Una lastra rettangolare nero-ardesia incoronava un monticello, verde di trifoglio coreano fitto e brillante, aureolato di iris e racchiuso in un ruscelletto in cemento scuro pieno di koi. Sul lato verso la strada la lastra recava scolpito in rosse lettere romane GENETRON e, sotto il nome, un motto: «Qui le piccole cose portano a grandi mutamenti».
I laboratori Genetron e gli uffici amministrativi erano ospitati in una spoglia e massiccia costruzione a «U» stile Bauhaus, che racchiudeva un giardino quadrangolare. L’edificio aveva due piani, e balconate che correvano intorno all’intera circonferenza. Di fronte al giardino, oltre un prato su cui non era stato ancora piantato un solo filo d’erba, sorgeva una struttura cubica di vetro nero a quattro piani, cinta da una rete metallica elettrificata.
La Genetron non celava le sue due facce: i laboratori aperti, dove si conducevano ricerche biologiche, e l’edificio riservato ai contratti col Ministero della Difesa, in cui se ne studiavano le applicazioni militari.
Anche i laboratori aperti erano soggetti a rigide procedure di sicurezza. Tutti gli impiegati portavano targhette d’identità incise a laser, e l’ingresso dei non addetti era accuratamente controllato. La direzione della Genetron — cinque laureati di Stanford che avevano fondato la compagnia appena tre anni dopo aver finito l’università — pensava che fosse più probabile un atto di spionaggio industriale nel reparto amministrazione che una fuga di notizie dal cubo nero. Tuttavia negli uffici regnava un’atmosfera serena, e si faceva il possibile per mettere in opera le misure di sicurezza col guanto di velluto.
L’uomo alto, dalle spalle un po’ curve e con disordinati capelli neri, si districò dallo stretto abitacolo della Volvo sportiva rossa e mentre attraversava il parcheggio degli impiegati starnutì due volte. In quei primi giorni d’estate la vegetazione emetteva già nebbioline di polline irritante. Salutò con noncuranza Walter, il robusto e segaglino guardiano di mezz’età. Con altrettanta noncuranza, apparente, l’uomo controllò la sua targhetta facendola passare sotto il lettore laser.
— Sembra che stanotte non abbia dormito molto, non è vero, Mr. Ulam? — chiese Walter.
Vergil scosse il capo, con una smorfia. — Cocktail party, Walter. — Aveva gli occhi gonfi, e il naso arrossato dal continuo sfregamento del fazzoletto che ora, umido di muco, riposava appallottolato in una tasca.
— Come riesca un uomo indaffarato come lei a fare le ore piccole fra due giorni lavorativi, è una cosa che non capisco.
— Le signore hanno le loro esigenze, Walter — commentò Vergil, passando oltre. Il guardiano annuì con un sogghigno, benché dentro di sé dubitasse che Vergil si desse troppo da fare con le donne, cocktail party o meno. Per quanto i costumi si fossero rilassati dai suoi tempi, Walter sapeva che un uomo con la barba di una settimana difficilmente s’era dedicato ad avventure galanti.
Ulam non poteva vantarsi d’essere la figura più affascinante della Genetron. Superava l’1,85 d’altezza e camminava su larghi piedi piatti. A 32 anni soffriva d’artrosi dorsale, era una dozzina di chili al di sopra del peso-forma, aveva la pressione alta, e non avrebbe mai potuto radersi abbastanza a fondo da eliminare un’ombra scura sulla mandibola.
La sua voce sembrava la meno adatta a chi volesse conquistarsi degli amici: rauca, dura, tendente ad alzarsi troppo. Vent’anni in California avevano smorzato il suo accento texano, ma quando si eccitava o era irritato la secca parlata del Panhandle tornava a farsi sentire col suo tono tagliente.
Il suo solo punto a favore era costituito da due bellissimi occhi verde-smeraldo, larghi ed espressivi, ombreggiati da lunghe ciglia quasi sensuali. Erano tuttavia occhi più decorativi che funzionali, perché lo costringevano a portare un grosso paio d’occhiali dalla montatura nera. Vergil era piuttosto miope.
Si avviò su per le scale a lunghi passi, divorando due o tre scalini alla volta e facendo risuonare il marmo sotto le scarpe. Al primo piano imboccò il corridoio che immetteva nella sala-apparecchiature del Reparto Biochip Prototipi, conosciuta anche come il laboratorio comune. La sua mattinata di solito cominciava con un esame dei campioni rimasti in una delle cinque ultracentrifughe. La sua infornata più recente stava ruotando da sessanta ore a 200.000 giri/min, e adesso era pronta per l’analisi.
Per un uomo della sua mole Vergil aveva mani sorprendentemente delicate. Estrasse dall’ultracentrifuga il costoso rotore di titanio nero e richiuse il contenitore a vuoto in lucido acciaio. Depose poi il rotore su un bancone da lavoro, staccò le cinque tozze provette di vetro dai supporti sotto il volano fungoidale e gettò un’occhiata al loro contenuto. Sul fondo di ciascuna s’erano formati parecchi strati in diverse sfumature di marrone.
Le nere sopracciglia di Vergil s’inarcarono e si corrugarono, mentre allineava davanti a sé i cinque spessi contenitori. Annui fra sé e sorrise, mettendo in mostra denti che un’infanzia trascorsa in una zona di acqua a eccessivo contenuto di fluoro aveva reso un po’ scuri.
Stava risucchiando fuori la soluzione inerte e gli strati che non lo interessavano quando il telefono del laboratorio squillò. Depose la provetta in una rastrelliera e sollevò il ricevitore. — Laboratorio comune, qui Ulam.
— Vergil, sono Rita. Ti ho visto entrare, ma non ti ho trovato nel tuo laboratorio…
— Stamane il mio indirizzo è qui, Rita. Che c’è di nuovo?
— Mi avevi chiesto… cioè mi avevi pregato di farti sapere se una certa persona fosse arrivata. Penso che sia qui, Vergil.
— Michael Bernard? — esclamò lui, con un fremito nella voce.
— Credo che si tratti di lui. Ma Vergil…
— Scendo immediatamente.
— Vergil, non…
Lui riattaccò, indugiò qualche istante a fissare le provette, poi le lasciò dov’erano e uscì.
La zona in cui la Genetron riceveva gli ospiti era un’ala circolare che sporgeva in fuori dall’angolo est, rallegrata da finestre dai vetri colorati e da una quantità di aspidistrie piantate in vasi di ceramica cromata. Il sole ancora basso proiettava riquadri multicolori sulla moquette azzurra quando Vergil entrò dalla parte dei laboratori. Nel vederlo passare davanti alla sua scrivania Rita si alzò subito in piedi.
— Vergil…
— Grazie — si volse a dirle lui, ma i suoi occhi corsero sull’uomo distinto e dai capelli grigi che sedeva sul divano di fronte all’ufficio. Non c’erano dubbi sulla sua identità: Michael Bernard. Vergil aveva già visto alcune sue foto, e la copertina che il Time Magazine gli aveva dedicato tre mesi prima. S’avviò verso di lui e gli tese la mano con il suo più luminoso sorriso.
— È un vero piacere conoscerla, Mr. Bernard!
L’uomo gli restituì la stretta di mano, ma sembrò perplesso.
Oltre la spaziosa doppia porta dell’elegante ufficio in cui accoglieva i visitatori di riguardo era visibile Gerald T. Harrison, col ricevitore del telefono incastrato fra un orecchio e la spalla. Fu a lui che Bernard rivolse uno sguardo interrogativo.
— Sono felice che abbia ricevuto il mio messaggio… — riprese a dire Vergil, mentre Harrison non aveva ancora notato la sua presenza.
In quel momento il dirigente lo vide, salutò la persona con cui stava parlando e depose in fretta il telefono. — Spiacente, Vergil, ma il rango ha i suoi privilegi — esclamò, esibendo un sorriso artificioso, portandosi subito al fianco di Bernard.
— Mi spiace di non… quale messaggio? — stava chiedendo l’uomo.
— Questo è Vergil Ulam, uno dei nostri più attivi ricercatori — lo presentò Harrison con ossequiosa formalità. — La sua visita è un vero onore per noi, Mr. Bernard. Vergil, circa la cosa di cui è venuto a parlarmi ci vedremo più tardi.
Vergil non aveva chiesto di parlare con lui riguardo a niente. — Certo — annuì, rigido. Di nuovo fu urtato da quella vecchia familiare sensazione: venire snobbato, spinto da parte.
Era chiaro che Bernard non aveva mai sentito parlare di lui.
— Più tardi, Vergil — lo congedò Harrison con un sorrisetto fermo.
— Sicuro, naturalmente. — Indietreggiò, gettò a Bernard un’occhiata speranzosa, poi si girò e uscì dalla porta secondaria.
— Chi ha detto che è? — domandò Bernard.
— Un individuo un po’ troppo ambizioso — spiegò Harrison con una smorfia. — Ma lo teniamo sotto controllo.
L’ufficio di lavoro di Harrison era al pianterreno nell’ala ovest, sotto i laboratori. Tre delle pareti erano coperte da scaffali di legno fitti di ordinatissimi volumi. Il ripiano a livello degli occhi contenenva file di quaderni di appunti in plastica, che s’era portato dietro da Cold Spring Harbor. Sullo scaffale più sotto erano in mostra numerosi telefoni d’epoca — Harrison collezionava anche vecchi elenchi telefonici — e parecchi ripiani ospitavano testi di elettronica e sui computer. Sul liscio piano nero della sua scrivania campeggiava lo schermo di un terminale VDT.
Fra i soci fondatori della Genetron, soltanto Harrison e William Yng erano rimasti abbastanza a lungo da vedere i laboratori entrare pienamente in funzione. Entrambi erano più portati all’attività manageriale che alle ricerche, benché i loro diplomi facessero bella mostra di sé appesi nell’anticamera.
Harrison si appoggiò allo schienale della poltrona e sollevò le braccia, intrecciando le mani dietro la testa. Vergil notò un lievissimo alone di umidità sotto ciascuna della sue ascelle.
— Vergil, questo è stato molto imbarazzante per me — disse, evitando di scarruffarsi i capelli d’un biondo chiarissimo, pettinati ad arte per celare un prematuro accenno di calvizie.
— Mi spiace — disse Vergil.
— Non quanto a me. E così ha chiesto a Mr. Bernard se voleva visitare i nostri laboratori?
— Sì.
— Perché?
— Pensavo che si sarebbe interessato alle nostre realizzazioni.
— È quel che pensavamo anche noi. Ed è per questo che noi lo abbiamo invitato. Credo proprio che non abbia saputo nulla del suo invito, Vergil.
— Sembra di no.
— Lei ha agito alle nostre spalle.
Vergil restò in piedi davanti alla scrivania, fissando uno sguardo cupo sul retro del terminale VDT.
— Ha svolto una grossa quantità di lavoro utile, per noi. Rothwild mi dice che è brillante, forse perfino geniale (Rothwild era il supervisore dei progetti per i biochip). Ma altri dicono che non si può fare assegnamento su di lei. E adesso… questo.
— Bernard…
— Non Mr. Bernard, Vergil. Questo. — Fece ruotare lo schermo del VDT e premette un pulsante sulla tastiera. Le annotazioni segrete che Virgil aveva affidato al computer apparvero sul terminale. A quella vista sbarrò gli occhi un istante e sentì un nodo in gola, ma con uno sforzo d’autocontrollo riuscì a non mostrare altra emozione.
— Non ho letto tutto, però sembra chiaro che lei si sta occupando di cose decisamente sospette. Addirittura contrarie all’etica professionale. A noi piace tener d’occhio i programmi dei singoli, qui alla Genetron, specialmente in vista della posizione di preminenza che stiamo assumendo sul mercato. Ma non solo per questa ragione. Io mi compiaccio di credere che la nostra compagnia segua un’etica lodevole.
— Non ho fatto niente che non sia etico, Gerald.
— Oh? — Harrison riabbassò le braccia. — Lei sta progettando nuovi componenti della DNA per numerosi microrganismi NIH artificiali. E sta lavorando su cellule di mammiferi. Noi qui non abbiamo progetti in cui entrino cellule di mammiferi. Non siamo equipaggiati per i rischi biologici… non nei laboratori principali. Ma voglio supporre che possa dimostrarmi sia la sicurezza sia la natura innocua delle sue ricerche. Non è che stia per caso creando qualche arma batteriologica da rivendere ai rivoluzionari del Terzo Mondo, eh?
— No — disse Vergil con voce piatta.
— Bene. Parte di questo materiale va oltre la mia comprensione. Sembra come se volesse tentare nuovi sbocchi per il nostro progetto MAB. Qui potrebbe anche esserci qualcosa di utile. — Lo fissò un poco. — Cosa diavolo sta cercando di fare, Vergil?
Lui si tolse gli occhiali e li pulì con l’orlo della sua giacca da laboratorio. D’improvviso starnutì, con energia e copiosamente.
Harrison esibì un’espressione un po’ schifata. — Ieri abbiamo trovato il suo codice d’accesso. Quasi per caso. Perché ha nascosto questa roba? È qualcosa che secondo lei non dovremmo sapere?
Senza gli occhiali Vergil aveva uno sguardo vacuo e triste. Cominciò a balbettare qualcosa, poi tacque e strinse i denti. Le sue spesse sopracciglia nere si sollevarono con doloroso stupore.
— A mio avviso si direbbe che lei abbia fatto qualche lavoro col nostro manipolatore genetico. Senza autorizzazione, naturalmente. Non che abbia mai avuto molto rispetto per l’autorità.
Il volto di Vergil stava ora arrossendo sempre più.
— Che c’è, non si sente bene? — chiese Harrison, scoprendo che provava un perverso compiacimento nel vederlo torcersi per l’imbarazzo. La sua espressione inquisitoria minacciava di deformarsi in un sogghigno.
— Sto benissimo — disse Vergil. — Io volevo… sto… lavorando sulle biomolecole.
— Biomolecole? Questo termine non mi è familiare.
— Una branca laterale dei biochip. Computer organici autonomi. — Il sospetto d’aver detto anche troppo gli procurò una smorfia. Aveva scritto a Bernard — apparentemente senza il minimo effetto — con lo scopo di mostrargli il suo lavoro. Non era sua intenzione farne godere i risultati alla Genetron, neppure per il compenso previsto dal contratto per i lavori di carattere privato che si potevano svolgere nei laboratori. La cosa era ancora allo stadio di semplice idea, anche se gli era costata due anni di lavoro… due anni di sotterfugi e di notti insonni.
— Sono più che perplesso. — Harrison girò lo schermo verso di sé e lesse l’elenco di voci. — Non si parla affatto di proteine e aminoacidi. Qui vedo che lei ha almanaccato coi cromosomi. Alterato geni di mammiferi. Perfino, se leggo bene, combinandoli con geni batterici, o virali. — I suoi occhi si strinsero, facendosi grigi come pezzi di ghiaccio. — Potrebbe mandare all’aria la Genetron proprio adesso, Vergil, in questo stesso istante. Noi non abbiamo le misure protettive per roba di questo genere. E lei non ha neppure mai lavorato in condizioni di sicurezza P-3.
— Non sto giocando d’azzardo con geni riproduttivi.
— Ne esistono forse di altra specie? — Harrison si sporse bruscamente in avanti, irritato dal sospetto che lo stesse prendendo in giro.
— Introni. Catene molecolari che non codificano come strutture proteiche.
— Di che si tratta?
— Sto soltanto lavorando in quella direzione. E… aggiungendo più materiale genetico non riproduttivo.
— Questo mi suona come una contraddizione di termini, Vergil. Non ci sono prove che gli introni non codifichino come proteine o qualcos’altro.
— Sì, ma…
— Ma… — Harrison alzò una mano. — Tutto questo comunque non ha importanza. Il fatto è che qualunque cosa stesse per ottenere era sul punto di troncare il suo contratto di lavoro, agendo alle nostre spalle a favore di Bernard, con lo scopo di ottenere il suo aiuto per raggiungere un proprio obiettivo personale. È così?
Vergil non aprì bocca.
— Devo presumere che non sia un individuo molto smaliziato, Vergil. Non nel mondo duro degli affari. Forse non si è neppure soffermato a pensare alle conseguenze.
Vergil deglutì un groppo di saliva. Il suo volto era più arrossato che mai. Poteva sentire il sangue pulsargli negli orecchi, il sordo torpore delle vie respiratorie gonfie e otturate. Fu costretto a starnutire due volte.
— Bene, le dirò io cosa potrebbe accadere. Lei è andato molto vicino a vedersi i santissimi tagliati via e venduti come carne in scatola.
Vergil inarcò pensosamente le sopracciglia.
— Lei è importante per il progetto MAB. Se così non fosse la metterei fuori in un baleno, e mi accerterei personalmente che non un solo laboratorio privato sia disposto ad assumerla. Ma Thornton e Rothwild e pochi altri sono convinti che riusciremo a redimerla. Sì, Vergil, redimerla. Salvarla da se stesso. Non starò a seccare Yng con questa faccenda. E non voglio tornarci sopra… purché righi diritto.
Fissò su Vergil uno sguardo freddo e accigliato. — Basta con le sue attività extracurricolari. Terremo nella memoria del computer il materiale che ci ha messo, ma esigo che tutti i suoi esperimenti non connessi al MAB cessino, e che distrugga tutti i microrganismi che ha manipolato. Fra un paio d’ore ispezionerò personalmente il suo laboratorio. Se non l’avrà fatto, si consideri fuori. Due ore, Vergil. Tutto quanto, e non un minuto più tardi.
— Sissignore.
— Non c’è altro.
Il licenziamento di Vergil non avrebbe gettato i suoi colleghi nella costernazione più profonda. Nei suoi tre anni alla Genetron s’era macchiato d’innumerevoli violazioni alle regole del laboratorio. Spesso non lavava i vari contenitori in vetro, e due volte era stato accusato di non aver asciugato gocce di bromuro di ethidium — un forte mutagene — dai tavoli del laboratorio. Inoltre non usava un’eccessiva prudenza nel maneggiare i radionucleidi.
La maggior parte di quelli che lavoravano con lui non esibivano un carattere umile. Sapevano d’essere, dopotutto, i migliori giovani ricercatori in un campo assai promettente; molti già contavano che da lì a pochi anni avrebbero raggiunto la fama e si sarebbero trovati a dirigere i loro attuali colleghi. Vergil tuttavia non nutriva ambizioni di quel genere. Di giorno lavorava in silenzio e intensamente, e di notte faceva gli straordinari per conto suo. Non era una persona socievole, anche se nessuno l’avrebbe definito scostante: si limitava a ignorare una notevole quantità di colleghi.
Nel suo laboratorio condivideva lo spazio e i macchinari con Hazel Overton, la più pignola e meticolosa ricercatrice che si potesse immaginare. Hazel sarebbe stata l’ultima a lamentare la sua defenestrazione. Forse era stata proprio lei a scoprire il suo codice d’accesso alla memoria: era piuttosto esperta di computer, e poteva aver curiosato nella vaga speranza di trovare uno spunto per metterlo nei guai. Ma niente gli confermava un sospetto di quel genere, e decise che non aveva senso perdersi in pensieri paranoici.
Quando Vergil entrò, il laboratorio era al buio. Hazel stava sottoponendo a un esame di fluorescenza una matrice di gel per l’elettroforesi con una piccola lampada UV. Vergil accese la luce. Lei alzò la testa e si levò bruscamente gli occhiali con aria seccata.
— È in ritardo — osservò. — E il suo laboratorio sembra un letto disfatto. Vergil, tutto ciò è…
— Kaput! — terminò lui. Gettò il camice di traverso su uno sgabello.
— Ha lasciato alcune provette da centrifuga aperte sul banco, nel laboratorio comune. Temo che si siano rovinate.
— Si fottano!
Hazel sbarrò gli occhi. — Santo cielo, mi sembra un esagitato.
— Mi hanno tirato un colpo basso. E ora devo rinunciare al mio lavoro extracurricolare, sbatterlo via, o Harrison mi darà il benservito.
— Questo dimostra che se non altro è imparziale — borbottò Hazel, tornando al suo test. Un mese addietro Harrison l’aveva costretta a lasciar perdere un suo progetto extracurricolare. — Che cosa ha fatto?
— Se per lei fa lo stesso, preferirei esser lasciato solo. — Vergil la fissò dal lato opposto del bancone. — Quell’esame potrà finirlo anche nel laboratorio comune.
— Potrei, ma…
— Se non si sbriga — la avvertì cupamente — prenderò quel suo piattino di agar-agar e lo farò volare a calci fino alle scale.
Hazel lo scrutò per un momento e concluse che non stava scherzando. Spense gli elettrodi, raccolse i suoi campioni e si diresse alla porta. — Le mie condoglianze — lo salutò.
— Certo.
Doveva escogitare qualcosa. Grattandosi il mento ispido cercò di pensare a come ridurre al minimo le sue perdite. Avrebbe potuto cominciare col liberarsi dei campioni ormai inutili… le colture di E. Coli, ad esempio. Già da tempo erano in uno stadio in cui non gli servivano più. Le aveva tenute da parte solo come una specie di riserva, nel caso che il passo successivo lo portasse su una strada sbagliata. Nel suo lavoro non c’erano però stati passi falsi. Era ancora incompleto, ma già a un punto tale che riusciva a sentire il profumo del successo farsi sempre più vicino, lieve e inebriante.
Il lato del laboratorio appartenente ad Hazel era lindo come un salotto. Il suo invece era un caos di apparecchi e contenitori di sostanze chimiche. Una delle sue scarse concessioni alla sicurezza, il panno assorbente per sterilizzare le perdite di liquidi, penzolava giù dal bancone nero trattenuto per un angolo dal peso di una beuta di detergente.
Vergil si fermò davanti alla bianca lavagna degli appunti, si grattò la faccia ispida di barba e rilesse le ermetiche note che aveva scarabocchiato il giorno prima:
Mini-ingegneri. Costruire le macchine più piccole del mondo. Meglio dei MAB! Mini-chirurghi. Guerra ai tumori. Computer con capac. um. (Computer spec. in tum. HA!) e non più grossi di un volvox.
Chiaramente le farneticazioni di un pazzo, e Hazel non doveva averci fatto caso. Oppure no? Era consuetudine buttar giù sulla lavagna un’idea improvvisa, o un’ispirazione, anche in forma di battuta, e aspettarsi poi che qualche altro genio la correggesse o commentasse. Tuttavia…
Quelle note potevano aver destato la curiosità di qualcuno come Hazel, o di un altro altrettanto intuitivo. Specialmente se il suo lavoro sui MAB stava segnando il passo.
E naturalmente lui non aveva mai pensato di dover essere sospettoso.
I MAB — Biochip per Applicazioni Mediche — stavano per divenire la prima applicazione pratica della rivoluzione introdotta dai biochip, i circuiti di proteine molecolari abbinati all’elettronica e ai siliconi. Per anni i biochip erano stati un campo di speculazione per la letteratura specializzata, ma adesso la Genetron sperava di avere il primo campione funzionante e affidabile, e contava di sottoporlo entro tre mesi ai test della FDA.
Stavano fronteggiando un’agguerrita concorrenza. In quella che cominciava a essere conosciuta come la Enzyme Valley — l’equivalente per i biochip della Silicon Valley — almeno sei compagnie avevano messo in funzione alcuni impianti nella zona di La Jolla. Alcune avevano iniziato come fabbriche di medicinali, contando di mettere a frutto quel che era scaturito da diverse ricerche sul DNA. Messe fuori gioco da industrie maggiori, in possesso dei principali brevetti, avevano poi riconvertito gli impianti per dedicarsi ai biochip. La Genetron era il primo stabilimento che fin dalla costruzione era stato finalizzato specificamente sui biochip.
Vergil prese una cimosa e cancellò lentamente quelle note. Per l’intero corso della sua vita le cose avevano sempre cospirato per frustrarlo. Non di rado s’era dato da solo la zappa sui piedi… era abbastanza onesto da ammetterlo. Ma neppure una volta era stato capace di portare qualcosa a buon fine. Né per quanto riguardava il lavoro, né per la sua vita privata.
Non era mai riuscito a misurare con precisione le conseguenze delle sue azioni.
Tolse quattro quaderni con la costola a spirale dal cassetto della sua scrivania, chiuso a chiave, e li aggiunse al mucchio del materiale da far scomparire, che cresceva sempre più.
Non poteva distruggere tutto quanto, si disse. Le colture di cellule sanguigne bianche, i suoi linfociti speciali, quelli doveva salvarli. Ma dove tenerli? Cos’avrebbe potuto farne, fuori dal laboratorio?
Niente. Non esisteva un posto in cui lavorare con essi. Le apparecchiature che gli servivano erano lì alla Genetron, e per poter disporre di un altro laboratorio gli sarebbero occorsi mesi. Bastava invece un tempo molto inferiore perché il suo lavoro si disintegrasse, letteralmente.
Vergil uscì dalla porta posteriore del laboratorio e attraversò un corridoio interno e una saletta per i lavaggi e la disinfezione. Le incubatrici erano allineate in un locale separato, dietro il laboratorio comune. Lungo le pareti c’erano sette contenitori smaltati, grossi quanto un frigorifero, i cui monitor elettronici rivelavano quale temperatura e quale pressione di CO2 vi fosse in ogni unità. Nell’angolo più lontano, fra incubatrici più antiquate e di modelli diversi (acquistate da un laboratorio che era fallito) ce n’era una in lucido acciaio e plastica bianca, sul cui sportello un cartellino fissato con nastro adesivo avvertiva «Uso Riservato». La aprì e ne tolse una rastrelliera piena di dischetti di colture.
In ogni dischetto i batteri s’erano sviluppati in colonie dall’aspetto insolito: chiazze arancione o verdi, con aree che sembravano una mappa delle strade di Parigi, a incroci radiali, o a pianta reticolare come le strade di Washington. Le linee che si dipartivano dalle chiazze dividevano le colonie in sezioni; ogni sezione aveva il suo aspetto peculiare e — così Vergil supponeva — la sua funzione. Dal momento che ogni batterio di quelle colture aveva potenzialmente le capacità intellettuali di un topo, era abbastanza possibile che ogni coltura si fosse evoluta in una sorta di società primitiva, suddividendosi in unità con funzioni diversificate. Non aveva avuto tempo di studiarci sopra, preso com’era stato dai linfociti-B mutanti.
Pensava a questi ultimi un po’ come a dei suoi figli, tutti quanti. Ed erano diventati qualcosa di eccezionale.
Accese un becco Bunsen, e mentre con un paio di pinze esponeva alla fiamma i dischetti vitrei di E. Coli mutanti si sentì in colpa, e provò un senso di nausea.
Tornò nel suo laboratorio e immerse i dischetti delle colture in un bagno sterilizzante. Quello era il limite: non avrebbe potuto distruggere nient’altro. D’un tratto fu scosso da un fremito d’odio verso Harrison, che andava oltre qualsiasi emozione che avesse mai provato per altri esseri umani. Lacrime di rabbia gli annebbiarono gli occhi.
Aprì il Kelvinator del laboratorio e ne tolse una beuta e un supporto di plastica che conteneva ventidue provette per test. La beuta era piena di un fluido color paglierino, linfociti in siero medio. Aveva costruito un sistema di filtraggio — un’elica con palette di teflon — per ottenere il siero con un minor numero di cellule danneggiate rispetto alla centrifuga tradizionale.
Le provette contenevano una soluzione salina e uno speciale concentrato di siero nutriente, il cui scopo era di mantenere in buone condizioni le cellule quando le esaminava sotto il microscopio.
Stappò la beuta e con cautela versò alcune gocce di fluido a quattro delle provette sul supporto. Poi riappoggiò il contenitore sul banco. L’elica di teflon, nel suo interno, riprese a girare lentamente.
Non appena riscaldati a temperatura ambiente — un procedimento che di solito lui accelerava con un lieve soffio d’aria tiepida — i linfociti delle provette sarebbero tornati in attività, riprendendo il loro sviluppo dopo la pausa a cui la temperatura del frigorifero li aveva costretti.
Avrebbero continuato a imparare, aggiungendo nuovi segmenti alle porzioni modificate del loro DNA. E quando, nel normale corso di crescita cellulare, il nuovo DNA si fosse duplicato nel RNA, e quel RNA avesse esercitato la funzione di modello per la costruzione di aminoacidi, e gli aminoacidi si fossero convertiti in proteine…
Le proteine sarebbero state qualcosa di più che semplici strutture di cellule: altre cellule sarebbero state capaci di «leggerle». O il loro stesso RNA ne sarebbe stato spinto fuori per venir assorbito e «letto» da altre cellule. Oppure — e questa terza ipotesi s’era presentata da sola dopo che Vergil aveva inserito frammenti di DNA batterico in cromosomi di mammiferi — segmenti dello stesso DNA avrebbero potuto essere rimossi e utilizzati di nuovo.
Ogni volta che si soffermava a pensarci nella sua mente s’intrecciavano grovigli di possibilità, migliaia di modi in cui le cellule avrebbero potuto comunicare l’una all’altra e sviluppare il loro intelletto.
L’idea di una cellula intelligente gli appariva ancora meravigliosamente strana. Talora lo costringeva a fermarsi, con gli occhi fissi su un punto vuoto della parete, finché qualcosa non lo scuoteva riportandolo al lavoro che stava facendo.
Accese un microscopio e inserì una pipetta in una delle provette. Con lo strumento graduato assorbì una goccia di liquido, poi la espulse su un vetrino circolare.
Fin dall’inizio Vergil aveva saputo che le sue idee non erano né irrealizzabili né prive di scopo pratico. I primi tre mesi alla Genetron, in cui aveva aiutato a stabilire i rapporti silicone-proteine per i biochip, l’avevano convinto che i progettisti avevano tralasciato qualcosa di molto ovvio ed estremamente interessante.
Perché limitarsi a biochip di silicone e proteine larghi un centesimo di millimetro, quando quasi in ogni cellula vivente esisteva già un computer funzionante e dotato di una vasta memoria? Una cellula di DNA, nei mammiferi, conteneva milioni di geni ciascuno dei quali rappresentava un’informazione. Cos’era la riproduzione, infine, se non un procedimento biologico computerizzato di enorme complessità e affidabilità?
La Genetron non aveva ancora fatto quel semplice passo, e già da tempo Vergil aveva stabilito che questo gli tornava comodo. Avrebbe eseguito il lavóro ordinario, controllato privatamente la possibilità di creare miliardi di computer cellulari funzionanti, e poi avrebbe lasciato la Genetron per mettere in piedi un suo laboratorio, una ditta sua.
Dopo un anno e mezzo di preliminari e di studi aveva cominciato a lavorare di notte al manipolatore genetico. Usando la tastiera di un computer aveva costruito catene logiche di ACTG, le quattro sostanze base, mettendo insieme il progetto di una striscia a doppia elica di DNA-RNA proteico.
Queste prime catene molecolari erano state inserite in batteri E. Coli tramite particelle plasmiche circolari. Gli E. Coli avevano assorbito i plasmidi incorporandoli nel loro DNA originale. Nel duplicarsi i batteri avevano poi rilasciato i plasmidi passandoli alla struttura biologica di altre cellule. Nella fase più cruciale del suo lavoro Vergil aveva usato un virus, il cui apporto d’acido nucleico aveva funzionato da stabilizzatore nel «cappio» che univa il DNA al RNA. Anche i batteri più primitivi avevano impiegato i ribosomi come «codificatori» e «lettori», e l’RNA come una sorta di nastro magnetico. Col «cappio» a posto le cellule sviluppavano una loro memoria, e la capacità di agire secondo un certo programma in base a informazioni assunte indirettamente.
La vera sorpresa l’aveva avuta quando aveva messo alla prova i microbi mutanti. A paragone dell’elettronica costruita dall’uomo, anche la capacità nel computerizzare di un DNA batterico era enorme. Tutto ciò che Vergil doveva fare era di approfittare di quel che era già lì… dandogli una spinta nella direzione giusta.
Più di una volta era stato colpito dalla strana sensazione che il suo lavoro fosse troppo facile, e che lui non era tanto un costruttore quanto un servo della Natura… questo dopo aver visto le molecole cadere al proprio posto spontaneamente, o dopo aver fallito in tal modo che subito vedeva con chiarezza sia l’errore sia il procedimento per correggerlo.
Il brivido più strano e arcano l’aveva provato nel comprendere che stava facendo di più che creare piccoli computer. Una volta dato inizio al procedimento e messe in attività le sequenze di geni che potevano formare e duplicare i segmenti voluti del loro DNA, le cellule cominciavano a funzionare come unità autonome. Cominciavano a «pensare» da sole e sviluppavano un «cervello» più complesso.
I suoi primi E. Coli mutageni avevano mostrato la capacità d’apprendimento di un verme planaria; era riuscito a far loro percorrere semplici labirinti a T, premiandoli con molecole di zucchero. Presto avevano fatto meglio delle planarie: quei batteri — procarioti inferiori — s’erano rilevati superiori agli eucarioti pluricellulari! Dopo pochi mesi sapevano percorrere labirinti molto più complicati e — in rapporto alla loro scala — paragonabili a quelli ideati per i topi.
Rimosse queste sequenze biologiche dagli E. Coli mutageni le aveva inserite in linfociti-B, cellule bianche prelevate dal suo stesso sangue. Aveva rimpiazzato molte serie di introni (sequenze autoreplicanti di ACTG che in apparenza non codificavano per le proteine, e che costituivano una sorprendente percentuale del DNA in ogni cellula eucariotica) con le speciali catene molecolari da lui sviluppate. Negli ultimi sei mesi, usando proteine artificiali e ormoni come metodo di comunicazione, Vergil aveva «addestrato» i linfociti a interagire assai di più l’un l’altro e col loro ambiente esterno: un labirinto di vetro in miniatura molto complesso. I risultati erano stati superiori alle sue aspettative.
I linfociti avevano imparato a percorrere il labirinto e a guadagnarsi il nutrimento-premio con incredibile rapidità.
Attese che i suoi campioni fossero alla temperatura in cui tornavano attivi, poi inserì il vetrino nel pickup del sistema video e accese il primo dei quattro schermi del microscopio allineati sul banco. Su di esso comparvero i linfociti di forma pressappoco circolare nello studio dei quali aveva investito due anni della sua vita.
Erano già indaffarati a trasferirsi l’un l’altro materiale genetico, tramite lunghi tubicini flessuosi simili a pseudopodi o a file di batteri. Nei linfociti erano rimaste alcune caratteristiche sviluppatesi negli E. Coli dei primi esperimenti, per un motivo che lui ancora non aveva chiarito. I linfociti maturi non si riproducevano affatto, ed erano impegnati in una vera e propria orgia di scambi genetici.
Ogni linfocita del campione che stava osservando aveva in potenza le capacità intellettuali di una scimmia Rhesus. Dall’apparente semplicità del loro agire questo certo non risultava ovvio, tuttavia sapevano dimostrarlo nel corso totale della loro vita.
Vergil aveva comunicato con loro a livello di addestramento chimico, li aveva visti crescere e andare nella direzione in cui aveva sperato. E ora la loro breve esistenza giungeva al termine… gli era stato ordinato di assassinarli. Questo sarebbe stato fin troppo facile: se avesse aggiunto detergente nei contenitori le loro membrane si sarebbero dissolte. Alcuni manager dalla vista corta e dall’eccessiva cautela, capaci soltanto di strisciare verso il denaro come planarie in un labirinto, s’erano eletti a loro carnefici.
Mentre guardava i linfociti occupati nelle loro faccende strinse i denti per la rabbia.
Erano belli. Erano i suoi figli, estratti dal suo stesso sangue, nutriti con cura, costruiti secondo logica; con le sue mani aveva iniettato materiale biologico in almeno un migliaio di essi. E ora li vedeva indaffarati a trasformare tutti i loro compagni, l’uno dopo l’altro, senza interruzione…
Come Washoe, la scimpanzé che insegnava ai suoi figli il linguaggio gestuale appreso dai suoi «genitori» umani, loro stavano passandosi la torcia dell’intelligenza allo stato potenziale. Come avrebbe potuto scoprire qualora fossero stati capaci di usare quel potenziale?
Pasteur.
— Pasteur — disse ad alta voce. — Jenner.
Con cura Vergil preparò una siringa. Corrugando le sopracciglia infilò l’ago attraverso il tappo di cotone della prima provetta, immergendolo nella soluzione. Tirò indietro lo stantuffo. Il fluido pastelloso risalì nel cilindro di vetro, cinque, dieci, quindici cc.
Per alcuni minuti tenne la siringa sollevata davanti agli occhi, conscio che stava contemplando un rischio. Fino ad oggi, disse mentalmente alle sue creature, avete avuto la vita facile. La vita di Riley. Adagiati nel vostro siero, carezzandovi l’un l’altro, assorbendo tutti gli ormoni di cui avevate bisogno. Nessuno vi ha imposto di lavorare per vivere. Niente duri test, niente traumi. Nessuna necessità di usare ciò che io vi ho dato.
E cos’era quello che lui stava meditando? Metterli al lavoro nel loro ambiente naturale? Iniettandoli nel proprio corpo li avrebbe portati in salvo fuori dalla Genetron, e in seguito avrebbe potuto ritrovare abbastanza di loro da riprendere gli esperimenti.
— Ehi, Vergil! — Ernesto Villar bussò alla porta e mise dentro la testa. — È arrivato il film sull’arteria del topo. Abbiamo una riunione nella stanza 233. — Tamburellò con le dita sul battente e gli sorrise con calore. — Sei invitato. In veste di critico cinematografico.
Vergil riabbassò la siringa, con lo sguardo fisso nel nulla.
— Vergil?
— Sì, certo, adesso vengo — rispose in tono vago.
— Per carità, non eccitarti tanto! — brontolò Villar, seccato. — Comunque la proiezione della Prima comincia fra poco. — Richiuse la porta. Vergil udì i suoi passi allontanarsi nel corridoio.
Un rischio, infatti. Inserì di nuovo l’ago nel tappo di cotone, eiettò il siero nella provetta e mise la siringa in una bacinella d’alcool. Assicurò la provetta nel supporto, poi ripose il tutto nel Kelvinator. Fino a quel momento sulla beuta e sul porta-provette non c’era alcuna etichetta, a parte il suo nome. Staccò il cartellino dal portaprovette e lo sostituì con «Campioni di proteine per biochip — scarti di laboratorio 21-32». Sulla beuta incollò un’etichetta plastica «Antigeni di topo — scarti di laboratorio 13-14». Nessuno avrebbe ficcato il naso in un anonimo e non analizzato gruppo di scarti di laboratorio. Gli scarti erano sacri.
Gli occorreva un po’ di tempo per riflettere.
Rothwild e dieci degli elementi chiave del progetto MAB s’erano riuniti nella stanza 233, un laboratorio vuoto utilizzato per le assemblee. Rosso di capelli, piccolo e attivo, Rothwild fungeva da supervisore e da mediatore fra la direzione e i ricercatori. In piedi, a lato dello schermo, esibiva un’elegante giacca color crema e impeccabili pantaloni scuri. Villar offrì a Vergil una sedia di plastica verde-avocado e sedette al suo fianco in fondo al locale, intrecciando le mani dietro la testa.
Rothwild esordì con un’introduzione: — Questa è la conclusione del nostro lavoro sul Modello E-64. Tutti voi avete contribuito… — Lanciò uno sguardo incerto a Vergil. — E ora potete condividerne il… uh, il trionfo. Penso che potremmo senz’altro chiamarlo così.
«L’E-64 è il prototipo di un biochip per endoscopia, dal diametro di tre centesimi di millimetro, proteina su un substrato di silicone, sensibile a quarantasette diversi elementi della circolazione sanguigna. — Si schiarì la gola. Tutti ne erano al corrente, ma quella era un’occasione ufficiale. — Il 10 maggio abbiamo inserito l’E-64 nell’arteria di un topo, richiuso la piccola incisione e lasciato andare il biochip nella corrente sanguigna. Il suo viaggio è durato cinque secondi. Il topo è stato quindi sacrificato per poter recuperare il biochip. Subito dopo la squadra del Dr. Terence ha ricavato le informazioni dal biochip e interpretato i risultati. Trasformando tali risultati tramite uno speciale programma d’immagini computerizzate, ci è stato possibile ottenere un vero e proprio filmato.
Fece un gesto a Ernesto, che premette un pulsante sul proiettore del videoregistratore. Apparve una grafica costruita col computer: il simbolo stilizzato della Genetron, immagini pubblicitarie preliminari, poi uno stacco al buio. Ernesto spense la luce.
Sullo schermo si disegnò un circolo, che s’allargò deformandosi in un ovale irregolare. Entro di esso comparvero altri circoli. — Abbiamo rallentato sei volte la velocità del viaggio — spiegò Rothwild, — e per semplificare le cose abbiamo eliminato le letture della concentrazione di sostanze chimiche nel sangue del topo.
Vergil si sporse in avanti sulla sedia, dimenticando per un momento i suoi guai. Correnti di colore ondeggiarono lungo il fluttuante tunnel di circoli concentrici.
— Sangue che scorre attraverso l’arteria — intervenne Ernesto.
Il viaggio giù per il vaso sanguigno del topo durò trenta secondi. Vergil ebbe per un momento la pelle d’oca: se i suoi linfociti potevano vedere, questo era l’ambiente che avrebbero percepito nel lasciarsi trasportare sull’onda dei battiti cardiaci… un lungo tunnel irregolare, il sangue che fluiva lento, brevi occhiate nelle diramazioni laterali, poi l’arteria si faceva più stretta… i circoli si stringevano sempre mutevoli, improvvisi sbalzi mentre il biochip urtava qua e là nelle pareti… e infine il termine del viaggio quando andava a incastrarsi in fondo a un capillare.
Il filmato diventò un riquadro bianco lampeggiante. La stanza risuonò di voci che si congratulavano a vicenda.
— Adesso — disse Rothwild con un sorriso, e alzò le mani per invocare un po’ d’ordine, — ci sono commenti prima che la registrazione venga mostrata ad Harrison e a Yng?
Vergil si unì alle celebrazioni brindando con un bicchiere di champagne, e tornando nel suo laboratorio si sentì più depresso che mai. Dov’era il suo spirito di collaborazione? Valeva davvero la pena di tenere per sé un progetto così ambizioso come i suoi linfociti? Questa era stata la sua risoluzione… ma a rischio di vedere l’esperimento interrotto, forse perfino annientato.
Mise i quaderni di appunti in una scatola di fogli da fotocopiatrice e la sigillò col nastro adesivo. Sul lato del laboratorio di Hazel trovò una scatoletta vuota con un’etichetta: «Schede. Conservare.» e la staccò. La appiccicò sulla sua scatola e poggiò quest’ultima in territorio «neutrale» accanto a un lavello. Quindi lavò i contenitori in vetro che aveva lasciato lì attorno e mise ordine sui suoi banconi.
Quando fosse venuto il momento dell’ispezione si sarebbe mostrato mite e supplichevole come l’ultimo degli impiegati: Harrison doveva assaporare la soddisfazione della sua vittoria.
E poi, di nascosto — nelle due settimane successive — avrebbe portato all’esterno tutto il materiale che gli serviva. I linfociti avrebbero dovuto attendere l’ultimo turno; per un po’ di tempo poteva tenerli senza danni nel frigorifero, a casa sua. Rubare siero nutritivo per non farli deperire sarebbe stato abbastanza facile, tuttavia questo gli toglieva ogni possibilità di lavorare su di loro.
Più tardi avrebbe studiato come trovare le condizioni per continuare alla meglio i suoi esperimenti.
Harrison comparve sulla soglia del laboratorio.
— Tutto a posto — lo accolse Vergil, doverosamente pentito.
Nella settimana seguente lo tennero d’occhio da vicino; poi, spostando l’attenzione sui test conclusivi dei prototipi di MAB, avevano richiamato i loro cani da guardia. Il suo comportamento era stato indenne da pecche.
Adesso poteva compiere gli ultimi passi del suo volontario allontanamento dalla Genetron.
Vergil non era stato il solo a oltrepassare i confini della larghezza di vedute in vigore alla Genetron. Appena un mese prima la direzione, sempre nella persona di Gerald T. Harrison, era scesa in picchiata sul lavoro di Hazel. La ricercatrice aveva sgarrato dai canoni con le sue colture di E. Coli, nel tentativo di dimostrare che il sesso era stato in origine il risultato dell’invasione di una sequenza autonoma di DNA — un parassita chimico chiamato fattore-F — nelle prime forme di vita procariotica. Con questo presupponeva che il sesso non sarebbe stato indispensabile all’evoluzione — almeno non alle donne, che in teoria potevano riprodursi per partenogesi — e che l’uomo avrebbe finito col divenire superfluo.
Aveva messo insieme abbastanza prove perché Vergil, ficcando il naso negli appunti di lei, fosse d’accordo con le sue conclusioni. Ma il lavoro di Hazel non corrispondeva all’etica della Genetron. Era rivoluzionario, possibile fonte di controversie sociali. Harrison aveva pronunciato il verdetto; lei s’era ritirata da quella particolare branca di ricerche.
La Genetron non intendeva farsi pubblicità alimentando controversie scientifiche o sociali. Non ancora. Aveva bisogno di una reputazione senza macchia per il momento in cui avrebbe reso pubblici i suoi prodotti annunciando che stava realizzando MAB efficienti.
Nessuno s’era però preoccupato degli appunti di Hazel. Il fatto che Harrison avesse messo le mani sui suoi dati inseriti nel computer preoccupava Vergil.
Quando fu sicuro che la sorveglianza s’era allentata, cominciò a darsi da fare. Chiese il permesso di usare il computer della compagnia (permesso che gli era stato sospeso fino a nuovo ordine) e per non destare sospetti dichiarò che doveva visionare le strutture tridimensionali delle proteine da lui realizzate. Il permesso gli fu dato, e una sera dopo le otto poté sedersi alla tastiera del terminale nel laboratorio comune.
Vergil era nato troppo presto per essere classificato un bambino prodigio dei computer, ma negli ultimi sette anni aveva alterato la registrazione dei suoi documenti nella memoria elettronica di tre importanti ditte, e li aveva inseriti anche in quella di una famosa università. Questo era servito come supporto per la sua assunzione alla Genetron. Non provava alcun senso di colpa per quelle intrusioni e manipolazioni di dati.
A suo avviso la stima di cui godeva era meritata, e non vedeva perché avrebbe dovuto pentirsi se per ottenerla aveva forzato un po’ le cose. Sapeva d’essere pienamente all’altezza del lavoro che faceva alla Genetron: le false registrazioni introdotte negli archivi dell’università erano soltanto sviolinate per gli orecchi dei capi del personale che si pascevano di titoli e di aggettivi. D’altra parte Vergil era vissuto nella convinzione — fino a due anni prima — che il mondo fosse il suo personale videogame, e che ogni soluzione da lui trovata per sconfiggerlo, inclusa la manomissione di computer, fosse semplicemente consona alla sua natura.
Trovò ridicolmente facile aggirare il codice-chiave di Rinaldi messo a protezione dell’archivio segreto della Genetron. Per lui non c’erano misteri nei numeri di Godei e nelle sequenze di cifre digitali che apparvero sullo schermo. Si destreggiò fra i dati e le informazioni riservate come un pesce nell’acqua.
Trovò il suo fascicolo personale, e inserì un’equazione per chiudere con una chiave elettronica quella sezione della memoria. Poi decise che tanto valeva giocare sul sicuro: c’era sempre la possibilità, per quanto remota, che qualcun altro fosse più ingegnoso di lui. Cancellò completamente i suoi dati dal computer.
Ora il suo programma prevedeva di localizzare i documenti medici degli impiegati. Alterò tutti i termini della sua assicurazione, e i circuiti che avrebbero rivelato l’intrusione. Adesso qualsiasi richiesta d’informazioni sul suo conto dall’esterno lo avrebbe trovato ben coperto, anche dopo il suo allontanamento, e non ci sarebbero mai state domande circa i premi assicurativi che non aveva pagato.
Questo fatto però lo lasciò molto perplesso. La sua salute non era tale da poter fare del tutto a meno dell’assistenza medica.
Per qualche minuto rifletté su eventuali stratagemmi con cui avrebbe potuto mettere nei guai la Genetron, ma decise di rinunciarvi. Non era vendicativo. Spense il terminale con un sospiro e uscì.
Con sua sorpresa trascorse pochissimo tempo — soltanto due giorni — prima che la cancellazione dei dati fosse notata. Rothwild lo bloccò di primo mattino mentre entrava nel vasto atrio, informandolo che gli era precluso l’ingresso al suo laboratorio. Senza mostrasi troppo indignato Vergil replicò che c’era una scatola di oggetti personali che era suo diritto ritirare.
— Benissimo, ma nient’altro. Niente materiale biologico. E mi lascerà esaminare ogni cosa.
Vergil annuì con calma. — Posso sapere che c’è che non va, adesso?
— A esser franco, non l’ho chiesto — disse Rothwild. — E non m’interessa saperlo. Io avevo garantito per lei. E così Thornton. È una grossa delusione per tutti noi.
La mente di Vergil lavorava a ritmo frenetico. Non aveva ancora portato fuori i linfociti; sotto falsa etichetta, nel frigo del laboratorio, gli erano parsi abbastanza al sicuro, e non s’era atteso che le cose precipitassero così in fretta. — Sono licenziato?
— Proprio così. E temo che gli sarà difficile farsi assumere da un altro laboratorio privato. Harrison è furibondo.
Quando entrarono nel laboratorio Hazel era già al lavoro. Vergil prese la scatola che aveva messo nella zona «neutrale» fra i lavandini, coprendo l’etichetta con una mano. Finse di soppesarla, e di nascosto rimosse il nastro adesivo che appallottolò e lasciò cadere in un cestino per i rifiuti. — Un’altra cosa — disse. — Ho alcuni scarti di laboratorio, contrassegnati, di cui bisognerebbe occuparsi in modo opportuno. Cautamente. Radionucleidi.
— Oh, merda! — esclamò Hazel. — Dove?
— Nel frigo. No, non si preccupi… è solo carbonio 14. Posso? — Interrogò Rothwild con lo sguardo. Il sovrintendente gli accennò di poggiare la scatola sul bancone per lasciargliela ispezionare. — Posso? — ripeté Vergil. — Non voglio lasciare attorno niente che sia pericoloso.
Rothwild annuì, riluttante. Vergil si avviò verso il Kelvinator, e come per caso depose la giacca da laboratorio sul banco. La sua mano trovò una scatola di siringhe ipodermiche e ne trafugò una.
Il portaprovette coi linfociti era nello scomparto basso. S’inginocchiò e volgendo le spalle agli altri tolse una provetta, quindi vi inserì la siringa e ne estrasse venti cc. di siero. La siringa era nuova di zecca, e l’ago doveva essere ragionevolmente sterile; non c’era il tempo di una disinfezione con l’alcool, tuttavia era costretto a correre il rischio.
Mentre si puntava l’ago contro una vena all’interno del polso sinistro si domandò, per un attimo, cosa stava facendo e cosa sperava di ricavarne. C’erano scarse possibilità che i linfociti sarebbero sopravvissuti. Non era da scartarsi l’ipotesi che fossero ormai mutati al punto di non potersi adattare al suo sangue, e di morire, oppure di comportarsi come sostanze estranee e venire distrutti dai suoi anticorpi.
Oltre a ciò, la vita media di un linfocita attivo nel corpo umano poteva durare qualche settimana. I «poliziotti» del sangue non avevano un’esistenza facile.
L’ago entrò nella vena. Tutto ciò che sentì fu la lieve puntura, e un vago torpore quando il liquido freddo fluì nel suo sangue. Poi ritrasse l’ago e celò la siringa in fondo al frigorifero. Raccolse il portaprovette, la beuta, e col gomito richiuse lo sportello. Rothwild si tenne nervosamente a distanza mentre Vergil, con un paio di guanti di gomma, vuotava il contenuto delle provette in una bacinella di etanolo. Vi aggiunse anche il siero della beuta. Con un sorrisetto tappò la bacinella, la agitò per mescolare il tutto, quindi la ficcò in un contenitore di sicurezza per i rifiuti. Con un piede spinse il contenitore verso Rothwild. — È tutto suo — borbottò.
L’uomo aveva scartabellato fra i quaderni degli appunti. — Non sono certo che possa portarsi via questa roba — osservò. — Ha impiegato un bel po’ del nostro tempo a lavorarci sopra.
Il sorriso melenso di Vergil restò immutato. — Citerò per danni la Genetron, e alzerò polvere in ogni rivista specializzata su cui potrò scrivere. Sarà una buona pubblicità, proprio mentre cercate d’inserirvi sul mercato, no?
Rothwild lo fissò a occhi socchiusi, e un lieve rossore gli comparve sulle guance e sul collo. — Vada fuori di qui — disse. — Più tardi le sarà spedito il resto della sua roba.
Vergil si prese la scatola. Il freddo che gli aveva intorpidito l’avambraccio s’era dissolto. Rothwild lo scortò giù per le scale e lungo il vialetto fino al cancello del posteggio. Walter ritirò il distintivo di riconoscimento con faccia del tutto inespressiva. Non contento, il sovrintendente gli tenne dietro fino alla macchina.
— Non dimentichi il suo contratto — lo avvertì. — Pensi bene a ciò che può e non può dire.
— Mi sarà permesso dire una cosa, spero — replicò Vergil, sforzandosi di tenere la voce ferma mentre la rabbia saliva in lui.
— Che cosa? — domandò Rothwild.
— Andate a farvi fottere. Tutti quanti.
Sterzando attorno al monticello che sosteneva l’insegna della Genetron Vergil si volse, ripensando a tutto ciò che era accaduto dietro quelle austere mura. Gettò uno sguardo al cubo nero, più oltre, seminascosto da un filare di eucalipti.
Era più che probabile che quella fosse la fine del suo esperimento. Per un poco la tensione e il disgusto gli diedero un senso di nausea. Poi ripensò ai miliardi di linfociti che aveva appena annientato. La sua nausea aumentò al punto che avvertì in gola il sapore acido del succo gastrico.
— Oh, andrete a farvi fottere, è sicuro — mormorò, — perché tutto quello che tocco io va a farsi fottere.
Gli esseri umani erano un gregge confusionario, decise Vergil, mentre appollaiato su uno sgabello si voltava a guardare i ballerini. Una musica mielata e pulsante accompagnava il lento ruotare della pista da ballo, e il lampeggiare delle luci colorate enfatizzava il sussultare dei corpi ammassati su di essa, maschili e femminili. Lungo tutto il bar uno stupefacente intreccio di lucidi tubi di rame sgocciolava e sputacchiava drink su ordinazione — per lo più vini vendemmiati in vitro — e quarantasette varietà di caffè. Le richieste di caffè erano in aumento; la notte si stava trasformando in mattino, e presto Weary’s avrebbe spento le luci e chiuso i battenti.
Gli ultimi sforzi creativi dei volonterosi danzatori diventavano sempre più ovvii. I loro movimenti avevano perso in fantasia, assumendo un tono quasi disperato. Accanto a Vergil un individuo tozzo in uno spiegazzato abito azzurro stava facendo le sue promesse da marinaio a una brunetta dai lineamenti asiatici che poco prima aveva pianto. Vergil si sentiva distaccato da tutto e da tutti. Non aveva ancora mosso un passo da dove si trovava, ed era entrato da Weary’s alle sette di sera. Del resto, neppure una femmina aveva fatto un passo verso di lui.
Non rappresentava una merce valida. Fermo o in movimento dava l’impressione di non saper dove mettere i piedi… e a parte un paio di viaggi nell’affollata zona dei tavolini e dei divani, non li aveva messi che sulla sbarra di quello sgabello. Negli ultimi anni aveva trascorso tanto di quel tempo in laboratorio che lì dentro riusciva a divertirsi quanto un gatto buttato su una giostra. Non aveva l’aria di un allegrone, e non intendeva spendere un grammo d’energia per attirare l’attenzione altrui.
Grazie al cielo, l’aria condizionata di Weary’s era almeno riuscita a placare il suo raffreddore da fieno.
Aveva trascorso la maggior parte della sera ad osservare la sorprendente varietà — e la sostanziale uniformità — delle tattiche che l’animale maschio metteva in opera verso la femmina. Lui se ne sentiva estraniato, sospeso in una sfera di distacco e di solitudine di cui non desiderava oltrepassare i confini. Dunque perché, chiese a se stesso, per prima cosa era venuto lì da Weary’s? Perché continuava a venire lì? Non aveva mai rimorchiato una donna in quel locale — e in nessun altro locale da ballo o bar — in tutta la sua vita.
— Salve.
Vergil sobbalzò e si volse, spalancando gli occhi.
— Scusami. Non volevo disturbarti.
Lui scosse la testa. La ragazza doveva essere sui ventotto anni: una bionda dalle sfumature dorate, così snella da sembrare sottile, e un volto non eccezionale ma attraente. Gli occhi castani, grandi e innocenti, erano la sua cosa migliore… salvo forse le gambe, si corresse, occhieggiandole d’istinto le caviglie.
— Non vieni qui molto spesso — disse lei. Gettò una rapida occhiata dietro di sé. — Oppure sì? Voglio dire, neppure io ci capito molto, del resto.
Lui si strinse nelle spalle. — Non spesso, già. Non è il caso. La mia percentuale di successi, qui dentro, non è spettacolosa.
La ragazza tornò a guardarlo e sorrise. — Su di te ne so più di quel che pensi — affermò. — Non ho bisogno di leggerti la mano. Sei un uomo abile, per prima cosa.
— Sul serio? — disse lui, sentendosi goffo.
— Abile con le mani, intendo. — Gli sfiorò il dorso di una mano che lui s’era poggiata su un ginocchio. — Hai dita sensibili. Puoi fare molte cose con mani come queste. Ma non hanno tracce di grasso, dunque non puoi essere un meccanico. E cerchi di vestirti bene, ma… — Ebbe una risatina cinguettante e la soffocò con le dita. — Scusa. Comunque ci provi.
Lui abbassò gli occhi sulla sua camicia di cotone, verde e nera, e sui pantaloni neri. Erano abiti nuovi e ben stirati. Cosa ci trovava di criticabile? Forse non le erano piaciute le scarpe bicolori; avevano fatto presto a sformarsi.
— Tu lavori… vediamo. — La ragazza si accarezzò una guancia con aria pensosa. Le sue unghie erano capolavori da manicure di classe, lunghi ovali dai riflessi bronzei. — Sei un cervello.
— Cosa?
— Lavori in uno dei laboratori che ci sono da queste parti. Hai i capelli troppo lunghi per essere uno della Marina, e del resto quelli non frequentano molto Weary’s. Non che io sappia. Lavori in un laboratorio e sei… no, tu non sei felice. Perché mai?
— Perché… — S’interruppe. Confessare che era disoccupato non era buona strategia. Per sei mesi avrebbe avuto diritto all’assegno governativo di disoccupazione; questo e i suoi risparmi avrebbero sopperito per un po’ di tempo alla mancanza di una paga fissa. — Come hai capito che lavoro in un laboratorio?
— Te lo rivelerò. La tasca della tua camicia… — Gliela toccò lievemente con le dita. — Il bordo è segnato dalla traccia della molla delle penne. Come se non facessi altro che levartele di tasca e rimetterle lì. — Sorrise, deliziosamente, e sporse la lingua in modo buffo come se lo avesse colto in fallo.
— Ma non mi dire.
— Sicuro. E porti il fermacravatta. Soltanto gli scienziati portano ancora il fermacravatta, al giorno d’oggi.
— Mi piace — si difese Vergil.
— Oh, anche a me. Il punto a cui voglio arrivare, però, è che non ho mai conosciuto uno scienziato. Voglio dire… intimamente.
Oh, Signore! pensò Vergil. — Che ti piacerebbe fare? — chiese, e immediatamente desiderò rimangiarsi quelle parole.
— Mi piacerebbe conoscerti, se non pensi che io stia andando troppo in fretta — disse lei, ignorando la domanda. — Guarda, il bar chiude fra pochi minuti. Non mi va di bere più niente e sono stanca di sentire musica. E tu?
Il suo nome era Candice Rhine. Ciò che faceva durante il giorno era accettare annunci per il La Jolla Light. Approvò la sua Volvo sportiva rossa e approvò il suo appartamento, un bicamera al terzo piano di un condominio a quattro isolati dalla spiaggia di La Jolla. Vergil l’aveva acquistato sei anni prima — appena uscito dalla scuola di medicina — da un antropologo che era partito per l’Ecuador subito dopo aver terminato uno studio sugli Indios del Sud America.
Candice entrò nell’appartamento come se ci avesse abitato per anni. Depose la blusa scamosciata sul divano e gettò la camicetta sul soprammobile in vetro e cromo al centro del tavolino. Con una risatina divertita sgusciò fuori dalla gonna e appese il reggiseno alla maniglia di una porta. Aveva seni piccoli, ma era così snella che su di lei sembravano voluminosi.
Vergil la guardava fra meravigliato e stupefatto.
— Vieni, scienziato — disse Candice, nuda sulla soglia della camera da letto. — Mi piace camminare sul pelo. — Vergil aveva messo la moquette sul pavimento, intorno al suo largo letto in stile California. Lei si mise in posa, con le mani sui fianchi, la schiena e un piede poggiati allo stipite della porta, poi ruotò sull’altro tallone e scomparve nel buio della stanza.
Vergil non si mosse finché lei non accese la lampada sul comodino da notte. — Lo sapevo! — la sentì esclamare. — Guarda tutti questi libri!
Più tardi, nel buio, Vergil pensò tardivamente ai pericoli del sesso in quel momento. Candice dormiva in silenzio al suo fianco, il sonno dovuto a diversi drink e a quattro riprese di sesso.
Quattro volte.
Non aveva mai fatto l’amore così intensamente. Prima d’addormentarsi lei aveva mormorato che i piloti lo facevano con regolarità, i medici con pazienza, ma soltanto gli scienziati con progressione geometrica.
Circa i pericoli… chiunque poteva vedere — e non solo nei libri di testo — i risultati della promiscuità in un mondo dove la gente viaggiava molto e aveva rapporti sessuali assai facili. Se Candice aveva molti rapporti sessuali (e Vergil era costretto a crederlo, visto che aveva preso l’iniziativa con assoluta disinvoltura) allora era impossibile dire quale specie di microrganismo stava ora accasandosi nel suo sangue.
Tuttavia dovette sorridere.
Quattro volte.
Candice mandò un mugolio nel sonno e lui sussultò, riaprendo gli occhi. Non avrebbe dormito bene, lo sapeva. Non era abituato ad avere qualcuno nel suo letto.
Quattro.
Nel buio i suoi denti, un po’ scuri, si scoprirono in un gran sorriso.
Il mattino dopo Candice si rivelò assai meno anticonformista. Insisté solennemente per occuparsi della colazione. Nel suo frigorifero ad angolo di vecchio modello Vergil aveva uova e fettine di carne, e lei cucinò con efficienza e precisione, quasi che avesse alle spalle un’esperienza di cuoca… o forse quello era semplicemente il modo in cui le donne facevano le cose? Lui non era mai riuscito a friggere un uovo in maniera decente. Gli venivano sempre o troppo crude o troppo cotte.
Seduta dall’altra parte del tavolo lei lo scrutò coi suoi grandi occhi castani. Vergil era affamato e mangiava in fretta. Non le stava offrendo un’esibizione di belle maniere, pensò. E con ciò? Cosa si aspettava da lui quella ragazza… o lui da lei?
— Sai, di solito io non resto per la notte — disse Candice. — Non faccio che chiamare il tassi alle quattro di mattina, quando l’amico già se la dorme. Ma tu mi hai tenuta… occupata fino alle cinque, e poi non volevo andarmene. Mi hai proprio sfinita.
Lui annuì e con l’ultimo pezzetto di toast raccolse l’ultimo gustoso pezzetto di tuorlo semiliquido. Non gli importava particolarmente sapere con quanti uomini fosse andata a letto. Meno di quel che sembrava, però, l’avrebbe giurato.
Vergil aveva fatto solo tre conquiste in vita sua, e una sola abbastanza soddisfacente. La prima a diciassette anni — gli era parsa un incredibile colpo di fortuna — e la terza un anno addietro. La terza era stata quella che lo aveva più soddisfatto e più ferito. E lo aveva convinto ad accettare la solitudine come un inferno della mente ma sempre preferibile al dolore delle delusioni.
— Suona un po’ orribile, non è vero? — chiese lei. — Voglio dire, i tassi alle quattro e il resto. — Lo fissò un poco. — Mi hai fatto godere sei volte — dichiarò.
— Bene.
— Tu quanti anni hai?
— Trentadue — le rispose.
— Lo fai come un ragazzino… a letto, dico. Sei instancabile.
Anche per lui quell’energia era stata un’esperienza nuova.
— Ti sono piaciuta?
Lui depose la forchetta e la osservò, assorto. Gli era piaciuta fin troppo. Quando sarebbe stata la prossima volta? — Sì, molto.
— Sai perché ho scelto te fra tutta quella gente? — Lei aveva appena toccato il suo solitario uovo in camicia, e ora masticava piccoli bocconi di carne ai ferri. Le sue unghie erano uscite intatte dalla nottata. Se non altro non era di quelle che graffiavano. Gli sarebbe piaciuto farsi graffiare?
— No — rispose.
— Perché sapevo che eri uno scienziato. Non avevo mai fatto l’amore con uno scienziato. Vergil. Dico bene, no? Vergil Ian Yullam.
— Ulam — la corresse.
— Ma mi sarei data da fare prima se l’avessi saputo — affermò Candice, e sorrise. I suoi denti erano candidi e affilati, anche se un po’ troppo larghi. Quella sua lieve imperfezione lo intenerì.
— Ti ringrazio. Non posso parlare a nome di tutti gli scienziati, ma apprezzo un complimento generoso.
— Be’, penso che tu sia molto dolce — disse lei. Il sorriso sfumò, sostituito da un’espressione seria e riflessiva. — Più che dolce. Lo giuro su Dio, Vergil. Sei il miglior amante che io abbia mai avuto. Oggi devi andare al lavoro?
— No — rispose. — Lavoro nell’orario che preferisco.
— Splendido. Allora, se hai finito con la colazione…
Altre tre volte prima di mezzogiorno. Vergil non riusciva a crederci.
Candice s’intristì al momento di lasciarlo. — Mi sento come se mi fossi allenata un anno di fila per il pentatlon — disse, ferma sulla porta e con la blusa in mano. — Non ti andrebbe se tornassi stasera? Voglio dire, a farti visita. — Nei suoi occhi ci fu una luce ansiosa. — Non credo che potrò fare all’amore di nuovo. Penso che tu abbia già esaurito tutto il mio programma mensile.
— Anzi, ti prego — annuì lui. Sorpreso vide che gli porgeva la mano. — Sarà bello. — Si strinsero la mano piuttosto formalmente, e Candice si allontanò nel tepore dell’aria primaverile. Vergil la seguì con lo sguardo per un poco, a tratti sorridendo e scuotendo la testa, ancora stupito.
Dopo una settimana dall’inizio della sua relazione con Candice le preferenze di Vergil in fatto di cibo cominciarono a cambiare. Fino allora aveva ecceduto coi grassi e gli amidi, divorando gran quantità di carne, pane e burro. La sua cena favorita era la pizza ai funghi, e aveva scoperto un locale dove a richiesta gliela caricavano con prosciutto, acciughe, olive o cos’altro volesse.
Candice suggerì che desse un taglio ai cibi troppo grassi — li chiamava «porcherie untuose» — e mangiasse più verdure, solo carne magra e niente dolci. Il corpo di lui parve trovarsi d’accordo.
Diminuì anche la quantità del cibo, e scoprì di sentirsi satollo dopo quello che prima avrebbe considerato un mezzo pasto. Il grasso che aveva attorno alla cintura calò a vista d’occhio. Stare in casa senza far niente lo rendeva sempre più inquieto.
Insieme al mutare dei suoi gusti in fatto di cibo notò un cambiamento nelle sue attitudini amorose. Questo non lo sorprese. Vergil ne sapeva abbastanza di psicologia per capire che quel che gli occorreva era una relazione soddisfacente, a correggere una sua tendenza alla misantropia. Candice serviva a espandere la sua personalità.
La sera si dedicava spesso a lunghi esercizi ginnici. I piedi non gli facevano più male, e si sentiva leggero. Il mondo gli sembrava un posto un tantino migliore. Anche i dolori artrosici alla schiena scomparvero, tanto che se ne dimenticò. Non ne sentiva certo la mancanza.
Vergil attribuì la maggior parte di quel suo benessere a Candice, un po’ come le chiacchiere degli adolescenti attribuiscono la scomparsa dei furuncoli alla perdita della verginità.
Di tanto in tanto la loro relazione aveva dei momenti neri. Candice lo trovava noiosissimo quando cercava di spiegarle il suo lavoro. A sua volta lui detestava la necessità di spiegarsi usando termini semplificati. Un pomeriggio fu sul punto di confessarle d’essersi iniettato i linfociti mutageni, e non lo fece soltanto perché lei esibiva già un’espressione di noia mortale. — Senti, fammi solo sapere quando avrai trovato una cura economica per l’aids — gli disse, — e allora tapperemo finalmente la bocca a tutti quei bigotti della Christian Action League.
Benché non si preoccupasse più delle malattie veneree — Candice aveva affrontato l’argomento, una sera, per convincerlo che era pulita — la notte successiva fu spaventato da uno strano disturbo: una singolare e irritante serie di forti contrazioni dei muscoli addominali. Quel sintomo scomparve però prima dell’alba, e in seguito non si ripresentò più.
Vergil intrecciò le mani dietro la nuca. Accanto a lui Candice era una flessuosa forma bianca che respirava lievemente, e il lenzuolo drappeggiava il suo corpo con la sensualità di un abito da sera studiato per scoprirla ad arte. Avevano finito di fare all’amore già da tre ore e lui era sempre lì, sveglio, a riflettere pigramente che nelle due settimane da cui s’era messo con Candice aveva avuto più rapporti sessuali che in tutto il resto della sua vita.
Questo stimolava la sua fantasia. Le statistiche lo avevano sempre interessato. In una serie di esperimenti scientifici il successo o il fallimento erano determinati dalle percentuali, come negli affari. Stava ora cominciando a pensare che il suo «esperimento» (applicata a lei la parola gli suonava strana) con Candice stava rivelandosi statisticamente un successo. La possibilità di ripetere gli stessi risultati nelle stesse condizioni era la caratteristica empirica di un buon esperimento, e dunque questo poteva definirsi…
I suoi pensieri andavano a ruota libera. Sempre più spesso trascorreva la notte a ruminare, ogni tanto dicendosi che avrebbe impiegato meglio il tempo dormendo.
Candice lo stupiva. Le donne avevano sempre stupito Vergil, che aveva avuto così scarse opportunità di conoscerle; ma sospettava che in Candice ci fosse qualcosa che lo stupiva ancora di più. Non riusciva ad avere un quadro preciso delle sue attitudini. La ragazza aveva smesso di prendere l’iniziativa in amore, tuttavia partecipava con notevole trasporto. Gli accadeva di pensare a lei come a una gatta in cerca di una nuova casa, che una volta trovato quel che voleva si accovacciava a fare le fusa senza più preoccuparsi di quel che le sarebbe accaduto l’indomani.
Né la sua capacità virile, né i suoi progetti di vita, pensava Vergil, potevano giustificare quella specie di soddisfatta indifferenza della ragazza.
Era riluttante a concludere che Candice gli fosse intellettualmente inferiore. Spesso era molto intuitiva, perspicace, e divertente da avere attorno. Ma le loro preoccupazioni esistenziali erano diverse. Candice credeva nei valori superficiali della vita: le apparenze, le consuetudini della società, ciò che l’altra gente faceva e pensava. A Vergil non importava niente di quel che pensavano gli altri, a meno che non venissero a interferire coi suoi progetti.
Candice accettava le cose e faceva esperienze. Vergil detestava tutto ciò che non poteva analizzare.
Sentiva d’invidiarla per questo. Gli sarebbe piaciuto prendersi una pausa dal suo continuo aggrovigliarsi nei pensieri, nei progetti, nelle preoccupazioni, in tutti quei processi in cui accumulava dati per agguantare nuovi punti di vista. Essere come Candice sarebbe stato come una perpetua vacanza dalla vita.
Candice, d’altra parte, certamente pensava che lui fosse un irrequieto, uno scontento. Lei portava avanti la propria vita evitando di fare piani, evitando i pensieri, ed evitando anche di farsi scrupoli… nessun rimorso e nessun ripensamento. Quando aveva capito che quell’uomo irrequieto, scontento era un disoccupato, la sua fiducia in lui era rimasta stranamente intatta. Forse, come una gatta, la sua preoccupazione per quel che non accadeva nelle immediate vicinanze era scarsissima.
E così lei dormiva, e lui stava lì a ruminare, tornando cento volte sui fatti accaduti alla Genetron, tormentandosi sulle conseguenze, sull’impulso chiaramente irragionevole che lo aveva spinto a iniettarsi i linfociti nel sangue, sulla sua incapacità di mettere a fuoco una qualsiasi futura linea di condotta. Vergil sollevò lo guardo al soffitto, poi si sfregò gli occhi per osservare i disegni luminosi eccitati nella rètina. Tolse la mano sinistra dal sedere di Candice e usò entrambi gli indici per premere l’esterno dei bulbi oculari e incrementare l’effetto. Ma quella notte sembrava che i suoi occhi non volessero intrattenerlo con giochi di luce psichedelici. La pressione non ottenne altro che una maggiore tenebra, punteggiata da lucori vaghi e lontani come l’alba su un altro continente.
Lasciato da parte quel giochetto infantile, dimentico delle sue elucubrazioni e tuttavia più che mai sveglio, Vergil si lasciò andare in uno stato d’inconsapevolezza, senza guardare niente, senza pensare a niente di concreto…
desideroso solo di evitare
nell’attesa del mattino
cercando di evitare
il ricordo di tutto ciò che aveva perduto
e di ciò che aveva appena guadagnato ma che poteva
essere perduto
mentre non era pronto
e continuava a essere irrequieto e scontento
inevitabilmente.
Era una domenica mattina, la terza settimana.
Candice gli porse una tazza di caffè bollente. Lui la fissò per alcuni istanti. C’era qualcosa che non andava nella tazza e nella mano di lei. Cercò a tentoni gli occhiali e se li mise, ma le lenti ferirono ancor di più i suoi occhi. — Grazie — borbottò, prendendo la tazza. Si appoggiò all’indietro sui cuscini, contro la spalliera del letto, e rovesciò alcune gocce di liquido marrone sulle lenzuola.
— Cosa pensi di fare, oggi? — chiese lei (Era implicito: cercherai lavoro? Ma Candice non metteva mai alla prova il suo senso di responsabilità, e non lo seccava con domande sulle sue intenzioni).
— Suppongo che cercherò lavoro — le rispose. Strizzò ancora gli occhi attraverso le lenti e mosse gli occhiali avanti e indietro tenendoli per una stanghetta.
— Io invece — disse lei — vado al Light per buttar giù un po’ di lavoro, poi farò la spesa in quel negozietto di verdure qui in fondo alla strada. Poi andrò a prepararmi il pranzo e mangerò da sola.
Vergil la fissò sorpreso, senza capire.
— Cosa c’è che non va? — domandò lei.
Mise gli occhiali da parte. — Perché vuoi pranzare da sola?
— Perché credo che tu stia cominciando a prendere troppo cose per scontate. Questo non mi va. Sento che tu mi accetti.
— Che c’è di sbagliato in questo?
— Niente — disse lei, paziente. S’era vestita e aveva sciolto i capelli, che le scendevano lunghi e luminosi sulle spalle. — Solo che non voglio far svanire il profumo.
— Profumo?
— Vedi, ogni relazione ha bisogno che la gatta tiri fuori le unghie di quando in quando. Io sto cominciando a credere che tu sia troppo buono per tirarle fuori, e questo non è bene.
— No — annuì Vergil, distratto.
— Non hai dormito questa notte? — volle sapere lei.
— No — disse Vergil. — Non molto. — Si accigliò, perplesso.
— Allora perché mi guardi così?
— Ti sto vedendo perfettamente.
— Mi vedi? Nel senso che prendi per scontata la mia presenza?
— No, voglio dire… senza gli occhiali. Posso vederti alla perfezione anche senza gli occhiali.
— Bene. Ne sono contenta — disse Candice, con insensibilità felina nei riguardi delle cose umane. — Domani ti telefono. Non preoccuparti.
— Oh, no — borbottò Vergil, sfregandosi le tempie con la punta delle dita.
Lei uscì, chiudendo la porta senza rumore.
Vergil girò lo sguardo per la camera.
Ogni cosa era meravigliosamente a fuoco. Non aveva mai visto con tale chiarezza da quando, a sette anni, il morbillo gli aveva causato l’insorgere di una miopia progressiva.
Quello era il primo miglioramento fisico che senza ombra di dubbio non poteva attribuire all’influenza positiva di Candice.
— Profumo… — mormorò, sbattendo le palpebre verso la finestra.
A Vergil sembrava di aver trascorso settimane in uffici identici a quello: pareti dal lindo colore pastello, tavolo da lavoro in acciaio grigio, cestelli paralleli di documenti «evasi-da-evadere», un uomo o una donna che con pacata efficienza facevano domande dai risvolti psicologici e vagliavano le risposte. Stavolta si trattava di una donna, nitida e ben vestita, con un volto amichevole e paziente. Sulla scrivania davanti a lei c’erano i risultati di un test attitudinale e i suoi documenti di lavoro. Vergil sapeva da tempo come rispondere a quei test: quando l’esaminatore chiedeva di disegnare una scenetta evitare di eccedere nelle linee curve, evitare in modo assoluto gli oggetti acuminati o spigolosi, non disegnare gli occhi, mettere in risalto il cibo o la bellezza femminile. Indicare i propri obiettivi in termini brevi e pratici, ma con un filo di ambizione. Esibire immaginazione, ma non una fantasia sfrenata. La donna annuì fissando le carte e alzò gli occhi su di lui.
— I suoi documenti sono impeccabili, Mr. Ulam.
— Vergil, prego.
— Il suo curriculum universitario non è eccezionale, ma la sua esperienza di lavoro può senz’altro ovviare a questo. Suppongo che immagini ciò che adesso devo chiederle.
Lui allargò gli occhi con aria innocente.
— È stato un tantino vago circa quello che potrebbe fare per noi, Vergil. Mi piacerebbe saperne un po’ di più su come vorrebbe inserirsi nella Codon Research.
Lui gettò di nascosto un’occhiata all’orologio, non all’ora bensì alla data. Da lì a una settimana non ci sarebbe stata nessuna speranza o quasi di recuperare i suoi linfociti potenziati. Quella poteva davvero essere la sua ultima possibilità.
— Sono pienamente qualificato per qualunque lavoro di laboratorio, sia in fase di ricerca sia in fase industriale. La Codon Research ha ottenuto buoni risultati coi prodotti farmaceutici, e questo m’interessa, ma credo di potervi aiutare in ogni programma circa i biochip che intendiate sviluppare.
Gli occhi della direttrice del personale si strinsero di una frazione di millimetro. Non me la fai, pensò, la Codon Research sta già saltando sui biochip.
— Noi non abbiamo in programma di dedicarci ai biochip, Vergil. Tuttavia vedo qui che ha fatto un notevole lavoro coi prodotti collegati ai farmaceutici. Si è occupato di colture di tutti i generi. È il caso di dire che sarebbe prezioso per noi ma anche per una fabbrica di birra. — Era una versione annacquata di una vecchia battuta sulle fabbriche di vino. Vergil sorrise.
— C’è un problema, però. La valutazione che le hanno dato altre ditte in materia di sicurezza è di grado assai alto, ma quella che le ha affibbiato la Genetron, l’ultima presso cui ha lavorato, è disastrosa.
— Le ho spiegato che c’è alla base un conflitto di personalità…
— Sì, e di norma noi non siamo pignoli su questi particolari. La nostra compagnia è diversa dalle altre; infine, e se tutti i documenti di un potenziale dipendente sono soddisfacenti (e i suoi lo sono) non diamo peso a certe valutazioni altrui. Ma qualche volta io devo affidarmi all’istinto, Vergil. E qui c’è qualcosa che non mi torna. Lei ha lavorato ai programmi della Genetron per i biochip.
— In ricerche collaterali.
— Sì. Ci sta offrendo l’esperienza che ha acquisito alla Genetron? E questo è come dire: intende spiattellare i segreti del suo precedente datore di lavoro?
— Sì, e no — disse lui. — Prima di tutto, io non ero al centro del programma per i biochip. Non ero a conoscenza delle informazioni più riservate. Posso però offrirvi i risultati delle mie ricerche personali. Dal punto di vista legale, circa il lavoro privato che il contratto con la Genetron mi concedeva di fare, sono libero di mettere questi risultati a disposizione altrui. Ma c’è la complicazione che essi sono anche parte del lavoro di routine che ho fatto alla Genetron. — Sperò che quel seme cadesse su un terreno fertile. In esso c’era una menzogna — virtualmente sapeva tutto ciò che c’era da sapere sui biochip della Genetron — ma anche una verità, dal momento che sentiva che adesso lo stesso concetto dei biochip era sorpassato, nato morto.
— Mmh, mmh. — La donna tamburellò con le dita sui documenti. — Devo essere franca con lei, Vergil. Forse più franca di quello che è stato con me. Per noi rappresenta un po’ un’incognita, ma saremmo disposti a correre il rischio di assumerla… se non fosse per un particolare. Mr. Rothwild, della Genetron, è mio amico. Un amico di vecchia data. E mi ha passato alcune informazioni che peraltro si possono dire confidenziali. Non ha fatto nomi, e certo non poteva immaginare che un giorno lei si sarebbe trovato davanti alla mia scrivania. Ma mi ha detto che qualcuno alla Genetron stava lavorando su batteri NIH artificiali, e alterando il DNA di cellule di mammiferi. Sospetto fortemente che quel qualcuno sia lei. — Sorrise piacevolmente. — È così?
Nessun altro era stato licenziato o aveva abbandonato spontaneamente la Genetron da un anno a quella parte. Lui annuì.
— Era piuttosto indignato. Dice che lei è brillante, ma che darebbe dei guai a ogni compagnia che la assumesse. Ha detto d’averla minacciata di metterla sulla lista nera. Ora io so, e lui sa, che una minaccia del genere oggi non significa molto, per via delle leggi sul lavoro e degli interessi legati alla concorrenza. Ma in questa particolare occasione capita, per un caso, che la Codon Research sappia su di lei più di quel che ci farebbe piacere sapere. Glielo dico francamente perché non ci siano malintesi. E non rivelerò niente di tutto questo, anche se mi fosse richiesto. La vera ragione per cui non posso approvare la sua assunzione sta nel profilo psicologico. I suoi disegni sono troppo spaziati l’uno dall’altro, e indicano un’insana predisposizione all’autoisolamento. — Gli porse i suoi documenti. — Le sembra esatto?
Vergil annuì. Prese i fogli ed esitò. — Non conoscete Rothwild come pensate — disse. — Questo mi è già successo sei volte.
— Sì, be’, Mr. Ulam, la nostra è un’industria in crescita, è nata appena una quindicina di anni fa. Su certi argomenti le ditte private collaborano su una base di fiducia. Ufficialmente devono darsi una mano, anche se dietro le quinte si tagliano la gola a vicenda. È stato interessante parlare con lei, Mr. Ulam. Buongiorno.
All’esterno si volse a guardare la grande facciata della Codon Research, bianca nella luce accecante. Tanto per guardare cosa sto perdendo, pensò.
L’intero esperimento presto sarebbe svanito nel nulla. E forse non valeva neppure più la pena di prendersela tanto.
Stava guidando l’auto verso nord, fra collinette dorate su cui sorgevano vecchie querce contorte, aggirando laghetti cerulei e profondi ancora limpidi dopo le ultime piogge primaverili. L’estate non era mai stata così mite, e anche nell’entroterra la temperatura era sotto i venticinque gradi.
La Volvo rombò dolcemente lungo gli interminabili rettilinei della Statale 5, attraverso i campi di cotone e poi le verdi distese coltivate ad arachidi. Vergil tagliò sulla 580 per aggirare i sobborghi di Tracy, con la mente del tutto vuota e gli automatismi della guida come una panacea per le sue preoccupazioni. Dozzine di enormi generatori a vento sorgevano sui due lati della strada, con le braccia elicoidali larghe la metà di un campo di calcio.
Non s’era mai sentito meglio in vita sua, e questo gli dava da pensare. Da due settimane non starnutiva, al culmine della stagione-madre delle allergie. L’ultima volta che aveva visto Candice, per dirle che stava andando a far visita a sua madre, la ragazza aveva commentato il fatto che non starnutiva più e che il colore della sua pelle aveva acquistato tono, facendosi più sano e rosato.
— Ogni volta che ti guardo sei più attraente, Vergil — aveva sorriso, baciandolo. — Torna presto. Mi mancherai.
Ci vedeva meglio, si sentiva meglio… apparentemente senza giustificazione. Il suo sentimentalismo non era certo tale da fargli credere che l’amore curava tutto, anche volendo definire amore quel che provava per Candice. Cos’era dunque?
Qualcos’altro.
Non aveva alcuna voglia di pensarci, e si concentrò sulla guida. Dieci ore più tardi, quando girò nella South Vasco Road verso le colline, era però ancora tormentato da un vago senso di fastìdio. Scese sulla destra in East Avenue ed entrò nella parte bassa di Livermore, una cittadina californiana dalle case in pietra e mattoni rossi, i cui sobborghi s’erano estesi a circondare le vecchie fattorie di legno ora assediate dalle luci al neon e dai supermarket. Appena fuori città sorgeva il Lawrence Livermore National Laboratory, dove si progettavano armi nucleari.
Si fermò al Guinevere’s Pizza Parlor, e si costrinse a ordinare una pizza coi funghi, insalata e Coca Cola. Mentre ne aspettava l’arrivo, seduto in uno dei separé pseudo-medievali, si chiese oziosamente se i Laboratori Livermore avessero impianti che lui potesse utilizzare. Chi era più vicino al Dottor Stranamore: i fabbricanti di armi o il buon vecchio Vergil I. Ulam?
La pizza arrivò, e i suoi occhi vagarono sull’abbondante condimento di cui era coperta. — Una volta questa roba ti piaceva — si disse, sottovoce. Spilluzzicò appena la pizza e finì l’insalata. Lasciando sul tavolo metà del cibo ordinato si pulì la bocca, sorrise alla ragazza dietro il registratore di cassa e risalì in macchina.
Vergil non era mai troppo impaziente di rivedere sua madre. In un certo modo, imprecisabile e irritante, aveva bisogno di quelle visite saltuarie, ma non ne godeva molto.
April Ulam abitava in una secolare ma ben tenuta casa a due piani, in fondo alla First Street. L’edificio era dipinto in verde scuro e inalberava un tetto a mansarda. Due piccoli spazi coltivabili cintati da una cancellata fiancheggiavano gli scalini dell’ingresso, uno tenuto a giardino e l’altro a orto. La veranda era interamente schermata, con una porta a vetri montata su cardini cigolanti e fornita di una chiusura a molla ancor più cigolante. L’ingresso principale era un’austera porta di quercia sulla facciata, sormontata da una finestrella semicircolare, con un batacchio a forma di testa di leone.
Nessuna di quelle antiquate comodità stonava in una vecchia casa di una cittadina della California. Un colpo del batacchio bastò per far apparire sulla soglia sua madre, una donna svelta e snella dai capelli neri appena ingrigiti alle tempie, che quel giorno indossava un abito di seta color lavanda, a fiori, e due scarpette dorate a tacco alto. Salutò Vergil con un abbraccio intiepidito da una naturale riservatezza, e poi lo condusse all’interno stringendogli una mano con le sue dita fredde e sottili.
Nel soggiorno la donna sedette su una poltrona rivestita di velluto argenteo, allargando la leggera gonna floreale attorno a sé. Il locale si adattava bene al resto della casa, poiché era stato ammobiliato da una donna anziana (l’inquilina precedente) con articoli che sembravano messi insieme durante una vita lunga e piuttosto interessante. A lato della poltrona c’era un divano rigonfio, con un’imbottitura a fiorellini blu, e di fronte un tavolino d’ottone sul cui piano erano incisi in cerchi concentrici alcuni proverbi arabi. In tre degli angoli c’erano lampade in stile Tiffany, mentre nel quarto campeggiava una statua cinese Kwan-Yin scolpita in un tronco di tek alto due metri. Suo padre — a cui nelle conversazioni ci si riferiva solo come «Frank» — l’aveva portato da un viaggio a Taiwan, e Vergil, che all’epoca aveva tre anni, ne era rimasto spaventato a morte.
Frank li aveva abbandonati tutti e due nel Texas, quando Vergil aveva dieci anni. In seguito s’erano trasferiti in California. Sua madre non s’era risposata, dichiarando che preferiva essere libera. Vergil non era neppure sicuro che lei e suo padre avessero divorziato. Lo ricordava come un uomo scuro e magro, dal volto duro e dalla voce secca, poco intelligente e intollerante, fornito di una risata tonante con cui sottolineava i momenti in cui gli altri erano ansiosi o indispettiti. Neppure da adulto era mai riuscito a immaginare sua madre e suo padre a letto insieme, e non capiva come avessero potuto far vita comune per undici anni. Non aveva mai sentito la mancanza di Frank, se non in via puramente speculativa: la mancanza di un padre, dell’immaginaria condizione di avere un padre con cui parlare, da aiutare nei lavoretti, alla cui saggezza appoggiarsi nei suoi crucci di bambino. Ciò di cui aveva sempre sentito la mancanza era un padre di quello stampo.
— E così sei disoccupato — disse April, studiando il figlio con l’espressione che dedicava alle seccature di media entità.Vergil non aveva detto una parola del suo licenziamento, e non le chiese neppure come ne fosse a conoscenza. April Ulam aveva sempre avuto una mente acuta e un intuito che le consentiva di leggere molte cose sulla faccia di suo figlio, specialmente il particolare genere di guaio in cui riusciva a cacciarsi dopo il precedente.
Annuì. — Da cinque settimane.
— Qualche prospettiva?
— Nessuna che io possa vedere.
— Una volta non eri così pessimista sul tuo valore.
— Una volta non davo tanto valore al mio pessimismo.
Lei sorrise; ora le schermaglie verbali potevano cominciare. Suo figlio era sempre sveglio e spiritoso, quali che fossero gli altri suoi difetti. Non la rattristava saperlo disoccupato: quello era semplicemente il modo in cui andavano le cose, e lui avrebbe bevuto o sarebbe affogato. Nel passato, a dispetto di ogni difficoltà, aveva visto suo figlio restare sempre a galla, magari sputacchiando acqua e con goffe bracciate, ma non era andato mai sotto.
Non gli era mai capitato di doverle chiedere un po’ di soldi da quando era andato via di casa, dieci anni prima.
— Dunque sei venuto a vedere come se la cava la tua vecchia mamma.
— Come se la cava l’anulare della mia vecchia mamma?
— Libero, come al solito — disse lei. — Sei proposte di arricchirlo con un cerchietto nell’ultimo mese. È terribile diventare vecchi e non riuscire ad accorgersene, Verge.
Vergil ridacchiò e scosse il capo, sapendo che lei si aspettava proprio questo. — Qualche prospettiva?
Lei assunse un’aria ironica. — Neppure vaga. Nessuno può sostituire Frank… grazie al cielo.
— Mi hanno dato il benservito perché facevo esperimenti miei personali — le disse. Lei annuì e chiese se voleva il tè, vino o una birra. — Una birra, grazie — rispose.
Lei indicò la cucina. — Il frigorifero è al solito posto.
Vergil trovò una lattina di Dos Equis, asciugò il velo d’umidità con una manica e tornò in soggiorno. Sedette in una poltrona dallo schienale largo e bevve una lunga sorsata.
— Non apprezzavano le tue brillanti capacità? Scosse il capo. — Nessuno mi capisce, mamma.
Lei si volse alla finestra e fece un sospiro. — Neppure io. Ti aspetti di trovare un lavoro entro breve tempo?
— Questo me l’hai già domandato.
— Pensavo che chiedendotelo in modo diverso forse avresti trovato una risposta diversa.
— La risposta sarebbe la stessa anche se me lo chiedessi in Swahili. Non ne posso più di lavorare per qualcun altro.
— Il mio triste e incompreso figliolo.
— Mamma! — sospirò lui, vagamente irritato.
— Di cosa ti stavi occupando?
Le fece un breve resoconto dell’accaduto, del quale lei comprese poco salvo i punti essenziali. — Volevi imbastire un affare alle loro spalle, allora.
Lui annuì. — Se avessi potuto disporre di un altro mese, e se Bernard avesse visto… tutto sarebbe andato liscio come l’olio. — Spesso era evasivo con sua madre. Era imperturbabile, difficile da trattare e ancor più difficile da prendere in giro.
— E ora non saresti qui a far visita alla tua vecchia e stanca madre.
— Probabilmente no. — Vergil scrollò le spalle. — Inoltre c’è una ragazza. Voglio dire una donna.
— Se lascia che tu la chiami ragazza, non è una donna.
— È piuttosto indipendente. — Per un po’ le parlò di Candice, del suo iniziale anticonformismo e del suo graduale aderire a schemi più domestici. — Ormai mi sto abituando ad averla attorno. Cioè, non stiamo convivendo. Siamo in uno stadio in cui cerchiamo di scoprire se la cosa potrebbe funzionare. E io ho un’esperienza insuperabile come animale domestico. — April annuì e gli chiese di portarle una birra. Lui trovò una bottiglia ancora chiusa di Anchor Steam.
— Le mie unghie non sono abbastanza dure — disse lei.
— Oh! — Vergil tornò in cucina e la stappò.
— Dunque. Cosa ti aspetti che faccia per te un barone della chirurgia cerebrale come Bernard?
— Non si occupa di chirurgia cerebrale. Da anni s’interessa alla IA.
— IA?
— Intelligenza artificiale.
— Ah! — Lei ebbe un radioso sorriso di comprensione. — Sei disoccupato — riassunse, — forse innamorato, senza prospettive economiche. Riscalda fino in fondo il cuore della tua genitrice: c’è qualcos’altro che non mi hai detto?
— Sto sperimentando su me stesso, credo.
April spalancò gli occhi. — E come?
— Be’, quelle cellule che ho mutato. Per portarmele via ho dovuto iniettarle nel mio corpo. E da allora non ho potuto mettere piede in nessun laboratorio adatto. Così non le ho ancora recuperate.
— Recuperate?
— Separate dalle altre. Ce ne sono miliardi, mamma.
— Se queste cellule sono tue, perché te ne preoccupi?
— Non noti nulla di cambiato?
Lo scrutò un poco. — Non sei più così pallido, e ho visto che ora porti le lenti a contatto.
— Non ho nessuna lente a contatto.
— Allora è segno che hai smesso con quella tua insana abitudine di leggere al buio. — Scosse la testa. — Non ho mai capito la passione che ti spinge a maneggiare provette pieni di microbi e sostanze disgustose.
Vergil ebbe un sorriso incredulo. — Mi sbalordisci — disse. — E se non riesci a vedere quanto sia importante, allora…
— Non fare commenti screanzati sulla mia cecità mentale. Può darsi che io abbia dei pregiudizi, ma non intendo barattarli con altri ancora peggiori. Non quando vedo il mondo andare dove sta andando oggi a causa di gente con le tue stesse inclinazioni intellettuali. Gente che nelle loro fabbriche e nei laboratori ogni giorno fa un passo avanti verso il Giorno del Giudizio…
— Non condannare tutti gli scienziati basandoti su di me, mamma. Io non sono un tipico esponente della categoria. Sono un po’ più… — Lasciò a metà la frase e sogghignò. Lei di rimando inarcò un sopracciglio, nell’espressione che Vergil non era mai riuscito a decifrare.
— Un po’ più matto — gli disse.
— Non ortodosso — la corresse Vergil.
— Non capisco dove vuoi arrivare, Vergil. Che razza di cellule sono quelle? È roba che hai estratto dal tuo sangue per lavorarci sopra, hai detto. E allora?
— Possono pensare, mamma.
Sempre imperturbabile, lei non mostrò alcuna reazione. — Insieme… voglio dire tutte loro, o ciascuna per conto suo?
— Ciascuna per conto suo. Anche se negli ultimi esperimenti tendevano a raggrupparsi insieme.
— E sono amichevoli?
Vergil alzò al soffitto uno sguardo esasperato. — Sono dei linfociti, mamma. Non vivono certo nel nostro stesso mondo. Non possono essere ostili o amichevoli nel senso che diamo a queste parole. Per loro tutto è una reazione chimica.
— Se possono pensare vuol dire che sentono qualcosa, a meno che la mia esperienza di vita non sia balorda. O a meno che non siano come Frank. Naturalmente lui non era considerato granché, perciò il paragone non è esatto.
— Non ho mai avuto il tempo di scoprire a chi o cosa somiglino, né se riescano a ragionare secondo… quello che è il loro potenziale.
— Qual è il loro potenziale?
— Sei certa che capiresti una cosa simile?
— Ho l’aria di una che questi argomenti non li capisce affatto?
— Sì. O almeno ho i miei dubbi. Comunque non so quale sia il loro potenziale. È enorme, direi.
— Verge, c’è sempre un metodo nella tua follia. Cosa conti di guadagnare da questa faccenda?
La domanda lo bloccò. Non era mai riuscito a comunicare a quel livello — il livello delle ambizioni e degli scopi — con sua madre. Lei non capiva la sua necessità di portare a termine qualcosa di valido. Per lei ambizioni e scopi significavano non far ringhiare i vicini di casa troppo spesso. — Non lo so. Forse niente. Lasciamo perdere.
— Lascerò perdere. Dove andiamo a cena, stasera?
— Mangiamo un boccone al Moroccan.
— Mentre fanno la danza del ventre. Certo.
Di tutte le cose che non capiva di April, il culmine era rappresentato dalla camera da letto della sua infanzia. Coi giocattoli, il letto, i mobili, i poster alle pareti, la stanza era conservata non com’era quando lui se n’era andato, ma com’era stata quando lui aveva dodici anni. I libri letti a quell’età erano stati tolti dalle scatole in solaio, e allineati sul piccolo scaffale che un tempo era servito per i suoi libri scolastici. Quaderni, romanzi di fantascienza e fumetti convivevano ora coi pochi testi scientifici e di elettronica rimasti in casa.
Manifesti cinematografici — ormai già con un certo valore d’antiquariato — mostravano Robbie il Robot con sottobraccio una Anne Frances di dimensioni molto ingrandite nello scenario irreale di un pianeta alieno; Cristopher Lee con occhi arrossati e sogghignanti canini acuminati; il volto teso e stupefatto di Keir Dullea all’interno del suo elmetto spaziale.
A diciannove anni aveva staccato via tutti quei poster, arrotolandoli sul fondo di un baule. April li aveva tirati fuori dopo che lui era partito per il college.
Aveva anche resuscitato il suo scendiletto coi cacciatori e i cani. Il letto stesso aveva la familiarità delle cose lasciate nel dimenticatoio e lo seduceva col sapore di una fanciullezza che non era certo d’aver mai avuto veramente.
Ricordava gli anni della sua prima adolescenza come un’epoca di continue paure e angosce. Paure d’essere una specie di anormale, e d’essere stato in qualche modo responsabile della fuga di suo padre; angoscia per l’obbligo di doversi misurare con gli altri a scuola. E, misti a quei timori, momenti di esaltazione. L’euforia e la meraviglia che aveva provato nell’arrotolare una striscia di carta, unendone le estremità a formare il suo primo nastro di Moebius; il suo formicaio nella cassetta di vetro, le eliche a moto perpetuo mosse dal calore; il giorno in cui aveva trovato tutti i fascicoli degli ultimi dieci anni di Scientific Americans accanto a un bidone di rifiuti in una strada dietro casa sua.
Nella penombra della stanza, già mezzo addormentato, sentì una fitta alla colonna vertebrale. Si massaggiò la schiena distrattamente, poi con un’imprecazione si tirò a sedere sul letto e continuò a massaggiarsi con ambo le mani attraverso il pigiama, dall’alto in basso, nel tentativo di lenire il dolore.
Si portò le dita alla faccia e la tastò. La sentiva del tutto sconosciuta, la faccia di qualcun altro: zigomi estranei, guance misteriose, naso e labbra troppo sporgenti. Ma quando provò con l’altra mano la sentì normale. Unì le dita di entrambe le mani. La sensazione aveva qualcosa di sbagliato. Una mano era molto più sensibile del solito, l’altra quasi anestetizzata.
Col fiato mozzo e accelerato Vergil scese dal letto, attraversò il pianerottolo in cima alle scale e accese la luce nel bagno. Un dolore insopportabile gli attanagliava il torace. Dai piedi alle ginocchia gli correvano fremiti simili a miriadi di morsi di formiche. Non s’era mai sentito così male da quando aveva avuto la varicella, a dieci anni, un mese prima che suo padre se ne andasse. Tremante e quasi incapace di pensare si strappò via di dosso il pigiama e aprì la doccia, sperando di trovare sollievo sotto il getto d’acqua fredda.
La vecchia doccia sputacchiava stanchi rivoli d’acqua che gli scendevano lungo la testa e il collo, le spalle e la schiena, suddividendosi in filamenti giù per l’addome e le gambe. Entrambe le mani era adesso deliziosamente, dolorosamente sensibili, e l’acqua svegliava in esse centinaia di punture d’ago, calde e fredde, roventi e gelide. Allargò le braccia in fuori e gli parve di afferrare l’aria stessa come un oggetto solido pieno di protuberanze.
Per quindici minuti rimase sotto la doccia, ansimando di sollievo mentre il dolore calava, sfregandosi le zone ipersensibili della pelle coi polsi e il dorso delle mani fino a lasciarsi chiazze di forte rossore. Le mani cominciarono a formicolargli, poi quella sensazione si smorzò nel pulsare del sangue che tornava a circolare normalmente.
Chiuse il rubinetto e si asciugò, quindi si appoggiò al davanzale della finestra, nudo, lasciandosi investire dalla corrente d’aria fresca e ascoltando il frinire dei grilli. — Oh, Cristo! — sussurrò con enfasi. Si girò a esaminarsi nello specchio del bagno. Sul petto aveva numerose chiazze rosse lasciate dalla violenza con cui s’era grattato. Da sopra una spalla si osservò la schiena.
Da una scapola all’altra in un intreccio che gli scendeva lungo la colonna vertebrale vide una quantità di strisce pallide simili a una mappa stradale, proprio sotto la superficie dell’epidermide. Intanto che cercava di esaminarle meglio svanirono lentamente finché, confuso, fu costretto a chiedersi se le avesse viste davvero.
Col cuore che continuava a pulsargli forte Vergil sedette sulla tazza del gabinetto e appoggiò il mento sulle mani, fissandosi i piedi scalzi. Adesso che riusciva a pensare si sentiva spaventato.
Riuscì ad emettere una risata rauca, amara.
— Hai messo quei pargoletti al lavoro, mh? — chiese a se stesso in un sussurro.
— Vergil, ti senti bene? — chiese sua madre dall’altra parte della porta del bagno.
— Sì, sto bene — rispose lui. Bene e sempre meglio, ogni giorno.
— Non capirò mai gli uomini finché avrò vita e respiro — disse sua madre, versandosi un’altra tazza di caffè nero. — Sempre ad almanaccare qualcosa, sempre a cacciarsi nei guai.
— Io non sono nei guai, mamma. — Quelle parole non suonarono convincenti neppure a lui.
— No?
Scrollò le spalle. — Godo di buona salute, posso permettermi di stare alcuni mesi senza lavoro… e qualcosa dovrà pur succedere.
— Finora non ne hai neppure la speranza.
Questo era abbastanza vero. — Devo superare un po’ di depressione — disse, ed era un’aperta menzogna.
— Balle — replicò April. — Tu non sei mai stato depresso in vita tua. Non sai neppure cosa significa. Dovresti provare a essere una donna per qualche anno, e poi me lo sapresti dire.
Il sole mattutino indorava le sottili tende della finestra e riempiva la cucina di un piacevole tepore. — Qualche volta ti comporti come se io fosse un muro di mattoni — brontolò Vergil.
— Qualche volta lo sei. Santo cielo, Verge, sei mio figlio. Ti ho dato io la vita (penso che si possa sorvolare sul contributo di Frank) e ti ho allevato fino all’età di ventidue anni. Ma non sei mai cresciuto, almeno per quel che riguarda la tua sensibilità emotiva. Sei un ragazzo brillante, però non sei del tutto completo.
— E tu — sogghignò lui, — sei un pozzo di saggezza e di comprensione.
— Non punzecchiare chi è più anziano di te, Vergil. Io ti capisco e ti sono accanto più di quanto meriti. Ora sei in un grosso guaio, non è vero? Questo esperimento.
— Vorrei che tu non battessi su questo tasto, sul fatto che io sono lo scienziato e che mi sono iniettato qualcosa e così via… — Chiuse la bocca con una smorfia e intrecciò le braccia sul petto. Tutto cominciava ad apparirgli più spiacevole che mai. I linfociti che s’era iniettato erano senza dubbio ormai morti o decrepiti. Nelle provette avevano subito profonde mutazioni, probabilmente avevano acquisito un’incompetibilità con gli altri anticorpi e già da qualche settimana erano stati attaccati e divorati dai loro immutati ex fratelli. E ogni altra supposizione, semplicemente, non era suffragata da prove. La notte prima lui non aveva avuto altro che una complessa reazione allergica. Perché doveva mettersi a discutere proprio con sua madre la possibilità che…
— Verge?
— È stato bello vederti, April, ma penso che adesso farei meglio ad andare.
— Quanto tempo ti resta?
Alzandosi lui la fissò, scosso. — Non sto morendo, mamma.
— Per tutta la vita mio figlio ha lavorato per giungere al suo momento supremo. Ho la sensazione che sia arrivato, Verge.
— Queste sono sciocchezze, pura follia.
— Tu non hai fatto altro che dirmi cose folli, figliolo. Io non sono un genio, ma neppure una stupida. Hai affermato d’aver creato dei batteri intelligenti, e allora io ti dico questo… chiunque abbia disinfettato un gabinetto o pulito un secchio della spazzatura può rabbrividire all’idea di microbi che pensano. Cosa succederebbe se volessero combatterci, Verge? Rispondi questo alla tua vecchia mamma.
Non c’era nessuna risposta. Vergil non era neanche certo che il soggetto di quella discussione fosse in vita: tutto gli sembrava insensato. Ma avvertì una contrazione alla bocca dello stomaco.
Era già passato attraverso quel rituale, mettendosi nei guai e poi facendo visita a sua madre, a disagio e incerto, senza sapere neanche quale fosse precisamente il guaio. Con immancabile regolarità lei aveva sempre osservato la cosa da un altro punto di vista e identificato il suo problema, presentandoglielo in modo da farlo divenire inevitabile. Questo non era un servizio che riusciva a fargliela amare di più, ma la rendeva preziosa per lui.
Si fermò ad accarezzarle un braccio. Lei si volse e gli prese la mano fra le sue. — Vai via adesso?
— Sì.
— Quanto tempo ci resta, Vergil?
— Cosa? — Non capì cosa volesse dire realmente, ma d’un tratto gli occhi gli si riempirono di lacrime e fu scosso da un tremito.
— Ritorna da me, se puoi — disse lei.
Terrorizzato lui raccolse la valigetta, preparata la sera prima, corse giù per gli scalini fino alla Volvo, spalancò il baule e ve la gettò dentro. Aggirando l’auto batté malamente un ginocchio nel paraurti. La fitta di dolore gli salì lungo la gamba, poi rapidamente svanì. Sedette al volante e avviò il motore.
Sua madre era in piedi sulla porta della veranda, la gonna di seta che fluttuava nella lieve brezza mattutina, e dopo aver ingranato la marcia Vergil le fece un cenno con la mano. Normalità, pensò. Saluti tua madre. Parti.
Parti, sapendo che tuo padre non è mai esistito, e che tua madre è una strega. E questo cos’ha fatto di te?
Scosse il capo finché la vista non cominciò a confonderglisi, riuscendo in qualche modo a tenere l’auto in linea retta lungo la strada.
Una sottile cresta bianca si stagliava sul dorso della sua mano sinistra, come una cordicella appiccicata all’epidermide con del muco.
Un insolito temporale estivo aveva lasciato il cielo striato di nuvole, l’aria fresca, e la finestra della camera da letto dell’appartamento rigata di gocce d’acqua. La risacca del mare si udiva anche da quattro isolati di distanza: un mormorio intercalato dallo scrosciare dei cavalloni. Vergil sedeva davanti al suo computer, il palmo di una mano poggiato sul bordo della tastiera, le dita chiuse. Sul VDT una molecola di DNA roteava e si evolveva, circondata da una nebbia proteica. Piccoli lampi sulla struttura a doppia elica di zuccheri e fosfati indicavano le rapidissime intrusioni degli enzimi, che si disseminavano nei punti in cui la molecola codificava con essi. Una colonna di cifre scorreva lungo il bordo inferiore dello schermo. Gli occhi di lui le fissavano senza troppa attenzione.
Avrebbe dovuto parlare al più presto con qualcuno. Qualcuno che non fosse sua madre, e certo non Candice. La ragazza s’era trasferita da lui una settimana dopo il suo ritorno da Livermore, e ora si incaricava dei lavori domestici e di preparargli i pasti con ferma decisione.
A volte uscivano a far compere insieme, cosa che li divertiva. A Candice piaceva aiutare Vergil nella scelta dei vestiti più alla moda, e lui la lasciava fare, anche sapendo che la cosa intaccava il suo già scarso conto in banca.
Quando la ragazza gli faceva domande su cose che a lei non piacevano, i suoi silenzi si facevano sempre più prolungati. Si meravigliava che lui insistesse per fare all’amore al buio.
Suggeriva che andassero alla spiaggia, ma Vergil cambiava discorso.
Si preoccupava per tutto il tempo che lui trascorreva sotto le nuove lampade che aveva comprato.
— Verge? — Candice apparve sulla porta della camera da letto, vestita con un abito aderente ricamato di rose.
— Non chiamarmi così. È già abbastanza che lo faccia mia madre.
— Scusa. Abbiamo deciso di andare a cavalcare al parco degli animali. Ricordi?
Vergil si poggiò un dito sui denti e mordicchiò l’unghia. Parve non averla affatto udita.
— Vergil?
— Non mi sento molto bene.
— Non esci mai. Ecco perché.
— In questo momento mi sento bene — disse lui, girando la sedia. La fissò, senza offrirle una spiegazione a quella frase.
— Be’, non ti capisco.
Le indicò lo schermo. — Non hai mai lasciato che te lo spiegassi.
— Perché ti arrabbi quando io non capisco. — Candice s’imbronciò.
— È più di quanto io abbia mai creduto possibile.
— Che cosa, Vergil?
— Le concatenazioni. Le combinazioni. La forza.
— Per favore, sii chiaro.
— Sono in trappola. Sedotto, ma non abbandonato.
— Io non ti ho esattamente sedotto…
— Non tu, dolcissima — disse distrattamente lui. — Non tu.
Candice si accostò al tavolo cautamente, quasi che lo schermo potesse mordere. I suoi occhi erano un po’ persi nel vuoto e si mordicchiava il labbro inferiore. — Tesoro…
Lui stava annotando le cifre che apparivano sul VDT.
— Vergil.
— Mmh?
— Hai fatto qualcosa sul lavoro? Voglio dire prima che tu lo lasciassi, prima che ci incontrassimo.
Lui rialzò il capo, girandosi a fissarla dolcemente.
— Ad esempio coi computer? Ti è preso un attacco di follia e hai spremuto i loro computer?
— No — ghignò lui. — Non ho spremuto niente. Ho spremuto un po’ loro, forse, ma niente che possano mai scoprire.
— Perché ho conosciuto un tipo, una volta. Aveva fatto qualcosa di illegale e cominciò a comportarsi stranamente. Non usciva di casa e non parlava molto. Proprio come te.
— E che aveva fatto? — chiese Vergil, seguitando ad annotare cifre.
— Aveva rapinato una banca.
La sua penna s’immobilizzò. Sollevò gli occhi. Candice stava piangendo.
— Io gli volevo bene e quando l’ho scoperto ho dovuto lasciarlo — disse la ragazza. — È che non posso vivere con uno che fa queste cose.
— Non preoccuparti.
— Ero già sul punto di lasciarti, poche settimane fa — continuò lei. — Pensavo che quello che potevamo fare insieme, tu e io, lo avevamo già fatto, e che non c’era altro. Ma questo era idiota. Non avevo mai incontrato uno come te. Tu eri… pazzo. Pazzo simpatico, non un pazzo con la testa cattiva come altri che ci sono in giro. E ho pensato che se avessimo potuto capirci veramente questo sarebbe stato meraviglioso. Ti sono stata ad ascoltare quando mi spiegavi qualcosa, perché forse avresti potuto insegnarmi un po’ di biologia e di elettronica. — Accennò allo schermo. — Potrei cercare di ascoltarti. Mi piacerebbe, sul serio.
La bocca di Vergil si aprì lentamente. La richiuse di colpo e fissò lo schermo, sbattendo le palpebre più volte.
— Ho capito che ti amavo. Quando sei andato a casa di tua madre. Non è strano?
— Candice…
— E se tu avessi fatto qualcosa di davvero brutto questo ferirebbe me adesso, non te. — Si fece indietro coi pugni premuti alla base del collo, come se si stesse colpendo da sola, lentamente.
— Io non voglio fare del male a nessuno — disse Vergil.
— Lo so. Non è questa la tua intenzione.
— Potrei spiegarti tutto, se solo sapessi cosa sta succedendo a me. Ma non lo so. Non ho fatto nulla per cui potrebbero mettermi in prigione. Nulla d’illegale. — Salvo falsificazioni di documenti e registrazioni.
— Non puoi farmi credere che niente ti preoccupa. Perché non possiamo parlarne? — Andò a prendere una seggiola pieghevole nel bagno e la aprì, poggiandola a un paio di metri dal tavolo, poi sedette con le ginocchia compostamente unite.
— Ho detto sul serio. Non so cosa sia.
— Hai fatto qualcosa… a te stesso? Voglio dire, hai preso qualche malattia in quel laboratorio, o qualcosa del genere? Ho sentito dire che succede, e che medici e scienziati lavorando con le malattie a volte si contagiano.
— Tu e mia madre — sospirò lui, scuotendo il capo.
— Siamo preoccupate. Pensi che conoscerò tua madre?
— Per qualche tempo probabilmente no.
— Mi spiace che… — Lei si morse le labbra. — Voglio soltanto che esista la sincerità fra noi.
— Questo è giusto — annuì lui.
— Vergil?
— Sì?
— Tu mi ami?
— Sì — disse lui, e fu sorpreso nel sentire che era vero, anche se non aveva distolto gli occhi dallo schermo.
— Perché?
— Perché siamo molto simili — le disse. Non era del tutto certo di come fosse giunto a quella conclusione; forse perché entrambi portavano il marchio dei falliti, o di coloro che comunque non sarebbero mai emersi… il che per Vergil era l’equivalente del fallimento.
— Oh, andiamo!
— Sul serio. Forse tu non te ne sei accorta.
— Io non sono intelligente come te, questo è certo.
È questo ciò che stanno scoprendo quei minuscoli globuli bianchi? La sofferenza legata all’intelligenza, alla necessità di sopravvivere?
— Ti va di fare un giro in macchina oggi? Potremmo fermarci da qualche parte per un picnic. C’è il pollo freddo avanzato da ieri sera.
Lui annotò l’ultima colonna di cifre e capì che ora sapeva quello che aveva desiderato conoscere. I linfociti potevano senz’altro trasmettere la loro struttura biologica ad altri tipi di cellule.
Avevano modo di fare facilmente ciò che aveva sospettato gli stessero facendo.
— Sì — disse. — Un picnic sarebbe favoloso.
— E poi, quando saremo tornati… con le luci accese?
— Perché no? — Lei avrebbe dovuto sapere, prima o poi. E lui avrebbe trovato qualche scusa per spiegare il reticolo di linee bianche. Le creste sporgenti e mucose s’erano appiattite fin da quando aveva cominciato a irradiarle con le lampade UV, un piccolo favore di cui ringraziava Iddio.
— Ti amo — disse lei, immobile sulla sedia e continuando a guardarlo.
Lui registrò nella memoria elettronica la grafica e i calcoli, e spense il computer. — Te ne sono grato — disse sottovoce.