C.J. Cherryh La lega dei mondi ribelli

LIBRO PRIMO

CAPITOLO PRIMO

TERRA E SPAZIO: 2005–2352

Le stelle, come tutte le altre avventure dell’uomo, erano un’ambizione poco pratica, avventata e improbabile come la prima avventura dell’uomo sui grandi oceani della Terra, o nell’aria, o nello spazio. L’Astrobase Sol Primo esisteva da parecchi anni; c’erano le prime miniere, le manifatture, le centrali elettriche nello spazio che incominciavano a rivelarsi redditizie. La Terra le aveva accettate come una cosa normale, con la stessa prontezza con cui accettava tutte le altre comodità. Le missioni partite dalla stazione esploravano il sistema, un programma che sfuggiva alla comprensione del pubblico, ma che non incontrava neppure una forte opposizione, dato che non disturbava la tranquillità della Terra.

E così, senza chiasso e in modo molto pratico, la prima sonda automatica partì per le due stelle più vicine, per raccogliere dati e fare poi ritorno: un compito che in se stesso presentava una considerevole complessità. Il lancio dalla stazione destò un certo interesse tra il pubblico; ma un’attesa di anni prima di ricevere i risultati era molto lunga, e l’interesse dei media si affievolì quando la sonda uscì dal sistema solare. Attirò assai più attenzioni al ritorno: la nostalgia di coloro che ricordavano il lancio, più d’un decennio prima, la curiosità dei giovani che avevano saputo ben poco della partenza e si domandavano di che si trattava. Fu un successo scientifico, e riportò dati sufficienti a tenere occupati per anni gli scienziati… ma non c’era un modo agile e semplice per spiegare il significato completo di quelle osservazioni in termini comprensibili al profano. Dal punto di vista delle pubbliche relazioni la missione fu un fallimento; il pubblico, che interpretava il fenomeno dal proprio punto di vista, voleva benefici materiali, tesori, ricchezze, scoperte sensazionali.

Ciò che la sonda aveva trovato era una stella con ragionevoli possibilità d’incoraggiare la vita; una fascia di detriti che includeva particelle, pianetini, frammenti irregolari più piccoli di pianeti con interessanti indicazioni di una formazione sistematica, e un compagno planetario con un suo sistema di detriti e di lune… un pianeta desolato, arroventato, proibitivo. Non era l’Eden, non era una seconda Terra, non era niente di meglio di quanto si potesse trovare nel sistema solare, e il viaggio per raggiungerlo era stato molto lungo. La stampa affrontava problemi che non riusciva a capire, cercava qualcosa da offrire al pubblico; e poi perse rapidamente ogni interesse. Caso mai, furono sollevati interrogativi sui costi, confronti vaghi e disperati con Colombo, e la stampa si rivolse prontamente ad una crisi politica nel Mediterraneo, molto più comprensibile e molto più sanguinosa.

Gli ambienti scientifici di Astrobase Sol Primo trassero un respiro di sollievo e, con la stessa discreta prudenza, investirono una parte degli stanziamenti in una modesta spedizione con astronauti umani, a bordo di una versione in miniatura dell’Astrobase stessa, perché restasse in orbita per un certo tempo intorno a quel pianeta per effettuare osservazioni.

E con molta discrezione, per imitare ancora di più l’Astrobase, per collaudare le tecniche di fabbricazione che avevano permesso la costruzione del secondo grande satellite della Terra… in condizioni più difficili, la Multiplanetaria Sole fornì uno stanziamento generoso, perché aveva una certa curiosità, una certa competenza in fatto di stazioni e dei profitti che si potevano ricavare dal loro sviluppo.

Quello fu l’inizio.

Gli stessi principi che avevano reso realizzabile l’Astrobase furono applicati per la prima stazione stellare. Richiedeva un minimo di rifornimenti biologici dalla Terra… soprattutto generi voluttuari per rendere la vita più piacevole al numero crescente di tecnici e di scienziati e di famiglie che vi risiedevano. Sfruttava le miniere; e via via che il suo fabbisogno diminuiva, poteva spedire il surplus dei minerali estratti… e così si formò il primo anello della catena. Quella prima colonia aveva dimostrato che non era affatto necessario che una stella possedesse un mondo ospitale per gli umani, non era neppure necessario che fosse una stella moderata, tipo Sole… bastavano il vento solare e i soliti detriti di metallo e di roccia e di ghiaccio. Costruita una stazione, un modulo poteva venire rimorchiato alla prossima stella, qualunque fosse. Basi scientifiche, manifatture: basi dalle quali si potesse raggiungere la più vicina stella di qualche interesse, e poi un’altra e un’altra ancora. L’esplorazione ad opera dei terrestri si sviluppava in uno stretto vettore, in un ventaglio che si allargava all’estremità esterna.

La Multiplanetaria Sole, cresciuta al di là dei suoi scopi originari e padrona di un numero di stazioni superiore a quello dello stesso Sole, divenne ciò che gli abitanti delle basi spaziali chiamavano l’Anonima Terra. Aveva un notevole potere… certamente sulle stazioni che dirigeva da lontano, ad anni di distanza nello spazio; e aveva potere anche sulla Terra, dove la crescente fornitura di minerali, di prodotti medicinali e il possesso di parecchi brevetti erano estremamente redditizi. Per quanto il sistema fosse lento ad avviarsi, il continuo afflusso di merci e di idee nuove, anche se lanciate molto tempo prima, arrecava profitto all’Anonima e di conseguenza accresceva il suo potere sulla Terra. L’Anonima inviava i trasporti mercantili in numero sempre crescente: ormai non occorreva fare niente di più. Gli equipaggi delle navi, in quei lunghi voli, si abituarono a un modo di vita singolare e non chiedevano altro che il miglioramento delle attrezzature che avevano finito per considerare come proprie; ogni stazione riforniva un’altra stazione, e ognuna di esse trasferiva le merci terrestri a quella più vicina, e quel sistema circolare di scambi si concludeva di nuovo sull’Astrobase Sol Primo, dove il grosso veniva assottigliato dalle tariffe elevate imposte per i prodotti biologici e le merci che soltanto la Terra era in grado di fornire.

Quelli furono bei tempi per quanti vendevano questa ricchezza; immensi patrimoni nascevano e poi declinavano e così anche i governi; le grandi aziende acquisivano un potere sempre più grande, e l’Anonima Terra, nelle sue molte incarnazioni, mieteva profitti immensi e decideva la sorte delle nazioni. Fu un’epoca inquieta. Le popolazioni industrializzate da poco e i malcontenti di tutte le nazioni si riversarono su quella lunga strada in cerca di posti di lavoro, ricchezze, sogni di libertà, l’antico fascino del Nuovo Mondo, secondo modelli umani riformulati al di là di un oceano più vasto, in terre straniere.

L’Astrobase Sol Primo diventò un trampolino di lancio, non più esotico, bensì sicuro e conosciuto. L’Anonima Terra prosperava, spremendo le ricchezze delle stazioni stellari, un altro beneficio che i destinatari cominciavano a considerare dovuto.

E le stazioni stellari conservavano il ricordo di quel mondo vivace e diverso che le aveva lanciate, la Madre Terra, in una connotazione diversa e carica di emotività, la Madre che inviava cose preziose per il loro benessere; agi che in un universo deserto ricordavano loro l’esistenza di una scintilla vivente. Le navi dell’Anonima Terra erano il cordone ombelicale… e le sonde dell’Anonima Terra erano il romanzo della loro esistenza, le navi esploratrici leggere e veloci che permettevano loro di essere più esigenti nella scelta delle tappe successive. Era l’epoca della Lega delle Grandi Stelle, che non era una lega, bensì la rotta percorsa dai mercantili dell’Anonima Terra sempre in viaggio, che aveva come punto di partenza e di arrivo la Madre Terra.

Una stella dopo l’altra… nove, fino a Pell, che risultò avere un mondo abitabile, e forme di vita.

E fu questo a sovvertire le regole e a turbare gli equilibri, per sempre.

La Stella di Pell e il Mondo di Pell, così chiamati in onore del comandante della nave esploratrice che li aveva individuati… e che aveva trovato non soltanto un mondo, ma anche indigeni, nativi.

Passò molto tempo prima che l’annuncio si diffondesse tra la Lega delle Grandi Stelle fino ad arrivare alla Terra; assai meno perché l’annuncio della scoperta raggiungesse le stazioni stellari più vicine… e di più perché gli scienziati accorressero in frotte sul Mondo di Pell. Le società delle stazioni locali che conoscevano gli aspetti economici della situazione si precipitarono verso quella stella, per non essere tagliate fuori; arrivò la popolazione, e due delle stazioni che orbitavano non molto lontano, intorno a stelle meno interessanti, si svuotarono pericolosamente e alla fine furono definitivamente abbandonate. Nella crescita esplosiva e nella frenesia di costruire una stazione a Pell, gli ambiziosi stavano già volgendo gli occhi verso due stelle ancora più lontane, al di là di Pell, calcolando con fredda lungimiranza, perché Pell era una fonte di prodotti di tipo terrestre, di lussi… un potenziale fattore di perturbazione nel campo del commercio e dei rifornimenti.

Per la Terra, quando i mercantili in arrivo portarono la notizia… vi fu una fretta terribile di ignorare Pell. Vita aliena. L’annuncio sconvolse l’Anonima, scatenò dibattiti morali e controversie politiche, nonostante il fatto che la notizia fosse ormai vecchia di due decenni… come se in quel momento potessero influire sulle decisioni che venivano prese là fuori, nelle Stelle Sperdute. Era una situazione incontrollabile. Altre forme di vita. Sconvolgeva le concezioni della realtà cosmica tanto care all’uomo. Sollevava problemi filosofici e religiosi, presentava realtà che inducevano certuni a suicidarsi, pur di non fronteggiarle. Nacquero vari culti. Ma, come riferirono altre navi in arrivo, gli alieni del Mondo di Pell erano non troppo intelligenti, non erano violenti, non costruivano nulla, e avevano piuttosto l’aspetto di primati inferiori, con il pelame marrone e grandi occhi frastornati.

Ah, sospirarono i terrestri più incalliti. L’universo antropocentrico, geocentrico, nel quale la Terra aveva sempre creduto era stato scosso, ma si era prontamente rimesso in sesto. Gli isolazionisti che si opponevano all’Anonima acquisirono influenza e seguaci per reazione alla paura… e all’improvvisa, netta riduzione del volume degli scambi.

L’Anonima era nel caos. Occorreva molto tempo per inviare istruzioni, e Pell cresceva, al di fuori del controllo dell’Anonima. Nuove stazioni, non autorizzate dall’Anonima Terra, nacquero intorno a stelle lontane, stazioni chiamate Mariner e Viking; e generarono Russell ed Esperance. Quando le istruzioni dell’Anonima arrivarono, ordinando alle stazioni più vicine, ormai spogliate, di prendere queste e quelle misure per stabilizzare i commerci, gli ordini erano diventati clamorosamente assurdi.

In effetti, s’era già sviluppato un nuovo modello di commercio. Pell aveva le sostanze biologiche necessarie. Era più vicino a quasi tutte le stazioni stellari; e le società delle stazioni stellari che un tempo avevano visto nella Terra la Madre amatissima adesso vedevano nuove possibilità, e ne approfittavano. Si formarono altre stazioni. La Lega era frantumata. Alcune navi dell’Anonima Terra partirono per commerciare con le Nuove Stelle Sperdute; ed era impossibile fermarle. Il commercio continuò, anche se in modo diverso. Il valore delle merci terrestri precipitò, e di conseguenza alla Terra costò sempre più caro ottenere i prodotti delle colonie, un tempo abbondanti.

Poi ci fu un nuovo colpo. Fra le Stelle Sperdute vi era un altro mondo, scoperto da un’intraprendente nave mercantile… Cyteen. Nacquero altre stazioni… Fargone e Paradise e Wyatt, e la Lega si estese ancora più lontano.

L’Anonima Terra prese una nuova decisione; un programma di recupero, una tassa sulle merci, per compensare le recenti perdite. Contestò alle stazioni la Comunità dell’Uomo, il Debito Morale e il dovere della gratitudine.

Alcune stazioni e alcune navi mercantili pagarono la tassa. Altre rifiutarono, in particolare le stazioni al di là di Pell e di Cyteen. L’Anonima, affermavano, non c’entrava affatto con il loro sviluppo, e non aveva diritti su di loro. Venne istituito un sistema burocratico di visti e di ispezioni che suscitò il risentimento dei mercanti, dato che costoro consideravano le navi di loro proprietà.

Le navi esploratrici furono richiamate, nel tacito assunto che l’Anonima stava insabbiando ufficialmente ogni ulteriore sviluppo delle Stelle Sperdute. Erano armate, quelle rapide navi esploratrici, come sempre erano state, dato che si avventuravano nell’ignoto; ma adesso venivano utilizzate in un mondo nuovo, per visitare le stazioni e rimetterle in riga. E questa era la cosa più spiacevole: il fatto che gli equipaggi delle navi esploratrici, gli eroi delle Stelle Sperdute, diventassero i gendarmi dell’Anonima.

Per rappresaglia, furono armati i mercantili, che non erano stati costruiti per combattere e che non erano in grado di eseguire virate strettissime. Ma vi furono scaramucce fra le navi esploratrici modificate e i mercantili ribelli, anche se questi ultimi, in maggioranza, acconsentirono con riluttanza a pagare la tassa. I ribelli si ritirarono nelle colonie più lontane, dove era meno conveniente tentare di imporre la volontà dell’Anonima.

Diventò una guerra senza che nessuno la chiamasse guerra… navi esploratrici armate dell’Anonima contro i mercantili ribelli che servivano le Stelle più lontane, una situazione possibile perché c’era Cyteen, e persino Pell non era indispensabile.

Così venne tracciato il confine. La Lega rinacque, escludendo le stelle al di là di Fargone, ma non fu più redditizia come un tempo. Il commercio continuava, attraverso il confine, in modo strano, perché i mercantili che pagavano la tassa potevano andare dove volevano, e i mercantili ribelli no; ma i timbri si potevano falsificare, e venivano falsificati. Era una guerra tranquilla: si sparava quando c’era un ribelle chiaramente individuabile come bersaglio. Le navi dell’Anonima non potevano far risorgere le stazioni situate fra Pell e la Terra: non erano più vitali. Le popolazioni tendevano a emigrare su Pell e Russell e Mariner e Viking e Fargone e ancora più lontano.

Nelle Stelle Sperdute si cominciavano a costruire navi, come erano state costruite le stazioni. La tecnologia era disponibile, e i mercantili proliferavano. Poi arrivò il balzo… una teoria nata nelle Nuove Stelle Sperdute, a Cyteen, e prontamente utilizzata dai cantieri di Mariner, nel settore dell’Anonima.

E quello fu il terzo, grave colpo per la Terra. Il vecchio sistema di calcolo basato sulla luce era superato. I mercantili iperspaziali volavano normalmente sui tragitti brevi; ma il tempo impiegato per andare da una stella all’altra si ridusse da anni a mesi o giorni. La tecnologia si perfezionò. Il commercio divenne un gioco nuovo e la strategia della lunga guerra cambiò… le stazioni si allearono strettamente tra loro.

All’improvviso, in questa situazione, nacque un’organizzazione tra i ribelli nelle più lontane zone delle Stelle Sperdute. Incominciò come una coalizione tra Fargone e le sue miniere; si estese a Cyteen, incluse Paradise e Wyatt e raggiunse le altre stelle e i mercantili che fra di esse facevano servizio. Correvano le voci più disparate… di enormi incrementi della popolazione, rimasti ignorati per anni, di tecnologie suggerite un tempo dall’Anonima, quando era necessario che gli uomini riempissero l’immenso vuoto tenebroso e continuassero a lavorare e a costruire. Era quello che aveva fatto Cyteen. L’organizzazione, la Confederazione, come si chiamava, crebbe e si moltiplicò in progressione geometrica, usando le installazioni già in funzione, i laboratori delle nascite. La Confederazione crebbe. In due decenni, era cresciuta enormemente in fatto di territori e di densità della popolazione; offriva un’unica, inflessibile ideologia di sviluppo e di colonizzazione, un orientamento preciso a quella che era stata una ribellione disorganizzata. Riduceva al silenzio il dissenso, mobilitava, organizzava, stringeva da vicino l’Anonima.

E alla fine, quando l’opinione pubblica indignata chiese i risultati in quel deteriorarsi della situazione, l’Anonima Terra, sull’Astronave Sol Primo, rinunciò alla tassa, dirottò quei fondi alla costruzione di una grande flotta, tutta di navi iperspaziali, macchine di distruzione, l’Europe e l’America e tutte le loro terribili sorelle.

E la Confederazione costruiva e sviluppava a sua volta navi da guerra specializzate, cambiando stile come cambiava tecnologia. I comandanti ribelli che per lunghi anni avevano combattuto per le loro ragioni personali venivano accusati di debolezza al primo pretesto, e le navi affidate alle mani di comandanti che nutrivano la giusta ideologia ed erano più implacabili.

I successi dell’Anonima diventarono più difficili. La grande Flotta, numericamente inferiore e costretta a coprire un territorio immenso, non mise fine alla guerra in un anno e neppure in cinque. E la Terra perse la pazienza per quel conflitto che era diventato inglorioso ed esasperante. Finitela con tutte le astronavi, era ormai il grido dei finanziatori. Richiamate le nostre navi e lasciate che quei bastardi crepino di fame.

Naturalmente, era la Flotta dell’Anonima a soffrire la fame, non la Confederazione; ma la Terra sembrava incapace di capire che non si trattava più della ribellione di fragili colonie, bensì di una potenza in formazione, ben nutrita e ben armata. La stessa politica miope e lo stesso braccio di ferro tra gli isolazionisti e l’Anonima, che avevano alienato inizialmente le colonie, tracciarono confini sempre più rigorosi, via via che il traffico diminuiva; persero la guerra non solo nelle Stelle Sperdute, ma anche nelle aule senatoriali e nelle sale dei consigli d’amministrazione della Terra e dell’Astrobase Sol Primo, optando per le attività minerarie nel sistema terrestre, che erano redditizie, e al diavolo le esplorazioni in tutte quelle direzioni che non davano alcun profitto.

Non contava il fatto che adesso avessero a disposizione navi iperspaziali e che le stelle fossero vicine. La loro mentalità era sincronizzata sui vecchi problemi e sulla loro politica. La Terra vietò l’emigrazione, dopo aver assistito alla fuga dei suoi migliori cervelli. Sprofondava nel caos economico e il drenaggio delle risorse naturali terrestri ad opera delle stazioni era un facile bersaglio del malcontento. Basta con la guerra, dicevano: di colpo, la pace diventò una buona politica. La Flotta dell’Anonima, privata dei fondi in una guerra che l’impegnava su un ampio fronte, si procurava i rifornimenti dove e come poteva.

Alla fine rimasero quindici navi rattoppate, su cinquanta che erano state un tempo, rimesse insieme dalle stazioni che erano ancora aperte per loro. La chiamavano la Flotta di Mazian, secondo la tradizione delle Stelle Sperdute, dove all’inizio le navi erano così poche che i nemici si conoscevano l’un l’altro per nome e reputazione… un riconoscimento che adesso era meno comune, ma alcuni nomi erano noti. Conrad Mazian dell’Europe era un nome che la Confederazione conosceva per propria disgrazia; e un altro era Tom Edger dell’Australia; e Mika Kroshov dell’Atlantic, e Signy Mallory della Norway; e tutti gli altri comandanti dell’Anonima, fino a quelli dei ricognitori. Servivano ancora la Terra e l’Anonima, con affetto sempre minore per l’una e per l’altra. Nessuno degli appartenenti a quella generazione era nato sulla Terra; ricevevano pochi rimpiazzi, nessuno dei quali dalla Terra, e nessuno dalle stazioni nel loro territorio, perché le stazioni avevano una paura ossessiva per la propria neutralità. I mercantili erano il loro serbatoio di membri d’equipaggio e di truppe, quasi tutti arruolati forzatamente.

Un tempo il confine delle Stelle Sperdute partiva dalle stelle più vicine alla Terra; adesso incominciava da Pell, perché le stazioni più vecchie erano state tutte chiuse via via che il traffico con la Terra aveva iniziato a declinare, e il sistema di navigazione pre-iperspaziale a tramontare per sempre. Le Stelle delle Retrovie erano state quasi tutte dimenticate e nessuno le visitava più.

Erano molti i mondi al di là di Pell, al di là di Cyteen, e adesso appartenevano tutti alla Confederazione; mondi delle stelle distanti che si potevano raggiungere con il volo iperspaziale; dove la Confederazione si serviva ancora dei laboratori delle nascite per aumentare la popolazione, producendo operai e soldati. La Confederazione voleva tutte le Stelle Sperdute, per dirigere quello che sarebbe stato il destino futuro dell’uomo. La Confederazione aveva le Stelle Sperdute, tranne l’arco sottile delle stazioni che la Flotta di Mazian teneva ancora sotto controllo per conto della Terra e dell’Anonima, perché era stata creata per questo e perché non poteva far altro. Alle spalle della Flotta c’era soltanto Pell… e le stazioni dimenticate delle Stelle delle Retrovie. Ancora più remota e isolata… stava la Terra, chiusa nella contemplazione di sé e nella sua politica complessa e frammentaria.

Ormai, non c’era più un traffico importante che giungesse a Sol o ne partisse. Nella follia della guerra, i mercantili indipendenti facevano scalo sulle stelle della Confederazione e dell’Anonima, varcavano le linee di combattimento a volontà, sebbene la Confederazione scoraggiasse quel traffico con sottili angherie, cercando di tagliare i rifornimenti all’Anonima.

La Confederazione si espandeva e la Flotta dell’Anonima continuava a resistere, senza avere un mondo, eccettuati Pell che la nutriva e la Terra che l’ignorava. Nel settore della Confederazione, le stazioni non venivano più costruite sull’antica scala. Ormai erano soltanto depositi a disposizione dei pianeti e le navi esploratrici cercavano stelle ancora più remote. Si trattava di generazioni che non avevano mai visto la Terra… umani per i quali l’Europe e l’Australia erano creature di metallo e di terrore, generazioni per le quali la vita quotidiana significava le stelle, l’infinito, l’espansione illimitata e il tempo proiettato nell’eternità. La Terra non li capiva.

Ma non li capivano neppure le stazioni che restavano con l’Anonima o i mercantili indipendenti che continuavano a svolgere quello strano traffico attraverso le linee nemiche.

CAPITOLO SECONDO

IN AVVICINAMENTO A PELL: 2/5/52

Il convoglio apparve, prima la Norway e poi i dieci mercantili… e altri ancora, mentre la Norway lanciava i quattro ricognitori e la formazione difensiva si spiegava avvicinandosi alla Stella di Pell.

Quello era il rifugio, un luogo sicuro che la guerra non aveva ancora raggiunto, ma che cominciava appena a lambire. I mondi delle lontane Stelle Sperdute stavano vincendo, e le certezze cambiavano, su entrambi i lati della linea.

Sul ponte di comando del NAT 5, l’astronave iperspaziale Norway, c’era un’attività convulsa; i quattro quadri di comando ausiliario seguivano i ricognitori, la lunga corsia delle comunicazioni, quella del rilevamento e quella del proprio comando. La Norway era in continua comunicazione con i dieci mercantili, e i rapporti che si susseguivano rapidamente attraverso quei canali erano laconici, e riguardavano soltanto le operazioni delle navi. La Norway era troppo occupata per curarsi dei disastri umani.

Nessuna imboscata. La stazione del Mondo di Pell ricevette il segnale e trasmise un riluttante benvenuto. Mormoni di sollievo passarono da una postazione all’altra della nave, in privato, non trasmessi dalle comunicazioni internave. Signy Mallory, comandante della Norway, rilassò i muscoli che si erano involontariamente irrigiditi e ordinò di restare in attesa.

Aveva il comando di quello stormo, terzo comandante in ordine di anzianità dei quindici della Flotta di Mazian. Aveva quarantanove anni. La Ribellione delle Stelle Sperdute risaliva ad un’epoca assai più lontana; e lei era stata pilota di mercantile, poi capitano di ricognitore, tutta la scala, sempre al servizio dell’Anonima Terra. Il suo viso era ancora giovane. I suoi capelli erano grigioargentei. I trattamenti di ringiovanimento che causavano quel colore grigio mantenevano il resto della sua persona vicino ai trentasei anni biologici; e considerando quello che aveva passato, si sentiva molto più vecchia dei suoi quarantanove anni.

Si appoggiò alla spalliera imbottita della poltrona che sovrastava le strette corsie del ponte, che si piegavano verso l’alto, premette i pulsanti sul bracciolo per controllare le operazioni, guardò le stazioni attive e gli schermi che mostravano i video in funzione e i rilevamenti. Salvi. Signy Mallory era viva perché non credeva mai del tutto a quelle stime.

E perché si adattava. Si adattavano tutti, coloro che combattevano quella guerra. La Norway era come il suo equipaggio, un’accozzaglia di relitti provenienti dalla Brazil e dall’Italia e dalla Wasp e dalla jellata Miriam B, e certune delle sue parti risalivano all’inizio della guerra dei mercantili. Prendevano quel che potevano, cedevano il meno possibile… per esempio dalle navi dei profughi che lei guidava, sotto la sua protezione. Nei decenni precedenti c’era stato un periodo di cavalleria in guerra, di gesti donchisciotteschi, in cui i nemici salvavano i nemici e si separavano con spirito di tregua. Erano umani e l’Abisso era immenso, e tutti lo sapevano. Adesso non era più così. Tra quei civili, neutrali, lei aveva scelto coloro che le erano utili, quei pochi che potevano adattarsi. A Pell ci sarebbero state proteste. Non sarebbero servite a nulla. Nessuna protesta serviva a qualcosa, in questa e in altre questioni. La guerra aveva assunto un’altra piega, e non esistevano più scelte indolori.

Si muovevano lentamente, alla velocità che era quanto di meglio potevano raggiungere i mercantili nello spazio reale, una distanza che la Norway e i ricognitori, senza ingombri, avrebbero potuto attraversare superando la velocità della luce. Si erano avvicinati pericolosamente alla massa della Stella di Pell, al di furoi del piano del sistema, rischiando incidenti e collisioni. Era l’unico modo in cui quei mercantili potevano viaggiare in fretta… e le loro vite dipendevano dalla velocità.

— Stiamo ricevendo istruzioni sull’avvicinamento da Pell — le dissero dalle comunicazioni.

— Graff — disse Signy Mallory al suo luogotenente — lo prenda lei. — E poi, inserendo un altro canale: — Di, tutte le truppe pronte, con armamento e assetto completo. — Ripassò alle comunicazioni. — Informate Pell che fanno bene a evacuare una sezione e a isolarla. Dite al convoglio che se qualcuno rompe la formazione durante l’avvicinamento lo facciamo saltare. E fate in modo che ci credano.

— Capito — disse l’addetto anziano alle comunicazioni; poi, subito dopo: — Il dirigente della stazione in linea.

Il dirigente della stazione protestò. Lei se l’aspettava.

— Lo faccia — gli disse… a Angelo Konstantin, dei Konstantin di Pell. — Sgombri quella sezione, o la sgombriamo noi. Cominci subito, asporti tutto quel che c’è di valore o di pericoloso, fino alle pareti; chiuda le porte e saldi i pannelli d’accesso. Lei non sa cosa le stiamo portando. E se ci fa ritardare, potrei trovarmi con una nave carica di morti; il sistema di supporto vitale dell’Hansford è in avaria. Lo faccia, signor Konstantin, altrimenti manderò le truppe. E lo faccia nel modo giusto, signor Konstantin, altrimenti si troverà profughi in tutta la stazione, e tutti disperati. Scusi la mia franchezza. Ho qui gente che sta morendo tra i propri escrementi. Abbiamo settemila civili spaventati su queste navi, quelli che hanno lasciato Mariner e la Stella di Russell. Non hanno possibilità di scelta e non hanno tempo. Non mi dirà di no, signore.

Vi fu una pausa dovuta alla distanza, e forse anche più lunga. — Abbiamo dato il segnale di evacuare le sezioni dei ponti giallo e arancione, comandante Mallory. Saranno disponibili i servizi medici che possiamo concedere. Le squadre per gli interventi d’emergenza si stanno muovendo. Siamo d’accordo per sciogliere le aree interessate. I piani di sicurezza saranno messi in atto immediatamente. Speriamo che i vostri riguardi per i nostri cittadini siano altrettanto grandi. Questa stazione non può permettere ai militari di interferire nella operazione della nostra sicurezza interna o di mettere in pericolo la nostra neutralità, ma la collaborazione sotto il nostro comando sarà apprezzata. Passo.

Signy si rilassò lentamente, si asciugò il sudore dalla fronte e respirò più agevolmente. — L’assistenza verrà assicurata, signore. Tempo stimato dell’attracco… fra quattro ore, se farò ritardare questo convoglio per quanto sarà possibile. È tutto il tempo che posso darle per prepararsi. Sono già arrivate notizie di Mariner? È stato fatto esplodere, signore. Sabotaggio. Passo.

— D’accordo per quattro ore. Comprendiamo le misure che ci chiede di prendere, e le stiamo adottando con sollecitudine. Ci dispiace del disastro di Mariner. Richiedo precisazioni dettagliate. Segnalo inoltre che al momento abbiamo qui una delegazione dell’Anonima. Sono molto preoccupati per queste procedure.

Signy Mallory mormorò un’imprecazione nel microfono.

— … e chiedono di dirottarvi verso un’altra stazione. Il mio staff sta cercando di spiegar loro le condizioni delle navi e i rischi per le persone a bordo, ma stanno facendo pressioni. Ritengono minacciata la neutralità di Pell. La prego di tenerlo presente, nell’avvicinamento, e di ricordare che gli agenti dell’Anonima hanno chiesto di mettersi in contatto con lei personalmente. Passo.

Lei ripeté la bestemmia e trasse un profondo respiro. La Flotta evitava quegli incontri, quando era possibile, sebbene in quell’ultimo decennio fossero rari. — Gli dica che sono occupata. Li tenga lontani dai moli e dalla nostra area. Hanno bisogno di fotografie dei coloni denutriti per portarsele via? Cattiva stampa, signor Konstantin. Ce li tenga lontani. Passo.

— Sono forniti di documenti del governo. Consiglio di Sicurezza. È quel tipo di delegazione dell’Anonima. Fanno appello al loro rango ed esigono di essere trasportati più oltre nelle Stelle Sperdute. Passo.

Signy Mallory scelse una seconda bestemmia ma si trattenne. — Grazie, signor Konstantin. Le invierò via capsula le mie raccomandazioni circa le procedure da adottare con i profughi; sono state elaborate dettagliatamente. Lei può ignorarle, è ovvio, ma glielo sconsiglio. Non posso neppure garantirle che quelli che sbarcheranno su Pell non siano armati. Non possiamo andare in mezzo a loro per scoprirlo. Le truppe armate non possono entrare là, capisce? Ecco cosa vi portiamo. Le consiglio di tenere quelli dell’Anonima lontano dalla nostra area di attracco prima di trovarci alle prese con il problema degli ostaggi. Chiaro? Fine della trasmissione.

— Chiarissimo. Grazie, comandante. Fine della trasmissione.

Signy Mallory si accasciò, guardò cupamente gli schermi e diede ordine alle comunicazioni di spedire la capsula con le istruzioni al comando della stazione.

Uomini dell’Anonima. E profughi provenienti da stazioni perdute. Le informazioni affluivano di continuo all’Hansford, con una calma ammirevole da parte dell’equipaggio della nave in difficoltà. Le procedure erano rigorose. Lassù stavano morendo. L’equipaggio si era chiuso nella sala comando ed era armato, e rifiutava di abbandonare la nave, rifiutava di permettere che un ricognitore prendesse a rimorchio l’Hansford. Era la loro nave. Non la lasciavano e facevano tutto il possibile per quelli a bordo, per telecomando. Non avevano la gratitudine dei passeggeri, che stavano facendo a pezzi la nave… o l’avevano fatto fino a quando l’aria s’era contaminata e i sistemi di supporto vitale avevano incominciato a guastarsi.

Quattro ore.


Norway. Russell e Mariner erano state vittime di un disastro. Le voci correvano per i corridoi della stazione che ribollivano della confusione e della collera dei residenti e delle società che erano state estromesse con tutti i loro averi. I volontari e gli operai indigeni collaboravano all’evacuazione; gli addetti ai moli usavano i macchinari del carico per portar via gli effetti personali dell’arca scelta per la quarantena, etichettando ogni cosa e cercando di evitare confusioni e furti. Il sistema delle comunicazioni echeggiava di annunci.

— I residenti del settore giallo da uno a uno-diciannove sono pregati di inviare un loro rappresentante all’ufficio alloggiamenti d’emergenza. Una bambina smarrita è stata trovata alla stazione di soccorso, si chiama May Terner. Si pregano i parenti di recarsi subito sul posto. Le stime più recenti effettuate dalla centrale indicano che vi sono alloggi disponibili nella foresteria, per mille unità. Tutti i non residenti vengono trasferiti per lasciar posto ai residenti permanenti della stazione; la precedenza verrà stabilita per sorteggio. Appartamenti disponibili mediante condensazione di unità occupate: novantadue. Compartimenti disponibili per conversione d’emergenza in spazi abitativi, duemila, inclusi i locali di riunioni pubbliche e la rotazione tra primogiorno/altergiorno. Il consiglio della stazione invita tutti coloro che possono sistemarsi presso parenti e amici a provvedere in tal senso e a trasmettere l’informazione al più presto possibile; la sistemazione per iniziativa privata verrà pagata al residente nella misura equivalente alla spesa pro capite per altre sistemazioni. Ci mancano cinquecento unità, e questo richiederà sistemazioni di tipo dormitorio per i residenti nella stazione, o il trasferimento temporaneo nella base della Porta dell’Infinito, a meno che alla scarsità non si ponga rimedio mediante le offerte volontarie di alloggio o la disponibilità di più individui a condividere lo spazio assegnato. Devono essere presi immediatamente in considerazione i piani per l’utilizzazione residenziale della sezione azzurra, che dovrebbe liberare cinquecento unità entro i prossimi centottanta giorni… Grazie… Una squadra della sicurezza si presenti a otto giallo…

Era un incubo. Damon Konstantin guardava il flusso delle comunicazioni stampate e di tanto in tanto si aggirava nel settore azzurro, al di sopra dell’area dei moli dove i tecnici cercavano di risolvere i problemi logistici dell’evacuazione. Restavano due ore. Dalle finestre vedeva il caos lungo tutti i moli, dove gli oggetti personali venivano ammucchiati sotto la sorveglianza della polizia. Tutte le persone e tutte le installazioni dei settori giallo e arancione, dal nono al quinto livello inclusi, erano state spostate: negozi, abitazioni, e quattromila persone che si affollavano altrove. L’afflusso si riversava oltre il settore azzurro, intorno ai limiti dei settori verde e bianco, i grandi settori residenziali. La folla brulicava, frastornata e inquieta. Si rendeva conto della necessità; si spostava… tutti, sulla stazione, erano soggetti a quei cambiamenti di residenza, per le riparazioni, per le riorganizzazioni, ma mai con preavviso così breve e mai su simile scala, e mai senza sapere prima dove sarebbero stati destinati. I piani venivano annullati, quattromila vite erano sconvolte.

Gli uomini di quaranta mercantili all’attracco erano stati bruscamente estromessi dagli alloggi provvisori, e il servizio di sicurezza non li voleva sui moli o nei pressi delle navi. La moglie di Damon, Elene, era laggiù, in un gruppo, una figura snella vestita di verde chiaro. I collegamenti con gli uomini dei mercantili… quello era il compito di Elene, e lei era nel suo ufficio, a darsi da fare. Nervosamente, lui guardava l’atteggiamento esasperato degli uomini dei mercantili, e stava pensando di mandare laggiù la polizia per proteggere Elene; ma Elene sembrava tener testa a tutti, gridando più forte, e tutto si perdeva nell’isolamento acustico e nel ronzio generale delle voci e nel rumore delle macchine che filtravano a malapena nel posto di comando sopraelevato. All’improvviso ci furono scrollate di spalle e mani tese, come se non ci fosse mai stato nessun dissidio. La faccenda era stata risolta o rimandata; ed Elene se ne andò e gli uomini dei mercantili si allontanarono tra la folla, sebbene scrollassero la testa e sembrassero insoddisfatti. Elene era sparita sotto le finestre oblique… verso l’ascensore, per salire lassù, si augurò Damon. Nel settore verde, il suo ufficio era alle prese con le proteste rabbiose dei residenti; e c’era la delegazione dell’Anonima che si agitava nella centrale e assillava suo padre.

— Una squadra medica si presenti, per favore, alla sezione otto giallo — disse con voce serica il servizio comunicazioni. C’era qualcuno nei guai, nei settori evacuati.

Le porte dell’ascensore si aprirono nel centro di comando. Elene lo raggiunse, ancora rossa in viso per la discussione.

— Alla centrale sono impazziti — disse. — Gli uomini dei mercantili sono stati estromessi dalla foresteria e si sono sentiti dire che devono sistemarsi sulle loro navi; e adesso fra loro e le navi ci sono i posti di blocco della polizia. Vogliono salpare dalla stazione. Non voglio che le loro navi vengano prese d’assalto in un’evacuazione improvvisa. Credo che preferirebbero allontanarsi al più presto da Pell. Sanno che la Mallory ha l’abitudine di reclutare gli uomini dei mercantili sotto la minaccia delle armi.

— Che cosa gli hai detto?

— Di aspettare e di pensare che ci saranno contratti per i rifornimenti necessari a tutta questa gente in più; ma non si avvicineranno alle navi che attraccheranno o non si azzufferanno con la vostra polizia. Per un po’, almeno, staranno buoni.

Elene era spaventata: lo si vedeva chiaramente dietro la sua calma fragile. Damon la cinse con un braccio; lei gli passò a sua volta il braccio intorno alla vita e si appoggiò a lui, senza dir nulla. Elene Quen, già del mercantile Estelle, che era proseguito per Russell e Mariner. Aveva abbandonato quella rotta per lui, decisa a legarsi definitivamente a una stazione, per amor suo; e adesso aveva finito per cercare di far ragionare equipaggi furibondi che probabilmente ai suoi occhi avevano tutte le ragioni. Lei vedeva la situazione con fredda e controllata apprensione, come il personale della stazione. Le cose che andavano male nella stazione procedevano con ritmo ordinato, per quadranti e per sezioni, e da questo nasceva un certo fatalismo; chi si trovava in una zona al sicuro, ci restava; chi svolgeva un lavoro che poteva essere utile, dava una mano; e se nei guai era la sua area, continuava a restare lì… era l’unico eroismo possibile. Una stazione non poteva sparare, non poteva fuggire, poteva solo subire i danni e ripararli, se c’era tempo. Quelli delle navi mercantili avevano altre filosofie e riflessi diversi, nei brutti momenti.

— Andrà tutto bene — disse Damon, stringendola a sé per un momento, e sentì che Elene ricambiava la pressione. — Non arriverà fin qui. Stanno soltanto trasferendo i civili dietro le linee. Resteranno qui finché la crisi sarà passata, e poi torneranno indietro. Altrimenti, abbiamo avuto già altri grossi afflussi, quando hanno chiuso le ultime Stelle delle Retrovie. Abbiamo aggiunto altre sezioni. Lo faremo ancora. Ci limiteremo a espanderci.

Elene non disse nulla. S’erano diffuse voci terribili sulla portata del disastro di Mariner, e l’Estelle non era uno dei mercantili che stavano arrivando. Questo, ormai, lo sapevano con certezza. Elene aveva sperato, quando avevano avuto le prime notizie degli arrivi; e aveva avuto paura, perché erano stati segnalati danni, su quelle navi là fuori che si muovevano alla velocità modesta dei mercantili, stracariche di passeggeri che non avrebbero potuto trasportare, nella serie di piccoli balzi resi indispensabili dell’autonomia limitata dei mercantili. Questo voleva dire giorni e giorni nello spazio reale, e c’era l’inferno, su quei vascelli. Si diceva che non avessero avuto droghe a sufficienza per superare i balzi, e che certuni li avessero affrontati senza. Damon cercava d’immaginarlo… capiva la preoccupazione di Elene. L’assenza dell’Estelle da quel convoglio era una notizia buona e cattiva. Probabilmente aveva abbandonato la rotta dichiarata, fiutando odore di guai, e s’era diretta in tutta fretta altrove… e anche questo era un motivo d’ansia, con la guerra che si andava surriscaldando, ai confini. Una stazione… perduta, distrutta. Russell aveva evacuato il personale. Il margine sicuro diventava all’improvviso troppo vicino, e troppo rapido.

— È probabile — disse Damon, rammaricandosi di non poter rimandare l’annuncio d’un altro giorno — che verremo trasferiti nella sezione azzurra, in alloggi forse affollati. A quella sezione può venire trasferito il personale delle autorizzazioni. Dovremo andare con gli altri.

Elene alzò le spalle. — Va bene. È già stato disposto?

— Lo sarà.

Elene scrollò le spalle una seconda volta; perdevano la loro casa, e lei scrollava le spalle, guardando attraverso le finestre i moli sottostanti, e la folla, e le navi mercantili.

— Non arriverà qui — insistette lui, sforzandosi di crederlo, perché Pell era la sua patria, in un senso che nessun marinaio dei mercantili poteva comprendere. Erano stati i Konstantin a costruire questo luogo, fin dall’inizio. — Qualunque cosa sia, sarà l’Anonima a perderlo… non Pell.

Poi, dopo un momento, spinto dalla coscienza se non dal coraggio: — Devo andare là, sui ponti della quarantena.


La Norway si avvicinò prima delle altre: la ciambella toroidale e sgraziata di Pell brillava sui suoi schermi video. I ricognitori erano disposti a ventaglio e per il momento tenevano lontani i mercantili. Gli equipaggi delle navi di profughi restavano saggiamente in fila, senza dare disturbo. La falce pallida del Mondo di Pell — la Porta dell’Infinito, secondo la nomenclatura di Pell — era sospesa al di là della stazione, segnata dai vortici dei temporali. Seguirono il segnale della Stazione di Pell, portandosi all’altezza delle luci lampeggianti sull’area designata per l’attracco. Il cono che avrebbe accolto la sonda anteriore brillava di un colore azzurro, segnale di via libera. Sul video, lievemente deformata, apparve la scritta SEZIONE ARANCIO, accanto a un groviglio di pannelli solari. Signy inserì il rilevatore, vide gli sviluppi della situazione nell’immagine ripresa da Pell. Un vociare ininterrotto arrivava dalla centrale di Pell e dai canali della nave, tenendo impegnati una dozzina di tecnici delle comunicazioni.

Incominciarono la fase finale dell’avvicinamento, la gravità diminuì gradatamente via via che il cilindro rotante interno della Norway, disposto in senso longitudinale, rallentava e si bloccava nella posizione d’attracco, con tutti i ponti del personale orientati sull’asse orizzontale della stazione. Per un po’, sentirono potenziate le altre tensioni, in una serie di ri-orientamenti. Il cono torreggiava, offrendo un agevole attracco; effettuarono l’aggancio, una prolungata conferma dell’ultimo schiaffo della gravità… e aprirono gli accessi per il personale dei moli di Pell, ormai stabilizzati sulla rotazione di Pell.

— Dal molo mi segnalano tutto tranquillo — disse Graff. — La polizia della stazione è dappertutto.

— Messaggio — si udì nell’interfono. — Il dirigente della stazione di Pell a Norway: si richiede collaborazione militare con uffici già predisposti per facilitare le operazioni come da vostre istruzioni. Tutte le procedure sono state disposte secondo il programma richiesto, con gli ossequi del dirigente della stazione, comandante.

— Risposta: la Hansford arriverà immediatamente e dichiara un’avaria ai sistemi di supporto vitale e possibilità di disordini a bordo. State lontani dalle nostre linee. Chiuso… Graff, diriga lei le operazioni. Di, faccia uscire immediatamente le truppe sul molo.

Signy si alzò e tornò indietro, attraverso gli stretti passaggi inclinati del ponte di comando, fino al piccolo compartimento che le faceva da ufficio e che spesso utilizzava anche per dormire. Aprì l’armadietto, indossò una giacca, e infilò in tasca una pistola. Non era un’uniforme. Forse nessuno, nella flotta, possedeva un’uniforme regolamentare. Da troppo tempo i rifornimenti scarseggiavano. Il cerchietto che indicava il grado di comandante, fissato al colletto, era l’unica cosa che la distingueva da un capitano d’un mercantile. Le truppe non avevano uniformi migliori, ma erano corazzate: e quella protezione veniva tenuta in buone condizioni, a qualunque costo. Prese l’ascensore e si affrettò a scendere nel corridoio inferiore, procedendo in mezzo alle truppe che Di Janz stava facendo affluire sul ponte, in assetto da combattimento, attraverso la galleria di accesso, in quegli ampi spazi gelidi.

L’intero molo era a loro disposizione: un’immensa prospettiva incurvata verso l’alto, gli archi delle sezioni chiusi dal soffitto via via che la parete esterna della stazione calava a sinistra verso l’orizzonte graduale; sulla destra c’era un portello di sezione, che arrestava lo sguardo. C’erano soltanto le squadre addette al molo e le loro scale portatili; e gli addetti alla sicurezza della sezione, e i banchi operativi, tutti ben lontani dall’area della Norway. Non c’erano operai indigeni, lì, in quella situazione. Sul molo immenso erano sparpagliati fogli di carta e indumenti dimenticati, a testimonianza di una ritirata frettolosa. I negozi e gli uffici erano vuoti; anche il corridoio al centro del molo appariva egualmente deserto e pieno di ciarpame. La voce profonda di Di Janz echeggiava fra le travature metalliche, mentre ordinava alle truppe di spiegarsi intorno all’area dove avrebbe attraccato la Hansford.

Gli scaricatori di Pell si avvicinarono. Signy rimase ad osservare mordendosi nervosamente le labbra, quando le si accostò un civile, piuttosto giovane, bruno, dal profilo aquilino, che portava una tabella e aveva un aspetto molto ufficiale nel suo abito blu. Tramite un auricolare, Signy era costantemente informata della situazione dell’Hansford, un afflusso continuo di cattive notizie. — Lei chi è? — chiese.

— Damon Konstantin, comandante, dell’Ufficio Legale.

Signy gli lanciò una seconda occhiata. Un Konstantin. Sì, poteva darsi. Angelo aveva avuto due figli maschi, prima che capitasse l’incidente a sua moglie. — Ufficio Legale — disse, in tono disgustato.

— Sono qui per sentire se ha bisogno di qualcosa… o se ne hanno bisogno loro. Sono in collegamento con la centrale.

Si udì uno schianto. L’Hansford attraccò malamente, scese stridendo lungo il cono-guida e si assestò sussultando.

— Agganciatela e andatevene! — ruggì Di agli uomini del molo; lui non si serviva di collegamenti radio.

Graff stava impartendo gli ordini dalla sala comando della Norway. L’equipaggio dell’Hansford sarebbe rimasto chiuso in plancia, a dirigere a distanza le operazioni di sbarco. — Ho detto loro di andarsene — riferì Graff. — A ogni tentativo di avvicinarsi alle truppe risponderemo col fuoco.

I collegamenti erano stati completati. La rampa era a posto.

Muovetevi! — muggì Di. Gli uomini corsero al di là delle truppe schierate; i fucili furono spianati. Il portello si aprì con un tonfo sul tubo d’accesso.

Il fetore dilagò nel freddo del molo. I portelli interni si aprirono e una marea umana ne uscì. Individui che si urtavano, si calpestavano l’un l’altro, cadevano, gridavano e urlavano e si precipitavano fuori come pazzi. Barcollarono quando una raffica passò sopra le loro teste.

— Fermi! — gridò Di. — Sedetevi a terra e intrecciate le mani sopra la testa.

Alcuni si erano già seduti per la debolezza; altri si lasciarono cadere, docili, obbedienti. Alcuni sembravano troppo storditi per capire, ma si fermarono ugualmente. L’ondata si era arrestata. Accanto a Signy, Damon Konstantin mormorò un’imprecazione e scrollò la testa. Non disse altro: aveva la faccia sudata. La sua stazione si trovava di fronte al pericolo di un tumulto… collasso di sistemi, la morte dell’Hansford moltiplicata per diecimila. Erano cento, forse centocinquanta superstiti, accovacciati sul molo accanto alla scala che costituiva il cordone ombelicale. Il fetore della nave si diffondeva. Una pompa ansimava, inondando d’aria pressurizzata i sistemi di supporto dell’Hansford. Erano mille, su quella nave.

— Dovremo entrare là dentro — mormorò Signy, nauseata dalla prospettiva. Di stava incanalando gli altri, uno alla volta, facendoli passare sotto il controllo delle armi in una zona chiusa da tende, dove sarebbero stati spogliati, perquisiti, ripuliti, e poi dirottati verso gli uffici o verso le infermerie. Quel gruppo non aveva bagagli e neppure documenti.

— Ho bisogno di una squadra di sicurezza — disse Signy al giovane Konstantin. — E di barelle. Metta a nostra disposizione un’area adeguata. Dovremo eliminare i morti; è tutto quello che possiamo fare. Li faccia identificare come può, impronte digitali, fotografie, il necessario, insomma. Ogni cadavere che esce di qui non identificato significa futuri guai per la vostra sicurezza.

Konstantin aveva l’aria di star male. Dopotutto, era la stessa cosa per alcuni dei suoi soldati. Signy si sforzava di non dare ascolto al proprio stomaco.

Qualche altro superstite era arrivato al varco di accesso: erano debolissimi, quasi incapaci di scendere la rampa. Ma erano pochi, molto pochi.

Stava arrivando la Lila: l’equipaggio aveva incominciato le manovre di avvicinamento in preda al panico, sfidando le istruzioni e le minacce dei ricognitori. Signy sentì la voce di Graff riferire in proposito, e attivò il microfono. — Li tenga lontani. Gli tranci un alettone, se è necessario. Abbiamo già abbastanza da fare. Mi faccia mandare una tuta.


Ne trovarono altri settantotto ancora in vita fra i morti in stato di decomposizione. Il resto era una semplice operazione di pulizia: non rappresentava una minaccia. Signy passò attraverso la camera di decontaminazione, si tolse la tuta, sedette sul ponte deserto e lottò contro la nausea. Un assistente sociale scelse il momento sbagliato per offrirle un tramezzino. Signy lo rifiutò, accettò il caffè prodotto con erbe locali e trattenne il fiato, mentre si concludeva il conteggio dei superstiti dell’Hansford. Adesso, il molo puzzava di spray antisettico. Un tappeto di corpi nei corridoi, sangue, morti. I portelli d’emergenza erano scattati durante un incendio. Alcuni dei morti erano stati tagliati in due. Alcuni superstiti erano stati travolti e calpestati e avevano le ossa fratturate. Urina. Vomito. Sangue. Putredine. Avevano sistemi chiusi, e non erano stati costretti a respirare quell’aria. I superstiti dell’Hansford avevano avuto a disposizione solo l’ossigeno di riserva, e forse questo aveva causato diversi omicidi. Quelli ancora vivi erano stati rinchiusi in aree dove l’aria era meno contaminata che nelle stive mal ventilate dove i profughi si erano ammassati.

— Messaggio del dirigente della stazione — disse il servizio comunicazioni all’orecchio di Signy. — Richiede la presenza del comandante negli uffici della stazione, al più presto.

— No — rispose lei, laconicamente. Stavano portando fuori i morti dell’Hansford; c’era una specie di servizio religioso, stile catena di montaggio, un ultimo rito funebre, prima di scaricarli all’esterno. Catturati dal pozzo di gravità della Porta dell’Infinito, alla fine sarebbero andati alla deriva in quella direzione. Signy si chiese vagamente se i cadaveri bruciassero, precipitando; era probabile, pensò. Lei non aveva mai avuto molto a che fare con i pianeti. Non sapeva neppure se qualcuno si era mai preoccupato di accertarlo.

Quelli della Lila erano in condizioni migliori, e più ordinati. All’inizio avanzarono a spintoni, ma poi rinunciarono quando videro le truppe armate schierate di fronte a loro. Konstantin intervenne, fortunatamente, con l’altoparlante mobile, parlando ai profughi atterriti nel linguaggio della stazione e mettendoli di fronte alla logica dei fatti, al pericolo di danni al suo fragile equilibrio, agli orrori che già si erano sentiti ripetere per tutta la vita. Nel frattempo, Signy si rialzò, stringendo ancora la tazza del caffè, e con lo stomaco un po’ placato vide che le procedure da lei stessa stabilite incominciavano a funzionare regolarmente: quelli con i documenti in un’area, quelli che ne erano privi in un’altra, per le fotografie e il rilascio di un documento d’identità. Il bel giovane dell’Ufficio Legale si dimostrò utile: un intervento autorevole ogni volta che si verificava una contestazione per i documenti o un momento di confusione tra il personale della stazione.

— La Griffin si sta avvicinando per attraccare — disse la voce di Graff. — La stazione ci avverte che rivogliono indietro cinquecento unità di alloggio, dato il numero dei morti dell’Hansford.

— Negativo — disse Signy. — I miei omaggi al dirigente della stazione, ma non se ne parla neppure. Com’è la situazione a bordo della Griffin?

— Sono in preda al panico. Li abbiamo avvertiti.

— Quante altre navi presentano la stessa situazione?

— C’è tensione dappertutto. Non è il caso di fidarsi. Potrebbero perdere la testa, tutti quanti. La Maureen ha un morto, attacco alle coronarie, un altro è in gravi condizioni. La farò attraccare subito dopo la Griffin. Il dirigente della stazione vuol sapere se lei sarà disponibile per un colloquio fra un’ora. So che quelli dell’Anonima stanno facendo pressioni per entrare in quest’area.

— Continui a prendere tempo. — Signy finì il caffè, si avviò lungo le linee davanti al molo della Griffin. Le truppe si stavano trasferendo verso quell’attracco, perché vicino all’Hansford non era rimasto niente da sorvegliare. I profughi tacevano. Erano occupatissimi a rintracciare gli alloggi loro assegnati, e l’ambiente sicuro della stazione cominciava a tranquillizzarli. Una squadra equipaggiata stava aspettando di portar fuori l’Hansford; in quel molo c’erano soltanto quattro attracchi. Signy misurò con gli occhi lo spazio loro assegnato dalla stazione, cinque livelli di due sezioni e i due moli. Non era granché, ma avrebbero potuto farcela, per un po’. I dormitori avrebbero potuto risolvere in parte il problema… temporaneamente. Sarebbero stati un po’ scomodi. Niente lussi, questo era certo.

Non erano i soli profughi dello spazio: erano semplicemente i primi. Ma questo Signy si guardava bene dal dirlo.

Fu la Dinah a causare guai; un uomo sorpreso con le armi al posto di controllo, che reagì malamente all’arresto: due morti, singhiozzi e isteria fra i passeggeri. Signy assistette alla scena, stancamente, scrollò la testa e ordinò di scaricare nel vuoto quei due cadaveri insieme agli altri, mentre Konstantin si avvicinava indignato. — Legge marziale — disse lei, troncando ogni discussione, e si allontanò.

Sita, Pearl, Little Bear, Winifred. Arrivarono con tormentosa lentezza, scaricarono profughi e suppellettili, e le procedure continuarono.

Signy lasciò il molo, tornò a bordo della Norway e fece un bagno. Si insaponò per tre volte, prima di convincersi di essersi liberata di quel tanfo.

La Stazione era entrata nell’altergiorno; i reclami e le richieste si erano acquietati, almeno per qualche ora.

O almeno, se c’erano, il comando d’altergiorno della Norway non li faceva giungere fino a lei.

Signy aveva una consolazione per la notte, una specie di compagnia, di sfogo. Lui era stato recuperato dal disastro di Russell e Mariner… ma non per venire trasportato sulle altre navi. Là l’avrebbero fatto a pezzi. Lui lo sapeva, ed era riconoscente. Neppure lui aveva simpatia per l’equipaggio e si rendeva conto della situazione.

— Tu scendi qui — gli disse, fissandolo, mentre giaceva disteso accanto a lei. Il nome non aveva importanza. Nella memoria di Signy si confondeva con altri, e qualche volta lo chiamava con un nome sbagliato, quando era tardi e lei era semiaddormentata. Lui non mostrò la minima emozione a quelle parole, si limitò a battere le palpebre, per far capire che aveva assimilato l’annuncio. Quel volto la sconcertava: innocenza, forse. I contrasti l’affascinavano. E anche la bellezza. — Sei fortunato — gli disse. Lui reagì allo stesso modo di sempre. Si limitò a fissarla, vacuo e bello; su Russell avevano giocato con la sua mente. Qualche volta, in Signy c’era qualcosa di sordido, il bisogno di ferire… un omicidio limitato, per cancellare quelli totali. Infliggere piccoli terrori, per dimenticare l’orrore esterno. Qualche volta passava le notti con Graff, con Di, con chiunque colpisse la sua fantasia. Non mostrava mai questo aspetto a coloro che stimava, agli amici, all’equipaggio. Solo, qualche volta c’erano viaggi come quello, quando era di pessimo umore. Era una malattia comune, nella Flotta, nei mondi chiusi delle navi, tra coloro che avevano il potere assoluto. — T’importa? — chiedeva lei; a lui non importava e quella, forse, era la sua salvezza.

La Norway, con le truppe apparentemente in servizio sul molo, era l’ultima nave attraccata in quarantena. Sul molo, le luci erano ancora a mezzogiorno, e splendevano sopra le file di profughi che si muovevano molto lentamente, in presenza delle armi.

CAPITOLO TERZO

PELL:2a/5/52

Troppo, era decisamente troppo. Damon Konstantin accettò una tazza di caffè da un assistente che passava di lì e si rilassò per un attimo, scrutò i moli e si soffregò gli occhi, cercando di scacciarne l’indolenzimento. Il caffè sapeva di disinfettante, come tutto lì attorno: penetrava nei pori, nelle narici, dovunque. Le truppe tenevano gli occhi aperti, proteggendo quella piccola area del molo. Qualcuno era stato accoltellato nel Dormitorio A. Nessuno sapeva spiegare la presenza dell’arma. Pensavano che provenisse dalla cucina di uno dei ristoranti abbandonati dei moli, una posata lasciata lì per dimenticanza da qualcuno che non si rendeva conto della situazione. Damon era esausto. Non riusciva a ottenere una spiegazione; la polizia della stazione non trovava il colpevole tra le file di profughi che continuavano a snodarsi sui moli verso i banchi di assegnazione degli alloggi.

Qualcuno gli sfiorò la spalla. Girò il collo indolenzito e batté le palpebre nel vedere suo fratello. Emilio sedette nel posto libero accanto a lui, tenendogli la mano sulla spalla. Suo fratello maggiore. Emilio aveva il comando della centrale, per l’altergiorno. Ormai era altergiorno, pensò confusamente Damon. I mondi di sonno-veglia in cui loro due s’incontravano di rado s’erano sovrapposti, in tutta quella confusione.

— Vai a casa — disse gentilmente Emilio. — È il mio turno, se uno di noi deve restare qui. Ho promesso a Elene che ti avrei mandato a casa. Sembrava sconvolta.

— Va bene — disse Damon, ma non riuscì a muoversi. Gli mancava la volontà o l’energia. La mano di Emilio gli strinse la spalla, si ritrasse.

— Ho visto i monitor — disse Emilio. — So con che cosa abbiamo a che fare.

Damon strinse le labbra per dominare un’ondata improvvisa di nausea, e guardò diritto davanti a sé: non i profughi, ma l’infinito, il futuro, la disgregazione di tutto ciò che era sempre stato stabile e certo. Pell. La loro Pell. Sua e di Elene, sua e di Emilio. La Flotta si prendeva la libertà di far loro una cosa simile, e loro non potevano impedirlo, perché i profughi erano arrivati troppo all’improvviso, e non avevano pronta nessuna alternativa. — Ho visto sparare alla gente — disse. — Non ho fatto nulla. Non ho potuto. Non potevo oppormi ai militari. Il dissenso… avrebbe causato disordini. Saremmo stati sopraffatti. Ma hanno sparato a gente che non rispettava la fila.

— Damon, vattene. Adesso tocca a me. Qualcosa faremo.

— Non sappiamo a chi rivolgerci. Solo gli agenti dell’Anonima; ed è inutile coinvolgerli. Non chiamarli in causa.

— Ci arrangeremo — disse Emilio. — Ci sono certi limiti; persino la Flotta se ne rende conto. Non possono sopravvivere, se causano grossi rischi a Pell. Qualunque cosa facciano, non possono farci correre rìschi.

— Lo hanno già fatto — disse Damon. Fissò le code sui moli, poi si voltò a lanciare un’occhiata al fratello: un viso che era l’immagine del suo, con cinque anni in più. — Siamo alle prese con qualcosa che credo non riusciremo mai a digerire.

— E quando chiusero le Stelle delle Retrovie? Ce l’abbiamo fatta.

— Due stazioni… seimila persone che arrivano qui, su… su quante? Cinquanta, sessantamila?

— Nelle mani della Confederazione, immagino — mormorò Emilio. — Oppure sono morti con Mariner: non sappiamo quanti siano stati i morti. Forse altri sono fuggiti con altri mercantili e sono andati altrove. — Si appoggiò alla spalliera della sedia, cupo in volto. — Papà dorme, probabilmente. Anche mamma, spero. Mi sono fermato nell’appartamento, prima di venire qui. Papà ha detto che sei stato un pazzo a venire qui, e ho risposto che allora sono pazzo anch’io, e che comunque avrei potuto sistemare quello che non eri riuscito a sistemare tu. Non ha risposto. Ma è preoccupato… Torna da Elene. Lei ha lavorato dall’altra parte di questo caos, a distribuire documenti a quelli dei mercantili. E ha fatto molte domande. Damon, credo proprio che dovresti andare a casa.

— L’Estelle. — L’apprensione lo trafisse. — Elene sta cercando notizie.

— È andata a casa. Era stanca o sconvolta; non lo so. Ha detto che voleva che andassi a casa anche tu, al più presto possibile.

— Ha saputo qualcosa. — Damon si alzò con uno sforzo e raccolse i documenti, si accorse di quel che stava facendo, li passò a Emilio e uscì in fretta, passando oltre il posto di blocco, nel caos del molo, dall’altra parte del corridoio che divideva la stazione dalla quarantena. Gli operai indigeni si disperdevano davanti a lui: erano figure villose e furtive, rese ancora più aliene dalle maschere dei respiratori che portavano fuori dal tunnel della manutenzione; stavano trasferendo a ritmo convulso merci ed equipaggiamenti e suppellettili, e strillavano e gridavano tra loro, in un contrappunto demenziale agli ordini dei sovrintendenti umani.

Damon prese l’ascensore per il settore verde, percorse il corridoio che portava alla loro area residenziale, dove pure erano disseminate casse di effetti personali dei residenti sloggiati, mentre una guardia della sicurezza sonnecchiava pigramente. Erano un po’ tutti impegnati in lavoro straordinario, in particolare i servizi di sicurezza. Damon passò davanti all’uomo, girò la testa quando quello, imbarazzato, gli chiese in ritardo la parola d’ordine, e raggiunse la porta dell’appartamento.

L’aprì, vide con sollievo che le luci erano accese e sentì il tintinnio della plastica in cucina.

— Elene? — Entrò. Lei stava sorvegliando il forno, voltandogli le spalle. Non si girò. Damon si fermò, intuendo il disastro, un altro mondo perduto.

Il contaminuti squillò. Elene tolse il piatto dal forno, lo mise sul banco, riuscì a guardarlo con aria composta. Damon attese, soffrendo per lei, e dopo un momento si avvicinò e la prese tra le braccia. Elene sospirò. — Sono morti — disse. E dopo un altro momento sospirò di nuovo. — Esplosi con Mariner. L’Estelle è esplosa, con tutti quelli che erano a bordo. Non possono esserci superstiti. Hanno visto quando è successo; non è riuscita a decollare in tempo… tutta quella gente che cercava di salire a bordo. È scoppiato l’incendio. E quella parte della stazione è esplosa. Esplosa.

Cinquantasei persone a bordo. Il padre, la madre, i cugini, i parenti più lontani. L’Estelle era stata un mondo a sé. Damon aveva ancora il suo mondo, per quanto danneggiato. Lui aveva una famiglia. Ma quella di Elene non c’era più.

Lei non disse altro: neppure una parola d’angoscia per la perdita subita o per il sollievo di essere scampata alla stessa sorte, di non aver partecipato a quel viaggio. Esalò qualche respiro convulso, lo abbracciò e si voltò, con gli occhi senza lacrime, per mettere un secondo pranzo nel forno a microonde.

Sedette a tavola ed eseguì tutti i movimenti abituali. Damon mangiò a fatica; aveva ancora in bocca il sapore del disinfettante ed era certo di portarlo addosso. Finalmente, colse gli occhi di Elene fissi su di lui. Erano straziati, come quelli dei profughi. Non trovò nulla da dirle. Si alzò, girò intorno alla tavola e l’abbracciò.

Elene prese le mani di Damon nelle sue. — Mi sento bene.

— Vorrei che mi avessi chiamato.

Lei abbandonò la presa, si alzò e gli toccò il braccio, con un gesto stanco. All’improvviso lo guardò, con la stessa stanchezza cupa. — Una di noi è rimasta — disse. Damon batté le palpebre, perplesso, poi si rese conto che Elene aveva alluso ai Quen. La gente dell’Estelle. Quelli dei mercantili possedevano un nome come quelli delle stazioni possedevano una casa. Elene era una Quen: e questo significava qualcosa che Damon sapeva di non aver compreso, nei mesi che avevano trascorso insieme. La vendetta era preziosa per quelli dei mercantili; lui lo sapeva… per coloro che possedevano soltanto il nome e la reputazione che l’accompagnava.

— Voglio un figlio — disse Elene.

Damon la fissò, sbalordito dalla tristezza dei suoi occhi. L’amava. Lei era entrata nella sua esistenza scendendo da una nave mercantile e aveva deciso di provare la vita della stazione, sebbene parlasse ancora della sua nave. Per la prima volta da quando erano insieme non provava desiderio per lei… no, con quell’espressione e la morte dell’Estelle e i suoi motivi di vendetta. Non disse nulla. Avevano deciso che non avrebbero avuto figli fino a quando Elene avesse saputo con certezza se avrebbe sopportato di rimanere. Ciò che gli stava offrendo poteva essere il suo consenso. Poteva essere qualcosa d’altro. Non era il momento di parlare, adesso, nella follia che li circondava. Damon la strinse a sé, l’accompagnò in camera da letto, la tenne stretta a sé durante quelle lunghe ore buie. Lei non disse nulla, e lui non fece domande.


— No — disse l’uomo al banco delle operazioni, questa volta senza guardare l’elenco; e poi, con uno stanco impulso umanitario: — Aspetti. Controllerò di nuovo. Forse non è stato scritto con quella dizione.

Vassily Kressich attendeva, nauseato dal terrore, mentre la disperazione aleggiava su quell’ultimo desolato raduno dei profughi che rifiutavano di allontanarsi dai banchi sui moli: famiglie e individui sparsi che cercavano i parenti, che attendevano notizie. Erano ventisette, sulle panche lì attorno, compresi i bambini; li aveva contati. Erano passati dal primogiorno all’altergiorno della stazione, ed erano venuti gli operatori di un altro turno al banco che costituiva una prova di umanità della stazione nei loro confronti, ma dai computer non arrivava niente di nuovo.

Vassily Kressich attese. L’operatore continuava a battere i tasti. Non c’era niente; e lui capiva che non c’era niente, dalle occhiate che quell’uomo gli rivolgeva. All’improvviso, ebbe un moto di cpmpassione per l’operatore, che era costretto a riprovare senza ottenere nulla, sapendo che non c’erano speranze, circondato da parenti addolorati, e dalle guardie armate che sorvegliavano il banco per precauzione. Kressich tornò a sedersi, accanto alla famiglia che nella confusione aveva perduto un figlio.

Ogni volta era la stessa storia. Erano saliti a bordo in mezzo al panico, con le guardie che pensavano più a imbarcarsi che a mantenere l’ordine e a far imbarcare gli altri. Era colpa loro: non poteva negarlo. La folla aveva inondato i moli, molti cercavano di salire a bordo con la forza senza le autorizzazioni assegnate al personale indispensabile destinato all’evacuazione. Le guardie, prese dal panico, avevano sparato, incapaci di distinguere fra gli assalitori e i passeggeri autorizzati. La stazione Russell si era spenta tra i tumulti. Finalmente anche l’ultima nave era stata caricata, e i portelli erano stati chiusi. Jen e Romy avrebbero dovuto essere a bordo prima di lui. Lui era rimasto, cercando di mantenere l’ordine nel posto assegnatogli. Quasi tutte le navi erano state chiuse in tempo. Ma la folla aveva assalito l’Hansford, dove le droghe si erano esaurite, dove la pressione di un numero eccessivo di passeggeri aveva devastato ogni cosa e la folla impazzita si era scatenata. La situazione della Griffin era già abbastanza tragica; lui era salito a bordo molto prima dell’ondata che le guardie avevano dovuto stroncare. E aveva sperato che Jen e Romy ce l’avessero fatta a imbarcarsi sulla Lila. L’elenco dei passeggeri aveva certificato che erano sulla Lila: almeno, secondo le comunicazioni che alla fine erano filtrate nella confusione seguita al lancio.

Ma nessuno dei due era sceso a Pell; non avevano lasciato la nave. Nessuna delle persone in condizioni abbastanza critiche per venire ricoverate nell’ospedale della stazione corrispondeva ai loro connotati. Non potevano essere stati arruolati dalla Mallory; Jen non aveva una specializzazione che potesse interessare alla Mallory, e Romy… no, le registrazioni erano sbagliate. Lui aveva creduto all’elenco dei passeggeri, aveva dovuto crederci, perché erano così numerosi che il servizio comunicazioni della nave non poteva inoltrare messaggi diretti. Avevano viaggiato in silenzio. Jen e Romy non erano scesi dalla Lila. Non c’erano mai saliti.

— Hanno sbagliato a buttarli nello spazio — gemette la donna seduta accanto a lui. — Non li hanno identificati. Lui è morto, è morto, doveva essere sull’Hansford.

Un altro uomo era tornato al banco, e cercava di sapere qualcosa, e sosteneva che l’identificazione dei civili arruolati dalla Mallory era una menzogna; e l’operatore stava effettuando con pazienza un’altra ricerca, comparando i connotati. Ancora un esito negativo.

— Lui c’era — gridò l’uomo all’operatore. — Era nell’elenco, e non è sceso, sono sicuro che c’era. — L’uomo stava piangendo. Kressich rimase seduto, intontito.

Sulla Griffin avevano letto l’elenco dei passeggeri e avevano chiesto i documenti d’identità. Pochi li avevano. Molti avevano risposto a nomi che non erano i loro. Alcuni avevano risposto a più d’un nome, per ottenere razioni doppie, cercando di non farsi scoprire. E lui aveva provato una paura profonda, nauseante: ma molta gente era a bordo delle navi sbagliate, e lui si era reso conto della situazione dell’Hansford. Aveva avuto la certezza che fossero a bordo.

A meno che si fossero preoccupati e fossero scesi per cercarlo. A meno che avessero commesso un gesto così orribilmente stupido, per paura e per amore.

Le lacrime cominciarono a scorrergli sulle guance. Non erano certo Jen e Romy che potevano essere saliti sull’Hansford, aprendosi a forza un varco fra uomini armati di pistole, coltelli e pezzi di tubo. Non credeva che fossero tra i morti di quella nave. Era più probabile che fossero ancora sulla stazione Russell, dove adesso regnava la Confederazione. E lui era lì, e non poteva tornare indietro.

Alla fine si alzò, rassegnato. Fu il primo ad andarsene. Andò nell’alloggio che gli avevano assegnato, il dormitorio per gli uomini soli; molti erano giovani, e probabilmente molti erano sotto falso nome, e non erano i tecnici che sostenevano di essere. Trovò una branda libera e ritirò il pacco distribuito dal supervisore. Fece il bagno una seconda volta — gli sembrava di non lavarsi mai abbastanza — e tornò indietro, tra le file di uomini esausti e addormentati, e si sdraiò.

C’era il lavaggio del cervello per i prigionieri abbastanza altolocati che potevano essere di qualche utilità. Jen, pensò, oh, Jen… e il loro figlio, se era vivo, destinato ad essere allevato da un’ombra di Jen, che pensava solo ciò che era approvato e non contestava niente, sottoposta all’Adattamento perché era stata sua moglie. Non era neppure certo che le avrebbero lasciato Romy. C’erano gli asili di stato, che sfornavano i soldati e gli operai della Confederazione.

Pensò al suicidio. Alcuni avevano fatto questa scelta, piuttosto che imbarcarsi sulle navi dirette verso un luogo sconosciuto, una stazione che non era la loro. Quella soluzione non era nel suo carattere. Disteso, immobile, fissò il soffitto metallico nella semioscurità: e sopravvisse, come aveva fatto fino a quel momento, solo, anziano, completamente svuotato.

CAPITOLO QUARTO

PELL: 3/5/52

La tensione incominciò a manifestarsi all’inizio del primogiorno: i primi torbidi pellegrinaggi dei profughi alle cucine improvvisate sul molo, i primi tentativi, da parte di coloro che avevano i documenti e da parte di coloro che ne erano privi, di incontrarsi con i rappresentanti della stazione e di stabilire i diritti di residenza: la prima presa di coscienza delle realtà della quarantena.

— Avremmo dovuto andarcene all’ultimo turno — disse Graff, riesaminando i messaggi arrivati all’alba, — quando era ancora tutto tranquillo.

— Potremmo farlo — disse Signy. — Ma non possiamo rischiare Pell. Se loro non ce la fanno a mantenere l’ordine, dobbiamo riuscirci noi. Chiami il consiglio della stazione e comunichi che adesso sono pronta a incontrarmi con loro. Andrò io. È meno pericoloso che farli uscire sui moli.

— Prenda una navetta e giri intorno all’orlo — suggerì Graff, con la solita espressione preoccupata. — Non si azzardi a mettere il naso là fuori senza una squadra armata. Adesso sono meno controllati. Basta un niente perché esplodano.

La proposta era fondata. Signy si chiese che effetto avrebbe avuto, su Pell, una dimostrazione di timore da parte sua, e scrollò la testa. Tornò nel suo alloggio e indossò quella che passava per un’alta uniforme… almeno, era di colore blu scuro. Venne accompagnata da Di Janz e da una scorta di sei militari corazzati; attraversarono il molo e si presentarono al posto di blocco della quarantena, una porta e un corridoio accanto agli enormi portelli chiusi dell’intersezione. Nessuno cercò di avvicinarsi a lei, sebbene alcuni sembrassero averne l’intenzione ed esitassero alla vista delle guardie. Arrivò alla porta senza che nessuno la fermasse, e la varcò; salì la rampa e arrivò a un’altra porta sorvegliata, quindi scese nella parte principale della stazione.

Poi si trattò soltanto di prendere un ascensore per attraversare vari livelli e di arrivare nella sezione amministrativa, il corridoio azzurro superiore. Fu come cambiare mondo all’improvviso, dall’acciaio nudo dei moli e dell’area di quarantena a una galleria sorvegliata dagli uomini della sicurezza, a un vestibolo dalle pareti di vetro con i tappeti antisuono, dove bizzarre sculture in legno li accolsero come un gruppo di cittadini sbalorditi. Arte. Signy sbatté le palpebre, stupita da quel memento del lusso e della civiltà. Oggetti dimenticati, favolosi. Il tempo di creare ciò che non aveva altra funzione che la bellezza. Signy aveva passato tutta la sua esistenza isolata da cose come quelle; aveva solo saputo, da lontano, che esisteva la civiltà, e che le ricche stazioni serbavano oggetti di pregio nel loro cuore.

Ma non erano facce umane, quelle che la guardavano dagli strani globi dalla forma tozza fra le guglie di legno: erano facce estranee, con gli occhi tondi. Facce della Porta dell’Infinito, pazientemente scolpite nel legno. Gli umani avrebbero usato la plastica o il metallo.

E in verità vi era qualcosa non solo di umano: quel fatto era evidente nelle stuoie meticolosamente intrecciate, nei dipinti colorati che si allineavano in geometrie aliene intorno alle pareti, e le guglie e i globi lignei con le facce e gli occhi enormi, gli stessi volti ripetuti nei mobili scolpiti e persino sulle porte, nei dettagli più minuti, come se tutti quegli occhi volessero ricordare agli umani che la Porta dell’Infinito era sempre con loro.

Ne rimasero tutti impressionati. Di imprecò sottovoce, prima che raggiungessero l’ultima porta e i civili cerimoniosi li facessero entrare, accompagnandoli nella sala del consiglio.

Questa volta davanti a loro c’erano facce umane che li guardavano da sei file di sedie collocate su un lato e un tavolo ovale in mezzo; e a prima vista, le loro espressioni apparvero straordinariamente simili a quelle delle sculture aliene.

L’uomo canuto seduto all’estremità del tavolo si alzò, fece un gesto come per offrire loro la stanza in cui erano entrati. Angelo Konstantin. Gli altri restarono seduti.

E accanto al tavolo c’erano sei sedie che sembravano collocate appositamente, e in esse sedevano altrettanti individui, uomini e donne, che a giudicare dall’abbigliamento non facevano parte del consiglio della stazione e neppure delle Stelle Sperdute.

Erano dell’Anonima. Signy avrebbe potuto rimandare i soldati nell’anticamera, in un gesto di cortesia nei confronti del consiglio, liberarsi della minaccia dei fucili e della forza. Rimase immobile, senza rispondere al sorriso di Konstantin.

— Credo che potremo sbrigarcela in fretta — disse. — La vostra zona di quarantena è organizzata e funzionante. Vi consiglio di piazzare molte guardie armate. Vi avverto che altri mercantili sono partiti senza autorizzazione. Non facevano parte del nostro convoglio. È meglio che seguiate le mie raccomandazioni e che mandiate le squadre della sicurezza a bordo di ogni mercantile in arrivo, prima di lasciarlo avvicinare. Adesso avete un’idea di quello che è stato il disastro di Russell. Io me ne andrò al più presto; adesso il problema riguarda voi.

Ci fu un brusio preoccupato nella sala. Uno degli uomini dell’Anonima si alzò. — Si è comportata con molta disinvoltura, comandante Mallory. È consueto, da queste parti?

— È buona abitudine, signore, che chi conosce una situazione se ne occupi, e chi non la conosce stia a vedere e impari, oppure si tolga di torno.

Il volto magro del rappresentante dell’Anonima arrossì visibilmente. — A quanto pare, siamo costretti a tollerare questo tipo di atteggiamento… per ora. Abbiamo bisogno di un mezzo di trasporto che ci conduca verso quel che è rimasto del confine. La Norway è disponibile.

Signy trasse un profondo sospiro e si raddrizzò. — No, signore, non siete costretti a niente, perché la Norway non è disponibile per i passeggeri civili, e io non ne prenderò a bordo. In quanto al confine, il confine è dove si trova la flotta al momento, e solo le navi interessate sanno dove si trova. Non esiste nessun confine. Prenda a noleggio un mercantile.

Nella sala scese un profondo silenzio.

— Comandante, detesto parlare di corte marziale.

Signy si lasciò sfuggire un sorriso. — Se voi dell’Anonima avete voglia di fare un sopralluogo, provo la tentazione di prendervi a bordo. Forse vi farebbe bene. Forse potreste ampliare la prospettiva della Madre Terra; e forse noi potremmo ottenere qualche altra nave.

— Lei non è in grado di fare simili richieste e noi non possiamo prenderle in considerazione. Non siamo qui per vedere solo quello che altri decidono di mostrarci. Vedremo tutto, comandante, le piaccia o no.

Signy piantò le mani sui fianchi e li guardò bene in faccia. — Il suo nome, signore.

— Segust Ayres, del Consiglio di Sicurezza, secondo segretario.

— Secondo segretario. Bene, vedremo quanto spazio riusciremo a trovare. Niente bagagli, oltre all’equipaggiamento minimo. Sia chiaro. Niente fronzoli. Andrete dove andrà la Norway. Io non prendo ordini da nessuno, escluso Mazian.

— Comandante — intervenne un altro, — chiediamo la sua collaborazione.

— Avrete quella che io vi darò, e niente di più.

Vi fu un improvviso silenzio e un lento brusio si levò dai banchi. Ayres diventò ancor più paonazzo; la dignità che aveva irritato Signy era sempre più alterata. — Lei fa parte dell’Anonima, comandante, ed è dall’Anonima che ha avuto il suo grado. L’ha dimenticato?

— Sono il terzo comandante della Flotta, signor secondo segretario, quindi sono un militare, e lei non lo è. Ma se ha intenzione di venire, sia pronto fra un’ora.

— No, comandante — dichiarò con fermezza Ayres. — Accettiamo il suo consiglio: noleggeremo un mercantile. È così che siamo arrivati da Sol. I mercantili vanno dove decide chi li noleggia.

— È ragionevole, non ne dubito. — Bene. Quel problema era risolto. Signy immaginava la costernazione di Mazian, se si fosse trovato quelli tra i piedi. Guardò Angelo Konstantin. — Io ho concluso la mia missione qui. Me ne vado. Ogni eventuale messaggio verrà inoltrato.

— Comandante. — Angelo Konstantin lasciò il suo posto, tendendo la mano: una cortesia insolita, ancora più strana considerando ciò che gli aveva fatto Signy, scaricando i profughi. Lei accettò quella ferma stretta di mano e incontrò gli occhi ansiosi dell’uomo. Si conoscevano appena, e si erano incontrati qualche volta, in passato. Angelo Konstantin, cittadino delle Stelle Sperdute da sei generazioni; come il giovane che era sceso ai moli per dare una mano era della settima generazione. I Konstantin avevano costruito Pell; erano scienziati e minatori, costruttori e proprietari. Con quell’uomo e con gli altri come lui, Signy sentiva una specie di legame, nonostante tutte le altre differenze. Erano gli uomini come quelli che la Flotta doveva proteggere.

— Buona fortuna — augurò; e uscì, portando con sé Di e i soldati.

Seguì lo stesso percorso dell’andata, attraverso la zona della quarantena appena istituita, e ritornò nell’ambiente familiare della Norway, dove la legge era quella che lei stessa stabiliva, e non vi erano sorprese. C’erano pochi dettagli da sbrigare ancora, poche questioni da sistemare, gli ultimi doni da lasciare alla stazione: i risultati ottenuti dal suo servizio di sicurezza… rapporti, raccomandazioni, un corpo vivo, e i rapporti recuperati che l’accompagnavano.

Poi mise la Norway in condizione verde, si udì la sirena e i militari che Pell aveva per proteggersi lasciarono la stazione.

Signy esaminò la sequenza delle rotte che aveva impresse nella mente, e che Graff, il suo secondo, conosceva. Non era l’unica evacuazione in corso; la stazione Pan-Paris era affidata a Kreshov; Sung, della Pacific, si era spinto fino a Esperance. Ormai altri convogli erano in viaggio verso Pell, e lei aveva soltanto incominciato l’opera.

L’ondata stava arrivando. Altre stazioni avevano ceduto, al di là della loro portata, al di là di ogni possibilità d’intervento. Portavano via quello che potevano, costringendo la Confederazione a pagare il suo prezzo. Ma secondo la sua valutazione personale, anche loro erano spacciati, e molti di loro non sarebbero sopravvissuti all’attuale manovra. Erano i resti di una Flotta, contrapposti a una potenza che disponeva di risorse inesauribili di vite umane, di rifornimenti e di pianeti, al contrario di loro.

Dopo una lotta tanto lunga… la sua generazione, l’ultima della Flotta, l’ultima del potere dell’Anonima. Lei aveva assistito a quella dissoluzione; aveva lottato per tenere unite la Terra e la Confederazione, il passato dell’umanità… e il futuro. Lottava ancora, con tutte le sue forze e con i mezzi di cui disponeva, ma non sperava più. Qualche volta, pensava addirittura di abbandonare la Flotta, di fare quello che già avevano fatto alcune navi, e di passare alla Confederazione. Era il colmo dell’ironia che la Confederazione fosse diventata lo schieramento pro-spazio di quella guerra, e che l’Anonima fondatrice fosse la sua avversaria; era un’ironia che coloro che più di altri credevano nelle Stelle Sperdute finissero per combattere contro ciò che esse stavano diventando, per morire in nome di un’Anonima che non se ne curava più. Signy era amareggiata; ma da molto tempo aveva smesso di tener conto delle considerazioni politiche, nel discutere l’atteggiamento dell’Anonima.

Un tempo, anni prima, aveva visto le cose in modo diverso, quando aveva guardato come estranea le grandi navi e la loro potenza, quando il sogno dell’esplorazione l’aveva coinvolta, un sogno da molto tempo piegato alle realtà ormai rappresentate dai gradi di comandante dell’Anonima. Da molto tempo s’era resa conto che era impossibile vincere.

Forse, pensò, anche Angelo Konstantin se ne rendeva conto. Forse lui aveva compreso quello che Signy aveva inteso dire, e aveva risposto nell’atto di dirle addio… le aveva offerto un appoggio di fronte alla pressione dell’Anonima. Per un momento, le era parso che fosse così. Forse molti abitanti della stazione sapevano… ma era pretendere troppo, da loro.

Signy aveva tre carte da giocare, e questo richiedeva tempo: una piccola operazione e poi un balzo al rendezvous con Mazian, a una certa data. Se all’operazione iniziale fosse sopravvissuto un numero sufficiente di navi. Se La Confederazione avesse reagito come speravano. Era una pazzia.

La Flotta era sola, senza l’appoggio dei mercantili e delle stazioni, ed era ormai sola da molti anni.

CAPITOLO QUINTO

PELL: 5/5/52

Angelo Konstantin alzò bruscamente il capo dalla scrivania coperta da appunti sulle situazioni d’emergenza che richiedevano un’attenzione immediata. — La Confederazione? — chiese, sbigottito.

— Un prigioniero di guerra — gli disse il capo della sicurezza che stava impacciato davanti alla scrivania. — Evacuato da Russell. È stato consegnato al nostro servizio di sicurezza separatamente dagli altri. Prelevato da una capsula, una nave piccola, confinato a Russell. La Norway l’ha portato qui… non potevano lasciarlo in mezzo ai profughi. L’avrebbero massacrato. La Mallory ha allegato un appunto al suo fascicolo: Adesso è lui il vero problema. Parole sue, signore.

Angelo aprì il fascicolo, guardò quella faccia giovane, le pagine dei verbali degli interrogatori, la carta d’identità della Confederazione, un pezzo di carta con la firma di Signy Mallory e uno scarabocchio: Giovane e spaventato.

Joshua Halbraight Talley. Operatore ai sistemi di difesa. Nave-sonda della flotta della Confederazione.

Konstantin aveva cinquecento individui che avevano creduto di venire rimandati ai loro alloggi; il preannuncio di altre evacuazioni nelle istruzioni segrete lasciate dalla Mallory, che avrebbero occupato quasi tutte le sezioni arancione e gialla, spostando altri uffici; e sei agenti dell’Anonima convinti di andare a ispezionare l’andamento della guerra, mentre nessun mercantile sarebbe stato disposto a prenderli a bordo. Non aveva bisogno di altri problemi.

La faccia di quel ragazzo l’ossessionava. Tornò a quella pagina, sfogliò di nuovo il verbale degli interrogatori, gli diede una scorsa, e si ricordò del capo della sicurezza che stava ancora lì. — Cosa ne avete fatto?

— Lo teniamo prigioniero. Gli altri uffici non sono d’accordo su quel che dobbiamo fare di lui.

Pell non aveva mai avuto un prigioniero di guerra. Lì la guerra non era mai arrivata. Angelo rifletté, irrequieto, sulla situazione. — L’Ufficio Legale che cosa suggerisce?

— Ha suggerito che chiedessi una decisione a lei.

— Non siamo attrezzati per quel tipo di detenzione.

— No, signore — riconobbe il capo della sicurezza. Il prigioniero era nell’ospedale: quelle strutture dovevano servire al riaddestramento. All’Adattamento… le poche volte che era stato necessario.

— Non possiamo curarlo.

— Quelle celle non sono fatte per lunghi soggiorni, signore. Forse potremo predisporne una più comoda.

— Già così abbiamo tanta gente senza alloggio. Come lo spiegheremo?

— Potremo arrangiarci. Togliere un pannello nella cella: ricavarne almeno una camera più grande.

— Soprassediamo. — Angelo si passò una mano fra i capelli radi. — Esaminerò il caso appena avrò sistemato la situazione d’emergenza. Si arrangi con lui nel modo migliore, con quello che ha a disposizione. Chieda agli uffici competenti di usare un po’ d’immaginazione e di sottopormi le loro proposte.

— Sì, signore. — Il capo della sicurezza uscì. Angelo mise da parte il fascicolo per riprenderlo più tardi. In un momento simile, non avevano proprio bisogno di un prigioniero come quello. Avevano bisogno di mezzi per procurarsi alloggi e viveri per tutte quelle bocche in più e per prepararsi ad affrontare quello che sarebbe venuto poi. Avevano merci che all’improvviso non potevano più essere destinate altrove: potevano venire consumate su Pell e sulla Porta dell’Infinito, alla Base, e nelle miniere. Ma ne occorrevano ancora. Dovevano pensare all’economia, ai mercati che erano crollati, al valore delle monete che adesso diventava molto dubbio, per quel che riguardava i comandanti dei mercantili. Pell, abituata a un’economia su scala interstellare, doveva raggiungere l’autosufficienza; e forse… forse avrebbe dovuto affrontare altri cambiamenti.

A preoccuparlo non era quell’unico prigioniero della Confederazione che avevano in mano, e che era chiaramente identificato. Era il numero di confederati e di simpatizzanti che sarebbe probabilmente aumentato durante la quarantena; individui per i quali qualunque cambiamento sarebbe apparso migliore della realtà attuale. Solo pochi profughi avevano i documenti; e molti di loro non corrispondevano alle fotografie e alle impronte digitali delle loro carte d’identità.

— Abbiamo bisogno di un collegamento con i residenti della zona di quarantena — disse Angelo al consiglio, nella riunione di quel pomeriggio. — Dovremo creare un governo, dall’altra parte della linea di demarcazione, qualcuno indicato da loro stessi con una specie di elezione; e poi dovremo trattare con loro.

I consiglieri accettarono la proposta come avevano accettato tutto il resto. Erano preoccupati al pensiero dei loro elettori, i consiglieri delle sezioni gialla e arancione, di quelle verde e bianca che avevano ricevuto quasi tutto l’afflusso dei residenti della stazione. Il settore rosso, che confinava dall’altra parte con quello giallo, era irrequieto; e gli altri erano irritati. C’era un’ondata di reclami, di proteste e di voci. Angelo ne prendeva nota. Ci furono discussioni. Finalmente arrivarono all’inevitabile conclusione che dovevano alleggerire la pressione sulla stazione stessa.

— Non autorizziamo ulteriori costruzioni, qui — intervenne Ayres, alzandosi. Angelo lo fissò, incoraggiato dal ricordo di Signy Mallory, che aveva scoperto il bluff dell’Anonima.

— Io sì — disse Angelo. — Ho le risorse per farlo, e lo farò.

Ci fu una votazione. Si svolse nell’unico modo logico, con gli osservatori dell’Anonima che sedevano in iroso silenzio, e posero il veto a ciò che veniva approvato, veto che venne però semplicemente ignorato.

Gli uomini dell’Anonima lasciarono presto la riunione. La sicurezza riferì, più tardi, che si stavano dando da fare sui moli e cercavano di noleggiare un mercantile offrendo tariffe esorbitanti, con pagamento in oro.

Nessun mercantile era disposto a partire, se non per i soliti trasporti all’interno del sistema, verso le zone minerarie. Quando Angelo ne fu informato, non si meravigliò. Soffiava un vento freddo, e Pell ne avvertiva l’effetto; e così pure tutti coloro che avevano gli istinti innati delle Stelle Sperdute.

Alla fine, forse, lo sentirono anche gli uomini dell’Anonima, almeno due di loro, perché noleggiarono una nave per farsi portare in patria, a Sol, la stessa che li aveva condotti lì; un piccolo mercantile decrepito, l’unico con una designazione dell’AT che avesse attraccato a Pell in quasi un decennio, carico di oggetti artigianali e di raffinati generi alimentari della Porta dell’Infinito per il viaggio di ritorno, così come aveva portato merci dalla Terra, all’andata, merci che si vendevano bene come curiosità. Gli altri quattro rappresentanti dell’Anonima alzarono le offerte, e salirono a bordo di un mercantile per una corsa non garantita secondo la rotta già stabilita dalla nave, con fermate a Viking e nelle altre stazioni considerate sicure in quei tempi inquieti. Accettarono le condizioni della Mallory dal comandante di un mercantile, e pagarono per quel privilegio.

CAPITOLO SESTO

BASE PRINCIPALE PORTA DELL’INFINITO: 20/5/52

Era in corso un temporale sulla Porta dell’Infinito, quando la navetta scese; e non era una cosa rara, su un mondo sul quale abbondavano le nubi, e dove per tutto l’inverno il continente settentrionale era avvolto dalla coltre generata dal mare, solo eccezionalmente così fredda da gelare, ma non abbastanza calda perché gli uomini si sentissero a loro agio… e per mesi e mesi si distinguevano a malapena il sole e le stelle. Il deflusso dei passeggeri, al campo di atterraggio, procedeva sotto una pioggia fredda e battente, una fila di persone stanche e rabbiose lasciava la navetta e saliva la collina, per venire sistemata nei vari magazzini, tra mucchi di stuoie e sacchi muffiti di prosh e di fikli. — Muovetevi e ammassate tutto — gridarono i sovraintendenti, quando l’affollamento divenne evidente; il chiasso era infernale: voci che imprecavano, il martellare della pioggia sulle cupole gonfiate, il rumore sordo dei compressori. Gli stanchi abitanti della stazione si decisero finalmente a eseguire gli ordini… erano quasi tutti giovani, in prevalenza operai delle costruzioni, più alcuni tecnici, virtualmente senza bagagli, quasi tutti spaventati da quel primo contatto con la realtà delle condizioni meteorologiche. Erano nati nella stazione, e ansimavano per quel chilo di peso in più dovuto alla gravità della Porta dell’Infinito, rabbrividivano ai tuoni e ai lampi che si succedevano nei cieli tumultuosi. Non avrebbero potuto riposare prima di aver approntato una specie di dormitorio; non c’era tregua per nessuno, indigeni o umani, tutti impegnati a trasportare i viveri oltre la collina e caricarli sulla navetta, e per le squadre che cercavano di rimediare agli inevitabili allagamenti delle cupole…

Jon Lukas assistette a una parte delle operazioni con una smorfia di disappunto, e tornò alla cupola principale che fungeva da centrale operativa. Camminò avanti e indietro, ascoltò la pioggia, attese per quasi un’ora, e alla fine si rimise la tuta e la maschera per tornare alla navetta. — Arrivederci, signore — disse l’operatore delle comunicazioni, alzandosi. Quei pochi che erano rimasti, smisero di lavorare. Jon Lukas strinse loro la mano, ancora accigliato, e finalmente uscì dalla fragile camera di compensazione e salì i gradini di legno che conducevano al sentiero, sferzato dalla pioggia gelida. Cinquantenne, un po’ grasso, non faceva una gran figura nella lucida plastica gialla. Si era sempre risentito di quell’umiliazione: odiava camminare immerso nel fango fino alle caviglie, nel freddo che penetrava attraverso la tuta e l’imbottitura. La protezione antipioggia e i respiratori trasformavano gli umani della base in mostri gialli e indistinti sotto l’acquazzone. Gli indigeni correvano in giro nudi e soddisfatti, con il pelame bruno sugli arti esili e sui corpi magri scurito dalla pioggia e incollato addosso, le facce dagli occhi tondi e dalle bocche perpetuamente atteggiate in espressioni di stupore, e ciangottavano nella loro lingua, un vocio insistente tra la pioggia e il rombo continuo del tuono. Jon seguì il percorso più diretto per raggiungere il luogo dell’atterraggio, non quello che portava all’altro lato del triangolo, passando davanti alle cupole dei magazzini e alle cupole dei dormitori. Lì non c’era traffico. Niente incontri. Niente addii. Guardò i campi sommersi; i cespugli verdegrigi e i filari degli alberi sulle colline intorno alla base si scorgevano appena tra le dense cortine create dall’acquazzone, il fiume era una fascia ampia e straripante sulla riva più lontana, dove tendeva a formarsi una palude, nonostante tutti gli sforzi fatti per drenarla… altre malattie per gli operai indigeni, almeno per quelli senza vaccinazione. La base della Porta dell’Infinito non era un paradiso. Jon non aveva scrupoli a lasciarla, e ad abbandonare il nuovo personale e gli indigeni. Quello che gli bruciava era il modo in cui era stato richiamato.

— Signore…

Alla fine un’ultima seccatura lo inseguì sguazzando sul entiero. Bennett Jacint. Jon accennò a voltarsi ma continuò a camminare, e costrinse l’altro a faticare per raggiungerlo nel fango e nella pioggia.

— La diga del mulino — ansimò Jacint, tra i sibili del respiratore. — Occorre qualche squadra di umani, là, con equipaggiamento pesante e sacchi di sabbia.

— È un problema che non mi riguarda più — disse Jon. — Si arrangi. Si dia da fare. Metta al lavoro gli indigeni. Prenda una squadra in più. Oppure aspetti i nuovi supervisori. Perché no? Può spiegare tutto a mio nipote.

— Dove sono? — chiese Jacint. Bennett Jacint era un abile ostruzionista, sempre pronto a sollevare obiezioni di fronte a ogni miglioria. Più di una volta, Jacint lo aveva scavalcato per inoltrare una protesta. Un progetto di costruzione che lui aveva avviato era stato bloccato, e la strada che portava ai pozzi era rimasta una pista fangosa. Jon sorrise e indicò, in lontananza, le cupole dei magazzini.

— Non c’è tempo.

— Questo è un problema suo.

Bennett Jacint imprecò, poi cambiò idea e tornò correndo verso il mulino. Jon rise. Le scorte nel mulino stavano infradiciandosi. Bene. Era compito dei Konstantin risolvere il problema.

Superò la collina, e cominciò a scendere verso la navetta, aliena e argentea sul prato calpestato, con il portello della stiva abbassato e gli indigeni affaccendati tutt’intorno e fra loro alcuni umani in tuta gialla. Il suo percorso incrociò quello su cui si muovevano gli indigeni: fango smosso. Camminò sul bordo erboso, e imprecò quando un indigeno carico gli passò troppo vicino barcollando. Almeno aveva la soddisfazione di vedere che gli stavano alla larga. Entrò nel cerchio dell’atterraggio, rivolse un cenno secco a un superiore umano, salì la rampa di carico, ed entrò nell’ombra delle pareti d’acciaio. Si tolse la tuta fradicia, lì al freddo, tenendo la maschera. Ordinò a un caposquadra indigeno di far ripulire l’area infangata, attraversò la stiva e raggiunse l’ascensore, salì in un asettico corridoio d’acciaio e finalmente entrò in un piccolo scompartimento passeggeri con i sedili imbottiti.

C’erano due operai indigeni che partivano per prendere servizio alla stazione. Quando lo videro assunsero un’aria incerta, e si scambiarono un cenno. Jon sigillò l’area passeggeri e cambiò l’aria, in modo che lui potesse abbandonare il respiratore e gli indigeni fossero costretti e indossarlo. Sedette di fronte a loro nello scompartimento privo di finestrini e li guardò con indifferenza. L’aria puzzava di indigeni bagnati, un odore che lui aveva sopportato per tre anni, e che persino chi era su Pell poteva sentire, se aveva il naso sensibile, ma che era particolarmente terribile nella base della Porta dell’Infinito; con i cereali polverosi e le distillerie, le piante e le pareti e il fango e la melma e il fumo dei mulini, le latrine che traboccavano, gli stagni che si coprivano di schiuma verde, le muffe delle foreste che potevano danneggiare un respiratore e uccidere un uomo sorpreso senza una riserva d’aria… e come se tutto questo non bastasse, bisognava avere a che fare con gli operai indigeni, così stupidi, con i loro tabù religiosi e i loro continui pretesti. Era fiero di quello che aveva ottenuto: aumento della produzione, efficienza, mentre prima c’era stata soltanto l’inerte rassegnazione all’idea che gli indigeni erano indigeni e non capivano i piani di lavoro. E invece erano in grado di farlo, e potevano stabilire primati di produzione.

E nessun ringraziamento. La stazione era stata colpita da una crisi, e l’espansione sulla Porta dell’Infinito, che per un decennio era continuata zoppicando tra le inutili sedute per la pianificazione, all’improvviso si era definitivamente avviata. Adesso avrebbero utilizzato gli impianti che lui aveva realizzato, con gli operai per i quali aveva preparato rifornimenti e alloggi, usando i fondi e l’equipaggiamento della Società Lukas.

Solo un paio di Konstantin erano stati mandati a svolgere un’attività di supervisione durante quella fase, senza neppure un — grazie, signor Lukas — o un — ben fatto, Jon, grazie per aver abbandonato gli uffici della tua società e i tuoi affari, grazie per aver lavorato tre anni. — Emilio Konstantin e Miliko Dee nominati supervisori Porta Infinito; prego sistemare affari e risalire al più presto con navetta. Suo nipote, Emilio. Il giovane Emilio avrebbe diretto tutti i lavori di costruzione. I Konstantin intervenivano sempre all’ultimo stadio, sempre quando c’era da arrogarsi il merito. In consiglio c’era la democrazia, ma negli uffici della stazione regnava una dinastia. Sempre i Konstantin. I Lukas erano arrivati a Pell contemporaneamente, s’erano occupati allo stesso modo della sua costruzione: avevano una società importante nelle Stelle delle Retrovie; ma i Konstantin avevano manovrato abilmente e avevano accumulato potere ad ogni occasione. E anche adesso: l’equipaggiamento era suo, suoi erano i preparativi, e i Konstantin assumevano la direzione quando si arrivava alla fase in cui l’opinione pubblica poteva accorgersene. Emilio: il figlio di sua sorella Alicia e di Angelo. La gente poteva venire manovrata, se non sentiva altro che il nome dei Konstantin; e Angelo era un maestro raffinato di quella tattica.

Sarebbe stata una cortesia ricevere suo nipote e la moglie al loro arrivo, restare ancora qualche giorno per scambiare informazioni, o almeno avvertirli che sarebbe partito immediatamente con la navetta che li aveva portati fin lì. E sarebbe stata una cortesia, da parte loro, venire subito alle cupole per un incontro ufficiale, una specie di riconoscimento della sua autorità alla base… ma non l’avevano fatto. Neppure un saluto per radio, ciao zio, quando erano atterrati. Adesso non aveva voglia di vane cortesie, di starsene sotto la pioggia, scambiandosi strette di mano e convenevoli con un nipote al quale parlava di rado. Si era opposto al matrimonio di sua sorella; aveva discusso con lei, e il matrimonio non l’aveva legato alla famiglia Konstantin; con la mentalità di Alicia, era quasi una diserzione. Da allora non si erano parlati, se non in forma ufficiale; e poi neppure quello, negli ultimi anni… la sua presenza lo deprimeva. E i ragazzi somigliavano ad Angelo, com’era stato da giovane; li evitava, e sapeva che probabilmente speravano di mettere le mani sulla Società Lukas… almeno su una parte, come parenti più prossimi, dopo la sua morte. Era quella speranza, tuttora ne era convinto, che aveva spinto Angelo verso Alicia; la Società Lukas era ancora la più grande azienda indipendente di Pell. Ma lui era uscito dalla trappola, e aveva fatto loro la sorpresa di un erede; non era di suo gusto, ma era pur sempre una creatura vivente. Aveva lavorato per tutti quegli anni sulla Porta dell’Infinito, inizialmente convinto che sarebbe stato possibile espandere laggiù la Società Lukas, mediante i lavori di costruzione. Angelo l’aveva capito, e aveva manovrato il consiglio per bloccarlo. Preoccupazioni ecologiche. E adesso era il momento della mossa finale.

Aveva preso alla lettera l’ordine di ritornare, ricambiando la scortesia con la quale gli era stato comunicato, partendo senza bagagli e senza fanfara, come un colpevole richiamato in patria in disgrazia. Anche se era puerile, poteva far colpo sul consiglio… e se tutte le scorte del mulino fossero state danneggiate durante il primo giorno della gestione dei Konstantin, tanto meglio. Era un bene che si trovassero un po’ a corto di risorse, alla stazione; e ci pensasse Angelo a spiegarlo al consiglio. Avrebbe aperto un dibattito, e lui sarebbe stato presente; era proprio quello che voleva.

Avrebbe meritato qualcosa di più.

Finalmente i motori si attivarono, annunciando la partenza. Si alzò, andò a prendere una bottiglia e un bicchiere nell’armadietto. Alla richiesta dell’equipaggio della navetta, rispose che non aveva bisogno di niente. Sedette, allacciò la cintura, e la navetta cominciò a salire. Si versò da bere per prepararsi al volo, che aveva sempre odiato; bevve, mentre il liquido ambrato tremava nel bicchiere sotto la tensione del suo braccio e la vibrazione della nave. Di fronte a lui, i due indigeni si tenevano abbracciati e gemevano.


PELL — DETENZIONE: SETTORE ROSSO UNO: 20/5/52; ore 0900

Il prigioniero era ancora seduto al tavolo insieme a loro tre, e fissava di preferenza il supervisore delle guardie, anche se i suoi occhi sembravano concentrati su qualcosa di più lontano. Damon posò di nuovo il fascicolo sul tavolo e studiò quell’uomo, che cercava soprattutto di evitare il suo sguardo. Quel colloquio lo metteva a disagio… era diverso dai criminali di cui doveva occuparsi per l’Ufficio Legale… quell’uomo, con il viso simile al ritratto di un angelo, quell’umanità troppo perfetta, con i capelli biondi e uno sguardo che riusciva a penetrare attraverso gli oggetti. Bello, pensò. Non aveva difetti. L’espressione era di totale innocenza. Non era un ladro o un teppista; ma quell’uomo avrebbe ucciso — se un uomo simile poteva uccidere — per la politica. Per dovere, perché lui era della Confederazione, e loro no. Non era una questione d’odio. Era inquietante, avere nelle mani la vita o la morte di un uomo simile. Questo significava per lui avere possibilità di scelte, scelte speculari… non per odio, ma per dovere, perché lui non era della Confederazione, quell’uomo sì.

Siamo in guerra, pensò desolato Damon. E poiché lui è arrivato qui, è arrivata la guerra.

Una faccia d’angelo.

— Non le ha dato fastidi, vero? — chiese Damon al supervisore.

— No.

— Ho sentito che è un buon giocatore di midge.

Trasalirono tutti e due. Si giocava clandestinamente d’azzardo nella stazione di detenzione, come in tutti i posti dove non c’era molto da fare durante l’altergiorno. Damon sorrise quando il prigioniero guardò dalla sua parte, un movimento appena accennato degli occhi celesti… e ridiventò serio quando il prigioniero non reagì. — Io sono Damon Konstantin, signor Talley, dell’ufficio legale della Stazione. Lei non ci ha causato fastidi e lo apprezziamo. Non siamo suoi nemici; lasceremmo attraccare una flotta della Confederazione senza difficoltà, come facciamo con le navi dell’Anonima… in linea di principio; ma la sua presenza impedisce alla stazione di restare neutrale, a quanto abbiamo saputo, quindi anche il nostro atteggiamento deve cambiare di conseguenza. Non possiamo correre il rischio di lasciarla andare. Rimpatriarla… no. Abbiamo ricevuto altre istruzioni. Per la nostra sicurezza. Lei lo capisce.

Nessuna reazione.

— Il suo avvocato ha sostenuto che lei soffre a stare qui rinchiuso, e che le celle non sono state costruite per lunghe detenzioni. Inoltre nel settore Q sono in circolazione tipi molto più pericolosi per la stazione; e c’è molta differenza tra un sabotatore e un combattente in uniforme che ha avuto la sfortuna di venire catturato. Ma nonostante questo, non consiglia di lasciarla andare, se non nel settore Q. Abbiamo elaborato una soluzione. Possiamo darle una carta d’identità per la sua incolumità, e continuare a tenerla d’occhio anche là. Non è un’idea che mi entusiasmi, ma sembra fattibile.

— Che cos’è il settore Q? — chiese Talley, con una voce sommessa e ansiosa, rivolgendosi al supervisore e al suo avvocato, l’anziano Jacoby che sedeva a capotavola. — Che cosa sta dicendo?

— Quarantena. La sezione isolata dalla stazione che abbiamo assegnato ai nostri profughi.

Gli occhi di Talley si spostarono nervosamente prima sull’uno e poi sull’altro interlocutore. — No. No. Non voglio essere messo insieme a loro. Non gli ho mai detto di chiedere questo. Mai.

Damon aggrottò la fronte sentendosi a disagio — Sta per arrivare un altro convoglio, signor Talley, un altro gruppo di profughi. Abbiamo dato disposizioni per mescolarla fra di loro, con documenti falsi. La tireremo fuori di qui. Sarà sempre rinchiuso, ma con pareti più ampie, e spazio per girare dove vuole, per vivere la sua vita… come si vive nel settore Q. C’è abbastanza spazio in quella parte della stazione. Niente irreggimentazione… è aperta. Niente celle. Il signor Jacoby ha ragione; lei non è più pericoloso di certuni che già si trovano là; anzi meno, perché sappiamo chi è.

Talley lanciò un’altra occhiata al suo avvocato e scosse la testa, con aria implorante.

— Si rifiuta? — insistette Damon, irritato. Tutte le soluzioni e gli accordi si stavano sgretolando. — Non è una prigione, deve capirlo.

— La mia faccia… là la conoscono. La Mallory ha detto…

Talley s’interruppe. Damon lo fissò, notò l’ansia febbrile, il sudore sul suo volto. — Che cosa ha detto la Mallory?

— Che se avessi causato fastidi… mi avrebbe trasferito su una delle altre navi. Credo di sapere che cosa avete in mente: pensate che se tra di loro ci sono confederati e mi spedite là in quarantena, si metteranno in contatto con me. È così? Ma là non vivrei a lungo. C’è gente che mi conosce di vista. Funzionari della stazione. Poliziotti. Loro vanno dappertutto su queste navi, no? E mi conoscono. Se mi trasferite là, dopo un’ora sarò morto. Ho saputo qualcosa a proposito di quelle navi.

— Gliel’ha detto la Mallory.

— Me l’ha detto la Mallory.

— D’altra parte — disse amaramente Damon — ci sono quelli che non vorrebbero salire su una delle navi di Mazian, abitanti delle stazioni pronti a giurare che un uomo onesto non riuscirebbe a sopravvivere a lungo. Ma immagino che lei abbia avuto un viaggio piacevole, no? Vitto sufficiente e nessuna preoccupazione per l’aria. Il vecchio contrasto fra gli spaziali e gli abitanti delle stazioni: questi ultimi possono anche morire asfissiati, purché il ponte della nave rimanga immacolato. Ma lei godeva di particolari privilegi. Un trattamento speciale.

— Non è stato molto piacevole, signor Konstantin.

— E non ha potuto scegliere, vero?

— No. — La risposta risuonò rauca. All’improvviso Damon si pentì delle punzecchiature, ricordando i sospetti, le dicerie maligne della Flotta. Si vergognava del ruolo che gli era toccato. Che era toccato a Pell. La guerra e i prigionieri di guerra. Lui non voleva saperne.

— Quindi rifiuta la soluzione che le proponiamo — disse. — Ne ha il diritto. Nessuno la costringerà. Non vogliamo mettere in pericolo la sua vita, ed è quello che succederebbe, se le cose stanno come dice. E allora cosa farà? Immagino che continuerà a giocare a midge con i guardiani. La cella è molto piccola. Le hanno consegnato i nastri e il registratore? Li ha ricevuti?

— Vorrei… — Le parole gli uscirono dalle labbra come un rigurgito di nausea. — Vorrei chiedere l’Adattamento.

Jacoby abbassò gli occhi e scosse il capo. Damon restò in silenzio.

— Se fossi Adattato potrei uscire di qui — disse Talley. — Potrei fare qualcosa. Sono io a chiederlo. Un prigioniero può sempre fare questa scelta, no?

— I suoi usano questo sistema con i prigionieri — disse Damon. — Ma noi no.

— Sono io a chiederlo. Mi avete rinchiuso come un criminale. Se avessi ucciso qualcuno, non ne avrei il diritto? Se avessi rubato o…

— Credo che dovrebbe venir sottoposto a esami psichiatrici, se proprio insiste.

— Non fanno gli esami psichiatrici… quando preparano per l’Adattamento?

Damon guardò Jacoby.

— Diventa sempre più depresso — disse Jacoby. — Mi ha chiesto parecchie volte d’inoltrare la richiesta alla stazione, e io non l’ho fatto.

— Non abbiamo mai ordinato l’Adattamento per chi non fosse stato riconosciuto colpevole di un crimine.

— E avete mai trattenuto qualcuno che non lo fosse? — chiese il prigioniero.

— La Confederazione usa quel sistema senza batter ciglio — disse sottovoce il supervisore. — Queste celle sono piccole, signor Konstantin.

— Un uomo non può chiedere una cosa del genere — disse Damon.

— Io la chiedo — insistette Talley — e la chiedo espressamente. Voglio uscire di qui.

— Risolverebbe il problema — disse Jacoby.

— Voglio sapere perché lo chiede.

Voglio uscire!

Damon restò immobile. Talley trattenne il respiro, appoggiandosi al tavolo, e ritrovò la compostezza proprio quando stava per mettersi a piangere. L’Adattamento non era una misura punitiva, né intendeva esserlo. Produceva un doppio beneficio… alterazione del comportamento per il violento, e tabula rasa per lo squilibrato. Si trattava di quest’ultimo caso, sospettò, mentre guardava negli occhi ombrosi di Talley. All’improvviso provò una struggente pietà per quell’uomo, che era sano di mente, che sembrava perfettamente sano di mente. La stazione era in crisi. Erano incalzati da eventi nei quali chiunque poteva smarrirsi e venire travolto. Le celle di detenzione erano necessarie per i veri criminali del settore Q, che ne aveva in abbondanza. C’erano sorti peggiori dell’Adattamento. Per esempio, essere rinchiuso a vita in una stanza di due metri e mezzo per tre senza finestre.

— Si faccia consegnare i documenti dal computer — disse al supervisore, e quest’ultimo trasmise l’ordine via radio. Jacoby era visibilmente in preda all’agitazione, frugava tra le carte e non guardava nessuno di loro. — Quello che intendo fare — disse Damon a Talley, con la sensazione di vivere un brutto sogno — è mettere i documenti nelle sue mani. Lei potrà studiare tutte le spiegazioni che troverà allegate. Se domani sarà ancora della stessa idea, li accetteremo con la sua firma. Inoltre, voglio che scriva una richiesta e una dichiarazione liberatoria di suo pugno; deve dichiarare che è stata un’idea sua, una scelta autonoma, e che non soffre di claustrofobia o di altri disturbi…

— Ero operatore ai sistemi di difesa — l’interruppe sprezzante Talley. A bordo di una nave, quella non era certo la postazione più spaziosa.

— … o di una malattia che potrebbe causarle particolari disagi. Non ha parenti, qualcuno che potrebbe cercare di dissuaderla, se ne fosse informato?

A quelle parole i suoi occhi rivelarono un attimo di smarrimento.

— Ha qualcuno? — chiese Damon, augurandosi di aver trovato un appiglio, una ragione per opporsi. — Chi?

— Morti — disse Talley.

— Se questa richiesta è una reazione a…

— Molto tempo fa — disse Talley, interrompendolo. Nient’altro.

Una faccia d’angelo. Un’umanità senza difetti. I laboratori delle nascite? Quel pensiero colpì Damon all’improvviso. Gli aveva sempre ispirato ripugnanza. I soldati fatti in serie della Confederazione. I pregiudizi lo tormentavano. — Non ho ancora letto completamente il suo fascicolo — ammise. — Se ne sono occupati ad altri livelli. Credevano di aver risolto tutto. Poi la cosa è ricaduta su di me. Lei aveva famiglia, signor Talley?

— Sì — disse Talley con un filo di voce, in tono di sfida, facendo provare a Damon un po’ di vergogna.

— Dove è nato?

— Cyteen. — Lo stesso filo di voce. — Ho già detto tutto. Avevo dei genitori. Sono nato, signor Konstantin. Questo è davvero pertinente?

— Le chiedo scusa. Mi dispiace. Voglio chiarire una cosa: non è definitivo. Lei può cambiare idea prima dell’inizio del trattamento. Non dovrà far altro che dire: basta, rinuncio. Ma dopo, lei non sarà in grado di decidere. Capisce? Non potrà. Ha visto qualche uomo Adattato?

— Si riprendono.

— Sì, si riprendono. Seguirò il suo caso, signor Talley… tenente Talley… per quanto mi è possibile. Mi raccomando — disse Damon al supervisore, — ogni volta che lui manderà un messaggio, in qualunque fase del procedimento, me lo inoltri con urgenza assoluta, di giorno e di notte. Informi gli assistenti, nessuno escluso. Non credo che lui abuserà del privilegio. — Guardò Jacoby. — È d’accordo con il suo cliente?

— Ha il diritto di fare quello che sta facendo. Non ne sono entusiasta. Ma ne prendo atto. Devo riconoscere che risolve il problema… forse nel modo migliore.

Arrivarono i moduli dal computer. Damon li consegnò a Jacoby perché li esaminasse. Jacoby fece un segno sulle linee punteggiate destinate alla firma e passò il fascicolo a Talley. Talley lo strinse come se fosse prezioso.

— Signor Talley — disse Damon, alzandosi, e gli tese impulsivamente la mano, nonostante il disgusto che provava. Il giovane operatore si alzò e la strinse; l’espressione di gratitudine che si leggeva nei suoi occhi annullò all’improvviso ogni certezza. — È possibile — chiese Damon, — è lontanamente possibile che lei sia in possesso di informazioni che vuole cancellare? È per questo che lo fa? L’avverto, è molto probabile che possano venire a galla, durante il procedimento. E a noi non interessano, lo capisce? Noi non abbiamo interessi militari.

Non si trattava di questo. Damon aveva pochi dubbi in proposito. Talley non era un alto ufficiale, non conosceva i segnali dei computer, i codici di accesso, le informazioni che il nemico non doveva scoprire. Nessuno aveva notato qualcosa di rilevante in quell’uomo… niente di valore. Né lì, né a Russell.

— No — disse Talley. — Non so niente.

Damon esitò, pieno di rimorsi di coscienza, con la sensazione che almeno l’avvocato di Talley avrebbe dovuto protestare, reagire in modo più vigoroso, ricorrere a tutti i cavilli legali. Ma era stato questo a farlo rinchiudere in prigione… senza più speranza. Stavano avviando alla detenzione i criminali del settore Q, che erano assai più pericolosi; uomini che avrebbero potuto riconoscerlo, secondo l’opinione di Talley. L’Adattamento era la sua salvezza, gli permetteva di uscire di lì; gli dava la possibilità di trovare un lavoro, la libertà, di rifarsi una vita. Nessun individuo sano di mente avrebbe pensato di vendicarsi dopo un lavaggio del cervello. E il procedimento era umanitario. Era sempre stato concepito in quel modo.

— Talley… ha qualche reclamo da presentare nei confronti della Mallory o del personale della Norway?

— No.

— Il suo avvocato è qui presente. Verrebbe messo a verbale… se lei volesse presentare un reclamo.

— No.

Dunque quel trucco non aveva funzionato. Non ci sarebbero stati ritardi dovuti a un supplemento d’indagine. Damon annuì e uscì dalla stanza. Si sentiva in colpa. Stava commettendo una specie di omicidio, o, meglio, contribuiva a un suicidio.

Anche i suicidi erano numerosi, nel settore Q.


PELL: SETTORE ARANCIONE NOVE: 20/5/52; ore 1900

Kressich rabbrividì nel sentire uno schianto in fondo al corridoio, al di là della porta sigillata, e cercò di non lasciarsi prendere dal terrore. Qualcosa stava bruciando, e il fumo si propagava attraverso l’impianto di ventilazione. Era questo che spaventava di più lui e gli altri cinquanta radunati in quella sezione del corridoio. Fuori, sui moli, i poliziotti e i rivoltosi continuavano ancora a sparare. La violenza si stava acquietando. I pochi che erano con lui, i superstiti del servizio di sicurezza di Russell, alcuni membri dell’élite della stazione, un pugno di giovani e di vecchi… avevano difeso il corridoio dalle bande di assalitori.

— Stiamo andando a fuoco — mormorò qualcuno, sull’orlo dell’isteria.

— Vecchi stracci o qualcosa del genere — disse Kressich; stai zitto, pensò. Ci mancava anche il panico. Se l’incendio si fosse propagato, la centrale della stazione avrebbe fatto saltare un’intera sezione, per spegnerlo… e sarebbe stata la morte per tutti loro. Per Pell, non avevano nessun valore. Alcuni di loro erano là fuori a sparare contro la polizia di Pell con le armi prese ai poliziotti morti. Tutto era incominciato con la notizia che stava per arrivare un altro convoglio, altre navi, altri disperati da ammassare nel poco spazio disponibile… e con la richiesta di procedimenti più rapidi per i documenti; e poi le incursioni contro i dormitori, e le bande che confiscavano i documenti a chi ne era regolarmente in possesso.

Bruciate tutti i documenti! Il grido si era diffuso in tutto il settore della quarantena, in base all’idea che, senza documenti, tutti sarebbero stati ammessi. Quelli che si rifiutavano di consegnare i documenti venivano picchiati e derubati, non soltanto di questi ultimi, ma di tutti gli oggetti di valore. I dormitori erano stati saccheggiati. Le bande di teppisti che erano saliti a forza sulla Griffin e la Hansford avevano fatto proseliti fra i disperati, i giovani, gli sbandati e quelli in preda al panico.

Per un po’ là fuori vi fu silenzio. I ventilatori avevano smesso di funzionare; l’aria cominciava a diventare irrespirabile. Fra quelli che avevano vissuto gli aspetti peggiori del viaggio serpeggiava il panico, trattenuto in silenzio; molti piangevano.

Poi le luci aumentarono d’intensità e un soffio d’aria fresca arrivò dai condotti. La porta si spalancò. Kressich si alzò e vide le facce dei poliziotti della stazione e le canne dei fucili spianati. Alcuni del suo gruppo impugnavano coltelli, pezzi di tubo e di mobili, armi improvvisate. Lui non aveva nulla… alzò le mani, freneticamente.

— No — implorò. Nessuno si mosse: né i poliziotti, né quelli del suo gruppo. — Per favore. Noi non c’entriamo. Abbiamo soltanto difeso questa sezione dai rivoltosi. Nessuno… nessuno di costoro è coinvolto. Sono stati le vittime.

Il capo dei poliziotti, segnato dalla stanchezza, dalla fuliggine e dal sangue, indicò la parete con la canna del fucile. — Dovete allinearvi — spiegò Kressich ai suoi compagni male assortiti, che non erano in grado di capire quelle procedure. — Buttate tutte le armi che avete. — Quelli si allinearono, compresi i vecchi e i malati, e i due bambini.

Kressich si accorse di tremare, mentre lo perquisivano, e rimase appoggiato alla parete del corridoio mentre i poliziotti confabulavano misteriosamente fra loro. Uno lo afferrò per una spalla, e lo fece girare su se stesso. Un ufficiale munito di lavagna procedeva fra di loro chiedendo le carte d’identità.

— Le hanno rubate — disse Kressich. — È così che è cominciato. Le bande rubavano i documenti e li bruciavano.

— Lo sappiamo — disse l’ufficiale. — È lei il responsabile? Nome e provenienza.

— Vassily Kressich, di Russell.

— Ci sono altri che lo conoscono?

Parecchi confermarono. — Era consigliere della Stazione Russell — disse un giovane. — Prestava servizio nella sicurezza.

— Nome.

Il giovane rispose. Nino Coledy. Kressich si sforzò di ricordarlo, senza riuscirci. Una ad una, le domande vennero ripetute, controllo delle identificazioni, verifiche incrociate, certo non più attendibili della parola di quelli che si dichiaravano. Un uomo con una macchina fotografica entrò nel corridoio e scattò un’istantanea mentre erano tuttti allineati contro la parete. C’era un caos di discussioni e di comunicazioni radio.

— Potete andare — disse il capo dei poliziotti, e quelli cominciarono a uscire. Ma quando Kressich fece per andarsene, l’ufficiale lo prese per un braccio. — Vassily Kressich. Segnalerò il suo nome al comando.

Vassily non sapeva se era un bene o un male: comunque bastava per sperare. Qualunque cosa era meglio di quello che offriva la quarantena, con la stazione che non riusciva a piazzarli o a smistarli.

Uscì sul molo, sconvolto dallo spettacolo delle devastazioni, con i morti che giacevano in un lago di sangue, oggetti vari dati alle fiamme e ancora fumanti, mobili ed effetti personali ammucchiati qua e là per essere bruciati. I poliziotti della stazione erano dovunque, armati di fucile: niente armi leggere. Restò sui moli, vicino alla polizia, timoroso di ritornare nei corridoi, dove c’era il pericolo d’incontrare le bande dei terroristi. Era impossibile sperare che i poliziotti li avessero presi tutti. Erano troppi.

Alla fine, la stazione organizzò una distribuzione d’emergenza di viveri e bevande presso la linea della sezione, perché l’erogazione dell’acqua era stata interrotta durante gli scontri, le cucine erano state devastate, qualsiasi oggetto era stato trasformato in un’arma. L’ufficio comunicazioni era stato sfasciato; non c’era modo di riferire i danni; ed era assai improbabile che una squadra addetta alle riparazioni volesse avventurarsi in quell’area.

Kressich sedette sul molo e mangiò quello che veniva distribuito, insieme ad altri gruppetti di profughi. La gente si scambiava occhiate impaurite.

— Non ne usciremo più — sentiva ripetere spesso. — Adesso non ci autorizzeranno più a uscire.

Più di una volta sentì strani borbottii, vide uomini che avevano fatto parte delle bande dei terroristi, e che nessuno osava denunciare. Erano troppi.

Fra loro c’erano i simpatizzanti della Confederazione. Kressich era sicuro che fossero loro gli agitatori; e certo avevano maggiormente da temere da un controllo rigoroso dei documenti. La guerra era giunta sino a Pell. E ormai era in mezzo a loro, e loro si trovavano, come erano sempre stati gli abitanti delle stazioni, neutrali e indifesi, e si muovevano cautamente in mezzo a gente animata da uno spirito omicida… ma adesso non erano le stazioni contro le navi da guerra, un conflitto fra gusci di metallo; il pericolo era in mezzo a loro, forse era il giovane con il tramezzino in mano, la giovane donna seduta che si guardava intorno con occhi pieni d’odio.

Arrivò il convoglio, senza truppe di scorta. Le squadre dei moli, sotto la protezione di un piccolo esercito di poliziotti della stazione, organizzarono le operazioni di scarico. I profughi furono fatti sfilare per un controllo sommario poiché adesso quasi tutti gli alloggiamenti erano sfasciati e i corridoi erano diventati una giungla. I nuovi arrivati, i bagagli in mano, si guardavano intorno con occhi pieni di terrore. Kressich pensò che sarebbero stati derubati, o peggio, prima dell’indomani mattina. Molti, intorno a lui, piangevano sommessamente, disperati.

Il mattino dopo c’era un altro gruppo di parecchie centinaia di persone; e panico ovunque perché erano tutti assetati e affamati, e i viveri arrivavano molto lentamente dalla centrale.

Un uomo sedette accanto a Kressich: Nino Coledy.

— Siamo una dozzina — disse Coledy. — Qualcosa potremmo fare: ho parlato con qualcuno dei superstiti della banda. Noi non facciamo nomi, e loro collaborano. Abbiamo braccia robuste… potremmo mettere un po’ d’ordine, riportare la gente negli alloggi, così potremo far arrivare qui viveri e acqua.

— Noi, e come?

La faccia di Coledy assunse un’espressione severa. — Lei era consigliere. Può fare da portavoce. Noi la teniamo qui. Facciamo avere il cibo a questa gente. Ci sistemiamo meglio. Sarà utile per la Stazione, e anche noi potremo trarne qualche vantaggio.

Kressich rifletté. Potevano anche finire per farsi sparare addosso. Era troppo vecchio per una cosa del genere. Loro volevano una figura rappresentativa. La polizia voleva una figura rappresentativa. E lui aveva paura di dire di no.

— Basta che parli per noi — disse Coledy.

— Sì — accettò Kressich, e strinse i denti con un’espressione più decisa di quanto Coledy si fosse aspettato da un vecchio stanco. — Cominci a radunare i suoi uomini, e io parlerò con la polizia.

E si diresse cautamente verso i poliziotti. — C’è stata un’elezione — disse. — Io sono Vassily Kressich, consigliere di rosso due, Stazione Russell. Fra i profughi ci sono alcuni dei nostri poliziotti. Siamo disposti a uscire nei corridoi e a ristabilire l’ordine… pacificamente. Noi li conosciamo. Voi no. Se consultate i vostri superiori e ricevete il benestare, possiamo aiutarvi.

I poliziotti erano incerti; esitavano persino a chiedere istruzioni. Finalmente un capitano si decise, e Kressich attese, nervosamente. Alla fine, il capitano annuì. — Se la situazione sfuggirà di mano — avvertì, — spareremo nel mucchio. Ma non tollereremo uccisioni da parte vostra, consigliere Kressich. Non siete autorizzati a farlo.

— Abbia pazienza, signore — disse Kressich, e si allontanò, mortalmente stanco e spaventato. Coledy, insieme a molti altri, lo stava aspettando al corridoio d’accesso nove. In pochi minuti, altri si unirono a loro, facce ancora meno rassicuranti delle prime. Kressich aveva paura. Temeva di non riuscire a controllarli. Ormai non si curava più di nulla, se non di sopravvivere: e di essere sulla cresta dell’onda, di non venirne travolto. Li guardò mentre cominciavano a muoversi, terrorizzando i più ingenui, e accogliendo nelle loro file gli elementi più pericolosi. Sapeva che cosa aveva fatto. Era atterrito. Tacque, perché sarebbe stato coinvolto nel secondo tumulto, se ci fosse stato. A questo avrebbero provveduto loro.

Usò la sua dignità e la sua età e il fatto che certuni lo conoscevano; impartì istruzioni ad alta voce, e molti cominciarono a rivolgersi a lui chiamandolo rispettosamente consigliere Kressich. Ascoltò le loro lamentele, le loro paure e la loro rabbia fino a quando Coledy gli fornì una scorta, per proteggere il prezioso rappresentante.

In meno di un’ora i moli erano sgombri, e le bande ormai sotto controllo, e la gente onesta si rivolgeva a lui con deferenza dovunque andasse.

CAPITOLO SETTIMO

PELL: 22/5/52

Jon Lukas prese posto con espressione indignata sul seggio del consiglio che suo figlio Vittorio aveva occupato per procura durante gli ultimi tre anni. S’era già trovato alle prese con una crisi in famiglia: aveva perduto tre delle cinque stanze del suo alloggio, letteralmente tagliato in due con lo spostamento di un divisorio per accogliere due cugini Jacoby e le rispettive compagne, a rotazione, una delle quali aveva dei marmocchi che battevano contro le pareti e schiamazzavano. I suoi mobili erano stati ammucchiati dagli operai in quel poco spazio che era rimasto… e che ultimamente era stato occupato da suo figlio Vittorio e dall’amica di turno. Che razza di ritorno a casa. Lui e Vittorio avevano raggiunto in fretta un’intesa: la donna se ne era andata, e Vittorio era rimasto, ritenendo che il possesso di un appartamento e di un conto spese fosse più importante e conveniente del trasferimento alla base sulla Porta dell’Infinito, che cercava di continuo giovani volontari. La fatica fisica, in particolare sulla superficie piovosa della Porta dell’Infinito, non era gradita a Vittorio. Lassù, come rappresentante, s’era reso utile, aveva votato come gli veniva suggerito, si era comportato come gli veniva ordinato, aveva tenuto la Società Lukas al riparo del caos, almeno, poiché aveva abbastanza buon senso per risolvere da solo i piccoli problemi e chiedere istruzioni per affrontare quelli più grossi. Quello che aveva fatto per il conto spese era un’altra faccenda. Dopo essersi abituato agli orari della stazione, Jon aveva passato tutto il suo tempo negli uffici della società a esaminare i registri, a controllare il personale e quei conti spese.

Adesso c’era una specie di allarme, urgente e poco piacevole; lui si era presentato con altri consiglieri, convocato da un messaggio che annunciava una riunione straordinaria. Il suo cuore martellava ancora per lo sforzo. Attivò l’unità sul suo banco e il microfono, ascoltando il chiacchiericcio che in quel momento occupava il consiglio insieme al succedersi delle immagini proiettate sugli schermi. Altri guai. Ne aveva sentito parlare passando dagli uffici giù ai moli. C’era qualcosa in arrivo.

— Che numero comunicate? — stava chiedendo Angelo, senza ricevere risposta dall’interlocutore.

— Cosa succede? — domandò Jon alla sua vicina, una delegata del settore verde, Anna Morevy.

— Stanno arrivando altri profughi, e non dicono niente. La nave da guerra Pacific. Stazione Esperance. È tutto quello che sappiamo. Non ci danno nessuna collaborazione. Ma là fuori c’è Sung. Che cosa ci si può aspettare da lui?

Stavano arrivando altri consiglieri e i posti venivano occupati rapidamente. Jon inserì l’auricolare, attivò il registratore e cercò di mettersi al corrente della situazione. Il convoglio che ora appariva sugli schermi si era avvicinato troppo sopra il piano del sistema. La voce del segretario del consiglio continuava a commentare la situazione, con l’ausilio delle immagini sullo schermo: ma non erano molto diverse da quelle che Jon aveva sotto gli occhi nella trasmissione in diretta.

Un fattorino si avvicinò dall’ultima fila, si chinò sulla sua spalla e gli porse un biglietto scritto a mano. Bentornato, lesse Jon, perplesso. Sei stato designato in sostituzione di Emilio Konstantin, seggio numero dieci. La tua esperienza diretta della Porta dell’Infinito è ritenuta preziosa. A. Konstantin.

Il cuore di Jon riprese a martellare, ma per un’altra ragione. Si alzò, staccò l’auricolare e spense tutti i canali, si avviò lungo la corsia sotto gli occhi di tutti, verso il posto vuoto nel consiglio centrale, al tavolo vicino ai banchi laterali, attorno al quale sedevano le massima autorità. Raggiunse quel posto, e sedette sulla poltrona di cuoio e legno scolpito. Era uno dei Dieci di Pell: e provava un insopportabile senso di trionfo, in quel frangente… giustizia, finalmente, dopo tanti decenni. I grandi Konstantin l’avevano tenuto a distanza e avevano tramato per tutta la vita per evitare che diventasse uno dei Dieci, nonostante i suoi sforzi e la sua influenza, e adesso si trovava lì.

Non certo perché Angelo avesse cambiato idea: ne era assolutamente sicuro. Doveva essere il risultato di un voto. Aveva ottenuto la maggioranza dei voti in consiglio, come conseguenza logica del suo lungo, difficile servizio sulla Porta dell’Infinito. I suoi risultati erano stati finalmente apprezzati.

Incontrò gli occhi di Angelo, all’estremità del tavolo. Angelo aveva l’auricolare inserito, e lo guardava senza affetto, senza benevolenza, senza felicità. Angelo accettava la sua ascesa perché non poteva fare altrimenti, questo era chiaro. Jon sorrise a denti stretti, ma i suoi occhi rimasero impassibili come se si trattasse di una semplice offerta di appoggio. Angelo ricambiò il sorriso: ma anche i suoi occhi erano freddi.

— Ritenti — disse Angelo a qualcun altro, attraverso il comunicatore. — Continui a trasmettere. Mi metta in contatto diretto con Sung.

L’assemblea tacque; i rapporti continuavano ad arrivare dalla centrale, e riferivano sul lento avvicinamento dei mercantili; ma la Pacific stava accelerando, e sullo schermo l’immagine appariva confusa.

— Qui Sung — disse una voce. — Omaggi alla Stazione di Pell. Le vostre autorità possono provvedere ai dettagli.

— Che numero? — chiese Angelo. — Quanta gente c’è su quelle navi, comandante Sung?

— Novemila.

Un mormorio d’orrore si levò nella sala.

— Silenzio! — disse Angelo; il brusio confondeva le comunicazioni. — Ricevuto, novemila. Metterà a dura prova le nostre attrezzature, oltre il limite di sicurezza. La invitiamo a incontrarsi qui con noi in consiglio, comandante Sung. Sono già arrivati altri profughi da Russell con mercantili senza scorta; siamo stati costretti ad accoglierli. Per ragioni umanitarie è impossibile rifiutare l’attracco. Le chiedo di informare il comando della Flotta circa la pericolosità della situazione. Abbiamo bisogno di appoggio militare, capisce, signore? L’invito a venire qui per consultazioni urgenti con noi. Siamo disposti a collaborare, ma ci stiamo avvicinando al punto di una decisione molto difficile. Chiediamo l’appoggio della Flotta. Ripeto: verrà, signore?

Vi fu un breve silenzio, dall’altro capo della linea. I consiglieri si agitavano nervosamente, perché i segnali di avvicinamento lampeggiavano, gli schermi palpitavano e rimandavano immagini confuse nell’affannoso tentativo di seguire l’accelerazione della nave.

— C’è ancora un convoglio previsto — fu la risposta. — Sta arrivando da Pan-Paris agli ordini di Kreshov dell’Atlantic. Buona fortuna, Stazione di Pell.

Il contatto s’interruppe bruscamente. Gli schermi lampeggiarono: l’enorme nave stava accelerando più di quanto fosse consentito nelle vicinanze di una stazione.

Jon non aveva mai visto Angelo tanto infuriato. Il brusio nella sala del consiglio si smorzò, e finalmente il microfono ristabilì un relativo silenzio. La Pacific sfrecciò allo zenith, creando il caos sugli schermi. Quando le immagini tornarono chiare, ormai era passata oltre, lanciata su una rotta non autorizzata, abbandonando il suo carico, i mercantili che avanzavano lenti e inesorabili per attraccare. Da qualche parte risuonò, smorzata, la richiesta di un intervento della sicurezza nel settore Q.

— Personale di riserva — ordinò Angelo a uno dei capisezione attraverso il comunicatore. — Richiami il personale fuori servizio… non m’interessa quante volte è già stato richiamato. Mantenga l’ordine, laggiù, a costo di sparare. Centrale, mandate gli equipaggi alle navette per guidare i mercantili all’attracco. Se è necessario, inviate un gruppo di rimorchiatori.

E dopo un momento, mentre gli allarmi di collisione smettevano di suonare e restavano solo le incessanti segnalazioni dei mercantili che si avvicinavano lentamente alla stazione: — Dobbiamo avere più spazio per il settore Q — disse Angelo guardandosi intorno. — E purtroppo, dovremo prendere quei due livelli della sezione rossa… integrarli con la quarantena… immediatamente. — Dai banchi si levò un mormorio di sgomento, e sugli schermi lampeggiarono subito dopo le obiezioni dei delegati della sezione rossa. Era inutile, comunque. Sullo schermo non c’erano segnalazioni di appoggio per mettere ai voti quella mozione. — Niente da fare — continuò Angelo, senza neppure alzare lo sguardo, — non possiamo sloggiare altri residenti, o perdere i canali dei livelli superiori riservati al sistema di trasporto. Non possiamo. Se non possiamo ottenere appoggio dalla Flotta… dobbiamo prendere altre misure, su scala più vasta; dobbiamo incominciare a trasferire la popolazione da qualche parte. Jon Lukas, ti faccio le mie scuse per il breve preavviso, ma è un peccato che non fossi presente alla riunione di ieri. La tua proposta… Le squadre costruzioni della stazione non possono servirsi di operai che rappresentano un rischio per la sicurezza. Un tempo tu avevi fatto progetti per allargare la base sulla Porta dell’Infinito. A che punto sono?

Jon batté le palpebre, insospettito e speranzoso allo stesso tempo, e aggrottò la fronte. Si alzò in piedi, anche se non era necessario, ma voleva vedere gli altri bene in faccia. — Se fossi stato informato della situazione, avrei fatto del mio meglio; anche così, sono arrivato in gran fretta. In quanto alla proposta, non è impossibile; si potrebbe sistemare tutta quella gente sulla Porta dell’Infinito in breve tempo, senza difficoltà… a parte quelli che sono laggiù. Le condizioni, e lo so bene, dopo tre anni… sono spartane. Gli indigeni hanno costruito abitazioni sotterranee, in buona parte a tenuta stagna; i compressori sono sufficienti, e ci sono i materiali locali più semplici per le infrastrutture. Laggiù, la manodopera indigena è sempre la più efficiente; non hanno la scomodità dei respiratori; ma un numero sufficientemente cospicuo di umani può sostituirli… lavoro sul campo, manifatture, sistemazioni del territorio, scavi per le cupole. E poi personale di Pell sufficiente per sovrintendere e sorvegliare. L’isolamento non è un problema; in particolare, i casi più difficili potrebbero trovare un’ottima sistemazione laggiù… basta togliere i respiratori, e quelli non potranno andare in nessun posto, non potranno fare quello che voi non approvate.

— Signor Lukas. — Si alzò Anton Sizel, un vecchio, amico di Angelo e un inguaribile ottimista. — Signor Lukas, devo aver capito male. Questi sono liberi cittadini. Non stiamo progettando di creare colonie penali. Sono profughi. Non è nostra intenzione trasformare la Porta dell’Infinito in un campo di lavoro.

— Faccia il giro del settore Q! — gridò qualcuno dai banchi. — Vada a vedere i disastri che hanno causato! Là noi avevamo le nostre bellissime case. Vandalismi e distruzioni. Stanno facendo tutto a pezzi. Hanno aggredito i nostri uomini della sicurezza con tubi e coltelli da cucina, e non sappiamo se dopo gli scontri abbiamo recuperato tutte le armi.

— Ci sono stati altri omicidi — gridò qualcun altro. — Bande di teppisti.

— No — disse un terzo. Era una voce nuova, nel consiglio. Tutte le teste si voltarono verso l’uomo magro che, notò Jon, aveva preso il posto che lui aveva lasciato libero. Era un individuo nervoso, pallido. — Sono Vassily Kressich. Sono stato invitato a uscire dal settore Q. Ero consigliere alla Stazione Russell. Rappresento Q. Tutto quello che avete detto è successo in un momento di panico, ma adesso l’ordine è stato ristabilito, e i teppisti sono stati trasferiti in detenzione.

Jon trasse un profondo respiro. — Benvenuto, consigliere Kressich. Ma nello stesso interesse di Q, bisogna alleggerire la pressione. La popolazione deve essere trasferita. La stazione ha dovuto attendere un decennio prima di incominciare l’espansione sulla Porta dell’Infinito, e adesso abbiamo la manodopera necessaria per farlo su vasta scala. Quelli che lavoreranno entreranno a far parte del sistema. Costruiranno le proprie abitazioni. Il delegato di Q non è d’accordo?

— Abbiamo bisogno che venga risolto il problema dei documenti. Rifiutiamo di lasciarci trasferire senza documenti. È già successo una volta, e guardate in che situazione ci troviamo. Altri trasferimenti senza lasciapassare validi servirebbero solo ad aggravare la nostra situazione, allontanandoci sempre di più dalla speranza di stabilire la nostra identità. Le persone che io rappresento non permetteranno che accada di nuovo.

— È una minaccia, signor Kressich? — chiese Angelo.

L’uomo sembrava sul punto di crollare. — No — disse prontamente. — No, signore. Sto solo… sto solo esprimendo l’opinione di coloro che rappresento. La loro disperazione. È necessario che il problema dei loro documenti venga risolto. Ogni altra soluzione si trasformerebbe in ciò che ha detto quel signore… un campo di lavoro nell’interesse di Pell. È questo che volete?

— Signor Kressich, signor Kressich — disse Angelo. — Per favore, chiedo a tutti di procedere con ordine. Sarà ascoltato quando verrà il suo turno, signor Kressich. Jon Lukas, vuoi continuare?

— Avrò i dati precisi appena avrò accesso al computer centrale. Devo prima individuare le chiavi. Tutti gli impianti esistenti sulla Porta dell’Infinito possono venire ampliati, sì. Ho ancora i progetti particolareggiati. In pochi giorni, avrò a disposizione un’analisi dei costi e della manodopera.

Angelo annuì e lo guardò, aggrottando la fronte. Non doveva essere un momento piacevole, per lui.

— Stiamo lottando per sopravvivere — disse Angelo. — Chiaramente, c’è un punto oltre il quale dobbiamo preoccuparci seriamente dei nostri sistemi di supporto vitale. Parte del sovraccarico deve essere trasferito. E non possiamo permettere che il rapporto numerico tra i cittadini di Pell e i profughi si sbilanci. Dobbiamo pensare ai disordini… sia qui che laggiù. Le chiedo scusa, signor Kressich. Questa è la realtà in cui viviamo; non l’abbiamo voluta noi; e voi neppure, ne sono sicuro. Non possiamo rischiare la stazione o la base sulla Porta dell’Infinito; altrimenti ci ritroveremo tutti a bordo di mercantili diretti alla Terra, spogliati di tutto. Questa è la terza eventualità.

— No. — Il mormorio si levò in tutta la sala.

Jon sedette in silenzio, fissando Angelo, e considerando con realismo il fragile equilibrio di Pell e i possibili rischi. Siete già spacciati, pensò, e avrebbe voluto alzarsi in piedi ed esporre le cose come stavano realmente. Ma non lo fece. Restò seduto, e tacque. Era questione di tempo. La pace… poteva offrire una possibilità. Ma non era certo la pace che si stava preparando, con quell’afflusso di profughi provenienti da tutte quelle stazioni. Tutte le Stelle Sperdute fluivano in due direzioni, come da uno spartiacque, verso di loro e verso la confederazione; e loro non erano in grado di reggere la situazione, sotto la direzione di Angelo.

Anni e anni di dominio dei Konstantin, la teoria sociale dei Konstantin, la vantata «comunità della legge» che ignorava la sicurezza e i controlli, e adesso rifiutava di usare il pugno di ferro con Q, nella speranza che gli appelli bastassero a richiamare all’ordine quella marmaglia. Avrebbe potuto sollevare anche quell’argomento. Ma non lo fece.

Aveva un sapore amaro in bocca, mentre pensava al caos che la linea morbida di Konstantin aveva causato dalla stazione, e che avrebbe potuto ripetersi anche sulla Porta dell’Infinito. Non prevedeva nessun successo per i piani che aveva richiesto; Emilio Konstantin e sua moglie avrebbero diretto i lavori, e avrebbero lasciato che gli indigeni se la prendessero comoda e avrebbero protetto le loro superstizioni e avrebbero tollerato che facessero le cose a modo loro, causando danni alle attrezzature e ritardi nelle costruzioni. E quello che quei due avrebbero fatto con i teppisti della sezione Q presentava prospettive anche peggiori.

Rimase in silenzio, valutando le possibilità e traendo conclusioni sconfortanti.


— Non può sopravvivere — disse a Vittorio quella sera, a suo figlio Vittorio e a Dayin Jacoby, l’unico parente che gli andasse a genio. Era appoggiato alla spalliera della sedia e beveva l’amaro vino indigeno, nell’appartamento dove erano ammassati i mobili preziosi asportati dalle stanze requisite. — Pell sta cadendo a pezzi. Con la linea morbida di Angelo la sconfitta è sicura, e forse, per giunta, finiremo con la gola tagliata in qualche tumulto. È la fine, mi capite? E noi dobbiamo restare qui senza far nulla?

Vittorio impallidì improvvisamente, come sempre quando la conversazione si faceva seria. Dayin era di un altro stampo: se ne stava cupo, pensieroso.

— Deve esistere un contatto — disse Jon, più apertamente.

Dayin annuì. — In momenti come questi, si rendono necessarie due porte. E sono sicuro che esistono porte dovunque, in questa stazione… con le chiavi giuste.

— Fino a che punto ritieni che siano compromesse… queste porte? E dove? Tuo cugino si è occupato di alcuni casi. Hai qualche idea?

— Il mercato nero delle sostanze per il ringiovanimento e altre. Qui prospera, non lo sai? Anche Konstantin le riceve; si possono trovare sulla Porta dell’Infinito.

— È legale.

— Certo che è legale; è necessario. Ma qui come ci arrivano? In ultima analisi, è roba che viene dalla Confederazione; quelli dei mercantili la comprano e la vendono; e in qualche modo arriva fin qui. Qualcuno, da qualche parte, ha le mani in pasta… quelli dei mercantili… forse anche qualche contatto sulla stazione.

— E come possiamo entrare in contatto con la catena?

— Posso informarmi.

— Io conosco qualcuno — disse Vittorio, sorprendendoli entrambi. Si umettò le labbra e deglutì a fatica. — Roseen.

— Quella puttana?

— Lei conosce il mercato. C’è un ufficiale della sicurezza… molto in alto. In apparenza è in regola, ma è legato al mercato. Se vuoi far caricare o scaricare qualcosa, se vuoi che venga chiuso un occhio… può provvedere lui.

Jon fissò il figlio: era il prodotto di un contratto annuale, della sua smania di avere un erede. Dopotutto, non era sorprendente che Vittorio sapesse quelle cose. — Benissimo — disse in tono asciutto. — Parlamene. Forse potremo trovare qualcosa. Dayin, le tue proprietà a Viking… dovremmo darci un’occhiata.

— Non dirai sul serio.

— E invece sì. Ho noleggiato l’Hansford. L’equipaggio è ancora in ospedale. L’interno è uno sfascio, ma può viaggiare. Hanno un bisogno disperato di denaro. E potrai trovare un equipaggio tramite i contatti di Vittorio. Non è necessario che tu dica tutto, solo quanto basta per motivarli.

— Viking è il luogo dove più probabilmente ci saranno guai molto presto. Sicuramente, anzi.

— È un rischio, no? Molti mercantili hanno incidenti, in questa situazione. Certuni spariscono. Sentirò Konstantin: ma avrò il permesso… un atto di fede nel futuro di Viking. Una conferma, un voto di fiducia. — Jon bevve il vino, con una smorfia. — È meglio che ti sbrighi prima che arrivi un’ondata di profughi proprio da Viking. Cerca di stabilire un contatto con la catena, e seguila fin dove puoi. Che possibilità ha Pell, ormai, se non con la Confederazione? L’Anonima non ci aiuta. La Flotta aggrava i nostri problemi. Non possiamo resistere in eterno. La politica di Konstantin causerà disordini, qui, prima che tutto sia finito, ed è ora che ci sia un cambio della guardia. Lo dirai chiaro alla Confederazione. Capisci? Loro trovano un alleato; noi… abbiamo solo da guadagnare da questa collaborazione. È una seconda porta da varcare, nel caso peggiore. Se Pell resiste, saremo ancora qui, al sicuro; se no, ci troveremo meglio di tanti altri, no?

— E quello che rischia il collo sono io — disse Dayin.

— Preferiresti trovarti qui quando i disordini abbatteranno le barriere? Non è meglio avere la possibilità di ricavare un guadagno personale con un’opposizione intelligente… e riempirti le tasche? Sono sicuro che lo farai; e sono sicuro che te lo sarai meritato.

— Generoso — disse Dayin, in tono acido.

— Qui — disse Jon, — la vita non migliorerà. Potrebbe diventare molto scomoda. È un rischio. E che cosa non lo è?

Dayin annuì, lentamente. — Comincerò a cercare individui adatti per l’equipaggio.

— L’immaginavo.

— Ti fidi troppo, Jon.

— Solo di questa parte della famiglia. Mai dei Konstantin. Angelo avrebbe dovuto lasciarmi sulla Porta dell’Infinito. Probabilmente avrebbe preferito così. Ma il consiglio ha votato diversamente; e forse per loro è stata una fortuna. Forse.

CAPITOLO OTTAVO

PELL: 23/5/52

Gli offrirono una sedia. Erano sempre cortesi, lo chiamavano sempre Signor Talley, mai con il suo grado… un’abitudine dei civili; o forse volevano fargli capire che lì i confederati erano ancora considerati ribelli e non avevano gradi. Forse lo odiavano, ma erano immancabilmente gentili con lui. E questo era ugualmente inquietante, perché sospettava che fosse un’ipocrisia.

Gli diedero altri moduli da compilare. Un dottore sedette di fronte a lui e cercò di spiegargli dettagliatamente le procedure. — Non voglio saperlo — disse lui. — Voglio solo firmare i documenti. Sono giorni che vado avanti così. Non è abbastanza?

— Gli esami non sono attendibili — disse il dottore. — Lei ha mentito, ha dato risposte false. Gli strumenti indicavano che stava mentendo. O era sotto tensione. Ho chiesto se era in stato di costrizione, e quando ha risposto di no, gli strumenti hanno detto che mentiva.

— Mi dia la penna.

— Qualcuno la condiziona? Le sue risposte sono controllate.

— No, nessuno mi condiziona.

— Anche questo è falso, Signor Talley.

— No — ma non riuscì a soffocare un tremito nella sua voce.

— Noi abbiamo solitamente a che fare con criminali, che tendono a mentire. — Il dottore alzò la penna, tenendola fuori dalla portata di Talley. — Qualche volta, molto di rado, con i volontari. È una forma di suicidio. Dal punto di vista medico ne ha il diritto, entro certi limiti legali; e purché sia stato debitamente informato e abbia compreso di cosa si tratta. Se continua la terapia secondo il programma, dovrebbe ricominciare a comportarsi normalmente tra circa un mese. E raggiungerà l’indipendenza legale tra altri sei. Le piene funzioni… come sa, può esserci una menomazione permanente nell’ambito dei rapporti sociali; e potrebbero esserci altre menomazioni psicologiche o fisiche…

Talley prese la penna e firmò i documenti. Il dottore li prese e li guardò, poi tolse un foglio dalla tasca e lo spinse attraverso il tavolo: era un foglio gualcito e ripiegato.

Talley l’aprì, e vide un biglietto con una mezza dozzina di firme. Il suo conto presso il computer della stazione è di 50 crediti. Se ha bisogno di qualcosa… Era firmato da sei delle guardie della detenzione: gli uomini e le donne con cui aveva giocato a carte. Avevano pagato di tasca loro. Gli vennero le lacrime agli occhi.

— Vuol cambiare idea? — chiese il dottore.

Talley scosse la testa e ripiegò il foglio. — Posso tenerlo?

— Verrà conservato con gli altri suoi effetti. Riavrà tutto quando sarà dimesso.

— Allora non avrà importanza, vero?

— Non a quel punto — disse il dottore. — Almeno per qualche tempo.

Talley restituì il foglio.

— Le faccio portare un tranquillante — disse il dottore. Chiamò un inserviente, che portò un bicchiere di liquido azzurro. Talley lo prese e bevve e non sentì alcun cambiamento.

Il dottore gli mise davanti un foglio bianco e la penna. — Scriva le sue impressioni su Pell. Lo farà?

Lui incominciò. Aveva ricevuto richieste più strane, durante i giorni degli esami. Scrisse un capoverso: come era stato interrogato dalle guardie, e come pensava di essere stato trattato. Le parole cominciarono a scivolare di traverso. Non stava più scrivendo sulla carta. Aveva sconfinato oltre il bordo, sul tavolo, e non riusciva a tornare indietro. Le lettere cominciarono a sovrapporsi in modo disordinato.

Il dottore allungò il braccio e gli tolse la penna dalla mano, interrompendo il suo tentativo.

CAPITOLO NONO

PELL: 28/5/52

Damon esaminò il rapporto sulla scrivania. Non era la procedura alla quale era abituato, la legge marziale in vigore nel settore Q. Era duro e sbrigativo, accompagnato da tre videocassette e un fascio di moduli che condannavano cinque uomini all’Adattamento.

Esaminò il filmato, stringendo i denti, mentre le scene dei tumulti balzavano sul grande schermo a parete, e rabbrividì nel vedere la registrazione degli omicidi. Non c’erano dubbi sul delitto o sull’identificazione. Nella marea di casi che aveva inondato l’Ufficio Legale non c’era tempo per sottigliezze e ripensamenti. Erano alle prese con una situazione che poteva distruggere l’intera stazione, trasformarla in qualcosa di simile a ciò che era diventata l’Hansford. Quando il sistema del supporto vitale veniva minacciato, quando gli uomini perdevano la testa al punto di accendere falò su un molo della stazione… o di assalire una stazione di polizia armati di coltelli da cucina…

Estrasse i fascicoli in questione, e preparò le autorizzazioni. Non era giusto, perché quelli erano i cinque che gli uomini dei servizi di sicurezza erano riusciti a trascinare attraverso la linea di settore, cinque fra molti altri egualmente colpevoli. Ma quei cinque non avrebbero più ucciso, non avrebbero più minacciato la fragile stabilità di una stazione che ospitava migliaia di vite. Adattamento totale, scrisse: significava ricostruzione della personalità. Il procedimento avrebbe portato alla luce eventuali ingiustizie. Gli interrogatori avrebbero accertato se le accuse erano infondate. Damon provava paura e ripulsa nel firmare quell’atto. La legge marziale era troppo improvvisa. Suo padre si era tormentato per una notte intera prima di prendere una decisione del genere, dopo che il consiglio l’aveva approvata.

Una copia era destinata all’ufficio del pubblico difensore. Avrebbero effettuato gli interrogatori di persona, ricorrendo in appello, se possibile. Anche quella procedura era limitata, nelle circostanze attuali. Era possibile farlo solo producendo la prova di un errore; e le prove erano nel settore Q, irraggiungibili. Erano possibili ingiustizie. Stavano condannando sulla parola dei poliziotti aggrediti e in base a un filmato che non mostrava quanto era accaduto in precedenza. C’erano cinquecento rapporti di furti e di reati gravi sulla sua scrivania, mentre prima dell’esistenza del settore Q, avevano a che fare con due o tre denunce del genere in un anno. Il computer era inondato da richieste di dati. Giorni e giorni di lavoro per i documenti d’identità e i permessi per il settore Q, ed era stato tutto inutile. I documenti erano stati rubati e distrutti, al punto che nel settore Q non ce n’era uno solo che si potesse considerare attendibile. Quasi tutte le richieste di documenti erano probabilmente fraudolente, e quelle più insistenti provenivano dai più disonesti. Le dichiarazioni giurate non valevano nulla, laddove imperavano le minacce. La gente era pronta a giurare qualunque cosa per garantirsi la salvezza. Persino quelli che erano arrivati in regola avevano documenti privi di conferma; il servizio di sicurezza confiscava i documenti perché non venissero rubati, e ne distribuiva pochi, e solo quando era in grado di accertare in modo assoluto l’identità e trovava un garante tra gli abitanti della stazione… ma era una procedura lenta, in confronto al ritmo di afflusso; e la stazione principale non aveva posto per sistemarli. Era pazzesco. Cercavano, con tutte le loro risorse, di eliminare la burocrazia e la fretta, e invece la situazione era peggiorata.

— Tom — trasmise Damon, una comunicazione privata per Tom Ushant dell’ufficio del difensore — se ti viene il sospetto che qualcosa non vada in qualcuno di questi casi, inoltra l’appello a me senza badare alle procedure. Stiamo inoltrando troppe condanne e troppo in fretta; sono possibili errori. Non voglio scoprirne uno dopo l’inizio del procedimento. Non si aspettava una risposta. Ma la risposta arrivò: — Damon, dai un’occhiata al fascicolo di Talley, se cerchi qualcosa che non ti faccia dormire. Russell ha usato l’Adattamento.

— Vuol dire che Talley l’ha già subito?

— Non per terapia. Voglio dire che l’hanno usato per interrogarlo.

— Darò un’occhiata. — Damon tolse la comunicazione, cercò il numero d’accesso, fece apparire il fascicolo sullo schermo. Pagine e pagine di dati dei loro interrogatori passarono davanti ai suoi occhi; era quasi tutto materiale poco importante: nome e numero della nave, mansioni… un operatore poteva conoscere la consolle che aveva davanti e quello che stava per colpire, ma niente di più. Poi, i ricordi della patria… la famiglia uccisa in un’incursione della Flotta contro le miniere del sistema di Cyteen; un fratello ucciso in servizio… una ragione più che sufficiente per serbare rancori. Allevato dalla sorella della madre su Cyteen, in una specie di piantagione… poi una scuola governativa, insegnamento tecnico intensivo. Affermava di non conoscere la politica, non aveva risentimenti per la situazione. Le pagine scorrevano nella trascrizione originale, caotiche, non condensate… parlavano di tormentosi problemi personali, il tipo di dettagli intimi che affioravano alla superficie durante l’Adattamento, quando una buona parte dell’io veniva messa a nudo, esaminata, scrutata. Paura di essere abbandonato: la più terribile; paura di risultare un peso per i parenti, di meritare d’essere abbandonato; aveva un vago senso di colpa per la perdita della sua famiglia, aveva una paura ossessiva che ciò potesse ripetersi in ogni nuovo legame affettivo. Era affezionato alla zia. Si è presa cura di me, diceva a un certo punto. Mi abbracciava, qualche volta. Mi abbracciava… mi voleva bene. Lui non avrebbe voluto lasciarla. Ma la Confederazione aveva le sue esigenze; era lo stato a mantenerlo, e l’avevano portato via, quando aveva raggiunto la maggior età. Poi l’istruzione e il condizionamento da parte dello stato, l’addestramento militare e nessuna licenza per tornare a casa. Per un po’, aveva ricevuto lettere dalla zia; lo zio invece non aveva mai scritto. Lui pensava che ormai la zia fosse morta, perché le lettere non erano più arrivate da diversi anni. Mi avrebbe scritto, pensava lui. Mi voleva bene. Ma c’era la paura profonda che invece non fosse così; che avesse voluto in realtà solo il denaro che passava lo stato; e provava un senso di colpa, perché non era andato a casa; e il timore di aver meritato anche quella separazione. Aveva scritto allo zio e non aveva ricevuto risposta. Questo l’aveva addolorato, anche se tra lui e lo zio non c’era mai stato affetto. Mentalità, convinzioni… un’altra ferita, un’amicizia rotta; un amore immaturo, un altro caso in cui le lettere avevano smesso di arrivare, e quella ferita si era aggiunta alle altre. Un legame successivo, con una compagna del servizio… interrotto spiacevolmente. Lui tendeva a impegnarsi disperatamente. Accettami, ripeteva, nella sua patetica, segreta solitudine. E altre cose.

Ecco. Il terrore del buio. Un incubo vago, ricorrente: uno spazio bianco. Interrogatori. Droghe. Su Russell avevano usato le droghe, contro i princìpi dell’Anonima, contro tutti i diritti umani… avevano desiderato molto scoprire qualcosa che Talley non sapeva. Era stato trasferito dalla zona di Mariner — Mariner — a Russell nel momento del massimo panico. Avevano cercato informazioni, nella stazione minacciata; avevano usato le tecniche dell’Adattamento negli interrogatori. Damon si portò una mano sulla bocca e guardò nauseato la registrazione frammentaria che gli scorreva davanti. Si vergognava della sua scoperta, si sentiva ingenuo. Non aveva messo in dubbio i rapporti di Russell, non aveva indagato; aveva altre cose per le mani, e dipendenti che dovevano occuparsi della cosa; non aveva voluto interessarsi al caso — lo riconosceva — più di quanto fosse assolutamente necessario. Talley non l’aveva mai chiamato. Già provato dal trattamento precedente, s’era fatto forza per indurre Pell a fare l’unica cosa che poteva mettere fine al suo inferno mentale. Talley l’aveva guardato con fermezza negli occhi e aveva organizzato il proprio suicidio.

La documentazione continuava., dall’interrogatorio sotto l’effetto delle droghe all’evacuazione caotica, tra la folla disordinata della stazione da una parte e i militari che lo minacciavano dall’altra.

E cosa era successo durante quel lungo viaggio, quando era stato prigioniero su una delle navi di Mazian…

La Norway… e la Mallory.

Damon spense il visore e rimase a fissare il mucchio di carte, le condanne non ancora definitive. Dopo un po’, si rimise al lavoro, con le dita intorpidite a furia di firmare autorizzazioni.

Erano saliti a bordo in molti alla Stella di Russell, individui che, come Talley, forse erano sani di mente prima che tutto incominciasse. Quelli che erano sbarcati da quelle navi, quelli che erano nel settore Q erano diventati ciò che erano dopo essere stati dei tipi normali.

Lui imponeva semplicemente la distruzione di vite come quella di Talley, vite già perdute. Uomini come lui, pensò, che avevano valicato i confini della civiltà ed erano finiti là dove la civiltà non significava più nulla.

La Flotta di Mazian… persino loro, persino i tipi come la Mallory, avevano sicuramente incominciato in un modo diverso.

— Non inoltrerò appello — gli disse Tom quando si ritrovarono a pranzo, anche se in realtà si limitarono a bere, più che a mangiare.

E dopo pranzo Damon andò nel piccolo centro di Adattamento, nella sezione rossa, e tornò nell’area del trattamento. Vide Josh Talley, Talley non si accorse di lui anche se forse non avrebbe avuto importanza. A quell’ora Talley riposava, dopo aver pranzato. Il vassoio era ancora sul tavolo; aveva mangiato bene. Era seduto sul letto con un’espressione stranamente vacua mentre tutte le rughe dovute alla tensione erano sparite.


Angelo alzò gli occhi verso l’aiutante, per il rapporto sulla nave in partenza, esaminò il manifesto e alzò di nuovo lo sguardo. — Perché l’Hansford?

L’aiutante si dondolò leggermente, impacciato. — Prego, signore?

— Ci sono due dozzine di navi ferme e l’Hansford parte? Ridotta in quello stato? E con quale equipaggio?

— Credo che l’equipaggio sia stato arruolato in base alla lista degli inattivi, signore.

Angelo sfogliò il rapporto. — Società Lukas. Diretta a Viking con una nave praticamente smantellata, un equipaggio improvvisato e Dayin Jacoby come passeggero? Chiami Jon Lukas.

— Signore — disse l’aiutante — la nave ha già lasciato il molo.

— L’ora di partenza so leggerla anch’io. Mi chiami Jon Lukas.

— Sì, signore.

L’aiutante uscì. Dopo pochi istanti, lo schermo sulla scrivania s’illuminò e apparve Jon Lukas. Angelo trasse un profondo respiro, si calmò, inclinò il rapporto verso la telecamera. — Lo vedi?

— Hai qualcosa da chiedere?

— Che cosa sta succedendo?

— Abbiamo delle proprietà a Viking. Affari da mandare avanti. Dobbiamo lasciare che i nostri interessi vengano travolti dal panico e dal disordine? Dobbiamo tranquillizzarci.

— Con l’Hansford?

— Abbiamo avuto la possibilità di noleggiare una nave a prezzi ridotti. È questione d’economia, Angelo.

— Ed è tutto?

— Credo di non capirti,

— La nave non è partita a pieno carico. Che genere di merce conti di prelevare a Viking?

— Trasportiamo quello che è possibile, con l’Hansford nelle condizioni attuali. Là verrà riattrezzata: i cantieri sono meno affollati. Le riparazioni sono il prezzo per il quale l’abbiamo noleggiata, se proprio vuoi saperlo. Quello che trasporta servirà a pagare il conto; al ritorno sarà carica di merci indispensabili. Credevo che ti avrebbe fatto piacere. Dayin è a bordo per sovrintendere e occuparsi dei nostri affari a Viking.

— Non avrai deciso, per caso, che il pieno carico comprende anche il personale della Società Lukas… o altri? Non puoi vendere i biglietti per il viaggio da Viking a qui. Non chiuderai quell’ufficio.

— Ah. È questo che t’interessa.

— Deve interessarmi per forza, quando da qui partono navi senza un carico sufficiente per giustificare il viaggio, diretto verso una comunità a cui non possiamo tenere testa, se cede al panico. Jon, ti sto dicendo che non possiamo correre il rischio che qualcuno parli troppo, o che qualche società si porti via gli elementi migliori e scateni il panico su un’altra stazione. Mi hai sentito?

— Ho discusso la cosa con Dayin. Ti assicuro che la nostra missione è utile. Il commercio deve continuare, no? Altrimenti saremo soffocati. E prima di noi morirà Viking. Le stazioni su cui contavano hanno ceduto. Se a Viking cominciano a trovarsi a corto di risorse, ce li troveremo addosso senza averli invitati. Portiamo loro viveri e sostanze chimiche; niente che rischi di scarseggiare a Pell… e abbiamo riempito le due uniche stive utilizzabili della nave. Tutte le navi in partenza devono subire una simile indagine? Posso mostrarti i libri della società, se vuoi vederli. Ma la cosa mi sorprende. Quali che siano i nostri sentimenti personali, Angelo, credo che Dayin meriti un elogio perché si è offerto di partire nonostante le circostanze. Non merita una fanfara, e non l’abbiamo chiesta… ma ci saremmo aspettati qualcosa di meglio di queste accuse. Vuoi vedere i registri, Angelo?

— No. Grazie, Jon, e scusami. Purché Dayin e il comandante della nave si rendano conto dei rischi. Controlleremo ogni nave che parte, sì. Non è una questione personale.

— Terremo conto delle misure che prenderai, Angelo, purché vengano applicate in modo equo. Grazie.

— Grazie a te, Jon. — Lukas tolse la comunicazione. Angelo fece altrettanto, fissò il rapporto, lo sfogliò e alla fine firmò l’autorizzazione a posteriori, e la passò all’Archivio; tutti gli uffici erano in arretrato con il lavoro. Tutti. Il settore Q assorbiva troppe ore di lavoro e costituiva un carico eccessivo per il computer.

— Signore. — Era Mills, il suo segretario. — Suo figlio, signore.

Angelo Konstantin premette il tasto della ricezione e alzò la testa, piuttosto sorpreso, quando invece si aprì la porta ed entrò Damon. — Ho portato personalmente i rapporti dei procedimenti — disse Damon. Sedette e appoggiò i gomiti sulla scrivania. Aveva l’aria di essere molto stanco, almeno quanto Angelo. — Questa mattina ho autorizzato l’Adattamento per cinque uomini.

— Cinque uomini non sono una tragedia — disse stancamente Angelo. — Io sto preparando una procedura di sorteggio per il computer, per scegliere chi deve partire e chi deve restare alla stazione. Sulla Porta dell’Infinito c’è stato un altro temporale che ha allagato di nuovo il mulino, e hanno appena ritrovato le vittime dell’ultima inondazione. Ho le navi che premono, adesso che il panico si è un po’ attenuato, una se l’è appena filata, altre due partiranno domani. Se si sparge la voce che Mazian ha scelto Pell come rifugio, come si comporteranno le altre stazioni? Cosa succederà, quando si faranno prendere dal panico e sfolleranno qui in massa? E come facciamo a sapere che non ci sia già qualcuno che sta vendendo i biglietti per il viaggio ai più spaventati? Il nostro sistema di supporto vitale non può ospitare ancora molta gente. — Indicò con un gesto un fascio di documenti. — Dovremmo militarizzare tutti i mercantili che possiamo, con un’energica coercizione finanziaria.

— Per sparare sulle navi dei profughi?

— Se arriveranno navi che non potremo accogliere… sì. Vorrei parlare con Elene, oggi: sarebbe la persona più indicata per prendere i primi contatti con i mercantili. Non posso provare molta comprensione, oggi, per quei cinque terroristi. Perdonami.

La sua voce si incrinò. Damon si sporse verso di lui, gli strinse il polso, e poi lasciò la presa. — Emilio ha bisogno d’aiuto, laggiù?

— Dice di no. Il mulino è un disastro. C’è fango dappertutto.

— Li hanno trovati tutti morti?

Angelo annuì. — La notte scorsa Bennett Jacint e Ty Brown. Wes Kyle ieri a mezzogiorno… c’è voluto tutto questo tempo per cercare sulle rive e nei canneti. Emilio e Miliko dicono che il morale è alto, nonostante tutto. Gli indigeni stanno costruendo le dighe. Sembra che il numero di coloro che sono interessati al commercio con gli umani sia in aumento; ho ordinato di lasciarne entrare di più nella base, e ho autorizzato alcuni di quelli addestrati a venire quassù a occuparsi della manutenzione; il loro sistema di supporto vitale è in buone condizioni, e così lasceranno liberi alcuni tecnici che potremo promuovere. Sto mandando giù con la navetta tutti i volontari umani disposti a partire, tra cui anche i manovali addestrati; sono in grado di usare l’equipaggiamento da costruzione. Oppure possono imparare. È un’epoca nuova. Più dura. — Strinse le labbra e trasse un profondo respiro. — Tu ed Elene avete pensato alla Terra?

— Prego?

— Tu, tuo fratello, Elene e Miliko… pensateci, per favore.

— No — disse Damon. — Fuggire? Credi che potrà essere una soluzione?

— Tieni presenti le probabilità, Damon. Non abbiamo ricevuto aiuti dalla Terra, soltanto osservatori. Quelli stanno pensando a ridurre le loro perdite, non a mandarci rinforzi o navi. No. Stiamo scendendo sempre più in basso. Mazian non potrà resistere in eterno. I cantieri di Mariner… avevano un’importanza vitale. Presto toccherà a Viking; e a tutto quello che la Confederazione vorrà prendersi. La Confederazione sta isolando la Flotta dai rifornimenti; la Terra lo ha già fatto. A noi non resta altro che la fuga.

— Le Stelle delle Retrovie… sai che si sta parlando di riaprire una di quelle stazioni…

— Un sogno. Non ne avremo mai la possibilità. Se la Flotta scompare… la Confederazione se ne farebbe un obiettivo, come con noi, e con la stessa rapidità. Ed egoisticamente, preferireri sapere che i miei figli sono lontani da qui.

Il volto di Damon era pallidissimo. — No. Assolutamente no.

— Non sacrificarti. Preferisco la tua sicurezza al tuo aiuto. Per i Konstantin non si prospetta un buon futuro. Se ci prendono, per noi è il lavaggio del cervello. Ti preoccupi tanto dei tuoi criminali; pensa a te stesso e a Elene. È la soluzione della Confederazione… marionette negli uffici; popolazioni nate nei laboratori per riempire il mondo… colonizzeranno la Porta dell’Infinito e la trasformeranno. Il cielo aiuti gli indigeni. Io collaborerei con loro… e anche tu… per salvare Pell dagli eccessi più gravi; ma loro non si accontenterebbero. E non voglio vedervi nelle loro mani. Siamo il loro bersaglio. Ho vissuto tutta la vita in queste condizioni. Non mi pare di chiedere troppo se faccio un unico gesto d’egoismo… salvare i miei figli.

— Che cos’ha detto Emilio?

— Io ed Emilio ne stiamo ancora discutendo.

— Lui ti ha detto di no. E te lo dico anch’io.

— Tua madre vuole parlare con te.

— La manderesti via?

Angelo aggrottò la fronte. — Sai bene che non è possibile.

— Sì. Lo so. E io non andrò, e credo che non vorrà andare neppure Emilio. Se lo farà, avrà la mia benedizione; ma io non lo farò.

— Allora non sai niente — disse Angelo, laconico. — Ne parleremo più tardi.

— No — disse Damon. — Se noi ce ne andassimo, qui si scatenerebbe il panico. Lo sai. Sai che effetto farebbe, a parte il fatto che non voglio andarmene.

Era vero. Angelo lo sapeva.

— No — disse di nuovo Damon; posò la mano per un momento su quella del padre, poi si alzò e uscì.

Angelo continuò a fissare la parete, i ritratti allineati sullo scaffale, una successione di immagini tridimensionali… Alicia prima dell’incidente; lui e Alicia giovani; una serie di Damon e di Emilio, dall’infanzia all’età adulta, fino al matrimonio e alla speranza di avere nipoti. Guardò tutte le figure raccolte lì, in tutte le diverse età, e pensò che in futuro i giorni felici sarebbero stati molto meno numerosi.

In un certo senso, era in collera con i suoi figli; e in un altro… era fiero di loro. Era stato lui ad allevarli così.

Emilio, scrisse al figlio sulla Porta dell’Infinito, pensando a quella successione di ritratti, tuo fratello ti manda saluti affettuosi. Mandami tutti gli indigeni addestrati di cui puoi fare a meno. Io ti invio mille volontari della stazione; continua la costruzione della base, a qualunque costo. Chiedi aiuto agli indigeni, fai dei baratti per ottenere viveri. Con tutto il mio affetto.

Poi scrisse al servizio di sicurezza: Selezionate i non violenti. Li trasferiremo sulla Porta dell’Infinito come volontari.

E già in quel momento si rendeva conto di quali sarebbero stati i risultati; i peggiori sarebbero rimasti nella stazione, vicino al cuore e al cervello di Pell. Alcuni consigliavano con insistenza di mandare laggiù i teppisti e di tenerli sotto stretto controllo. Ma c’erano i fragili accordi con gli indigeni, un vago senso di rispetto per i tecnici che si erano lasciati convincere a scendere laggiù, nel fango e in condizioni davvero difficili… non era possibile trasformare il pianeta in una colonia penale. Così era la vita. Era la natura di Pell, e lui rifiutava di violarla, di rovinare tutti i sogni per il suo avvenire.

Vi furono momenti terribili, quando pensò di organizzare un incidente perché l’intero settore Q finisse in decompressione. Era un’idea orribile, una soluzione pazzesca, uccidere migliaia di innocenti insieme agli indesiderabili… accogliere i profughi, una nave dopo l’altra, e provocare un incidente dopo l’altro, per mantenere Pell libera da quel peso, per farla restare così com’era. Damon aveva perso il sonno a causa di cinque uomini. E lui aveva incominciato a prendere in considerazione l’orrore totale.

Anche per questa ragione voleva che i suoi figli lasciassero Pell. Qualche volta pensava che sarebbe stato veramente capace di adottare le misure richieste da certuni, e che era solo la debolezza a impedirglielo, e che stava mettendo in pericolo quanto c’era di buono e di sano per salvare una marmaglia corrotta, dalla quale arrivavano ogni giorno segnalazioni di violenze e di omicidi.

Poi pensò a quel che sarebbe accaduto, alla vita di tutti quanti se avessero trasformato Pell in uno stato di polizia, e lo respinse con tutta la forza delle convinzioni che da sempre regolavano l’esistenza della stazione.

— Signore — l’interruppe una voce, con il tono brusco delle trasmissioni provenienti dalla centrale. — Signore, abbiamo traffico in arrivo.

— Passami la comunicazione — disse Angelo, e deglutì con uno sforzo quando le proiezioni schematiche arrivarono sul suo schermo. Nove. — Chi sono?

— L’Atlantic — rispose la voce della centrale. — Signore, hanno otto mercantili nel convoglio. Chiedono di attraccare. Segnalano che a bordo ci sono condizioni pericolose.

— Permesso rifiutato — disse Angelo. — Almeno, fino a quando non avremo raggiunto un’intesa. — Non potevano accogliere tanta gente; non poteva; certo non un’altra infornata come quella della Mallory. Il cuore di Angelo cominciò a martellare dolorosamente. — Mi chiami Kreshov sull’Atlantic. Mi metta in contatto con lui.

L’Atlantic rifiutò il contatto. La nave da guerra poteva fare quel che voleva. E loro non potevano far nulla per impedirlo.

Il convoglio si avvicinava, silenzioso, con il suo minaccioso carico; Angelo diede l’allarme al servizio di sicurezza.


PORTA DELL’INFINITO: BASE PRINCIPALE: 28/5/52

La pioggia continuava ancora a cadere, ma il tuono si stava smorzando. Tam-utsa-pitan osservava il continuo andirivieni degli umani, seduta con le braccia intorno alle ginocchia, e i piedi nudi affondati nella fanghiglia, mentre l’acqua le sgocciolava lentamente sul pelame. Gran parte di quello che facevano gli umani non aveva senso; gran parte di quello che costruivano non aveva uno scopo apparente; forse lo facevano per gli dèi, forse erano pazzi. Ma le tombe… questo gli hisa lo capivano. Gli hisa capivano le lacrime versate dietro quelle maschere. Restò a guardare, dondolandosi leggermente, fino a quando gli ultimi umani se ne andarono, lasciando solo il fango e la pioggia in quel luogo dove seppellivano i loro morti.

Poi si alzò e raggiunse quel luogo di cilindri e di tombe, affondando i piedi nudi nel fango. Avevano coperto di terra Bennett Jacint e gli altri due. La pioggia stava trasformando quel posto in un grande lago, ma lei aveva osservato con attenzione; non sapeva nulla dei segni che gli umani usavano, ma quello le era familiare.

Portava con sé un lungo bastone, che il Vecchio aveva fabbricato. Camminava nuda sotto la pioggia; aveva soltanto le perline e le pelli infilate su uno spago intorno alla spalla. Si fermò accanto alla tomba, afferrò il bastone con entrambe le mani e lo piantò con forza nel fango molle; inclinò l’effigie dello spirito in modo che fosse rivolta il più possibile verso l’alto, e intorno alle sporgenze appese le perline e le pelli, disponendole con cura, nonostante la pioggia che continuava a cadere a dirotto.

Vicino a lei risuonò un passo nelle pozzanghere, il sibilo di un respiro umano. Si voltò e si scostò di scatto, sbalordita e sgomenta perché un uomo l’aveva colta di sorpresa, e fissò la faccia nascosta dal respiratore.

— Che cosa stai facendo? — chiese l’uomo.

Lei si raddrizzò, e si strofinò sulle cosce le mani infangate. Essere così nuda l’imbarazzava, perché quel fatto sconvolgeva gli umani. Non aveva una risposta per un essere umano. L’uomo guardò il bastone-spirito, le offerte funebri… e poi verso di lei. Da ciò che poteva intuire dal suo volto, le sembrava meno incollerito di quanto la sua voce lasciasse presagire.

— Bennett? — chiese l’uomo.

Lei annuì, ancora sconvolta. Gli occhi le si riempirono di lacrime nel sentire quel nome, ma la pioggia le lavò via. Collera… provava anche quella sensazione, al pensiero che fosse morto Bennett e non un altro.

— Io sono Emilio Konstantin — disse l’uomo, e lei subito si raddrizzò, rilassando i muscoli già pronti a reagire al pericolo con la lotta o con la fuga. — Ti ringrazio per Bennett Jacint. Lui ti ringrazierebbe.

— Konstantin-uomo. — Lei cambiò atteggiamento e arrivò a sfiorarlo. Era molto alto, ben oltre la media. — Amare Bennett-uomo, tutti amare Bennett-uomo. Uomo buono. Dire lui amico. Tutti indigeni sono tristi. — Konstantin-uomo le mise una mano sulla spalla, lei si voltò e lo cinse con un braccio, gli appoggiò la testa sul petto, le abbracciò solennemente, nonostante quegli indumenti gialli e bagnati avessero un aspetto ripugnante. — Buono Bennett faceva arrabbiare Lukas. Buono amico per indigeni. Peccato lui andato. Peccato, Konstantin-uomo.

— Ho saputo — disse lui. — Ho saputo come andavano le cose qui.

— Konstantin-uomo buono amico. — Lei alzò la faccia, a quel contatto, guardò senza paura la strana maschera che gli conferiva un aspetto orribile. — Vuole bene uomini buoni. Indigeni lavorano, lavorano per Konstantin. Danno te regali. Non andare più via.

Diceva sul serio. Avevano imparato a conoscere i Lukas. In tutto il campo si diceva che dovevano lavorare bene per i Konstantin, perché i Konstantin erano sempre stati gli umani migliori, e portavano doni che gli hisa non avrebbero mai potuto ricambiare.

— Qual è il tuo nome? — chiese Emilio, accarezzandole la guancia. — Come dobbiamo chiamarti?

Lei sogghignò all’improvviso, lusingata da quella gentilezza, e si lisciò la morbida pelliccia che era il suo orgoglio, anche se adesso era bagnata. — Umani chiamano me Satin — disse, e rise, perché il suo vero nome era soltanto suo, una proprietà degli hisa, ma Bennett le aveva dato questo, per la sua vanità, questo nome e un pezzo di stoffa rossa, che lei aveva portato fino a ridurlo un cencio, e che conservava ancora tra i doni degli spiriti.

— Vuoi tornare indietro con me? — chiese lui, alludendo al campo degli umani. — Mi piacerebbe parlare con te.

Lei fu quasi sul punto di accettare, perché questo era un segno di favore. Poi, tristemente, pensò al dovere e si ritrasse, incrociò le braccia, desolata per la perdita del suo amato. — Mi siedo — disse.

— Con Bennett.

— Faccio lui spirito guarda cielo — disse lei, mostrando il bastone-spirito e rivelando qualcosa che gli hisa di solito non rivelavano. — Guarda a lui casa.

— Vieni domani — disse lui. — Ho bisogno di parlare agli hisa.

Lei piegò la testa all’indietro e lo guardò sbalordita. Pochi umani li chiamavano con il loro nome. Era strano sentirlo. — Devo portare altri?

— Tutti i capi, se vogliono venire. Abbiamo bisogno di hisa, lassù: buone mani, buon lavoro. Abbiamo bisogno di commerciare con la Porta dell’Infinito, lavoro per altri uomini.

Lei tese la mano verso le colline e la grande pianura, che si estendeva a perdita d’occhio.

— C’è posto.

— Ma devono dirlo i capi.

Lei rise. — Dici cose-spirito. Io-Satin do questo a Konstantin-uomo. Tutto nostro. Io do, tu prendi. Tutto commercio, molte buone cose; tutti felici.

— Vieni domani — disse lui, e si allontanò: una figura alta e strana nella pioggia che cadeva di traverso. Satin-Tam-utsa-pitan si accoccolò sui talloni, mentre la pioggia sferzava la sua schiena incurvata e scorreva sul suo corpo, e guardò la tomba, che la pioggia ricopriva di larghe pozze d’acqua.

Attese. Alla fine arrivarono altri, meno abituati agli uomini. Uno di loro era Delut-hos-me, che non condivideva il suo ottimismo nei loro confronti; ma anche lui si era affezionato a Bennett.

C’erano uomini e uomini. Questo gli hisa l’avevano imparato.

Si appoggiò a Delut-hos-me, Sole-che-splende-tra-le-nubi, nella sera buia della lunga veglia, e quel gesto lo rese felice. Lui aveva incominciato a deporre doni davanti alla sua stuoia, in quella stagione invernale, sperando nella primavera.

— Loro vogliono che gli hisa vadano Lassù — disse lei. — Io voglio vedere Lassù. Lo voglio.

L’aveva sempre voluto, da quando aveva sentito Bennett parlarne. Era il luogo da cui venivano i Konstantin (e i Lukas, ma scacciò quel pensiero). L’immaginava luminoso e pieno di doni e di cose buone, come tutte le navi che scendevano di Lassù, e che portavano loro provviste e buone idee. Bennett aveva parlato loro di un grande mondo di metallo che tendeva le braccia verso il Sole, per bere la sua forza, affollato di navi più grandi di quanto avessero mai immaginato, simili a giganti indaffarati.

Tutte le cose affluivano in quel luogo e ne defluivano; e adesso Bennett se ne era andato, segnando un Tempo nella sua vita sotto il Sole. Era una sorta di pellegrinaggio, il viaggio che desiderava, per segnare quel Tempo: come abbandonarsi alle immagini della pianura, e alle notti all’ombra di quelle immagini.

Avevano dato agli umani le immagini di Lassù, perché vegliassero. Era giusto chiamarlo pellegrinaggio. E il Tempo riguardava Bennett, che aveva compiuto quel viaggio.

— Perché me lo dici? — chiese Delut-hos-me.

— La mia primavera sarà Lassù.

Lui si fece più vicino. Lei poteva sentire il suo calore. La cinse con un braccio. — Io andrò — disse.

Era crudele, ma lei desiderava il suo primo viaggio; e il suo desiderio per lei sarebbe cresciuto, accompagnando la fine del grigio inverno mentre loro cominciavano a pensare alla primavera, ai venti caldi e allo squarciarsi delle nubi. E Bennett, che riposava nella tomba, sarebbe esploso in quella sua strana risata umana, e avrebbe augurato loro di essere felici.

Gli hisa vagabondavano sempre, in primavera, alla ricerca di un luogo per l’accoppiamento.


PELL: SETTORE AZZURRO CINQUE: 28/5/52

Ancora una volta, una cena surgelata. Erano rientrati tutti e due molto tardi, storditi dalle tensioni della giornata… altri profughi, altro caos. Damon mangiò, e alla fine alzò gli occhi rendendosi conto del proprio assurdo mutismo, e scoprì che anche Elene era sprofondata in un silenzio totale… era diventata un’abitudine, tra loro. Damon si sentì turbato a quel pensiero, e posò la sua mano su quella di Elene, abbandonata accanto al piatto. Le loro dita s’intrecciarono. Anche Elene aveva la stessa aria stanca. Lavorava troppo… Era una sorta di rimedio… per non pensare. Non parlava mai dell’Estelle. Non parlava mai molto. Forse, pensò Damon, era così presa dal lavoro che rimaneva ben poco da dire.

— Oggi ho visto Talley — le disse con voce rauca, cercando di colmare il silenzio, di distrarla, anche se era un argomento lugubre. — Sembrava… tranquillo. Non soffriva. Non soffriva affatto.

Elene strinse più forte. — Allora hai fatto bene, dopotutto, no?

— Non lo so. Non credo ci sia modo di saperlo.

— Lo ha chiesto lui.

— Lo ha chiesto lui — ripeté Damon.

— Hai fatto tutto quello che hai potuto. Non puoi fare di più.

— Ti amo.

Lei sorrise. Le sue labbra tremarono fino a quando il sorriso lentamente svanì.

— Elene?

Lei ritrasse la mano. — Credi che ce la faremo a tenere Pell?

— Temi di no?

— Temo che tu non lo creda.

— Che ragionamento è?

— Le cose che non vuoi discutere con me.

— Non parlarmi per indovinelli. Non sono capace di risolverli. Non ci sono mai riuscito.

— Voglio un figlio. Non sto seguendo il trattamento, adesso. Credo che tu lo segua ancora.

Damon si sentì avvampare. Per una frazione di secondo pensò di mentire. — Sì. Non pensavo che fosse il momento di parlarne. Per ora.

Lei strinse le labbra, angosciata.

— Non so che cosa vuoi — disse lui. — Non lo so. Se Elene Quen vuole un bambino, sta bene. Chiedi. È giusto. È tutto giusto. Ma speravo che fosse per una ragione che io potevo conoscere.

— Non capisco di cosa stai parlando.

— Hai riflettuto molto. Ti ho osservata. Ma non l’hai fatto a voce alta. Che cosa vuoi? Che cosa devo fare? Metterti incinta e lasciarti andare? Ti aiuterei, se sapessi come. Che cosa posso dire?

— Non voglio litigare. Non voglio affatto litigare. Ti ho detto quello che voglio.

Perché?

Lei alzò le spalle. — Non voglio più aspettare. — Aggrottò la fronte. Per la prima volta dopo molti giorni, Damon ebbe la sensazione di riuscire a fissarla nel profondo dei suoi occhi. Di sentire Elene, così com’era. Qualcosa di dolce. — Per te è importante — disse lei. — Lo vedo.

— Qualche volta mi accorgo di non ascoltare tutto quello che dici.

— Su una nave… è affar mio, avere un figlio o no. In certe cose, le famiglie delle navi sono più vicine, in altre sono più lontane. Ma tu, con la tua famiglia… lo capisco. Lo rispetto.

— È anche la tua famiglia. È tua.

Lei sorrise, debolmente: un’offerta, forse. — E allora che cosa ne dici?

Gli uffici pianificazione di Pell emanavano terribili avvertimenti, o consigli, o suppliche. Non si trattava solo della creazione del settore Q. C’era la guerra che si avvicinava. Le regole valevano innanzi tutto per i Konstantin.

Damon si limitò ad annuire. — Quindi abbiamo finito di attendere.

Fu come se si dileguasse un’ombra. Lo spettro dell’Estelle fuggì dal piccolo appartamento che era stato loro assegnato nel settore azzurro cinque, molto più piccolo dell’altro; non erano riusciti a sistemare i loro mobili e tutto era fuori posto. All’improvviso era diventata la loro casa, il corridoio con i piatti ammonticchiati nei guardaroba e il soggiorno che di notte si trasformava nella camera da letto, con le casse legate nell’angolo — le casse di vimini fabbricate dagli indigeni — che contenevano quello che avrebbe dovuto essere sistemato negli armadi del corridoio.

Si sdraiarono sul letto che di giorno faceva da divano. E lei parlò stando fra le braccia di Damon, parlò per la prima volta dopo settimane, fino a notte inoltrata, un fiume di ricordi che non aveva mai voluto spartire con lui, in tutto il tempo in cui erano rimasti insieme.

Damon cercava di comprendere ciò che Elene aveva perduto con l’Estelle: la sua nave… ancora la chiamava così. I parenti, i vari legami. La morale dei mercantili, diceva il proverbio delle stazioni; ma lui non riusciva a vedere Elene con gli altri, fra quei ribaldi spaziali in libera uscita pronti a prendersi una sbronza e ad andare a letto con chi capitava. Non avrebbe mai potuto crederlo.

— E invece devi — disse Elene, sfiorandogli la spalla con il suo respiro. — È così che viviamo. Cosa vorresti, invece? Unioni fra consanguinei? Erano tutti miei cugini, su quella nave.

— Tu eri diversa — insistette Damon. La ricordava come l’aveva vista la prima volta, nel suo ufficio, per la questione di un suo cugino che s’era messo nei guai… era sempre più tranquilla e silenziosa degli altri. Una conversazione, un altro incontro; un altro ancora; un secondo viaggio… e di nuovo Pell. Lei non era mai andata a fare il giro dei bar con i cugini, non aveva frequentato i soliti locali degli spaziali; era venuta da lui e aveva passato con lui quei giorni di sosta alla stazione. Non si era più imbarcata. Quelli dei mercantili si sposavano raramente. Lei l’aveva fatto.

— No — disse Elene. — Tu eri diverso.

— Accetteresti il bambino di chiunque? — Quel pensiero lo turbava. Non aveva mai chiesto certe cose a Elene perché credeva di saperle. Ed Elene non aveva mai parlato così. Damon cominciò solo ora a riconsiderare tutto quel che credeva di sapere, a soffrire e a lottare. Lei era Elene: a questo lui credeva ancora, con fiducia.

— Come potremo averli, altrimenti? — chiese lei, con una logica che non ammetteva repliche. — Li amiamo, non credi? Appartengono a tutta la nave. Ma adesso non ce ne sono. — All’improvviso, riusciva a parlarne. Damon sentì la tensione defluire in un sospiro. — Sono tutti morti.

— Dicevi che Elt Quen era tuo padre, Tia James tua madre. Era così?

— Lui era mio padre. Lei lo sapeva. — E poi, subito dopo aggiunse: — Lei aveva lasciato una stazione per seguirlo. Non molti lo fanno.

Elene non gli aveva mai chiesto di farlo. Quel pensiero non lo aveva mai sfiorato. Chiedere a un Konstantin di lasciare Pell… si domandò se l’avrebbe fatto, e provò un profondo disagio. L’avrei fatto, insistette. Forse. — Sarebbe stato duro — ammise, a voce alta. — Per te lo è stato.

Lei annuì, sfiorandogli il braccio.

— Sei pentita, Elene?

Lei scrollò lievemente il capo.

— È tardi per parlarmene — disse Damon. — Vorrei che l’avessimo fatto prima. Vorrei che ci fossimo conosciuti abbastanza per parlarci. C’erano tante cose che non sapevamo.

— Ti dà fastidio?

La strinse a sé, e la baciò attraverso il velo dei capelli, scostandoli lievemente. Per un momento pensò di dire di no, poi decise di non dire nulla. — Hai visto Pell. Ti rendi conto che non ho mai messo piede su un mezzo spaziale più grande di una navetta? Che non sono mai uscito da questa stazione? Non so come vedere certe cose, non so neppure come immaginarle. Mi capisci?

— E ci sono certe cose che anch’io non so come chiederti.

— Di che cosa si tratta?

— L’ho appena detto.

— Non so dire sì o no, Elene, non so se avrei potuto lasciare Pell. Ti amo, ma non so se avrei potuto farlo… dopo così poco tempo. E mi rattrista, sapere che in me c’è qualcosa che non ho mai scoperto… non ho fatto altro che pensare a come potevo renderti felice su Pell…

— È più facile per me rimanere qui… che per un Konstantin sradicarsi da Pell; fermarsi è facile, noi lo facciamo sempre. Ma non avevo mai pensato di perdere l’Estelle. Come tu non avevi mai pensato a quello che c’è là fuori. Mi hai risposto.

— In che modo ti ho risposto?

— Mi hai risposto con ciò che ti addolora.

Rimase sconcertato. Lo facciamo sempre. Ed ebbe paura. Ma Elene parlò ancora, rimanendogli vicina, parlò di sentimenti profondi; l’infanzia a bordo di un mercantile; la prima volta che aveva messo piede su una stazione, a dodici anni, spaventata dai rudi uomini del luogo, i quali presumevano che ogni ragazza sbarcata da un mercantile fosse disponibile. E un suo cugino era morto su Mariner, anni prima, accoltellato da uno della stazione, senza neppure comprendere il sentimento di invidia per il quale era stato ucciso.

E una cosa incredibile… che nella perdita della sua nave, l’orgoglio di Elene ne aveva sofferto: l’orgoglio… quell’idea lo sbalordì e per un po’ rimase disteso a guardare il soffitto buio, a riflettere.

Il nome era sminuito… una proprietà, come la nave. Qualcuno l’aveva ridicolizzato, in modo troppo anonimo per darle un nemico su cui vendicarsi. Per un momento Damon pensò alla Mallory, alla dura arroganza di un’élite, l’aristocrazia del privilegio. Mondi isolati, con una legge propria, dove nessuno possedeva qualcosa, e tutti la possedevano: la nave e tutti coloro che le appartenevano. Mercanti che avrebbero sputato negli occhi a una dirigente d’una stazione cedevano il passo borbottando quando l’ordine veniva da una Mallory o da una Quen. Elene aveva sofferto per la perdita dell’Estelle. Doveva essere così. Ma anche la vergogna… la vergogna di non essere stata presente quando era necessario. Pell l’aveva assegnata agli uffici del molo, dove poteva servirsi della reputazione dei Quen; ma adesso non aveva niente alle spalle, nient’altro che la reputazione che non aveva potuto difendere. Un nome morto. Una nave morta. Forse sentiva la pietà degli altri mercanti. E questa sarebbe stata l’amarezza più grande.

Gli aveva chiesto una cosa. E lui gliel’aveva negata senza discutere. Senza capire.

— Il primo figlio — mormorò, girando la testa sul cuscino per guardarla — sarà un Quen. Mi senti bene, Elene? Pell ha già abbastanza Konstantin. A mio padre potrà dispiacere; ma capirà. Anche mia madre capirà. Credo che sia importante agire così.

Elene cominciò a piangere, come non l’aveva mai vista piangere prima, sebbene cercasse di trattenersi. Lo abbracciò e rimase così, fino al mattino.

CAPITOLO DECIMO

STAZIONE VIKING: 5/6/52

Viking era sospesa nell’aura scintillante di una stella dall’aspetto minaccioso. Attività minerarie e industrie metallurgiche… era questo a sostenerla. Segust Ayres, del ponte del mercantile, guardava l’immagine sugli schermi.

E qualcosa non andava. Il ponte di comando era immerso nel brusio dei segnali d’allarme che rimbalzavano da una postazione all’altra, tra fronti aggrondate e occhiate di preoccupazione. Ayres guardò i suoi tre compagni. Anche loro se n’erano accorti, ed erano irrequieti, e cercavano di non intralciare le procedure che costringevano gli ufficiali a fare la spola da una postazione all’altra.

Insieme a loro stava arrivando un’altra nave. Ayres ne sapeva abbastanza per capire cosa stava succedendo. Si avvicinò fino quando apparve sugli schermi; le navi non dovevano viaggiare tanto vicine, soprattutto a così poca distanza da una stazione; era una nave molto grande, composta da vari moduli.

— È nel nostro corridoio — disse il delegato Marsh.

La nave si avvicinò ancora di più, e il capitano del mercantile si alzò, raggiungendo gli altri. — Ci sono guai — disse. — Ci stanno scortando. Non riconosco la nave che ci accompagna. È militare. Francamente, non credo che ci troviamo ancora nello spazio dell’Anonima.

— Ha intenzione di invertire la rotta e di fuggire? — chiese Ayres.

— No. Lei può ordinarlo, ma noi non lo faremo. Lei non sa come vanno queste cose. Lo spazio è grande, e qualche volta, si possono avere sorprese. Qui è successo qualcosa. E noi ci siamo capitati in mezzo. Sto trasmettendo la richiesta di non sparare, in continuazione. Attraccheremo pacificamente. E se avremo fortuna, ci lasceranno ripartire.

— Lei pensa che la Confederazione sia arrivata fin qui.

— Ci siamo soltanto noi e loro, signore.

— E la nostra situazione?

— È molto spiacevole, signore. Ma è un rischio che avete voluto correre. Non credo che vi lasceranno andare. No, signore. Mi dispiace.

Marsh cominciò a protestare. Ayres tese una mano. — No. Propongo di andare a bere qualcosa nel salone e di aspettare. Ne parleremo.


Le armi innervosivano Ayres. Mentre veniva scortato dai giovani armati di fucile attraverso un molo simile a quello di Pell, e poi introdotto in un ascensore insieme a quei giovani rivoluzionari, si sentì mancare il fiato e si preoccupò per i suoi compagni che erano ancora sotto sorveglianza a bordo della nave. I soldati che aveva visto attraversando il molo di Viking sembravano tutti eguali in quelle tute verdi, un mare di verde che sommergeva i pochi civili rimasti. Armi dappertutto. E ampi spazi vuoti, lungo la curva dei moli in lontananza. Non c’era abbastanza gente. Un numero molto inferiore a quello dei residenti di Pell, nonostante che intorno alla Stazione Viking vi fosse una gran quantità di mercantili. Presi in trappola, pensò: forse gli equipaggi venivano trattati abbastanza gentilmente — i militari che erano saliti a bordo della sua nave s’erano comportati con fredda cortesia — ma c’era da scommettere che quelle navi non sarebbero ripartite.

Né la nave che li aveva portati sin lì, né le altre.

L’ascensore si fermò a uno dei livelli superiori. — Fuori — disse il giovane capitano, e con un movimento della canna del fucile gli ordinò di avviarsi sulla sinistra, lungo il corridoio. L’ufficiale non aveva più di diciotto anni. Maschi e femmine avevano i capelli cortissimi e dimostravano tutti la stessa età. Si disposero davanti e dietro di lui, formando una scorta più numerosa di quanto lo giustificasse un uomo della sua età e nelle sue condizioni fisiche. Lungo il corridoio che portava agli uffici vi erano altri militari, tutti con i fucili spianati allo stesso modo. Tutti sui diciotto anni, tutti con i capelli corti, tutti…

… attraenti. Era questo che colpiva la sua attenzione. Avevano un aspetto gradevole, con quelle facce fresche, come se la bellezza fosse solo un ricordo, come se non vi fosse più distinzione. In quello schieramento, una cicatrice, uno sfregio qualunque, sarebbe apparso bizzarro. Per maschi e femmine, le proporzioni avevano un ristretto margine di tolleranza, e si assomigliavano tutti, sebbene lineamenti e carnagione fossero diversi. Come tanti manichini. Ayres ricordò le truppe malconce della Norway, e la comandante dai capelli grigi, il loro equipaggiamento rabberciato, un comportamento che sembrava ignorare la disciplina. Sudiciume. Cicatrici. Il peso degli anni.

Rabbrividì tra sé, e sentì una morsa di gelo nelle viscere mentre procedeva in mezzo ai manichini, entrava nei vari uffici e poi in un’altra stanza, davanti a un tavolo intorno al quale sedevano uomini e donne più anziani. Provò un senso di sollievo nel vedere capelli grigi, difetti fisici, pinguedine. Un sollievo delirante.

— Il signor Ayres. — Un manichino che imbracciava il fucile lo annunciò. — Delegato dell’Anonima. — Il manichino avanzò, posò i documenti confiscati sul tavolo davanti alla figura al centro, una donna massiccia, grigia di capelli. Lei li sfogliò e alzò la testa aggrottando lievemente la fronte. — Signor Ayres… Ines Andilin — disse. — Una brutta sorpresa per lei, no? Ma sono cose che capitano. Ora vorrà protestare in rappresentanza dell’Anonima perché ci siamo impadroniti della sua nave. Lo faccia pure.

— No, cittadina Andilin. È stata una sorpresa, sì, ma non sconvolgente. Sono venuto a vedere quel che potevo vedere, e ho visto abbastanza.

— E che cos’ha visto, cittadino Ayres?

— Cittadina Andilin. — Ayres avanzò di qualche passo, per quanto glielo permettevano quelle facce ansiose e il movimento improvviso dei fucili. — Io sono il secondo segretario del Consiglio di Sicurezza della Terra. I miei compagni appartengono alle più alte gerarchie dell’Anonima Terra. La nostra ispezione ci ha mostrato un caos e un militarismo, nella Flotta dell’Anonima, che hanno superato ogni limite di responsabilità dell’Anonima. Siamo sbigottiti da ciò che abbiamo scoperto. Sconfessiamo Mazian; non desideriamo conservare i tenitori in cui i cittadini hanno optato per un governo diverso; siamo ansiosi di sbarazzarci di un conflitto gravoso e di un’attività non redditizia. Voi sapete benissimo di possedere questo territorio. Il confine è assai labile; non possiamo imporre quello che i residenti delle Stelle Sperdute non vogliono; anzi, che interesse avremmo a farlo? Non consideriamo propriamente un disastro l’incontro in questa stazione. Anzi, vi stavamo cercando.

Vi fu un moto di perplessità tra i presenti.

— Siamo disposti — disse Ayres, a voce alta, — a cedervi ufficialmente tutti i territori contestati. Francamente, non abbiamo interessi al di là dei confini attuali. Il braccio spaziale dell’Anonima è stato sciolto per voto dei consigli di amministrazione; il nostro unico interesse, ormai, è provvedere a un disimpegno ordinato, a una ritirata, e stabilire un confine che assegni a entrambi uno spazio ragionevole.

Molte teste si chinarono. I membri del consiglio confabularono tra loro. Perfino i manichini allineati intorno alla sala sembravano irrequieti.

— Noi siamo un’autorità locale — disse alla fine Andilin. — Avrà la possibilità di rilanciare le sue offerte. Potete bloccare i maziani e garantire la nostra sicurezza?

Ayres trattenne il respiro. — La Flotta di Mazian? No, se i suoi comandanti sono un valido esempio.

— Lei viene da Pell?

— Sì.

— E afferma di avere esperienza dei comandanti di Mazian?

Per un momento, Ayres si smarrì… non era abituato a simili sviste. E non era neppure abituato a distanze tanto grandi, dove quegli avvenimenti potevano far notizia. Ma quelli del mercantile, pensò, ne sapevano abbastanza, almeno quanto lui. Nascondere le informazioni non solo era inutile: era pericoloso. — Ho incontrato — confessò — la comandante della Norway, una certa Mallory.

Andilin chinò solennemente la testa. — Signy Mallory. Un privilegio eccezionale.

— Non per me. L’Anonima rifiuta di assumersi la responsabilità della Norway.

— Disordine, malgoverno, rifiuto delle responsabilità… eppure Pell ha fama d’essere una stazione dove regna l’ordine. Mi sorprende. Che cos’è successo?

— Non intendo farvi da informatore.

— Tuttavia, sconfessa Mazian e la Flotta. Questo è un passo importante.

— Non sconfesso la sicurezza di Pell. È territorio nostro.

— Allora non siete disposti a cedere tutti i territori contestati.

— Per territori contestati, naturalmente, intendiamo quelli a partire da Fargone.

— Ah. E qual è il vostro prezzo, cittadino Ayres?

— Una transizione ordinata dei poteri, accordi che possano salvaguardare i nostri interessi.

Andilin scoppiò a ridere. — Volete un trattato con noi. Rinnegate le vostre forze, e chiedete un trattato con noi.

— Una soluzione ragionevole per una difficoltà comune. Dieci anni dopo l’ultimo rapporto attendibile proveniente dalle Stelle Sperdute. Molti anni di più, con una flotta che sfugge al nostro controllo, che rifiuta i nostri ordini, in una guerra che distrugge quello che potrebbe essere un commercio reciprocamente redditizio. È questo che ci ha portati fin qui.

Nella sala scese un profondo silenzio.

Finalmente Andilin annuì, con un tremolio del doppio mento. — Signor Ayres, la tratteremo con i guanti e la passeremo a Cyteen con la massima delicatezza. E con la speranza che qualcuno, sulla Terra, si sia deciso a dimostrare un po’ di buon senso. Un’ultima domanda, in forma diversa. La Mallory era sola, a Pell?

— Non posso rispondere.

— Allora non avete sconfessato la Flotta.

— Conservo questa opzione per i negoziati.

Andilin sporse le labbra. — Non deve preoccuparsi di fornirci informazioni delicate. Quelli del mercantile non ce le negheranno. Se ha la possibilità di impedire ai maziani di continuare le attuali manovre, le consiglio di tentare. Le consiglio di dimostrare la serietà della proposta… faccia almeno un gesto simbolico per favorire i negoziati.

— Non siamo in grado di controllare Mazian.

— Sa benissimo che perderete — disse Andilin. — Anzi, siete già stati sconfitti e state cercando di consegnarci quello che abbiamo già vinto… e di ottenere in cambio qualche concessione.

— Non abbiamo alcun interesse a continuare le ostilità, per vincere o perdere. Riteniamo che il nostro scopo iniziale fosse di assicurarci che le stelle diventassero un impegno commerciale redditizio; ed è evidente che lo è. Voi avete un’economia con cui vale la pena di commerciare, sulla base di relazioni economiche diverse dalle precedenti, in grado di risparmiarci il coinvolgimento con le Stelle Sperdute, prive d’interesse per noi. Possiamo concordare una rotta, un punto d’incontro dove le vostre navi e le nostre possano liberamente incrociarsi: un porto franco. Quello che voi fate nel vostro settore non ci riguarda; organizzate come preferite lo sviluppo delle Stelle Sperdute. Inoltre, richiameremo in patria alcuni mercantili per dare inizio a questo scambio commerciale. Se potremo frenare Conrad Mazian, richiameremo anche le sue navi. Sarò molto franco. Gli interessi che perseguiamo sono divergenti a tal punto che non esiste una ragione logica per proseguire le ostilità. Verrete riconosciuti in tutto e per tutto come il governo legittimo delle colonie esterne. Io sono il negoziatore, e sarò l’ambasciatore ad interim, se i negoziati avranno successo. Non la consideriamo una sconfitta, se la volontà della maggioranza delle colonie vi appoggia; il fatto che siate il governo di questa regione lo prova. Vi portiamo il riconoscimento ufficiale della nuova amministrazione… una situazione che spiegherò meglio alle vostre autorità centrali; e nel contempo, siamo disposti a intavolare negoziati commerciali. Tutte le attività militari che è in nostro potere controllare verranno a cessare. Purtroppo… non abbiamo il potere di arrestarle, ma solo di ritirare il nostro appoggio e la nostra approvazione.

— Io sono un amministratore regionale, un gradino al di sotto del direttore centrale; ma non credo, ambasciatore Ayres, che il direttorio esiterà ad intavolare discussioni al riguardo. Almeno, come amministratore regionale, ritengo che sia così. Le porgo un cordiale benvenuto.

— Sarà meglio affrettarci… questo potrebbe salvare molte vite.

— Sì. Sarà scortato in un alloggio sicuro. I suoi compagni la raggiungeranno.

— In stato d’arresto?

— Al contrario. La stazione è stata occupata da poco e non è ancora sicura. Vogliamo essere certi che lei non corra rischi. Guanto di velluto, signor ambasciatore. Vada dove vuole, ma sempre con una scorta per proteggerla; e se vuole ascoltare il mio consiglio, si riposi. Partirà non appena una nave sarà disponibile. Non so neppure se potrà dormire una notte intera prima della partenza. È d’accordo, signore?

— D’accordo — disse Ayres. Andilin chiamò il giovane ufficiale e gli parlò. L’ufficiale fece un gesto, questa volta con la mano; Ayres si congedò, accompagnato da cenni cortesi dei presenti, e uscì con una sensazione di gelo.

Motivi pratici, si disse. Tutto ciò che gli stava intorno non gli piaceva, le guardie troppo eguali, freddezza ovunque. Il Consiglio di Sicurezza della Terra non aveva visto tutto ciò quando aveva dato gli ordini ed elaborato i piani. La mancanza di stazioni intermedie verso la Terra, dopo lo smantellamento delle basi delle Stelle delle Retrovie, rendeva logisticamente assurda l’estensione della guerra, ma Mazian non era riuscito a impedire che dilagasse fra le Stelle Sperdute… aveva aggravato la situazione, aveva portato a un’escalation delle ostilità fino a raggiungere un livello pericoloso. La prospettiva improvvisa che le forze di Mazian riattivassero le stazioni delle Stelle delle Retrovie, in un nuovo trinceramento dietro Pell, gli dava la nausea, pensando alle possibili conseguenze.

Gli isolazionisti avevano fatto a modo loro… per troppo tempo. Adesso bisognava prendere decisioni difficili… il riavvicinamento a ciò che veniva chiamato Confederazione, accordi, confini, barriere… contenimento.

Se la linea non avesse retto, sarebbe stato il disastro… ovvero la possibilità che fosse la Confederazione a riattivare le stazioni abbandonate più vicine alla Terra, basi di grande utilità. C’era una flotta in costruzione all’Astrobase Sol Primo; c’era bisogno di tempo. Mazian sarebbe stato carne da macello per la Confederazione, fino a quel momento. Doveva essere Sol a comandare la prossima resistenza, Sol, e non quell’organismo senza guida che era diventata la Flotta dell’Anonima, che rifiutava gli ordini dell’Anonima e faceva di testa propria.

E soprattutto dovevano difendere Pell, dovevano conservare quella base.

Ayres venne accompagnato e poi fatto sistemare nell’appartamento che gli era stato assegnato, molti livelli più in basso. Era molto comodo, e quelle comodità lo tranquillizzarono. Con uno sforzo, cercò di mostrarsi rilassato, mentre attendeva i suoi compagni… infatti gli avevano assicurato che sarebbero arrivati. E finalmente arrivarono, in gruppo, agitati e fiaccati da quell’esperienza. Ayres congedò la scorta, chiuse la porta e si guardò attorno per avvertirli tacitamente che non era opportuno parlare troppo. Gli altri, Ted Marsh, Karl Bela e Ramona Dias, compresero e non dissero nulla; Ayres si augurò che non avessero già vuotato il sacco altrove.

Qualcuno sulla Stazione Viking, l’equipaggio di un mercantile, era senza dubbio in gravi difficoltà. Si riteneva che i mercantili riuscissero a passare attraverso le linee, senza incappare in altri inconvenienti che non fossero il dirottamento verso destinazioni diverse da quelle già previste, e qualche volta, se era una delle navi di Mazian a fermarli, c’era la confisca di una parte del carico o l’arruolamento forzato di un membro dell’equipaggio. Quelli dei mercantili c’erano abituati. E quelli che li avevano portati a Viking sarebbero rimasti prigionieri fino a quando ciò che avevano visto qui ed anche su Pell avesse perduto ogni importanza militare. Ayres si augurava, per il loro bene, che fosse così. Non poteva far nulla per loro.

Quella notte non dormì bene, e prima che venisse il mattino del primo giorno, come aveva preannunciato Andilin, furono svegliati per imbarcarsi e spingersi nel territorio della Confederazione. Vennero informati che la destinazione era Cyteen, il centro del potere dei ribelli. Il primo passo era compiuto. Era impossibile tornare indietro.

CAPITOLO UNDICESIMO

PELL: DETENZIONE; SETTORE ROSSO: 27/6/52

Era tornato. Josh Talley guardò verso la finestra della sua camera e incontrò quel volto che vedeva così di frequente… ricordò, nel modo vago in cui ricordava tutti i fatti recenti, di aver già conosciuto quell’uomo, ed egli faceva parte di quello che gli era accaduto. Questa volta vide i suoi occhi e, spinto da una curiosità più viva del solito, si alzò dalla branda, camminando con difficoltà perché era debole… si avvicinò alla finestra e guardò il giovane. Tese la mano verso la finestra, desideroso di accostarsi a coloro che erano tenuti a distanza; viveva immerso in un bianco limbo, dove tutte le cose erano come sospese, dove il senso del tatto era impreciso e tutti i sapori erano blandi, e le parole venivano da lontano. Andava alla deriva in quel biancore, distaccato e isolato.

Esca, gli dicevano i dottori. Esca quando vuole. Qui fuori c’è il mondo. Può venire, quando è pronto.

Era la sicurezza di un grembo materno. E lui si sentiva più forte. Una volta se ne stava sulla branda, senza aver voglia di muoversi, stanco e appesantito. Era molto, molto più forte; provò l’impulso di alzarsi e di osservare quello sconosciuto. Si sentiva di nuovo coraggioso. Per la prima volta comprese che stava migliorando, e questo lo rese ancora più coraggioso.

L’uomo dietro il vetro si mosse, tese la mano, imitò il suo gesto; e i suoi nervi intorpiditi fremettero, aspettando un contatto, aspettando la sensazione smorzata di un’altra mano. L’universo esisteva al di là di una lastra di plastica, l’unica cosa che poteva toccare… l’universo restava isolato. La rivelazione lo ipnotizzava. Fissò gli occhi scuri, la faccia magra e giovane di un uomo vestito di marrone; e si chiese se non fosse l’immagine di se stesso, così com’era al di fuori del grembo materno, con le mani che toccavano e non erano toccate, e che parevano identiche.

Ma lui era vestito di bianco, e quello non era uno specchio, non era la sua faccia. Ricordava vagamente il proprio viso, ma era un bambino ciò che vedeva nella sua memoria, una sua vecchia immagine; non riusciva a recuperare l’uomo. Non era la mano di un bambino, quella che tendeva; e non era la mano di un bambino quella che si protendeva verso di lui, indipendentemente dalla sua volontà. Gli erano accadute molte cose, e lui non riusciva a ricostruirle. Non voleva. Ricordava la paura.

La faccia dietro la finestra gli sorrise, un lieve sorriso gentile. Lui lo ricambiò, tese l’altra mano per toccare quella faccia, isolata dalla fredda plastica.

— Esca — disse una voce, dalla parete. Lui ricordò che poteva farlo. Esitò, ma lo sconosciuto continuava a invitarlo. Vedeva le labbra muoversi in accordo con i suoni che venivano da un altro punto.

Cautamente, si avvicinò alla porta che, come loro dicevano, era sempre aperta quando lo desiderava.

La porta si aprì. All’improvviso, dovette affrontare l’universo, senza protezione. Vide l’uomo che gli stava davanti e che ricambiava il suo sguardo; se l’avesse toccato, avrebbe sentito la plastica fredda; e se l’uomo avesse aggrottato la fronte, lui non avrebbe saputo dove nascondersi.

— Josh Talley — disse l’uomo. — Sono Damon Konstantin. Si ricorda di me?

Konstantin. Era un nome potente. Significava Pell, e potere. Non ricordava che altro significasse: solo che una volta erano stati nemici, e ora non lo erano più. Era tutto cancellato, tutto perdonato. Josh Talley. L’uomo lo conosceva. Si sentiva in dovere di ricordare quel Damon, e non ci riusciva. E questo lo metteva in imbarazzo.

— Come si sente? — chiese Damon.

Questo era complicato. Cercò di riassumerlo, e non ci riuscì; richiedeva un’associazione dei pensieri, e i suoi vagavano in tutte le direzioni.

— Ha bisogno di qualcosa? — chiese Damon.

— Budino — disse lui. — Con la frutta. — Era il suo piatto preferito. Lo mangiava ad ogni pasto, tranne che a colazione: gli davano sempre quello che lui chiedeva.

— E i libri? Le piacerebbe qualche libro?

Questo non glielo avevano mai offerto. — Sì — disse, e si illuminò, rammentando che aveva amato i libri. — Grazie.

— Si ricorda di me? — chiese Damon.

Josh scrollò la testa. — Mi dispiace — disse avvilito. — Probabilmente ci siamo già incontrati; ma, vede, non ricordo chiaramente. Credo che ci siamo incontrati quando già mi trovavo qui.

— È naturale che se ne sia dimenticato. Mi hanno detto che sta migliorando. Sono venuto spesso a informarmi.

— Lo ricordo.

— Davvero? Quando starà bene, voglio che venga a trovarmi nel mio appartamento. Io e mia moglie ne saremmo molto lieti.

Talley rifletté, e l’universo si ampliò, duplicandosi, moltiplicandosi, e lui non fu più sicuro del proprio equilibrio. — Conosco anche sua moglie?

— No. Ma mia moglie sa di lei. Gliene ho parlato. Ha detto che desidera vederla.

— Come si chiama?

— Elene. Elene Quen.

Lo ripeté muovendo le labbra, perché il nome non gli sfuggisse. Era il nome di una famiglia dei mercantili. Non aveva mai pensato alle navi. Adesso ci pensava. Ricordava il buio, e le stelle. Fissò il volto di Damon, per non perdere il contatto con quel punto di realtà in un mutevole mondo bianco. Se avesse sbattuto le palpebre, forse si sarebbe ritrovato solo. Forse si sarebbe svegliato nella sua stanza, nel suo letto, e non avrebbe avuto nulla a cui aggrapparsi. Cercò un appiglio mentale con tutte le sue forze. — Lei verrà ancora — disse, — anche se io dimentico. Per favore, venga e mi faccia ricordare.

— Ricorderà — disse Damon. — Ma verrò, se non verrà lei.

Josh pianse, come gli capitava molto spesso; le lacrime gli scendevano sul viso, in un puro sfogo emotivo, dovuto non al dolore o alla gioia, ma solo ad una profonda sensazione di sollievo. Una purificazione.

— Si sente bene? — chiese Damon.

— Sono stanco — disse lui. Aveva le gambe deboli per la fatica di stare in piedi, e sapeva che doveva tornare a letto prima che lo prendessero le vertigini. — Vuole entrare?

— Devo restare in quest’area — disse Damon. — Ma le manderò i libri.

Lui aveva già dimenticato i libri. Annuì, compiaciuto e imbarazzato.

— Torni dentro — disse Damon, lasciandolo. Josh si voltò e rientrò.

La porta si chiuse. Lui andò a letto, più stordito di quanto avesse immaginato. Doveva camminare di più. Ne aveva abbastanza di stare sdraiato immobile; se avesse camminato, si sarebbe ripreso più in fretta.

Damon. Elene. Damon. Elene.

C’era un luogo, là fuori, che era diventato reale per lui, dove per la prima volta desiderava andare, una meta da raggiungere quando fosse riuscito ad uscire da lì.

Guardò la finestra. Era vuota. In un terribile attimo di smarrimento, pensò di aver immaginato tutto, che fosse solo una parte di quel mondo dei sogni plasmato nel biancore, che egli stesso aveva creato. Ma c’erano i nomi; i dettagli e la sostanza, indipendentemente da lui; era reale, oppure lui stava diventando pazzo.

Arrivarono i libri, quattro cassette da usare con il mangianastri, e lui se li strinse al petto, cullandoli, sorridendo fra sé, e poi sghignazzando, seduto a gambe incrociate sul letto, perché era vero. Lui aveva toccato il mondo reale, e il mondo reale aveva toccato lui.

Si guardò intorno: era solo una stanza, con pareti di cui non aveva più bisogno.

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