Forse certe cose venivano tenute segrete. Forse l’occupazione sarebbe stata ritardata. Lo preoccupava l’idea che Mazian rimanesse molto a lungo.

All’improvviso un gruppo di militari uscì dall’ascensore, in azzurro uno. Avevano mostrine diverse. Lo intercettarono e presentarono un foglio al suo accompagnatore.

— Venga con noi — ordinò uno di loro.

— Il comandante Porey ha detto… — obiettò Jon, ma un altro lo sospinse con la canna del fucile verso l’ascensore. Europe, dicevano le loro mostrine. Truppe dell’Europe. Mazian era arrivato.

— Dove stiamo andando? — chiese Jon, atterrito. Il soldato dell’Africa era rimasto indietro. — Dove stiamo andando?

Nessuno rispose. Era un’intimidazione voluta. Jon sapeva dove stavano andando… e i suoi sospetti trovarono conferma quando, dopo la discesa con l’ascensore, lo condussero lungo il corridoio azzurro nove, sui moli, verso il tubo d’accesso d’una nave attraccata.

Non era mai stato a bordo di una nave da guerra. Nonostante le dimensioni esterne, lo spazio era limitato, come a bordo di un mercantile. Gli dava un senso di claustrofobia. I fucili imbracciati dai soldati, alle sue spalle, non contribuivano a tranquillizzarlo. Ad ogni minima esitazione, mentre svoltavano a sinistra per entrare in ascensore, lo spingevano con le canne di quei fucili. Era in preda alla paura.

Loro sapevano, continuava a ripetersi. Cercava di convincersi che era un atto di cortesia militare, che Mazian voleva incontrarlo perché era il nuovo dirigente della stazione, che Mazian intendeva bluffare o intimidirlo. Ma lì potevano fare quel che volevano. Potevano gettarlo nel vuoto, insieme alle centinaia di corpi congelati che adesso galleggiavano nello spazio nei pressi della stazione, una seccatura per le navi in manovra. Un cadavere fra i tanti. Cercò di scuotersi: sentiva che doveva lottare per sopravvivere, ora o mai più.

Lo spinsero fuori dall’ascensore, in un corridoio sorvegliato da altri soldati, in una stanza abbastanza grande, con una tavola rotonda, vuota. Lo sistemarono su una sedia, e rimasero in attesa, con i fucili imbracciati.

Entrò Mazian, vestito sobriamente di blu, il viso scavato. Jon si alzò in segno di rispetto; Conrad Mazian gli accennò di sedere. Entrarono altri che presero posto intorno al tavolo: ufficiali dell’Europe, nessuno dei comandanti. Jon li guardò di sottecchi.

— Come nuovo dirigente della stazione — disse Mazian, sottovoce, — signor Lukas, cos’è successo ad Angelo Konstantin?

— È morto — disse Jon, cercando di sopprimere ogni reazione che non fosse la più innocente. — I rivoltosi sono entrati negli uffici della stazione. Hanno ucciso lui e tutti i suoi collaboratori.

Mazian si limitò a fissarlo, impassibile. Jon sudava.

— Pensiamo — continuò Jon, intuendo i pensieri del comandante, — che si sia trattato d’una cospirazione… l’attacco contro gli altri uffici, l’apertura della porta del settore Q, la coincidenza di vari fattori. Stiamo indagando.

— Che cosa avete scoperto?

— Finora nulla. Sospettiamo che siano presenti agenti confederati, infiltratisi nella stazione in mezzo ai profughi. Alcuni erano stati autorizzati a uscire, forse avevano amici o parenti in Q. Finora non sappiamo come venissero tenuti i contatti. Sospettiamo che ci fosse la connivenza delle guardie della barriera… i contatti del mercato nero.

— Ma non avete scoperto nulla.

— Non ancora.

— E non lo scoprirete tanto presto, vero, signor Lukas?

Il cuore di Jon cominciò a battere furiosamente. Cercò di scacciare dal viso l’espressione di panico, e si augurò di esserci riuscito. — Mi scuso per la situazione, comandante, ma abbiamo avuto parecchio da fare, con la rivolta, i danni causati alla stazione… ultimamente abbiamo lavorato agli ordini dei comandanti Mallory e…

— Sì. Una mossa brillante, quella che avete usato per sgombrare i corridoi dai rivoltosi. Ma ormai la situazione si era un po’ calmata, no? Mi risulta che certi residenti di Q sono stati autorizzati a entrare nella centrale.

Jon faticava a respirare. Vi fu un lungo silenzio. Non sapeva cosa dire. Mazian fece un cenno a una delle guardie alla porta.

— Eravamo in una situazione di crisi — disse Jon, per riempire quel silenzio terribile. — Forse ho agito precipitosamente, ma era l’unica possibilità di prendere in pugno una situazione pericolosa. Sì, ho trattato con il consigliere del settore Q, che credo non fosse coinvolto nella rivolta, e che poteva calmarli… non c’era nessun altro che…

— Dov’è suo figlio, signor Lukas?

Jon Lukas sbarrò gli occhi.

— Dov’è suo figlio?

— È andato alle miniere. L’ho mandato con una nave a ispezionare le miniere. Sta bene? Ha avuto sue notizie?

— Perché l’ha mandato, signor Lukas?

— Francamente, per allontanarlo dalla stazione.

— Perché?

— Perché ultimamente aveva diretto gli uffici della stazione, mentre io mi trovavo sulla Porta dell’Infinito. Dopo tre anni c’erano problemi di gestione e di rapporti gerarchici negli uffici della società, qui. Ho pensato che una breve assenza potesse sistemare tutto, e avevo bisogno di qualcuno, negli uffici delle miniere, che potesse assumersene la responsabilità, se le comunicazioni si fossero interrotte. L’ho fatto per motivi interni e per sicurezza.

— Non per controbilanciare la presenza nella stazione di un uomo chiamato Jessad?

Il cuore di Jon Lukas quasi si arrestò. Scosse la testa, con calma. — Non so di cosa stia parlando, comandante Mazian. Se vuole avere la cortesia di rivelarmi la fonte delle sue informazioni…

Mazian fece un gesto e qualcuno entrò. Jon alzò la testa e vide Bran Hale, che cercava di evitare il suo sguardo.

— Vi conoscete? — chiese Mazian.

— Quest’uomo — disse Jon, — è stato allontanato dalla Porta dell’Infinito per cattiva amministrazione e ammutinamento. Io ho tenuto conto dei suoi ottimi precedenti, e l’ho assunto. Temo che la mia fiducia sia stata mal riposta.

— Il signor Hale si è rivolto all’Africa con l’intenzione di arruolarsi… affermava di avere certe rivelazioni da fare. Ma lei nega recisamente di conoscere un certo Jessad.

— Lasci che sia il signor Hale a parlare delle sue conoscenze. Questa è una montatura.

— E un certo Kressich, consigliere di Q?

— Come ho spiegato, il signor Kressich era nella centrale di comando.

— E anche Jessad.

— Poteva essere una delle guardie di Kressich. Non ho chiesto i loro nomi.

— Signor Hale?

Bran Hale si fece scuro in volto. — Confermo quanto ho detto, signore.

Mazian annuì lentamente ed estrasse la pistola. Jon si allontanò dal tavolo, e i soldati che gli stavano alle spalle lo costrinsero a sedere di nuovo. Jon fissò la pistola, paralizzato.

— Dov’è Jessad? Come si è messo in contatto con lui? Dov’è andato?

— Hale ha inventato tutto…

La sicura della pistola scattò.

— Mi avevano minacciato — mormorò Jon. — Mi hanno costretto a collaborare. Si sono presi uno della mia famiglia.

— Quindi ha consegnato suo figlio.

— Non avevo scelta.

— Hale — disse Mazian, — lei, i suoi compagni e il signor Lukas potete andare nel compartimento accanto. E registreremo tutto. Lasceremo che lei e il signor Lukas risolviate la cosa in privato; e quando l’avrà risolta, lo porteremo di nuovo qui.

— No — disse Jon. — No. Dirò tutto quello che so.

Mazian fece un cenno. Jon cercò di aggrapparsi al tavolo, gli uomini che stavano dietro di lui lo sollevarono di peso. Resistette, ma lo portarono fuori, nel corridoio. C’era tutto il gruppo di Hale.

— Faranno lo stesso con voi! — gridò Jon, verso la sala dove gli ufficiali dell’Europe erano ancora seduti al tavolo. — Prendetelo con voi e vi servirà allo stesso modo. Sta mentendo!

Hale l’afferrò per un braccio, e lo spinse nella stanza che li attendeva. Gli altri li seguirono e chiusero la porta.

— È pazzo — disse Jon. — Lei è pazzo, Hale.

— E lei ha perduto la partita — disse Hale.


MERCANTILE FINITY’S END: SPAZIO; ore 2200 pg.; ore 1000 ag.

L’ammiccare delle luci, il rumore dei ventilatori, le comunicazioni occasionali delle altre navi… tutto ciò evocava immagini familiari, quasi uscite da un sogno, come se Pell non fosse mai esistita, come se quella fosse l’Estelle e gli altri, intorno a lei, voltandosi potessero mostrare volti che conosceva dall’infanzia. Elene attraversò l’affollato centro di comando della Finity’s End e si accostò a una consolle per osservare lo schermo. Era ancora intontita dalle droghe. Si premette una mano sul ventre, presa da una nausea inconsueta. Il balzo non aveva fatto male al piccino… non gli avrebbe fatto male. Le donne dei mercantili lo avevano dimostrato tante volte, perché avevano una costituzione robusta ed erano abituate da sempre a quelle tensioni; per nove decimi era questione di nervi, e le droghe non erano molto pesanti. Non avrebbe perduto il bambino; non voleva neppure pensarlo. Le sue pulsazioni ridivennero normali dopo la breve camminata e le ondate di nausea si placarono. Vide apparire un altro punto luminoso sullo schermo. I mercantili stavano scivolando verso il punto zero, come quando avevano lasciato Pell, acquisendo freneticamente tutta la velocità che potevano accumulare nello spazio reale, all’inizio del balzo, per precedere gli altri che stavano arrivando come un’ondata gigantesca. Ma se qualcuno avesse sbagliato i calcoli, se qualche idiota spinto dalla fretta fosse rientrato nello spazio reale in un punto troppo vicino, entrambi avrebbero semplicemente cessato di esistere, sarebbero finiti disintegrati. Elene l’aveva giudicata sempre una fine orribile. E ancora per qualche minuto, quella fine sarebbe stata una possibilità.

Ma adesso stavano arrivando sempre più numerosi, seguendo un ordine ragionevole. Forse avevano perso qualche nave, attraversando la zona della battaglia: Elene non era in grado di dirlo.

La nausea la colpì di nuovo, poi passò. Elene deglutì diverse volte, decisa a ignorarla, e girò gli occhi su Neihart, che aveva lasciato i comandi della nave al figlio e stava venendo verso di lei.

— Ho una proposta — gli disse. — Mi lasci di nuovo usare il comunicatore. Non andiamocene da qui. Guardi quanti ci stanno seguendo, comandante. Quasi tutti i mercantili che facevano servizio per le stazioni dell’Anonima. Siamo un bel numero, no? E se vogliamo, possiamo arrivare ancora più lontano.

— Che cos’ha in mente?

— Propongo di difendere i nostri interessi. Cominciamo a interrogarci seriamente, prima di andarcene da qui. Abbiamo perduto le stazioni da cui dipendevamo. Quindi dobbiamo lasciare che la Confederazione prenda il sopravvento, e ci dia ordini… solo perché non possiamo competere con la sue nuove navi statalizzate? E i confederati potrebbero mettersi in testa questa idea se ci rivolgessimo a loro chiedendo umilmente il permesso di servire le loro stazioni. Ma finché la situazione è incerta, possiamo far sentire la nostra voce, e scommetto che alcuni dei cosiddetti mercantili confederati capiscono che cosa si prepara, così come lo vediamo noi. Possiamo arrestare il traffico, per tutti i mondi e per tutte le stazioni… Possiamo bloccarli. Per mezzo secolo ci hanno tiranneggiati, Neihart, per mezzo secolo siamo stati i bersagli di ogni nave da guerra che non avesse voglia di riconoscere la nostra neutralità. E che cosa otterremo, quando i militari si prenderanno tutto? Mi dà accesso al comunicatore?

Neihart rifletté a lungo. — Se andrà male, Quen, si saprà qual è stata la nave che l’ha proposto. E per noi saranno guai.

— Lo so — disse Elene, con voce rauca. — Ma lo chiedo egualmente.

— Il comunicatore è suo, se vuole.


PELL: MOLO AZZURRO; A BORDO DELLA NORWAY; ore 2400 pg.; ore 1200 ag.

Signy si girò, inquieta, e urtò un corpo addormentato, una spalla, un braccio inerte. Per un momento non ricordò chi fosse, nella confusione del dormiveglia. Graff, concluse alla fine. Graff. Si sistemò comodamente contro di lui. Avevano lasciato il turno insieme. Tenne gli occhi aperti per un momento, fissando la parete buia, la fila degli armadietti, la luce fioca della lampada… non le piacevano le immagini che vedeva dietro le palpebre chiuse, quell’odore familiare della morte che non riusciva a scacciare.

Loro tenevano Pell, mentre l’Atlantic e la Pacific facevano la ronda con tutti i ricognitori della flotta, e così loro potevano dormire. Signy si augurava che fosse toccato alla Norway, il servizio di ronda. Il povero Di Janz aveva il comando dei moli, e dormiva nell’accesso di prua, quando aveva il tempo di chiudere occhio. Le sue truppe erano sparse sui moli, ed erano di pessimo umore. I diciassette feriti e i nove morti a causa dell’insurrezione del settore Q non miglioravano il loro stato d’animo. Continuavano a fare i loro turni di guardia. A parte questo, Signy non faceva progetti. All’arrivo delle navi della Confederazione, perché sicuramente sarebbero arrivate, la Flotta avrebbe reagito come aveva già fatto in altre situazioni spiacevoli… sparare sui bersagli che si potevano colpire e tenere aperte il più a lungo possibile le altre prospettive. La decisione spettava a Mazian, non a lei.

Chiuse gli occhi, finalmente, e trasse un respiro volutamente rilassato. Accanto a lei Graff si agitò e poi rimase di nuovo immobile: una presenza amica, nel buio.


PELL: SETTORE AZZURRO UNO, NUMERO 0475; ore 2400 pg.; ore 1200 ag.

— Lei dorme — disse Lily. Satin trasse un profondo respiro e si cinse le ginocchia con le braccia. Avevano rallegrato Il-sole-è-suo-amico; la Sognatrice aveva pianto di gioia nell’ascoltare le notizie portate da Denteazzurro, l’annuncio che Konstantin-uomo e il suo amico erano salvi… era stato impressionante vedere le lacrime su quel volto sereno. Tutti i cuori degli hisa ne avevano sofferto, fino a che non avevano compreso che quelle erano lacrime di gioia… e negli occhi scuri e vivaci s’era acceso un calore così grande che tutti si erano avvicinati a lei. Vi voglio bene, aveva sussurrato la Sognatrice. Voglio bene a tutti voi, ad uno ad uno. E poi: Tenetelo al sicuro. E finalmente aveva sorriso, e aveva chiuso gli occhi.

— Sole-che-splende-tra-le-nubi. — Satin sfiorò Denteazzurro, e lui, che si stava ripulendo con molto zelo, per rispetto a quel luogo, cercando invano di rimettersi in ordine il pelame, la guardò. — Tu torna indietro e tieni d’occhio questo giovane Konstantin-uomo. Gli hisa di Lassù sono una cosa; ma tu sei un cacciatore della Porta dell’Infinito, molto svelto e molto abile. Tu lo sorveglierai.

Denteazzurro lanciò un’occhiata incerta al Vecchio e a Lily.

— Bene — disse Lily. — Bene, tu hai mani forti. Vai.

Denteazzurro si pavoneggiò, un po’ diffidente, ma gli altri si ritrassero; Satin lo guardava con orgoglio, perché anche quei Vecchi riconoscevano il suo valore. Ed era la verità: il suo amico aveva buon senso. Sfiorò leggermente i Vecchi e Satin, in segno di saluto, e in silenzio si allontanò, passando in mezzo agli altri.

E la Sognatrice dormiva, sicura in mezzo a loro, anche se per la seconda volta gli umani avevano combattuto contro gli umani e il mondo di Lassù aveva tremato come una foglia trascinata dal fiume. Il Sole vegliava su di lei, e tutto intorno ardevano ancora le stelle.

CAPITOLO SESTO

PORTA DELL’INFINITO: 11/10/52; GIORNO LOCALE

I camion si muovevano lentamente attraverso l’area sgombra, le cupole afflosciate e deserte, i recinti vuoti, e soprattutto il silenzio dei compressori che suggerivano un abbandono totale. Base uno. Il primo dei campi dopo la base principale. Le porte delle camere di compensazione sbattevano al soffio di un vento leggero. La colonna si era sparpagliata, tutti guardavano quella desolazione, ed Emilio avvertì una fitta al cuore… lui che aveva contribuito a costruire la base. Non c’era nessuno. Si chiese quale fosse la loro esatta posizione lungo la strada e quali fossero le prospettive. — Gli hisa sorvegliano anche qui? — chiese a Freccia che era uno dei pochi hisa rimasti con la colonna, con lui e Miliko. — Noi occhi vedere — rispose Freccia; e non era la più chiara delle risposte.

— Signor Konstantin. — Un uomo si fece avanti dalla retroguardia e gli si affiancò. Era uno degli operai di Q. — Signor Konstantin, abbiamo bisogno di riposare.

— Dopo il campo — promise Emilio. — Non dobbiamo restare allo scoperto più del necessario, è chiaro? Dopo il campo.

L’uomo si fermò, lasciò che la colonna avanzasse e che il suo gruppo lo raggiungesse. Emilio batté stancamente la mano sulla spalla di Miliko e allungò il passo per affiancarsi ai due cingolati alla testa della colonna; ne superò uno nella radura, e raggiunse l’altro quando arrivarono all’altra strada; attirò l’attenzione del guidatore e gli segnalò di fermarsi dopo mezzo chilometro. Poi lasciò che la colonna proseguisse fino a quando sopraggiunse Miliko. Si rendeva conto che alcuni degli operai più vecchi e i bambini dovevano essere allo stremo delle forze. Camminare con i respiratori addosso era il massimo che potessero fare, dopo tante ore. Si fermavano continuamente per riposare, e le richieste di una sosta diventavano sempre più frequenti.

Cominciavano a restare indietro, sempre più distanziati. Emilio prese in disparte Miliko e restò a guardare la colonna che passava. — Faremo una sosta — disse a ogni gruppo. — Continuate finché troverete gli altri fermi più avanti. — Finalmente comparve la coda della colonna, una fila sgranata. I più vecchi, pazienti e ostinati, e un paio di suoi collaboratori che venivano per ultimi. — È rimasto qualcuno? — chiese, e quelli scossero la testa.

Poi, un suo collaboratore scese dalla strada tortuosa, dall’altro capo della colonna, correndo e urtando gli altri, mentre tutti gli rivolgevano domande. Emilio accelerò il passo, seguito da Miliko, e gli andò incontro.

— È arrivata una comunicazione — ansimò l’uomo, ed Emilio continuò a correre lungo il margine della strada tortuosa, fino a quando vide i camion e la gente ammassata intorno. Girò tra gli alberi e si fece largo tra la folla che si aprì per lasciarlo passare; si diresse verso il primo camion, dove c’era Jim Ernst, con il comunicatore e il generatore. Si arrampicò sul pianale, fra i bagagli, le attrezzature e i vecchi troppo malandati per poter camminare, raggiunse Ernst e restò in silenzio, mentre questi si girava verso di lui, con l’auricolare premuto contro l’orecchio, e con un’espressione che non prometteva nulla di buono.

— Morto — disse Ernst. — Suo padre… una rivolta nella stazione.

— Mia madre? Mio fratello?

— Non si sa niente. Non parlano di altri morti. Sono i militari. La Flotta di Mazian. Vogliono entrare in contatto con noi. Devo rispondere?

Sconvolto, Emilio trasse un profondo respiro, consapevole del silenzio della folla, degli sguardi, dei vecchi seduti sul camion che lo fissavano con occhi solenni come quelli delle statue hisa.

Qualcun altro salì sul pianale, lo raggiunse, e lo cinse con un braccio. Miliko. Apprezzò quel gesto… rabbrividì leggermente per lo sfinimento e il colpo subito. L’aveva previsto. Era soltanto una conferma.

— No — disse. — Non risponda. — Tra la folla si levò un mormorio; Emilio si voltò. — Non si hanno notizie di altri morti — gridò, per farli tacere. — Ernst, riferisca quello che ha ricevuto.

Ernst si alzò, e obbedì. Emilio strinse a sé Miliko. Lei aveva i genitori e la sorella, lassù, e cugini, zie e zii. I Dee potevano sopravvivere o morire senza che i dispacci ne prendessero nota; per i Dee c’era più speranza. Non erano nel mirino come i Konstantin.

La Flotta aveva preso il comando, e aveva decretato la legge marziale. Il settore Q… Ernst esitò e poi continuò, deciso, sotto gli sguardi fissi di tutti. Quelli del settore Q s’erano ribellati e avevano passato la linea di confine, causando distruzioni e vittime tra gli abitanti della stazione e tra le loro stesse file.

Uno dei vecchi residenti di Q scoppiò a piangere. Forse, pensò dolorosamente Emilio, forse anche loro avevano amici e parenti lassù.

Abbassò lo sguardo su quei volti tristi e solenni, i suoi collaboratori, gli operai, i Q, qualche hisa. Nessuno si muoveva. Nessuno diceva nulla. C’era soltanto il rumore del vento tra le fronde e il mormorio del fiume oltre gli alberi.

— Quindi verranno qui — disse Emilio, sforzandosi di parlare con voce ferma. — Torneranno qui e vorranno farci lavorare per loro e costringerci a rimettere in funzione i mulini e i pozzi; e l’Anonima e la Confederazione continueranno a combattersi: ma Pell non è più tale, nelle loro mani, se quello che noi produciamo deve servire a riempire le loro stive. Se addirittura la nostra Flotta viene qui e ci costringe a lavorare sotto la minaccia delle armi… che cosa potremo aspettarci dalla Confederazione? Quando ci costringeranno a lavorare sempre di più, e nessuno di noi avrà il diritto di dire la sua? Tornate indietro, se volete, lavorate per Porey, finché arriverà la Confederazione. Io vado avanti.

— Dove, signore? — Era il ragazzo — Emilio ne aveva dimenticato il nome — che Hale aveva maltrattato il giorno dell’ammutinamento. C’era la madre con lui; la cingeva con un braccio. Non era una provocazione, ma soltanto una domanda.

— Non so — ammise Emilio. — Dove gli hisa ci diranno che potremo stare al sicuro, se esiste un posto simile. Per viverci. Per produrre quanto ci serve.

Un mormorio serpeggiò tra la folla. Paura… c’era sempre la paura sullo sfondo, per quelli che non conoscevano la Porta dell’Infinito, paura del pianeta, dei luoghi dove l’uomo era indifeso. Gli uomini che non si preoccupavano degli hisa, nella stazione, li temevano invece sul pianeta, dove gli umani erano svantaggiati, e gli hisa no. Un respiratore perduto, un guasto… era morte sicura, sulla Porta dell’Infinito. Il cimitero della base principale si era ingrandito di pari passo con lo sviluppo del campo.

— Nessun hisa ha mai fatto del male a un umano — disse Emilio. — Nonostante ciò che abbiamo fatto, e sebbene qui gli alieni siamo noi. — Scese dal camion, e allungò le mani per aiutare Miliko, sapendo che almeno lei era d’accordo. Miliko balzò a terra, senza discutere. — Possiamo sistemarvi nel campo laggiù — disse Emilio. — Possiamo fare almeno questo, per quelli che vogliono tentare con Porey. Vi metteremo in funzione i compressori.

— Signor Konstantin.

Emilio alzò la testa. Era una delle donne più vecchie, seduta sul camion.

— Signor Konstantin, sono troppo vecchia per lavorare tanto. Non voglio restare.

— Non vogliamo proseguire — disse una voce maschile.

— C’è qualcuno che torna indietro? — chiese uno dei capigruppo di Q. — Dobbiamo rimandare indietro un camion?

Silenzio. Molti scossero la testa. Emilio li guardò, stancamente. — Freccia — disse, fissando uno degli hisa che attendevano al limitare della foresta. — Dov’è Freccia? Ho bisogno di lui.

Freccia uscì dagli alberi, sul pendio della collina. — Voi venite — gridò Freccia, indicando la collina e il bosco. — Tutti venire adesso.

— Freccia, siamo stanchi. E abbiamo bisogno delle cose che ci sono sui camion. Se andiamo da quella parte non potremo portare i camion, e alcuni di noi non ce la fanno a camminare. Alcuni sono malati, Freccia.

— Noi portiamo malati, molti, molti hisa. Noi rubiamo cose buone su camion, insegnato noi bene, Konstantin-uomo. Noi rubiamo per voi. Voi venite.

Emilio si voltò a guardare gli altri, sgomenti e dubbiosi.

Gli hisa erano tutt’intorno. Uscirono dai boschi, sempre più numerosi; c’erano persino alcune femmine con i piccoli, che si facevano vedere raramente dagli umani. Era un segno di fiducia, il fatto che venissero tra loro. Forse tutti se ne resero conto, perché non vi furono proteste. Aiutarono i vecchi e i malati a scendere dai camion. Gli hisa più giovani e robusti scaricarono le provviste e il materiale.

— E se ci cercheranno? — mormorò preoccupata Miliko.

— Dobbiamo metterci al riparo, e presto.

— Occorre un rilevatore molto sensibile per distinguere gli umani dagli hisa. Forse non riterranno conveniente venirci a cercare… per ora.

Freccia lo raggiunse, lo prese per mano, e arricciò il naso nel gesto che per gli hisa equivaleva a una strizzata d’occhio.

— Tu vieni con noi.

Non riuscirono a camminare a lungo, anche se le notizie avevano dato a molti la forza della paura. Dopo aver risalito la collina ed essere ridiscesi tra i boschi e le paludi, erano tutti provati dalla fatica, e alcuni di quelli che si erano avviati con le loro gambe adesso erano costretti a farsi portare. Dopo un po’, anche gli hisa cominciarono a rallentare. E alla fine, quando si trovarono a dover trasportare un numero troppo grande di umani, chiesero una sosta e si sdraiarono per riposare.

— Trova un riparo — disse Emilio a Freccia. — Le navi ci vedranno. Non va bene, Freccia.

— Adesso dormire — disse Freccia, raggomitolandosi, e fu inutile cercare di scuotere lui e gli altri. Emilio rimase seduto a fissarlo, poi guardò il fianco della collina, dove gli umani e gli hisa erano sdraiati accanto ai loro fagotti, alcuni avvolti dalle coperte, altri troppo stanchi per avere la forza di srotolarle. Emilio usò la sua coperta come cuscino, si sdraiò su quella di Miliko, e la prese tra le braccia, sotto il sole che filtrava obliquo tra le foglie. Freccia si avvicinò e gli appoggiò un braccio sulla spalla. Emilio si lasciò andare e si addormentò, un sonno profondo e ristoratore.

Si svegliò quando Freccia lo scosse; Miliko era seduta, con il mento appoggiato sulle ginocchia. Una nebbia leggera inumidiva il fogliame; era quasi sera, il cielo era nuvoloso e minacciava pioggia. — Emilio, devi svegliarti. Credo che siano arrivati certi hisa molto importanti.

Emilio si appoggiò a terra e si mise in ginocchio, scrutando nella nebbia fredda, mentre altri umani si svegliavano intorno a lui. Erano tre Vecchi, usciti dagli alberi; hisa con il pelame abbondantemente spruzzato di bianco. Si alzò e s’inchinò. Gli sembrava giusto, poiché era nel loro territorio e nella loro foresta.

Freccia fece anch’egli un inchino. Sembrava più serio del solito. — Non parlano lingua umana, loro — disse Freccia. — Dicono andare con loro.

— Veniamo — disse Emilio. — Miliko, sveglia gli altri.

Miliko andò a svegliare i pochi che ancora dormivano, e la notizia si sparse giù per la collina. Gli umani stanchi e infreddoliti si scossero, e raccolsero i loro bagagli. Stavano arrivando altri due hisa. I boschi ne sembravano pieni: ogni tronco pareva nascondere un’agile figura bruna.

I Vecchi si dileguarono tra gli alberi. Freccia attese fino a quando furono pronti, e poi si avviò; Emilio si caricò sulle spalle la coperta di Miliko e lo seguì.

Appena un umano zoppicava, passando tra le foglie e i rami sgocciolanti, c’erano hisa pronti ad aiutarlo, a prenderlo per mano con esclamazioni d’incoraggiamento, anche quelli che non capivano la lingua degli umani; e dietro di loro venivano altri, i ladri hisa, che portavano la cupola gonfiabile, i compressori, i generatori, i viveri e tutto quello che era stato possibile prelevare dai camion, anche se forse non sapevano a cosa servisse quella roba, come un’orda bruna di laboriose formiche.

Scese la notte, e camminarono ancora attraverso i boschi, riposando quand’era necessario; ma gli hisa li guidavano perché nessuno si perdesse, e si stringevano intorno a loro quando si fermavano, e il freddo, allora, diventava meno pungente.

E a un certo momento si sentì nel cielo un tuono che non aveva nulla a che fare con la pioggia.

— Un atterraggio. — L’annuncio passò di bocca in bocca. Gli hisa non fecero domande. Con il loro udito acutissimo, dovevano essersene accorti da un pezzo.

Porey stava tornando. Probabilmente era Porey. Per un po’ avrebbero esplorato la base deserta e inviato messaggi rabbiosi a Mazian. Avrebbero chiesto i rilevamenti, avrebbero deciso sul da farsi e avrebbero domandato l’approvazione di Mazian… tutto tempo consumato a loro vantaggio.

Riposo e marcia, riposo e marcia, e quando vacillavano, i miti indigeni erano pronti a incoraggiarli, a sostenerli. Il freddo aumentava, quando si fermavano, e il clima era umido, sebbene non piovesse mai; e furono lieti quando venne il mattino e la prima luce filtrò fra gli alberi, e gli hisa l’accolsero con trilli e ciangottii e rinnovato entusiasmo.

All’improvviso uscirono dagli alberi, e la luce del giorno brillò più intensa sulla collina che digradava verso una immensa pianura. La grande distesa apparve davanti a loro quando giunsero sulla cresta di una piccola altura, e gli hisa scesero nella valle… la valle sacra, comprese Emilio con un turbamento improvviso, la zona che gli hisa avevano chiesto rimanesse riservata a loro, senza uomini, uno spazio inviolato, per sempre.

— No — protestò Emilio, guardandosi intorno per cercare Freccia. Fece un gesto supplichevole verso l’hisa che gli si avvicinò a passo vivace. — No, Freccia, non dobbiamo scendere là. Non dobbiamo. Non possiamo, capisci? Gli uomini-con-fucili verranno con le navi; e i loro occhi vedranno.

— Vecchi dicono venire — dichiarò Freccia, senza rallentare, come se quella risposta troncasse ogni discussione. Cominciarono a scendere, e gli hisa uscirono dagli alberi come una marea bruna, portando con loro gli umani e i loro bagagli, seguiti da altri umani, verso il pallore soleggiato della pianura.

— Freccia! — Emilio si fermò, con Miliko al fianco. — Gli uomini-con-fucili ci troveranno, qui. Mi capisci, Freccia?

— Io capisco. Vedono tutti noi, hisa, umani. Anche noi vediamo loro.

— Non possiamo scendere laggiù. Ci uccideranno, capisci?

Loro dicono venire.

I Vecchi. Freccia continuò a scendere, e si voltò mentre camminava, facendo un cenno a lui e a Miliko.

Emilio si mosse; sapeva che era una pazzia, sapeva che c’era un modo hisa di concepire le cose, diverso da quello umano. Gli hisa non avevano mai alzato un dito contro gli invasori del loro mondo, erano rimasti a osservare, ed era ciò che intendevano fare anche adesso. Gli umani avevano chiesto aiuto, e gli hisa lo offrivano, a modo loro. — Parlerò con loro — disse Emilio a Miliko. — Parlerò con i Vecchi, spiegherò. Non possiamo offenderli, ma mi ascolteranno… Freccia, Freccia, aspetta.

Ma Freccia continuava a camminare, più avanti. Gli hisa defluivano giù per quel pendio erboso, verso la pianura. Al centro, nei pressi di un fiumicello, c’era qualcosa: una roccia sporgente e un cerchio irregolare, un’ombra. E finalmente Emilio si accorse che era un cerchio di corpi vivi, raccolti intorno a quell’oggetto.

— Devono esserci tutti gli hisa che vivono lungo il fiume — disse Miliko. — È una specie di luogo di raduno. Una sorta di sacrario.

— Mazian non lo rispetterà; e neppure la Confederazione. — Emilio prevedeva un disastro, un massacro, con gli hisa che restavano immobili mentre veniva sferrato l’attacco. Erano stati proprio gli indigeni, pensò, gli indigeni così miti a fare di Pell ciò che era. Un tempo, gli umani della Terra erano rimasti sconvolti alla scoperta degli alieni. Già allora s’era parlato di smantellare le colonie, per paura di altre scoperte… ma sulla Porta dell’Infinito non c’era mai stata paura, lì dove gli hisa andavano incontro agli uomini pacificamente, e li contagiavano con la loro fiducia.

— Dobbiamo convincerli ad andarsene da qui — disse.

— Sono d’accordo — disse Miliko.

— Aiuto te? — chiese un hisa, toccando la mano di Miliko, perché lei zoppicava, appoggiandosi al marito. Scossero la testa, tutti e due, e continuarono a camminare, in coda alla marea di gente, perché quasi tutti gli altri erano andati avanti, presi da una follia collettiva, persino i vecchi che erano trasportati dagli hisa.

Riposarono durante la lunga discesa, mentre il sole superava lo zenith; camminarono, riposarono e ripresero a camminare, mentre il sole calava lentamente e splendeva sopra le basse colline. Un serbatoio della maschera di Emilio era fuori uso, rovinato dall’umidità e dalle muffe della foresta: un brutto auspicio per gli altri. Emilio ansimò, ne prese un altro, a tentoni, trattenendo il respiro mentre effettuava il cambio e rimetteva la maschera. Si incamminarono lentamente sulla pianura.

In lontananza si ergeva quella massa indistinta, di forma allungata, un pilastro irregolare in un mare di hisa… e non soltanto di hisa. C’erano anche gli umani, che si alzarono e vennero loro incontro. C’era Ito, della base due, con i suoi dirigenti e gli operai; e c’era Jones, della base due, che tese la mano, frastornato quanto loro. — Ci hanno detto di venire qui — disse Ito. — Hanno detto che sareste arrivati anche voi.

— La stazione è perduta — disse Emilio, mentre la fiumana passava oltre, verso il centro; e gli hisa insistevano perché lui, Miliko e gli altri li seguissero. — Non c’era altro da fare, Ito. Comanda Mazian… per questa settimana. Non so cosa succederà la prossima.

Ito rimase indietro, e anche Jones, per restare con i rispettivi compagni; e c’erano altri umani, a centinaia, radunati lì, immobili e silenziosi. Emilio incontrò Deacon, della squadra dei pozzi; e Macdonald della base tre; Hebert e Tausch della quattro; ma gli hisa lo condussero avanti e lui strinse la mano a Miliko, per non restare sommerso nella marea di folla. Adesso intorno a loro c’erano soltanto gli hisa. La colonna torreggiava sempre più vicina, e non era una colonna, ma un gruppo di statue, come quelle che gli hisa avevano donato alla stazione, forme tozze e globulari e altre più slanciate, corpi con molte facce, dalle bocche spalancate e i grandi occhi rivolti al cielo.

Era un antico monumento degli hisa. Emilio rimase ammutolito dallo stupore. Miliko rallentò e si limitò a guardare, insieme a lui, con gli hisa tutto intorno. Emilio si sentiva sperduto, piccolo e alieno davanti a quell’antica pietra torreggiante.

— Tu vieni — gli disse la voce di un hisa. Era Freccia. Gli prese la mano, e li guidò ai piedi dell’effigie.

Intorno stavano seduti gli hisa, i più anziani, con le facce e le spalle inargentate, circondati da bastoni piantati nel terreno, bastoni intagliati e ornati di perline. Emilio esitò, riluttante a entrare in quel cerchio, ma Freccia li condusse avanti, alla presenza degli anziani.

— Sedete — invitò Freccia; Emilio s’inchinò, e Miliko fece altrettanto, e sedettero a gambe incrociate davanti ai quattro anziani. Freccia parlò nella cinguettante lingua degli hisa, e il più fragile dei quattro gli rispose.

Lentamente, quel vecchio si tese in avanti, appoggiandosi su una mano, per toccare prima Miliko e poi Emilio, come per benedirli.

— Voi bene venire qui — disse Freccia. Forse era una traduzione. — Voi caldo venire qui.

— Freccia, ringraziali. Ringraziali per noi, tante, tante volte. Ma digli che c’è pericolo da Lassù. Che gli occhi di Lassù guardano questo luogo e che uomini-con-fucili possono venire qui a fare del male.

Freccia parlò. Quattro paia di occhi li guardarono con la stessa tranquillità. Uno rispose.

— Nave venuta lassù noi diretti qui — disse Freccia. — Viene, guarda, va via.

— Siete in pericolo. Ti prego, cerca di convincerli.

Freccia tradusse. Il più vecchio alzò una mano verso le immagini che torreggiavano sopra di loro e rispose. — Luogo hisa. Viene notte. Noi dormire, sognare loro vanno, sognare loro vanno.

Un altro degli anziani parlò. C’era un nome umano, nel suo discorso: Bennett; e un altro: Lukas. — Bennett — fecero eco gli hisa più vicini. — Bennett. Bennett. Bennett.

Il mormorio passò i confini del cerchio, e si diffuse come un vento nella folla immensa.

— Noi rubiamo cibo — disse Freccia con un sogghigno. — Noi imparato rubare bene. Noi rubiamo voi, facciamo voi sicuri.

— I fucili — protestò Miliko. — I fucili, Freccia.

— Voi sicuri. — Freccia s’interruppe per ascoltare quello che stava dicendo uno degli anziani. — Facciamo voi nomi: chiamiamo tu Lui-torna-ancora; chiamiamo te: Lei-tende-le-mani. To-he-me; Mihan-tisar. Voi buoni spirito. Voi sicuri venire qui. Vi vogliamo bene. Bennett-uomo, lui insegnato noi sognare sogni umani; ora voi venuti insegnamo voi sogni hisa. Noi vi vogliamo bene, vi vogliamo bene, To-he-me, Mihan-tisar.

Emilio non sapeva cosa dire; alzò gli occhi verso le enormi immagini che fissavano il cielo, si guardò intorno, e scrutò la massa che sembrava estendersi a perdita d’occhio, e per un momento si sorprese a credere che fosse possibile, che quel luogo impressionante potesse incutere timore a ogni nemico che vi giungesse.

Si levò un canto: intonato dapprima dai Vecchi, fu ripreso dagli hisa più vicini e poi dalle file sempre più lontane. Gli hisa cominciarono a ondeggiare, rispettando il ritmo.

— Bennett… — ripeteva più volte quella nenia.

— Lui insegna noi sognare sogni umani… chiamare te Lui-torna-ancora.

Emilio rabbrividì e cinse Miliko con un braccio, in quel mormorio ossessivo che era come il suono di un martello sul bronzo, il sospiro di un immane strumento che riempiva tutto il cielo nel crepuscolo.

Finalmente il sole tramontò. Con la scomparsa della luce arrivò il freddo e il sospiro di innumerevoli gole che spezzò il canto. Poi spuntarono le stelle, che attirarono cenni e grida sommesse di gioia.

— Nome suo Lei-viene-prima — disse Freccia, e nominò le stelle, una dopo l’altra, mentre gli occhi acuti degli hisa le spiavano, riconoscendole come amiche che ritornavano. Cammina-insieme; Viene-in-primavera; Lei-danza-sempre…

La cantilena riprese vita, in tono più sommesso, mentre gli hisa continuavano a ondeggiare.

La stanchezza cominciò a far sentire i suoi effetti. Miliko aveva gli occhi vitrei; Emilio cercava di sorreggerla, di restare sveglio, ma anche gli hisa ciondolavano, e Freccia batté le mani sulle loro spalle, fece capire che era permesso riposare.

Emilio si addormentò, ma dopo un poco si svegliò, e vide che accanto a loro c’erano cibi e bevande. Sollevò la maschera per mangiare e bere, alternando ad ogni morso una boccata d’ossigeno. Altrove, i pochi che erano svegli si muovevano nella moltitudine addormentata, e nonostante quella pace sognante, riuscivano a soddisfare i loro bisogni materiali. Anche Emilio si allontanò, passando attraverso la folla immensa, oltre la cerchia in cui dormivano altri umani, dove gli hisa avevano scavato appositi canali per le necessità igieniche. Si soffermò per un poco ai bordi del campo, fino a quando sopraggiunsero altri e lui ritrovò il senso del tempo, voltandosi a guardare le immagini, il cielo stellato e la folla dormiente.

La soluzione degli hisa. Starsene lì seduti sotto la volta celeste, e dire al cielo e agli dèi… guardateci… noi speriamo. Sapeva di essere pazzo; e smise di aver paura per sé, persino per Miliko. Attendevano un sogno, tutti quanti, e se gli uomini potevano puntare le armi sui miti sognatori della Porta dell’Infinito, allora non c’era più speranza. Gli hisa li avevano disarmati così, all’inizio… senza alcun sotterfugio.

Tornò verso Miliko, verso Freccia e gli anziani, stranamente convinto che fossero salvi, per ragioni che non avevano nulla in comune con la vita e con la morte, in quel luogo immutabile da millenni, e che aveva atteso molto a lungo prima che venissero gli uomini a guardare verso il cielo.

Sedette accanto a Miliko, si sdraiò e guardò le stelle, e pensò alle possibilità.

E al mattino scese una nave.

Non vi fu panico, tra le decine di migliaia di hisa. Non ve ne fu tra gli umani che sedevano in mezzo a loro. Emilio si alzò, tenendo per mano Miliko, e guardò la nave che si posava, lontano nella valle, dove poteva trovare un tratto sgombro.

— Dovrei andare a parlare con loro — disse agli anziani, tramite Freccia.

— No parlare — rispose placidamente il più vecchio. — Aspetta. Sogna.

— Chissà — osservò placidamente Miliko, — se davvero vogliono coinvolgere tutta la Porta dell’Infinito negli affari della stazione.

Altri umani s’erano alzati. Emilio sedette accanto a Miliko, e a poco a poco anche gli altri cominciarono a sedersi, per attendere.

E dopo molto tempo venne la voce lontana di un altoparlante.

Qui ci sono umani — tuonò sulla pianura una voce metallica. — Siamo dell’Africa. Il responsabile è pregato di farsi avanti e di identificarsi.

— No — lo supplicò Miliko, quando Emilio si mosse per alzarsi. — Potrebbero sparare.

— Potrebbero sparare se non andassi a parlare con loro. In mezzo alla folla. Ci tengono in pugno.

C’è Emilio Konstantin? Ho notizie per lui.

— Conosciamo già le vostre notizie — mormorò lui, e quando Miliko fece per alzarsi la trattenne per le braccia. — Miliko… devo chiederti una cosa.

— No.

— Resta qui. Io devo andare; è quello che vogliono… che la base ricominci a lavorare. Lascerò qui quelli che non si troveranno bene sotto Porey: quasi tutti. Ho bisogno che tu resti qui, per occuparti di loro.

— È un pretesto.

— No. E sì. Per tenerli insieme. Per combattere una guerra, se si arriverà a questo. Per restare con gli hisa e metterli in guardia, e tenere gli stranieri lontano da questo mondo. Di chi potrei fidarmi? Chi capirebbero, gli hisa, come capiscono te e me? Gli altri dirigenti? — Emilio scrollò la testa, la fissò negli occhi scuri. — C’è un modo di lottare. Come fanno gli hisa. E io tornerò indietro, se è questo che vogliono. Credi che desideri lasciarti? Ma chi altri c’è? Fallo per me.

— Ti capisco — disse lei, con un filo di voce. Emilio si alzò. Anche Miliko si alzò insieme a lui, l’abbracciò e lo baciò, e per lui divenne più difficile lasciarla. Poi si tolse la pistola dalla tasca e la consegnò a lei. L’altoparlante era entrato di nuovo in funzione, ripetendo il messaggio. — Personale dirigente! — gridò Emilio. — Ho bisogno di volontari.

Il grido venne ripetuto. Arrivarono, dal limitare della folla, da un comando di base e da un altro, e dalla base principale. Ci volle diverso tempo. Le truppe che erano avanzate a portata di voce dall’altra parte si fermarono, perché sicuramente potevano vedere il movimento, e la forza e il fattore tempo erano dalla loro parte.

Emilio disse ai suoi di voltare le spalle in quella direzione e di avvicinarsi a lui: probabilmente li stavano osservando. Gli hisa più vicini alzarono la testa incuriositi, sgranando gli occhi.

— Vogliono personale — disse Emilio, sottovoce. — E vogliono che i danni vengano riparati. Sono qui per questo. Schiene robuste. Rifornimenti. Forse a loro interessa solo la base principale, perché non possono servirsi delle altre. Non credo che possiamo chiedere ai Q di tornare indietro, dopo il modo in cui si è comportato Porey prima che ce ne andassimo. È questione di tempo; dobbiamo resistere, raccogliere abbastanza uomini per fermare un’eventuale azione contro la Porta dell’Infinito… o semplicemente per vivere. Mi capite? Secondo me, vogliono l’approvvigionamento per le loro navi, e viveri per la stazione; e finché l’avranno… riusciremo a cavarcela. Aspetteremo che la situazione si risolva da sé, sulla stazione, e salveremo quel che potremo. Voglio gli uomini più robusti di ogni unità, i più forti, che possano fare di più e sopportare di più e tenere i nervi a posto… lavorare nei campi, non so che altro. Forse un arruolamento forzato. Non lo sappiamo. Ho bisogno di una sessantina di uomini per ogni base, più o meno tutti quelli che potranno portare con loro, credo.

— Va anche lei?

Emilio annuì. Gli altri annuirono, riluttanti, a cominciare da Jones. — Io andrò — disse Ito; tutti gli ufficiali delle basi s’erano offerti volontari. Emilio scrollò la testa. — No — disse. — Le donne devono restare tutte qui, agli ordini di Miliko. Tutte. Niente discussioni. Fate passare parola. Sessanta volontari per base. E in fretta. Quelli non aspetteranno in eterno.

Gli altri si dispersero, correndo.

Konstantin — disse di nuovo la voce metallica. Emilio guardò in quella direzone, e distinse le figure corazzate, in lontananza, al di là della folla. Comprese che avevano un telescopio e che lo vedevano benissimo. — Stiamo perdendo la pazienza.

Emilio indugiò per baciare ancora Miliko, e sentì Freccia, vicino a lui, che traduceva qualcosa agli anziani. Si avviò in direzione delle truppe. Altri passarono in mezzo agli hisa seduti a terra, e lo raggiunsero.

Non erano solo i dirigenti e gli operai residenti. C’erano anche uomini del settore Q, numerosi quanto i residenti. Emilio arrivò al limitare della folla e si accorse che Freccia era dietro di lui, insieme a un gruppo di maschi hisa, i più robusti.

— Non dovete venire — disse loro.

— Amico — disse Freccia. Gli uomini del settore Q non dissero nulla, ma non accennarono a tornare indietro.

— Grazie — disse lui.

Ormai erano in vista delle truppe, al limitare della folla. Erano dell’Africa: si riconoscevano le mostrine. — Konstantin — disse l’ufficiale attraverso l’altoparlante, — chi ha sabotato la base?

— L’ho ordinato io — gridò Emilio. — Come potevo sapere che non sarebbero arrivati i confederati? Si può riparare tutto. I pezzi li abbiamo noi. Immagino che li rivogliate indietro.

Cosa sta succedendo qui, Konstantin?

— Un luogo sacro. Un santuario. Vedrà che sulle carte è indicato come Vietato. Ho radunato una squadra. Siamo pronti a tornare e a riparare i macchinari. Lasciamo i malati con gli hisa. Apriremo la base principale solo quando avremo la conferma che l’allarme lassù è stato revocato. Le altre basi sono sperimentali e non producono niente di utile. Inoltre, la mia squadra è sufficiente per occuparsi della base principale.

Vuole dettare di nuovo le condizioni, Konstantin?

— Voi riportateci alla base principale e preparate l’elenco delle provviste; noi vi faremo avere quello che vi serve, in fretta e senza difficoltà. In questo modo saranno protetti i vostri e i nostri interessi. Gli hisa collaboreranno con noi, e avrete tutto quello che vi occorre.

Vi fu una pausa di silenzio, dall’altra parte. Per un momento nessuno si mosse.

Prenda i pezzi mancanti delle macchine, signor Konstantin.

Emilio si voltò, agitando una mano. Uno dei suoi collaboratori, Haynes, tornò indietro, portando con sé quattro uomini.

Se dimentica qualcosa, non si aspetti comprensione, signor Konstantin.

Emilio non si mosse. I suoi avevano sentito. Bastava. Rimase a guardare i dieci uomini armati di fucile; e più indietro stava il modulo d’atterraggio, munito di armi, alcune delle quali puntate in quella direzione, mentre altri militari erano in attesa accanto al portello aperto. Il silenzio perdurò. Forse adesso si aspettavano che chiedesse notizie e restasse sconvolto nell’apprendere la morte dei suoi familiari. Smaniava dal desiderio di sapere, ma non voleva chiedere. Non si mosse.

Signor Konstantin, suo padre è morto, suo fratello disperso; sua madre è viva in un’area di sicurezza, in custodia protettiva. Il comandante Mazian le invia le sue condoglianze.

La rabbia gli avvampò il viso, la rabbia per quel tormento. Aveva chiesto autocontrollo a quelli che sarebbero andati con lui. Restò immobile, aspettando il ritorno di Haynes e degli altri.

Mi ha sentito, signor Konstantin?

— I miei complimenti — disse Emilio, — al comandante Mazian e al comandante Porey.

Poi vi fu silenzio. Attesero. Finalmente tornarono Haynes e gli altri, carichi di materiale. — Freccia — disse sottovoce Emilio, guardando l’hisa fermo accanto ai suoi compagni. — Se venite, è meglio che raggiungiate la base a piedi. Gli uomini vanno con la nave. Ci sono uomini-con-fucili. Gli hisa possono andare a piedi.

— Andiamo svelti — promise Freccia.

Venga avanti, signor Konstantin.

Emilio avanzò lentamente, staccandosi dagli altri. Le truppe si spostarono, per seguire il movimento con i fucili spianati. E dapprima lieve come una brezza, dalla moltitudine intorno alla colonna si levò un mormorio che diventò una cantilena.

Aumentò d’intensità, fino a turbinare nell’aria. Emilio si voltò a guardare, temendo la reazione delle truppe. Erano rimasti immobili, con i fucili imbracciati. Dovevano sentirsi in inferiorità numerica, adesso, nonostante le armi e le armature.

Il canto continuò, isterico: ora sembravano muoversi nel loro elemento naturale. Migliaia di hisa ondeggiavano al ritmo della cantilena, come avevano fatto sotto il cielo notturno.

Lui-viene-ancora. Lui-viene-ancora.

Lo udirono mentre si avvicinavano alla nave, alla stiva spalancata, mentre altri militari li circondavano. Era un suono che doveva scuotere anche il mondo di Lassù… qualcosa che i nuovi padroni non avrebbero gradito. Emilio avanzò, sospinto dalla forza di quel canto, pensando a Miliko, ai suoi familiari assassinati… quello che aveva perduto ormai era perduto, e lui andava incontro agli invasori senza alcuna difesa, come gli hisa.

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