TELOFASE FEBBRAIO, L’ANNO SUCCESSIVO

XLV

Camusfearna, Galles

Le nevicate e i rigori invernali avevano colpito duramente l’Inghilterra. Quella notte nuvole nere e vellutate oscuravano le stelle da Anglesey a Margate, e da esse fiocchi di luce soffusa verde azzurrino cadevano sulla terra e sul mare. Quando toccavano l’acqua i fiocchi si spegnevano all’istante. Sulla terra invece si ammucchiavano in morbidi mantelli luminescenti, che crepitavano come carbonella sotto le suole delle scarpe.

Da mesi ormai contro quel freddo ogni sistema di riscaldamento, elettrico o a carbone, s’era dimostrato poco efficace. I bruciatori a metano avevano conosciuto popolarità per il solo motivo che non c’era niente di meglio, ma anch’essi erano piuttosto rari perché le maccb ne che li fabbricavano s’erano rivelate altrettanto poco efficienti.

Le antiquate stufe a carbone e i fornelli a legna erano stati resuscitati. L’Inghilterra e l’Europa stavano lentamente e silenziosamente scivolando verso un passato ancor più oscuro e primitivo. Protestare era inutile: le forze all’opera erano soverchianti quanto insondabili.

Moltissime abitazioni, in città e in campagna, non disponendo d’impianti abbastanza primitivi semplicemente restavano al freddo. Con sorpresa delle autorità, tuttavia, il numero dei morti e dei malati continuava a diminuire.

Non c’erano state splosioni di malattie epidemiche. Nessuno riusciva a capirne il perché.

La produzione di vino, birra e liquori industriali era cessata. I forni avevano radicalmente cambiato faccia, dedicandosi alla cottura di pane non lievitato e alla pasta. I microscopici organismi della terra e dell’acqua erano cambiati col clima, imprevedibili quanto il mutamento che influiva sulle macchine e sull’elettricità.

Nell’Europa dell’Est e in Asia si moriva di fame, il che aveva rimesso in auge (o confermato) il concetto della Volontà di Dio. Le più vaste cornucopie del mondo non erano ormai raggiungibili e non producevano niente.

La guerra non era più una soluzione possibile. La radio, gli autocarri e le automobili, gli aeroplani, i missili e le bombe non erano oggetti sul cui funzionamento si potesse contare. Alcune nazioni del Medio Oriente esportavano ancora prodotti agricoli, ma senza molto entusiasmo. Anche lì il tempo era cambiato, e per molte settimane la neve aveva sepolto Damasco, Beirut e Gerusalemme.

Chiamarlo un inverno di gelo universale era dunque come mettere in quelle parole tutto ciò che era andato male e continuava ad andare male, non soltanto il tempo.

La Citroen di Paulsen-Fuchs sputacchiava fumo arrecando sull’impervia stradicciola asfaltata, con le catene che crepitavano nella neve. Con attenzione l’uomo premette l’acceleratore lungo la lieve salita, cercando di prevenire slittamenti che l’avrebbero mandato fuori strada. Sul sedile accando a lui c’era un cesto da picnic, occupato da una pila di libri gialli e da alcuni giornali arrotolati intorno a una bottiglia.

Pochi macchinari funzionavano ancora in modo accettabile. La Pharmek era stata chiusa per sei mesi a causa di gravi problemi di manutenzione. All’inizio le industrie avevano assunto molta manodopera per rimpiazzare le macchine, ma ben presto era stato chiaro che senza queste ultime nessuna fabbrica poteva essere tenuta in piedi.

Si fermò al palo segnaletico di un incrocio e abbassò il vetro per leggere meglio le indicazioni. Una tavoletta dipinta a mano diceva: CAMUSFEARNA — 2 Km.

Tutto il Galles sembrava ricoperto di alghe marine fosforescenti. Dal cielo nero scendevano galassie di fiocchi scintillanti, ciascuno carico di una misteriosa energia luminosa. Tirò su il vetro e fissò quelli che cadevano sul parabrezza: lampeggiavano lievemente quando il tergicristallo li riuniva spazzandoli da parte.

I fari della vettura erano spenti benché fosse notte. A consentirgli la visuale era l’immenso lucore della distesa nevosa. Ma dall’impianto di riscaldamento provenivano orridi gorgoglii, e l’uomo si affrettò a ripartire.

Quindici minuti dopo svoltò a destra in una stretta viuzza ghiaiosa, non troppo innevata, e scese verso l’abitato di Camusfearna. Era composto da appena quattro edifici e da un piccolo porticciolo, in quel momento del tutto chiuso nella morsa del ghiaccio. Le case con le loro luci giallastre erano chiaramente visibili attraverso la neve, ma l’oceano al di là di esse era nero e vuoto come il cielo.

L’ultima casa sul lato nord, aveva detto Gogarty. Paulsen-Fuchs prese la curva troppo larga, sobbalzò sul terriccio fra i cespugli congelati e per riguadagnare la strada fu costretto a far lavorare la marcia indietro.

Non s’era mai gettato in un’impresa così rischiosa da trent’anni a quella parte. Il motore della Citroen ansimò, gemette e si fermò del tutto a soli dieci metri dal piccolo garage malridotto. Una nuvola di vapore si alzò incontro ai baluginanti fiocchi di neve.

L’abitazione di Gogarty era un vecchissimo cottage intonacato di bianco, ad un piano e squadrato come un mattone, con un tetto in piatte lastre di ardesia. Costruito in tavole di legno e lamiera ondulata il garage sembrava appoggiarsi all’edificio per maggiore sicurezza. In quel momento fu aperto dall’interno, e la luce gialla che veniva dalla casa si aggiunse all’universale verde-azzurro della neve. Paulsen-Fuchs tolse la bottiglia dal cesto, se la ficcò in una tasca del soprabito e uscì dalla vettura, lasciandosi dietro una serie d’impronte che baluginavano più intensamente.

— Santo cielo! — esclamò Gogarty, andandogli incontro. — Non mi aspettavo che ti mettessi in viaggio con questo tempo.

— Già — ammise Paulsen-Fuchs. — Le follie di un vecchio sciocco annoiato, no?

— Vieni dentro. Ho un caminetto… grazie a Dio almeno il legno brucia ancora! E tè caldo, caffè e cos’altro vuoi.

— Whisky irlandese! — dichiarò Paulsen-Fuchs battendo le mani guantate.

— Be’ — sospirò Gogarty conducendolo in casa, — Qui siamo nel Galles, e il whisky scarseggia ovunque. Mi addolora non poterti accontentare.

— Ho portato il mio. — Paulsen-Fuchs si tolse di tasca la bottiglia di Glenlivet. — Un nettare ormai raro e costoso.

La fiamma crepitava e scoppiettava piacevolmente nel camino di pietra, incrementando l’incerta luce elettrica. L’interno del cottage era pieno di scrivanie — tre nel solo soggiorno — e di scaffali per libri. C’erano poi un computer alimentato a batterie (Da tre mesi non funziona — disse Gogarty) un mobile di vetro colmo di conchiglie e di pesci in bottiglia, un vecchio divano di velluto rosa, una macchina per scrivere Olympia non elettrica (in quel momento un oggetto prezioso) e un tavolo da disegno ricoperto di cianografie srotolate. Le pareti erano decorate con stampe floreali ottocentesche.

Gogarty tolse la teiera dal fuoco e riempì due tazze. Paulsen-Fuchs sedette in un seggiolone tarlato, accettò una delle tazze (era birra bollente) e la sorseggiò di gusto. Due gatti, un tigrato ispido e dalle sfumature arancio e un persiano nero dal muso rincagnato, attraversarono la stanza per fermarsi di fronte al focolare, fissandolo con occhi pigramente insospettiti.

— Più tardi ci faremo un whisky insieme — lo avvertì Gogarty, sedendo su un panchetto davanti a lui. — Ma ora credo che dovresti dare un’occhiata a una cosa.

— Ai nostri fantasmi? — chiese lui, divertito dalla sua espressione.

Gogarty annuì con serietà frugandosi nella tasca interna della giacca. Ne tolse un foglio ripiegato, di una carta bianchissima, e lo porse all’ospite. — È anche per te. Intestato a noi due. Ma è arrivato due giorni fa nella mia cassetta… malgrado che il postino non passi da una settimana. Qui siamo fuori mano. Le lettere per te le imposto sempre a Pwllheli.

Paulsen-Fuchs spiegò il foglio. La carta era insolita, spessa come pelle e d’un biancore abbagliante. Su una delle facce c’erano alcune righe manoscritte in inchiostro nero. Le lesse e poi sollevò su Gogarty uno sguardo stupito.

— E adesso leggi di nuovo — disse Gogarty.

Il messaggio era abbastanza breve perché potesse ricordarlo quasi parola per parola. Tuttavia, la seconda volta che l’uomo lo lesse era cambiato.


Cari Sean e Paul,

Al saggio basta un avvertimento. State pronti.

Per ora piccoli cambiamenti, quello grosso è in arrivo.

MOLTO grosso. Gogarty può immaginarselo. Lui ha l’intuito. La teoria. Altri verranno avvisati. Passate parola.

Bernard


— Ogni volta è diverso. Talora molto elaborato, talatra molto conciso. Ho preso nota esatta del contenuto tutte le volte che l’ho letto. — Gogarty tese la mano e schioccò le dita. Paulsen-Fuchs gli restituì la lettera.

— Non è carta — affermò Gogarty. Ne immerse un angolo nella tazza di birra. Il foglio non la assorbì, e una volta rimosso non sgocciolò minimamente. Lo afferrò con entrambe le mani e con un gesto energico lo strappò in due. Sebbene lo strappo fosse stato completo, la lettera rimase d’un solo pezzo, e in una sola mano, svanendo dalle dita dell’altra in modo del tutto incomprensibile. — Vuoi leggerla ancora?

Paulsen-Fuchs scosse il capo. — Dunque non è reale — disse.

— Oh, è reale abbastanza da essere qui ogni volta che voglio esaminarla. Solo che non è più la stessa, il che mi porta a credere che non sia fatta di materia solida.

— Non sarà una burla?

Gogarty rise. — No, direi di no.

— Bernard non è morto.

L’altro annuì. — Proprio così. Bernard è andato con i suoi noociti, e sono propenso a credere che questi siano nello stesso luogo dei noociti del Nord America. Sempre che luogo sia la parola adatta.

— E dove sarebbe? In un’altra dimensione?

Gogarty scosse vigorosamente il capo. — Bontà divina, no. Proprio qui. Proprio dove tutto è cominciato. Noi viviamo nella scala macroscopica, naturalmente, perciò quando investighiamo sul nostro universo tendiamo a guardare in fuori, verso le stelle. Ma i noociti… loro vivono nella scala microscopica. Hanno difficoltà perfino a concepire le stelle. Così guardano verso l’interno. Per loro le scoperte giacciono nell’infinitamente piccolo. E se possiamo presumere che i noociti nordamericani hanno rapidamente creato una civiltà avanzata (cosa che appare ovvia) allora possiamo supporre che abbiano trovato un metodo per investigare nell’infinitamente piccolo.

— Più piccolo del loro mondo di cellule.

— Certo. Al punto che il minore fra quei componenti è come una galassia rispetto a noi.

— Stai parlando di dimensioni quantiche, a livello della particella d’energia? — Paulsen-Fuchs sapeva poco di quell’argomento, ma non era del tutto ignorante.

Gogarty annuì. — Ora, si dà il caso che l’infinitamente piccolo sia il mio campo. È per questo che nei primi tempi fui consultato sui noociti. La maggior parte del mio lavoro concerne grandezze tipo 10 elevato a meno 30 x 30 centimetri. La lunghezza Planck-Wheeler. E penso che dovremmo guardare nella submicroscala per scoprire dove siano andati i noociti e perché.

— Sentiamo: perché? — domandò Paulsen-Fuchs.

Gogarty allungò una mano per prendere un fascicolo di fogli scritti a mano e pieni di equazioni. — Le informazioni possono essere immagazzinate in modo ancor più compatto che nella memoria delle cellule. Le si possono fissare nella struttura dello spazio-tempo. Cos’altro è la materia, infine, se non un’onda stabile d’informazioni fissa nel vuoto? I noociti senza dubbio l’hanno scoperto e ci hanno lavorato sopra… Hai sentito di Los Angeles?

— No. Cos’è successo?

— Ancora prima che i noociti se ne andassero, Los Angeles e tutta la costa a sud fino a Tijuana erano scomparse. O piuttosto, diventate qualcos’altro. Un grosso esperimento, forse. Una prova dello spettacolo che andrà in scena prossimamente.

Paulsen-Fuchs annuì con l’aria di chi non ha capito veramente, e si appoggiò allo schienale con la tazza in mano. — È stato difficile arrivare fin qui — mormorò. — Più di quel che mi ero aspettato.

— Le leggi fisiche sono cambiate — annuì Gogarty.

— Questa sembra essere l’opinione generale. Ma perché? E in che modo?

— Mi sembri stanco — disse Gogarty. — Questa notte riposa, goditi il calduccio, leggi e rileggi la lettera se ne hai voglia, e non farti venire il mal di testa con altri pensieri.

Paulsen-Fuchs accennò di sì e chiuse gli occhi, rilassandosi sulla sedia. — D’accordo — mormorò. — È stata più dura di quel che pensavo.

All’alba la nevicata cessò. La luce del giorno restituì al manto che copriva i campi un modesto biancore. Le pesanti nuvole erano evaporate in fiocchi grigi e innocui che il vento dell’ovest spazzava via. Paulsen-Fuchs fu svegliato dall’aroma dei toast e del caffè caldo. Si alzò a mezzo su un gomito e passò una mano fra i capelli scompigliati. Il divano aveva mantenuto le sue promesse ed ora si sentiva riposato, anche se sporco e appiccicoso per il viaggio.

— Che ne dici di una doccia calda? — propose Gogarty.

— Magnifico.

— La stanza della doccia è un po’ fredda, ma tu infila queste pantofole, immaginati in un comodo igloo e tutto ti sembrerà più roseo.

Sentendosi alquanto più pulito, e comunque molto più sveglio (la stanza della doccia era peggio che un igloo) Paulsen-Fuchs sedette a fare colazione. — La tua ospitalità è sublime — disse, masticando i toast abbondantemente cosparsi di marmellata e formaggio cremoso. — Sprofondo di vergogna per il modo in cui ti abbiamo trattato in Germania.

Gogarty gli concesse l’assoluzione con un gesto d’indifferenza. — Non pensarci più. Cosa dappoco, infine.

— Che dice la lettera questa mattina?

— Leggi tu stesso.

Paulsen-Fuchs riaprì l’incredibile foglio candido e con un dito seguì la nitida linea di scrittura manuale.


Cari Sean e Paul,

Sean ha le risposte. Estensioni della teoria, osservazione troppo intensa. Buco Nero dei pensieri. Come ha detto lui. Se la teoria è adeguata, l’universo si conforma. Non ha altra scelta. Troppa teoria, troppo poca flessibilità. Più ancora in arrivo. Grossi cambiamenti.

Bernard


— Notevole — commentò Paulsen-Fuchs. — È lo stesso foglio di qualunque-cosa-sia?

— Per quel che posso dire, esattamente lo stesso.

— Che cosa vuole comunicarci, stavolta?

— Penso che intenda confermare i miei lavori, benché non si stia esprimendo con molta chiarezza. Cioè, se tu hai letto lo stesso messaggio che ho letto io. Per sicurezza dovresti prendere nota del testo, così potrò controllare.

Paulsen-Fuchs buttò giù il messaggio su un foglio di quaderno e lo porse a Gogarty.

Il fisico annuì. — Molto più esplicito, questa volta. — Depose il quaderno e versò all’amico dell’altro caffè. — Molto evocativo. Sembra confermare ciò che dissi l’anno scorso: che l’universo non ha fondamenta, e che quando viene fuori una buona ipotesi, una che spieghi certi eventi con più logica, le fondamenta si ristrutturano per adeguarsi ed ecco che una nuova teoria è nata.

— Allora non esiste una realtà definitiva?

— Evidentemente no. Le cattive ipotesi, quelle che non spiegano bene ciò che accade al nostro livello, vengono scartate dall’universo. Quelle buone, più potenti, vengono incorporate.

— Una cosa simile dovrebbe confondere qualsiasi teorico.

Gogarty annuì. — Ma lascia che ti spieghi cos’è successo al nostro pianeta.

— Oh?

— L’universo non resta sempre ciò che è. Una teoria può determinare la realtà, finché funziona; dopo di che l’universo deve effettuare qualche cambiamento.

— Il carretto delle mele deve rovesciarsi per non lasciarci compiacere di noi stessi?

— Proprio così. Ma non si può osservare un mutamento di realtà. Essa deve cambiare a un livello non sottoposto a osservazione. Perciò, quando i nostri noociti osservavano tutto quanto fino al livello più infimo possibile l’universo non possedeva la flessibilità, la capacità di riplasmare se stesso. Si è creata una specie di tensione. Loro capivano di non poter più autoregolarsi nel mondo macroscopico, così… be’, non sono molto sicuro di quel che hanno fatto. Ma quando sono partiti la tensione s’è rilassata all’improvviso provocando un rimbalzo. Adesso ogni cosa è fuori posto. Il cambiamento è stato troppo brusco, e c’è stato un terremoto nelle leggi fisiche. Il risultato: un universo incoerente con se stesso, almeno nelle nostre immediate vicinanze. Abbiamo neve ardente, macchine inaffidabili, e un leggero caos generale. E dico leggero perché… — Scosse le spalle. — Temo che lo sconquasso vero debba ancora venire.

— Cosa te lo fa pensare?

— Il fatto che abbiano cercato di salvare il più gran numero possibile di noi, per qualcosa che verrà dopo.

— Il Grande Cambiamento?

— Sì.

Paulsen-Fuchs fissò Gogarty negli occhi, poi scosse il capo. — Io sono troppo vecchio — disse. — Sai, vedere l’Inghilterra così mi ha ricordato la guerra. È così che l’Inghilterra doveva essere durante… quello che voi chiamate il Blitz di Hitler. Ed è così che la Germania era diventata alla fine della guerra.

— Sotto assedio — disse Gogarty.

— Sì, ma noi esseri umani abbiamo un equilibrio chimico molto delicato. Credi che i noociti stiano cercando di tenere basso l’indice di mortalità?

Gogarty scosse ancora le spalle e prese la lettera. — L’avrò letta migliaia di volte nella speranza di trovare una risposta a questa domanda. Niente. Neppure un accenno. — Sospirò. — Posso solo azzardare ipotesi.

Paulsen-Fuchs finì il suo toast. — L’altra notte ho fatto un sogno molto nitido — disse. — Ho sognato che mi veniva chiesto quante strette di mano avevo avuto da qualcuno che viveva nel Nord America. Credi che questo abbia un significato?

— Non ignorare alcuna ipotesi — disse Gogarty. — Questo è il mio motto.

— Cosa dice la lettera adesso? Leggila un po’.

Gogarty riaprì il foglio e prese accuratamente nota del messaggio. — Più o meno lo stesso — disse. — Aspetta… c’è una parola in più: grandi cambiamenti presto.

Uscirono a fare una passeggiata per godersi il sole che appariva e spariva, con gli stivali che facevano scricchiolare la neve e la comprimevano in ghiaccio. L’aria era rigida, ma spirava appena una lieve brezza. — C’è qualche speranza che tutto rimbalzi di nuovo indietro, tornando alla normalità? — domandò Paulsen-Fuchs.

Gogarty si strinse nelle spalle. — Direi di sì, se fossimo alle prese con quelle che erano le leggi di natura. Ma le affermazioni di Bernard non sono molto incoraggianti, vero?

— Io sono un ignorante — disse Gogarty esalando una nuvoletta di vapore. — Com’è rilassante poterlo dire. Ignorante. Sono sottoposto alle forze naturali come quell’albero. — Indicò un vecchio pino contorto su un’altura oltre la spiaggia. — La carta dell’attesa è l’unica che può giocare.

— Allora non mi hai invitato qui per vedere se possiamo trovare una qualche soluzione.

— No. Naturalmente no. — Gogarty sperimentò con un piede la resistenza di una lastra di ghiaccio. La spaccò, ma sotto non c’era acqua. — Solo… mi sembrava che Bernard ci volesse qui, o perlomeno insieme.

— Sono venuto qui sperando in qualche risposta.

— Spiacente.

— No, questo non è del tutto vero. Sono venuto perché non ho più un posto in Germania. Né da altre parti. Sono un dirigente senza un’industria, senza un lavoro. Sono libero per la prima volta in molti anni, libero di rischiare.

— E la tua famiglia?

— Come Bernard, mi sono lasciato alle spalle diverse famiglie in qualche decennio. Tu ne hai una?

— Sì — disse Gogarty. — Erano nel Vermont l’anno scorso, in visita ai genitori di mia moglie.

— Mi dispiace — mormorò Paulsen-Fuchs.

Quando tornarono in casa, per farsi una tazza di caffè caldo e mettere un pesce fresco sulla graticola, la lettera di Bernard diceva:


Cari Gogarty e Paul,

Ultimo messaggio. Pazienza. Quante volte ti ha stretto la mano qualcuno che ora è andato via? Una stretta di mano. Niente è perduto. Questo è l’ultimo giorno.

Bernard


Entrambi la lessero. Gogarty la ripiegò e la mise al sicuro in un cassetto. Un’ora dopo, spinto da un impulso simile a una premonizione, Paulsen-Fuchs riaprì il cassetto per dare un’altra occhiata alla lettera.

Non c’era più.

XLVI

Londra

Suzy si appoggiò al davanzale della finestra e aspirò una lunga boccata d’aria fredda. Non aveva mai visto nulla di così bello, neppure il bagliore dell’East River quando aveva attraversato il ponte di Brooklyn. Lo sfolgorio della neve era uniforme, la ipnotizzava come un surreale presagio che annunciasse la fine d’un mondo diventato pazzo. Era più che sicura di questo. Nei nove mesi che aveva trascorso a Londra, in quel piccolo appartamento messole a disposizione dall’ambasciata americana, aveva visto la città rallentare fino a un tremante e spasmodico arresto. Si era isolata in casa, limitandosi a sbirciare dalla finestra, e aveva contato sempre meno auto e carri, sempre meno gente in strada perfino quando la neve luminosa era scarsa, e poi…

Meno gente per strada, s’era detta, significava più gente in casa. Un’addetta dell’ambasciata americana veniva a farle visita una volta alla settimana. Si chiamava Laurie, era decisamente graziosa, e talvolta portava con sé Yves, il suo fidanzato, che malgrado il nome francese era americano di nascita.

Laurie veniva sempre portandole borse piene di roba da mangiare, libri per ragazzi e riviste, portando notizie… quelle poche che c’erano. Laurie diceva che le onde elettromagnetiche stavano diventando sempre più imprevedibili. Questo significava che nessuno ormai faceva molto uso della radio. Suzy aveva ancora la sua, benché non funzionasse dal giorno in cui le era caduta proprio mentre saliva sull’elicottero. Si era rotta e non produceva neppure scariche e fruscii, ma era una delle pochissime cose che sentiva sue.

Si scostò dalla finestra e chiuse gli occhi. Ricordare tutto ciò che era accaduto la faceva soffrire. Il senso di perdita, la solitudine, il vuoto che s’era sentita salire dentro in quella Manhattan piatta e desolata. Soltanto due settimane più tardi era atterrato l’elicottero, per condurla al grosso idrovolante ammarato al largo della costa…

Poi era stata trasportata attraverso l’oceano in Inghilterra, e le avevano trovato un appartamentino — ammobiliato — a Londra, un posto intimo e piacevole dove per la maggior parte del tempo si sentiva a suo agio. E Laurie veniva a portarle tutto ciò di cui aveva bisogno.

Ma quel giorno non s’era vista, e col buio non era mai venuta. La neve era molto spessa e molto luminosa. Incantevole.

Stranamente Suzy non si sentiva affatto sola.

Chiuse la finestra per tenere fuori l’aria fredda. Poi si fermò davanti all’alto specchio dello sportello del guardaroba e osservò lo scintillio dei fiocchi di neve che presi nei suoi capelli cominciavano a fondersi. Questa vista la fece sorridere.

Aprì l’armadio e guardò nella penombra dentro di esso. Il termosifone gorgogliava, proprio come quello di casa sua. — Salve — disse ai vestiti appesi alle poche grucce. Tirò fuori l’abito lungo che aveva indossato alla festa da ballo all’ambasciata sei mesi prima. Era di un bellissimo verde smeraldo e le stava meravigliosamente.

Da allora non l’aveva più messo, e questa era una vergogna.

Stando vicina al termosifone si tolse quello che indossava, quindi aprì la lampo sul dietro dell’altro e lo infilò, lisciandosi la parte bassa sulle ginocchia. La gonna si corresse.

Non l’avrebbero presentata alla regina senza un abito di quel genere, le aveva sussurrato Laurie. Questo le era parso sensato.

Si tirò su le spalline e fece scivolare i seni nelle coppette della scollatura. Poi tirò su la lampo fin dove ci riusciva e tornò allo specchio, tenendo ferma la testa ma girando il corpo da una parte e dall’altra, e sorrise a se stessa. Nei primi mesi era stata molto popolare all’ambasciata. Tutti la trovavano attraente. Ma il traffico s’era fatto sempre più problematico, l’ambasciata era lontana, e pian piano avevano smesso di cercarla.

Incapace di staccare gli occhi dalla bella ragazza che la fissava dallo specchio, Suzy pensò che non le sarebbe importato di morire in quel momento.

Fuori era tutto stupendo. Anche il gelo aveva una sua bellezza. Era un freddo diverso da quello di New York, e non perché quello era un freddo inglese. Il freddo, immaginava lei, aveva un sapore diverso in ogni posto.

Se fosse morta sarebbe risalita su lungo quella nevicata ardente, su fin dentro le nuvole scure che dormivano nel cielo. Avrebbe potuto volare in cerca della Mamma e di Kenny e di Howard. Molto probabilmente loro non erano lassù in quelle nuvole, ma lei sapeva che non erano morti…

Suzy si accigliò. Se non erano morti allora lei come avrebbe potuto trovarli morendo? Era così stupida! Odiava essere stupida. Lo aveva sempre odiato.

E tuttavia… Mamma le aveva detto tante volte che lei era una persona meravigliosa, e che faceva sempre del suo meglio (anche se c’era sempre qualcosa di meglio cui aspirare). Suzy era cresciuta volendo bene a se stessa, volendo bene agli altri, e non voleva diventare qualcun altro o qualcos’altro solo per…

Non voleva cambiare solo per essere migliore. Anche se c’era sempre qualcosa di meglio cui si doveva aspirare.

Tutto era molto confuso. Ogni cosa stava cambiando. Morire l’avrebbe fatta cambiare. Se questo non le importava, allora…

La neve stava emettendo un suono, all’esterno. Tese gli orecchi verso la finestra e udì un piacevole ronzio simile a quello delle api su un prato in fiore. Un suono caldo per un panorama freddo.

— Quant’è strano — disse. — Sì, quant’è strano, quant’è strano. — Cominciò a canticchiare quelle parole ma la canzone era sciocca e non diceva quel che lei provava, perché ora si sentiva. …

Consenziente.

Forse non era la neve a emettere quel suono, ma il vento. Ripulì un vetro della finestra dalla patina d’umidità condensata e indietreggiò fino al letto per spegnere la luce e vederci meglio. Se la neve svolazzava da una parte e dall’altra, allora era il vento a produrre quel suono. Non sembrava per nulla un rumore di vento.

Consenziente e sola.

Dov’era Laurie? Dov’erano tutti. In casa, a guardare la neve che cadeva, proprio come lei. Ma Laurie probabilmente aveva Yves con sé. Non era bello essere sola nella…

d’improvviso deglutì, gli occhi pieni di lacrime

sì, era questo, poteva sentirlo

… l’ultima notte del mondo.

— Povera me! — gemette. Allargò la gonna e sedette davanti al tavolino. Si asciugò gli occhi. Quel suono le aveva dato il colpo di grazia. Stava soltanto diventando pazza. Stupida, come sempre.

Non spaventata, però.

Consenziente.

Lo sportello del guardaroba scricchiolò e lei si volse a guardarlo, quasi aspettandosi di vedere Narnia dietro i vestiti. (L’appartamento le era piaciuto fin dal primo momento proprio per quell’armadio.)

Nel guardaroba stava nevicando. Fiocchi di luce svolazzavano fra i suoi abiti. La ragazza ebbe un brivido e si alzò lentamente, stiracchiò la gonna e un passo dopo l’altro s’avvicinò all’armadio. Una luminosità rosa-confetto permeava tutto l’interno, il legno sul retro, i vestiti, perfino le grucce.

Chiuse lo sportello e si trovò a fissare stordita la sua immagine nello specchio. Al di là del cristallo vide se stessa circondata da un’aureola di punti luminosi, come bollicine in un bicchiere di ginger ale.

Suzy si protese in avanti. La faccia nello specchio non era esattamente la sua. Si sfiorò le labbra, poi girò la mano e i suoi polpastrelli incontrarono quelli — freddi e vitrei — dell’immagine.

La sensazione di freddo-vitreo scomparve. I suoi polpastrelli percepirono calore.

Suzy indietreggiò finché la sedia le urtò contro le gambe.

L’immagine fece un passo avanti e uscì dallo specchio, sorridendole.

Non era proprio lei stessa. Era anche sua madre. Sua nonna. E forse la sua bisnonna, o la bis-bis. Per la maggior parte Suzy, ma anche loro. Tutte in una persona. E le stavano sorridendo.

Suzy si portò le mani dietro la schiena per tirare la lampo fino in cima. L’immagine le tese le braccia diventando per un attimo sua madre, e la ragazza corse avanti immergendole il volto contro una spalla, contro la verde spallina di velluto dell’abito da sera. Non pianse.

— Non tornare nel guardaroba! — gemette con voce soffocata.

L’immagine — più Suzy, adesso — scosse il capo e la prese per mano. Fu allora che la ragazza ricordò. Quando la città trasformata era scomparsa del tutto, lasciandola in mezzo all’arena, dopo che aveva rifiutato per l’ultima volta di andare con Cary e tutti gli altri, s’era sentita sdoppiata.

Loro l’avevano replicata. Fotocopiata.

Portandosi la copia con loro proprio a quello scopo.

E adesso l’avevano rimandata indietro a incontrare la Suzy originale. La copia era cambiata, e cambiava meravigliosamente. Era una Suzy, era una madre di Suzy, era tutte le altre individualmente, ma insieme.

L’immagine condusse la ragazza fino alla parete della camera opposta alla finestra. Salirono in piedi sul letto e si sorrisero l’una in faccia all’altra.

Pronta? chiese silenziosamente l’immagine.

Suzy si volse e da sopra una spalla gettò uno sguardo alla neve ronzante, poi sentì la calda presa delle dita rafforzarsi sulle sue. Quante strette di mano da qualcuno che viene dall’America? Be’, no, non era proprio una stretta di mano.

— Ci andremo piano piano, là dove stiamo andando? — domandò.

No, fu la risposta dell’immagine, ora interamente Suzy. Gliela poté leggere negli occhi. Cary aveva ragione. Loro rafforzavano la gente.

— Bene. Sono stanca morta di andare piano.

L’immagine le fece sollevare la mano, e insieme strapparono via una striscia di carta da parati. Fu facile. Dietro di essa il muro s’era aperto e la carta si ripiegò all’infuori.

C’era la neve al di là del muro, ma non uguale alla neve oltre i vetri della finestra. Questa era una neve molto, molto più bella.

Dovevano esserci milioni di fiocchi per ogni anima viva. E danzavano tutti insieme.

— Non usciamo dal guardaroba? — volle sapere Suzy.

Il guardaroba non va dove andremo noi, disse l’immagine. Insieme piegarono un po’ le gambe, si prepararono, si tesero…

E balzarono via dal letto, fuori, attraverso l’apertura nel muro.

L’edificio intero tremò, come se un’enorme porta fosse stata sbattuta. Nella notte i fiocchi di neve ardente danzavano la loro danza Browniana. Più in alto le nuvole divennero trasparenti e Suzy s’accorse di poter guardare in tutte le direzioni contemporaneamente. Era un affascinante e spaventoso modo di vedere.

La nevicata cessò poco prima dell’alba. La terra fu un manto immobile mentre l’emisfero di tenebra passava oltre.

Il giorno spuntò con irreale stranezza, stendendo un lungo bagliore di luce grigia-arancio sull’oceano senza onde e sulla terra immobile. Dal sole offuscato si dilatarono anelli concentrici di luce.

Suzy guardò le lunghe strade estese verso l’infinito. (Era così piccola e tuttavia poteva vedere ovunque, vedere cose immense!)

I pianeti interni proiettarono lunghissime ombre nella foschia che avvolgeva lo spazio. I pianeti esterni fremettero nelle loro orbite e poi fiorirono in un caleidoscopico splendore, espandendo fredde braccia di luce per accogliere come figli prodighi le loro lune.

Per il tempo di un lungo e tremante sospiro la Terra fu unita a quel maelstrom. E quando giunse il momento, le città, i paesi, i villaggi — le case e le baracche e le tende — erano vuote come bozzoli abbandonati.

La noosfera spiegò liberamente le sue ali. E dove esse sfioravano il firmamento le stelle danzavano e festeggiavano, trasformandosi in aurei fiocchi di neve ardente.

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