PROFASE OTTOBRE-DICEMBRE

IX

Irvine, California

Erano trascorsi due anni dall’ultima volta che Edward Milligan aveva visto Vergil. Adesso stentava a riconoscere il giovanotto abbronzato ed elegante che veniva sorridendo verso di lui. Il giorno prima s’erano accordati telefonicamente di pranzare insieme, dandosi appuntamento nel bar degli impiegati al nuovo Mount Freedom Medical Center di Irvine, davanti alla larga porta d’ingresso.

— Vergil! — Edward gli strinse la mano e poi gli girò attorno, esibendo un’esagerata espressione di meraviglia. — Dico, sei proprio tu?

— È un piacere rivederti, Edward. — Gli batté una mano su una spalla con energia. Aveva perso una dozzina di chili, e ciò che restava sembrava assai ben proporzionato. Alla scuola di medicina Vergil era stato un goffo e dinoccolato ragazzone senza il minimo gusto per i vestiti, che non si pettinava mai e propinava ai compagni di camera punch che rendevano azzurre le loro urine. E non aveva mai avuto un appuntamento salvo che con Eileen Termagant, la quale condivideva alcune delle sue caratteristiche fisiche.

— Hai un aspetto fantastico — disse Edward. — Hai trascorso l’estate a Cabo San Lucas?

Si misero in fila al bancone del self-service e cominciarono a riempirre i loro vassoi. — L’abbronzatura — disse Vergil prendendo un cartone di latte al cioccolato — è frutto di tre mesi sotto una lampada solare. Dall’ultima volta che ci siamo visti mi si sono raddrizzati i denti.

Edward lo scrutò da vicino e gli sollevò un labbro con la punta di un dito. — Li avevi storti, già. Ma sono ancora decolorati.

— Sì — annuì Vergil. Si passò una mano sulle labbra e fece un sospiro. — Be’, ti spiegherò anche il resto, ma è meglio cercare un posto dove si possa parlare in privato, o senza attrarre l’attenzione di nessuno.

Edward lo precedette verso l’angolo dei fumatori, dove tre appassionati della pipa avevano fatto il vuoto intorno a sei tavoli. — Sul serio mi stupisci — disse, mentre trasferivano sul piano di fòrmica il contenuto dei vassoi. — Sei cambiato. Non ti ho mai visto così in forma.

— Sono cambiato più di quel che credi — confessò Vergil in tono cupo da film dell’orrore, inarcando un sopracciglio per incrementare l’effetto. — Come sta Gail?

— Bene. Ci siamo sposati un anno fa.

— Ehi, congratulazioni! — Vergil abbassò un attimo lo sguardo sui suoi piatti: fette di ananas, formaggio di campagna e un pezzo di torta di banana alla crema. — Non noti altro in me? — chiese, con un filo di tensione nella voce.

Edward lo osservò attentamente. — Uh!

— Guardami bene.

— Non ne sono certo. Be’, sì. Non hai gli occhiali. Lenti a contatto?

— No. Non ho più bisogno di lenti.

— E sei un figurino. Chi è che ti sceglie i vestiti? Spero che sia carina quanto ha buon gusto.

— Candice — annuì lui, col suo vecchio e familiare sogghigno autodeprecatorio. Ma negli occhi ebbe un lampo di strana malizia. — Sono stato licenziato. Quattro mesi fa. Adesso vivo sulle spese.

— È dura — disse Edward. — Ma questo è un mondo duro. Perché non me lo racconti dal principio? Avevi un lavoro. Dove?

— Ultimamente ero alla Genetron, nella Enzyme Valley.

— A nord della Torrey Pine Road?

— Proprio lì. Un posto infame. E ne sentirai parlare presto. Stanno producendo materiale a spron battuto, e invaderanno il mercato. Si sono dedicati ai MAB, con successo.

— Biochip?

Lui annuì. — Ne hanno alcuni che funzionano.

— Cosa? — Edward lo fissò stupito.

— Circuiti logici microscopici. Tu li inietti nel corpo di un malato, e loro mettono su bottega nei punti predeterminati. Il tutto con l’approvazione del Dr. Michael Bernard.

Le sopracciglia di Edward balzarono all’insù. — Gesù, Vergil! Bernard è quasi un santo, oggi. È stato sulla copertina di Mega e di Rolling Storie neanche due mesi fa. Perché mi dici tutto questo?

— Si suppone che sia ancora un segreto… il progetto, il colpo a sorpresa sul mercato e il resto. Ma io ho qualche contatto alla Genetron. Conosci Hazel Overton?

Edward scosse il capo. — Dovrei?

— Probabilmente no. Penso che detesti a morte i miei metodi. D’altra parte ha per me una specie di astioso rispetto. Due mesi fa mi ha dato un colpo di telefono e mi ha chiesto se volevo far pubblicare a mio nome un suo studio sul fattore-F nei geni dell’E. Coli. - Si guardò attorno e abbassò la voce. — Tu puoi fare quel che diavolo credi. Ma io voglio tirare lo sgambetto a quei bastardi.

Edward fischiò fra i denti. — Vuoi farmi arricchire, eh?

— Se è questo ciò che desideri. Oppure puoi starmi ad ascoltare un momento, prima di correre dal tuo agente a dirgli su quali azioni buttarsi.

— Naturalmente. Voglio saperne di più.

Vergil non aveva ancora toccato il formaggio e la torta, però aveva mangiato l’ananas e bevuto il latte al cioccolato. — Circa cinque anni fa dovetti cominciare dal niente, e senza aiuto. Col mio diploma della scuola di medicina e l’esperienza che avevo nei computer era inevitabile che puntassi sulla Enzyme Valley. Andai avanti e indietro per tutta la Torrey Pine Road coi miei scartafacci in mano, e fui assunto dalla Genetron.

— Così, semplicemente?

— No. — Vergil infilò un pezzetto di formaggio, poi depose la forchetta. — Avevo rimaneggiato un po’ i miei documenti. Diplomi, risultati di esami, questo tipo di cose. Nessuno ha mai avuto sospetti. Fin dal principio feci un buon lavoro, e sviluppai per loro strutture proteiche necessarie alle ricerche preliminari sui biochip. La Genetron ha impianti costosi, e ci veniva dato tutto il necessario. Quattro mesi più tardi avevo il mio laboratorio personale, e inoltre il permesso di condurre ricerche indipendenti. Feci subito dei passi avanti in un campo nuovo. — Mosse una mano con fare noncurante. — Poi cominciai a uscire dalle loro regole. Portavo avanti il mio lavoro normale, ma era questione di tempo… la direzione scoprì tutto e mi fece fuori. Io ho agito in modo da… salvare i miei esperimenti. Però non sono stato precisamente accorto, né prudente. Così adesso l’esperimento continua fuori dal laboratorio.

Edward aveva sempre ritenuto Vergil un ambizioso, con più che una semplice tendenza a comportamenti anormali. Durante il periodo scolastico le sue relazioni con le autorità della scuola erano state tutt’altro che lisce. Già da tempo Edward aveva concluso che per Vergil la scienza era come una donna affascinante e irraggiungibile, la quale gli aveva aperto le braccia prima che lui fosse pronto per una relazione adulta… mettendogli addosso la paura di non saper sfruttare l’occasione, di non riscuotere il premio finale, di veder fuggire il suo obiettivo. All’apparenza l’aveva però raggiunto. — Fuori dal laboratorio? Non ti seguo.

— Voglio che tu mi esamini. Una visita medica completa. Forse anche i test sul cancro. Poi ti spiegherò tutto.

— Vuoi esami per un migliaio di dollari, insomma?

— Tutto quello che puoi farmi. Ultrasuoni, NMR, PET, termografie, e ogni altra analisi.

— Non so se potrò avere accesso a queste apparecchiature, Vergil. Le attrezzature per il PET a gamma intera sono state montate qui solo da un paio di mesi. Diavolo, non puoi accontentarti di uno economico…

— Allora ultrasuoni e NMR. Non avrai bisogno d’altro.

— Io sono un ostetrico, Vergil, non uno di questi brillanti astri del laboratorio. Potrei occuparmi a fondo di te solo se tu fossi una donna.

Vergil si protese avanti e uno dei suoi gomiti fu sul punto di poggiarsi sulla fetta della torta, ma la evitò per un millimetro all’ultimo istante. Il vecchio Vergil l’avrebbe spiaccicata. — Se mi visiti con attenzione vedrai che… — Socchiuse gli occhi e scosse il capo. — Visitami. È questo che ti chiedo.

— Va bene, prenderò appuntamento per gli ultrasuoni e il NMR. Ma chi è che paga?

— Ho un conto spese medico. L’ho inserito fra i miei documenti nel computer della Genetron, prima di andarmene. Posso arrivare a mille dollari senza che nessuno sospetti o controlli. E tutto dovrà restare assolutamente confidenziale.

Edward scosse la testa. — Stai chiedendo molto, Vergil.

— Vuoi scrivere il tuo nome nella storia della medicina, o no?

— È uno scherzo?

Vergil lo fissò. — Non per te, amico.


Edward si occupò delle formalità quel pomeriggio, riempiendo lui stesso i moduli. Da quel che sapeva della metodologia dell’ospedale, finché le prestazioni venivano pagate la maggior parte degli esami poteva essere eseguita senza darne nota ufficialmente. Per il suo servizio non chiese nulla. Dopotutto Vergil lo aveva fatto orinare azzurro. Erano amici.

Al termine del suo orario rimase in ufficio, e chiamò Gail per spiegargliene brevemente il motivo. Lei sospirò, come sospirano le mogli dei medici, e disse che gli avrebbe lasciato una cena fredda sul tavolo per quando fosse tornato a casa.

Vergil venne in ospedale alle dieci di sera e s’incontrò con Edward nella saletta dove s’erano dati appuntamento, al terzo piano di quello che le infermiere chiamavano il Padiglione Frankenstein. Seduto su una sedia di plastica arancione Edward depose la copia di My Things che stava leggendo, e notò che l’amico sembrava sperduto e preoccupato. Sotto le lampade fluorescenti la sua pelle aveva una tonalità verdolina.

Edward fece segno all’infermiera del turno di notte che quello era il suo paziente, e tenendolo per un gomito lo condusse nel reparto esami. Nessuno dei due parlò molto. Appena Vergil si fu spogliato lo fece distendere sul lettino mobile di fronte a una grossa apparecchiatura. — Hai le caviglie gonfie — disse, palpandogliele. Erano solide, per niente molli. Robuste, anche se diseguali. — Mmh! — borbottò Edward, un po’ stupito. Vergil inarcò un sopracciglio come per dire: «Ancora non hai visto niente».

— Va bene. Adesso ti farò una dozzina di stratigrafie soniche, poi trasformeremo i risultati in un’immagine video. — Dispose le membra di Vergil in modo che non vi fossero zone celate all’indagine dell’apparecchiatura. Poi girò il lettino e lo spinse nell’orifizio cilindrico — l’alveare, come lo definivano le infermiere — che sarebbe stato saturato dagli ultrasuoni. Dopo dodici stratigrafie diversamente orientate, dalla testa ai piedi, lo tirò fuori. Vergil aveva gli occhi chiusi e sudava un tantino.

— Ancora la claustrofobia? — s’informò Edward.

— Non come una volta.

— L’NMR sarà un po’ peggio.

— Guidami con cuore saldo, McDuff.

Lo scandaglio computerizzato NMR era un impotente parallelepipedo in cromo e plastica azzurra, e occupava quasi per intero un locale, lasciando appena lo spazio per manovrare col lettino a rotelle. — Ti avverto che in questo non sono un esperto, così potrà occorrermi un po’ più di tempo — disse Edward, spingendo Vergil nella cavità rettangolare.

— È il prezzo che paghiamo alla scienza — mugolò Vergil, e quando Edward bloccò il portello trasparente chiuse gli occhi. I massicci magneti che circondavano il suo corpo ronzarono per un quarto d’ora. Edward istruì il computer di trasferire i dati ai terminali diagnostici della stanza accanto, quindi aiutò l’amico a uscire.

— Tutto bene? — gli chiese.

Courage - sospirò Vergil in francese.

Nel locale di diagnostica Edward accese un grande schermo VDT e chiese immagini integrate dei dati medici. Nella penombra il video balenò alcuni secondi, poi cominciarono a prender forma contorni riconoscibili.

— Ecco il tuo scheletro — disse Edward. Poi corrugò le sopracciglia, mentre sullo schermo apparivano gli organi del torace, quindi i muscoli, e infine il sistema vascolare e la pelle.

— Quanto tempo è trascorso dall’incidente? — domandò Edward, accostando il volto allo schermo. Non riuscì a reprimere un moto di sorpresa.

— Non ho avuto nessun incidente — rispose Vergil.

— Gesù! Ti hanno minacciato per farti tenere il segreto?

— Tu non vuoi capirmi, Edward. Guarda ancora l’immagine. Non c’è segno di traumi.

— E questi ispessimenti ossei come li chiami? — replicò lui, indicando l’articolazione tibio-tarsica bilaterale. — E le costole… tutte queste stranissime sporgenze a zig-zag. Ci sono state delle fratture, è ovvio. E qui…

— Osserva la mia colonna vertebrale — suggerì Vergil. Edward fece ruotare l’immagine posteriormente.

Per un attimo l’eco di quel nome, «Padiglione Frankenstein», lo fece trasalire. Ciò che vedeva era fantastico. Invece che da vertebre, la colonna di Vergil appariva composta da una fila di ossa triangolari, connesse fra loro in modo che lui non riuscì affatto a decifrare. E ancora meno a comprendere. — Ti spiace farti palpare un momento?

Vergil scosse il capo. Edward gli alzò la maglietta sulla schiena e fece scorrere le dita sulla spina dorsale. Con gli occhi levati al soffitto l’amico si lasciò premere e tocchettare.

— Non riesco a identificare… — borbottò Edward. — È morbida. C’è qualcosa di flessibile, ma più forte premo e più lo sento duro. — Girò di fronte a Vergil, accarezzandosi il mento. — Cristo, ma tu non hai i capezzoli! — esclamò. Sui muscoli pettorali c’erano due chiazze tonde e rosate, ma nessuna traccia di capezzoli.

— Visto? — disse Vergil. — Sono stato ricostruito, dall’interno all’esterno.

— Merda! — sussurrò Edward. Vergil ne sembrò sorpreso.

— Non puoi negare ciò che ti dicono gli occhi — sospirò. — Io non sono la stessa persona che ero quattro mesi fa.

— Non so di cosa stai parlando! — Edward tornò allo schermo, fece ruotare le immagini, passò attraverso serie di organi e tessuti, e costrinse l’NMR a mostrargli tutti i dati da angolazioni diverse.

— Hai mai visto niente di simile a me? Voglio dire, strutture organiche di questo genere.

— No — disse Edward con voce piatta. Si allontanò dalla tastiera. Di fronte alla porta chiusa si volse, con le mani nelle tasche del camice. — Dove… che cosa diavolo hai fatto?

Vergil glielo raccontò. La storia emerse in una spirale di fatti e deduzioni così legati all’irreale che per seguirla senza perdere il filo Edward dovette concentrarsi al massimo.

— Come hai fatto — chiese, — a ottenere un DNA capace di codificare e decodificare le informazioni?

— Per prima cosa devi trovare un tratto di DNA che codifichi per la iso-topomerasi e la p-girasi. Poi colleghi questo segmento al tuo DNA campione per abbassarne la valenza… sino a rendere negativa la valenza dell’intera molecola. Nei primi esperimenti usavo l’ethidium, ma…

— Semplifica, per favore. Sono anni che non parlo di biologia molecolare.

— Quel che devi ottenere è un frammento di DNA che funga da substrato per l’input, e l’uso di un enzima inserisce appunto un «feedback» che ha questo effetto. Quando il cappio elastico del «feedback» è a posto, la molecola si apre all’inserimento-dati con molta facilità, e più rapidamente. Il tuo programma può essere trascritto sopra due catene di RNA. Una di queste catene RNA diventerà il decodificatore, un ribosoma, per il contatto con le sostanze proteiche. Come inizio il primo RNA porterà un semplice codice-chiave, di apertura…

Edward appoggiò le spalle alla porta e continuò ad ascoltarlo per mezz’ora. Quando capì che Vergil non aveva alcuna intenzione di rallentare, e ancor meno di fermarsi, alzò una mano. — E come può tutto questo condurre all’intelligenza?

Vergil si accigliò. — Non ne sono ancora sicuro. Stavo appena cominciando a scoprire come si riproducono i circuiti logici più semplici. L’intera gamma dei geni sembra predisposta ad aprirsi spontaneamente a questo processo. Ce n’erano tratti interi che, te lo giuro, erano già codificati per specifiche funzioni raziocinanti… ma all’epoca credevo fossero semplici introni, sequenze che non codificano per le proteine. Sai, residui di forme primitive, non ancora eliminati dall’evoluzione. Sto parlando degli eucarioti, adesso. Gli eucarioti non hanno introni. Ma negli ultimi mesi ci ho pensato molto. Senza lavoro, ho avuto un bel po’ di tempo per pensare. Elucubrazioni.

Tacque e scosse il capo, intrecciando nervosamente le dita senza smettere.

— E allora?

— È molto strano, Edward. Sin dalla scuola di medicina sentiamo parlare di «geni individuali», e del fatto che la mescolanza degli individui non ha altro scopo che creare combinazioni genetiche. Dalle uova nascono galline che fanno altre uova, magari migliori. E la scienza sembrava credere che gli introni fossero soltanto geni che non hanno scopo, a parte quello di riprodurre se stessi nelle funzioni cellulari. E tutti accettavano questa opinione, dicendo che erano dei sovrappiù inutili. Per questo non ho sentito alcun senso di colpa lavorare coi miei eucarioti, coi miei introni. Diavolo, erano roba sacrificabile, il deserto genetico. Dunque potevo usarli per costruire quel che mi pareva. — Di nuovo tacque, ma Edward non intervenne. Vergil lo fissò con occhi velati. — Non vedevo colpa in me. Ero sedotto dalla ricerca.

— Io non ti sto giudicando, Vergil. — La voce di Edward suonò tesa, sull’orlo dell’irritazione. Era stanco, e in lui tornavano vecchi ricordi sull’indifferenza di Vergil per le opinioni altrui; era esausto, anzi, mentre Vergil andava a ruota libera senza dire nulla che per lui avesse un senso.

Vergil abbatté un pugno sul bordo del tavolo. — Loro mi hanno condotto a farlo. Quei maledetti geni!

— Perché mai, Vergil?

— Perché non vogliono più aver bisogno di noi. Il gene individuale per eccellenza. Io credo che in tutto questo tempo il DNA abbia cercato di evolversi fino al punto in cui io l’ho portato. Di diventare adulto, di andarsene di casa, facendo pressione su questo o su quello per ottenere infine da noi ciò che oscuramente voleva.

— Queste sono parole, Vergil.

— Tu non ci hai lavorato sopra, non hai provato quel che ho provato io. Per ottenere questi risultati ci sarebbe voluta un’intera squadra di ricerca, delle dimensioni del Progetto Manhattan. Io sono brillante, ma non brillante fino a questo punto. I risultati andavano a posto da soli. È stato troppo facile.

Edward si sfregò gli occhi. — Adesso ti preleverò sangue, feci e urine.

— A che scopo?

— Per scoprire cosa ti sta succedendo.

— Te l’ho appena detto.

— Mi hai detto delle cose pazzesche.

— Edward, tu hai visto quello schermo. Non porto più gli occhiali, l’artrosi dorsale è scomparsa, non ho un attacco d’allergia da quattro mesi e non ho avuto malattie. Avevo una vasta gamma d’allergie che mi procurava tutta una serie di infiammazioni. Non più raffreddore, non più infezioni, niente. Non mi sono mai sentito tanto bene.

— Così in te ci sono dei linfociti mutanti, e intelligenti, che scovano le magagne e le correggono.

Lui annuì. — Ora come ora, ogni gruppo di cellule è intelligente quanto te o me.

— Non avevi parlato di «gruppi».

— Sono soliti riunirsi, in sospensione. Forse due o trecento cellule. Non sono mai riuscito a immaginarne il perché. Ma adesso mi sembra ovvio: collaborano.

Edward lo guardò. — Sono piuttosto stanco.

— Da come la vedo io, ho perso peso perché loro hanno migliorato il mio metabolismo. Ho ossa più robuste. La mia colonna vertebrale è stata ricostruita…

— Il tuo cuore sembra anormale.

— Non so niente del mio cuore. — Esaminò da vicino l’immagine computerizzata. — Gesù! Voglio dire, non ho potuto seguire l’andamento di tutto questo da quando ho lasciato la Genetron; potevo solo fare deduzioni e preoccuparmi. Tu non sai che sollievo sia parlarne con qualcuno che può capire.

— Io non capisco.

— Edward, l’evidenza parla da sé. Ti stavo dicendo del grasso. Loro possono incrementare le cellule che desiderano alterando il mio metabolismo. Le mie abitudini alimentari sono cambiate, infatti. Ma non sono ancora riusciti a toccarmi il cervello. — Si batté un dito su una tempia. — Loro capiscono le glandole e il resto. È il loro ambiente. Ma non hanno la visuale del quadro completo, se afferri quel che voglio dire.

Edward controllò le pulsazioni di Vergil e i riflessi. — Penso che faremmo meglio a occuparci delle ultime analisi, e poi a dire basta per stasera.

— E non voglio che escano nella mia pelle. Questo mi ha spaventato sul serio. C’è stata una notte in cui hanno cercato di uscire sulla mia epidermide, e allora ho deciso di passare all’azione. Ho comprato alcune lampade al quarzo. Volevo tenerli sotto controllo, in ogni caso. Capisci? Cosa succederebbe se oltrepassassero la barriera fra il sangue e il cervello, e scoprissero me… le mie funzioni cerebrali? Immagino che il motivo per cui volevano impadronirsi anche della mia pelle fosse perché era più semplice stabilire i loro collegamenti lungo la superfice del corpo. Molto più facile che mantenere le comunicazioni attraverso i muscoli, gli organi e il sistema vascolare; molto più diretto. Ora alterno le lampade a raggi ultravioletti con quelle al quarzo, per sterilizzarli. Per tenerli fuori dalla mia pelle, in profondità, finché posso. E adesso sai perché vado in giro con una bella abbronzatura.

— Rischi un cancro alla pelle, anche — disse Edward, automaticamente.

— Questo non mi preoccupa. Loro lo leverebbero di mezzo, come piccoli poliziotti.

— D’accordo. — Edward sollevò le mani in un gesto rassegnato. — Ti ho fatto gli esami. Tu mi hai raccontato una storia che io non posso accettare. Cosa vuoi che faccia?

— La mia noncuranza è solo una maschera. Sono spaventato, Edward. Vorrei poter trovare un modo migliore di controllarli prima che scoprano cos’è il mio cervello. Capisci? Pensaci. Sono miliardi, adesso, e di più se hanno indotto la mutazione in altri tipi di cellule. Forse triliardi. E ciascun gruppo è intelligente. Io sono probabilmente la creatura che contiene più intelligenza di tutto il pianeta, e loro non hanno ancora cominciato ad agire veramente insieme. Non voglio che abbiano il sopravvento su di me. — Ebbe una risata acre. — Rubarmi l’anima, capisci? Cosi, cerca di trovare un trattamento che li blocchi. Magari possiamo eliminare le pulci facendole morire di fame. Ti chiedo solo di pensarci. E dammi un colpo di telefono.

Recuperò i pantaloni e diede a Edward un biglietto con l’indirizzo e il numero di telefono. Poi andò alla tastiera del computer e cancellò le immagini, eliminandole anche dalla memoria elettronica. — Soltanto tu. Nessun altro, per ora. E per favore… non perdere tempo.

Era l’una del mattino quando Vergil uscì dal reparto esami dopo aver terminato i prelievi. Nel grande andito strinse la mano a Edward, e il suo palmo era umido di sudore nervoso. — Stai attento coi campioni per le analisi — disse. — Bada a non inghiottire niente.

Edward seguì con gli occhi l’amico che attraversava il parcheggio fino alla sua Volvo rossa. Poi si volse e tornò lentamente al Padiglione Frankenstein. Mise un cc. del sangue di Vergil in una provetta, e alcuni cc. di urina in un’altra, quindi le inserì entrambe in un analizzatore automatico. Voleva avere i risultati per il mattino dopo, chiedendoli sul VDT del suo ufficio. Il campione di feci avrebbe richiesto un lavoro manuale, ma quello poteva aspettare; ormai si sentiva sfinito. Il suo orologio segnava le due.

Si tolse il camice, spense le luci e andò a gettarsi su un letto senza spogliarsi. Detestava dormire in ospedale. Quando Gail si sarebbe svegliata, verso le sei di quel mattino, avrebbe trovato un messaggio nella segreteria telefonica… un messaggio, ma nessuna spiegazione. Si domandò cosa gli sarebbe convenuto lasciarle detto.

— Soltanto che ho visto il buon vecchio Vergil — mormorò.

X

Edward si fece la barba con un vecchio rasoio a mano libera che teneva nel cassetto della scrivania per simili emergenze, si esaminò allo specchio dello spogliatoio dei medici e con espressione critica si passò una mano sulle guance. Nei suoi anni di studente aveva usato quel rasoio con regolarità, per snobismo; da allora aveva perso la mano, e la sua faccia ne era la prova: tre taglietti suturati con piccoli pezzi di tessuto emostatico. Controllò l’orologio. La batteria doveva essere quasi scarica perché le cifre digitali vacillavano. Gli diede un colpetto irritato e i cristalli si accesero: le 6,30 del mattino. Gail doveva essere già in piedi e vestita, pronta per andare a scuola.

Nel salotto riservato ai medici mise due quarti di dollaro nel telefono a gettone, sistemandosi nervosamente nel taschino del camice le penne e le matite.

— Pronto?

— Gail? Sono Edward. Ti amo, e mi dispiace.

— Una voce idealizzata dal telefono mi ha svegliata, poco fa. Poteva essere quella di mio marito. — Gail aveva una voce deliziosa, che per telefono gli dava ancora un brivido. Era stato così che l’aveva conosciuta, senza vederla in viso, parlandole al telefono in casa di un amico comune.

— Già. Be’…

— E subito dopo ha chiamato Vergil Ulam. Mi è parso ansioso. Erano anni che non gli parlavo.

— Gli avrai detto…

— Che tu sei ancora in ospedale, naturalmente. Oggi il tuo turno è alle otto?

— Come ieri. Due ore coi neolaureati in laboratorio, e sei di visite.

— Ha chiamato anche la signora Burdett. Giura che il suo piccolo Tony, o Antoinette, sta fischiando dentro di lei. Dice che può sentirlo.

— E la tua diagnosi? — sogghignò Edward.

— Gas.

— Ad alta pressione, direi — aggiunse lui.

— Forse ha un utero a vapore — ipotizzò Gail. Risero insieme, e Edward sentì il mattino diventare realtà. La sera prima aveva brancolato nelle nebbie della fantasia, ma adesso era al telefono con sua moglie, a scambiare battute su un feto musicista. Questa era la normalità. Questa era la vita.

— Questa sera ti porto fuori — le disse. — Un’altra cena alla Heisenberg.

— E cosa sarebbe?

— Il Principio d’Indeterminazione — spiegò vivacemente lui. — Sapremo dove andremo ma non cosa mangeremo. O viceversa.

— Sembra affascinante. Con la sua auto, magari.

— Ovvio. Ha una Quanta che supera la velocità della luce.

— Specialmente da quando Einstein ha revisionato la sua meccanica — ridacchiò Gail. Po la sua voce tornò seria. — Smettiamola d’imbrogliare, adesso.

— Non sei tu che mi imbrogli sempre?

Gail emise un borbottio. — Vergil farebbe meglio a chiamarti durante le ore di ufficio. Perché vuole vederti, comunque? Pensa di cambiare sesso? — Il pensiero tornò a farla ridere, finché cominciò a tossire. A lui parve di vederla mentre deponeva la sigaretta e con una mano schiariva l’aria attorno a sé. — Scusa. Sul serio, Edward, perché?

— È confidenziale, amore mio. In ogni modo non sono sicuro di saperlo. Forse più tardi.

— Andata. Alle sei?

— Facciamo alle cinque e mezzo.

— Starò ancora esaminando i miei videonastri.

— Li butterò dalla finestra.

— Delizioso, Edward.

Lui mise una mano a coppa intorno al microfono e amplificò il rumore di un bacio prima di riattaccare. Poi, sfregandosi le guance per accartocciare e staccar via i pezzetti di tessuto emostatico, andò all’ascensore e salì al terzo piano del Padiglione Frankenstein.

L’analizzatore automatico ronzava allegramente, saggiando coi suoi sensori dozzine di provette contrassegnate. Edward sedette al terminale dell’ufficio e chiese i risultati dei test di Vergil. Sulloschermo apparvero colonne di cifre. La diagnosi suggerita era insolitamente vaga. Le anomali erano evidenziate da caratteri rossi.


24 cc./siero/conteggio: 10.000 linfoc. mm3

25 cc./siero/conteggio: 14.500 linfoc. mm3

26 cc./controllo/conteggio: 15.000 linfoc. mm3

DIAGNOSI (???) Quali sono gli altri sintomi? Se la milza e i gangli linfatici mostrano gonfiore: possibile DIAGNOSI: il paziente (nome? pratica?) è all’ultimo stadio di una grave infezione.

Suggerimenti: conteggio istamina, conteggio livello proteico nel sangue, conteggio fagociti.

DIAGNOSI (???) (campioni sanguigni non-conclusivi) Se soggetto è anemico: dolori articolari, emorragie, febbre.

Possibile DIAGNOSI: Incipiente leucemia linfocitica. Suggerimenti: niente medicine. Attendere conferma diagnosi da successivi conteggi dei linfociti.


Edward chiese una copia scritta di tutte le analisi e la stampatrice gli fornì in silenzio un lungo foglio colmo di cifre. Lo studiò, accigliato, poi lo ripiegò e se lo mise in tasca. I risultati dell’esame delle urine sembravano abbastanza normali, quelli del sangue erano diversi da qualsiasi altro avesse mai visto. Non aveva bisogno di analizzare le feci per stabilire una linea di condotta: ricoverare il paziente in ospedale sotto osservazione. Tirò a sé il telefono e compose il numero di Vergil.

Al secondo squillo una pacata voce femminile rispose: — Casa Ulam, qui è Candice.

— Posso parlare con Vergil, per favore?

— Chi devo dirgli che lo desidera? — Il tono di lei era così formale da sembrare comico.

— Edward. Lui mi conosce bene.

— Naturalmente. È il medico. Aspettava questa sua chiamata. — Una mano coprì il microfono, smorzando la voce di lei, rauca e un po’ tesa: — Vergil! Il dottore.

Vergil ansimò, impaziente: — Edward! Che mi dici?

— Salve, Vergil. Ho alcuni risultati degli esami, non molto conclusivi. Però vorrei parlarti, qui, in ospedale.

— Cosa dicono questi esami?

— Che tu sei molto malato.

— Sciocchezze.

— Ti sto solo riferendo la diagnosi dell’analizzatore automatico. Un conteggio troppo alto dei linfociti…

— È naturale. Questo si accorda perfettamente…

— E un’incredibile varietà di proteine e detriti vari nel tuo sangue. Istamine. Sembri uno che stia morendo di qualche grave infezione.

Sul filo ci fu un lungo silenzio, poi Vergil disse: — Non sto morendo.

— Credo che tu dovresti venire qui e lasciarti fare altri esami. Chi ha risposto al telefono? Candice? Lei…

— No, Edward. Io ho chiesto il tuo aiuto. Lasciamone fuori gli altri. Sai bene ciò che penso degli ospedali.

Edward ebbe una risata secca. — Vergil, io non ho la competenza per farti una diagnosi da solo.

— Ti ho già detto di che si tratta. Adesso devi aiutarmi a tenerli sotto controllo.

— Questa è pazzia, cose senza senso, Vergil! — Edward si batté con forza un pungo su un ginocchio. — Scusa. Forse la mia reazione è eccessiva. Ma spero che tu ne capisca il motivo.

— Io spero che tu capisca come mi sento io in questo momento. Sono su di giri. E sto sudando freddo di paura. E mi sento fiero di me. Ti sembra che tutto questo abbia un senso?

— Vergil, io…

— Vieni a casa mia. Parleremo un po’ e cercheremo di capire a cosa sto andando incontro.

— Ho da fare, Vergil.

— Quando puoi liberarti?

— Ho l’agenda piena per i prossimi cinque giorni. Stasera, forse. Dopo cena.

— Soltanto tu, nessun altro — disse Vergil.

— D’accordo. — Cercò di far mente locale. Gli sarebbero occorsi almeno settanta minuti d’auto per arrivare a La Jolla. Disse a Vergil che sarebbe stato da lui per le nove.

Tornato a casa, verso le sei del pomeriggio, Edward spiegò a Gail come stavano le cose. — Mi spiace ma sembra che stasera dovrò uscire — disse, e si offrì di aiutarla a preparare qualcosa da cena.

Lei accolse quelle novità con un borbottio, e non parlò molto mentre lo aiutava a improvvisare un’insalata mista. — Mi sarebbe piaciuto che tu dessi un’occhiata a qualche videonastro — disse poi, a tavola, gettandogli un’occhiata in tralice. I ragazzini della sua classe si stavano cimentando da una settimana con la video-art, e lei era orgogliosa dei risultati.

— C’è il tempo? — chiese diplomaticamente lui. Prima di sposarsi avevano già sperimentato alcune situazioni critiche, rischiando quasi di lasciarsi. Adesso, quando insorgevano nuove difficoltà, ambedue tendevano a essere eccessivamente delicati ed a prendere l’argomento molto alla larga.

— Probabilmente no — ammise Gail. Si servì un’altra porzione di zucchini fritti. — Cos’ha Vergil che non va, questa volta?

— Questa volta?

— Sì. Ti ha già chiesto aiuto, anni fa. Quando lavorava per la Westinghouse e aveva dei guai con quei copyright.

— Svolgeva per loro un lavoro indipendente.

— Sì. E adesso cosa puoi fare per lui?

— Non sono neppure certo quale sia il suo problema — disse Edward, più evasivo di quel che avrebbe voluto.

— È un segreto?

— No. Forse. Ma è una faccenda strana.

— È ammalato?

Edward abbassò la testa e con una mano fece un gesto: Chi lo sa?

— Non te la senti di parlarmene?

— Non subito. — Le rivolse un sorrisetto nel tentativo di placarla, col prevedibile risultato d’irritarla ancor di più. — Mi ha chiesto di non parlarne a nessuno.

— C’è qualche probabilità che ti metta nei guai?

Quella era una cosa a cui Edward non aveva ancora pensato. — Credo di no — disse.

— A che ora tornerai, stanotte?

— Più presto che potrò — disse. Le accarezzò una guancia con la punta delle dita. — Non preoccuparti — mormorò dolcemente.

— Oh, no — lo rassicurò lei. — Neanche un po’.

Guidando l’auto sulla strada per La Jolla l’umore di Edward si fece cupo: qualunque cosa potesse pensare sulle condizioni di Vergil, aveva l’impressione di penetrare in un altro universo. Un universo dalle differenti leggi fisiche, in cui si sentiva incapace di prevedere le conseguenze di ogni azione.

Uscì dall’autostrada all’altezza di La Jolla Village Drive, poi seguì la Torrey Pine Road fino in città. La strada scendeva in lente curve lungo le quali piccole ville dall’aria costosa si alternavano a condominii di tre e quattro piani. Ciclisti e podisti in eleganti tute multicolori sfidavano l’aria fresca della sera; anche a quell’ora La Jolla era animata da gente che passeggiava o faceva esercizio.

Con una certa difficoltà trovò un piccolo posto per parcheggiare, e abilmente vi insinuò la Volkswagen. Mentre richiudeva la portiera annusò con piacere l’aria di mare, e si chiese se Gail sarebbe mai stata disposta a trasferirsi lì. Gli affitti dovevano essere esorbitanti, e fare il pendolare gli avrebbe portato via tempo prezioso. Decise che simili «status symbol» non gli importavano poi molto. Tuttavia i dintorni erano simpatici… 410 Pearl Street, non la zona migliore della cittadina, anche se sempre superiore a ciò che lui per il momento poteva permettersi. Era tipico di Vergil cercare e trovare occasioni come quel condominio. D’altra parte, stabilì Edward mentre suonava alla porta del pianterreno, se alla fortuna di Vergil doveva accompagnarsi tutto il resto della sua personalità, non gliela invidiava affatto.

L’ascensore aveva un impianto che suonava musica melodica e distribuiva serie d’immagini oleografiche per informare i condomini di vendite speciali, prezzi di prodotti e attività sociali della settimana. Al terzo piano Edward trovò due specchi in cornice di marmo e oro, e un mobiletto in stile Luigi XV.

Vergil era già ad attenderlo sulla porta dell’appartamento, e lo condusse subito dentro. Indossava una spiegazzata vestaglia a maniche lunghe e pantofole. In mano teneva nervosamente una pipa spenta, e mentre lo precedeva in soggiorno e si gettava a sedere in poltrona non disse una parola.

— Hai un’infezione — esordì Edward, mostrandogli il foglio delle analisi.

— Oh? — Vergil lo percorse appena con un’occhiata, poi lo depose sul vetro del tavolino da caffè.

— Questo è ciò che dice il nostro computer.

— Sì, be’, è chiaro che non è stato programmato per casi anomali di questo genere.

— Forse no, ma devo avvertirti che…

— Lo so. Scusa se sono stato rude, Edward, ma cosa può fare per me un ospedale? Farei prima a dare un computer a una tribù di cavernicoli e chiedergli di ripararmelo. Quelle immagini… senza dubbio mostravano qualcosa, però noi non siamo in grado di stabilire cosa.

Edward si tolse il soprabito. — Ascolta, non nascondo che tu mi preoccupi, adesso. — L’espressione di Vergil era lentamente mutata, il suo volto si distese in una sorta di beatitudine mentre alzava gli occhi al soffitto. Li socchiuse, con uno strano mormorio di compiacimento.

— Dov’è Candice? — chiese Edward, accigliato.

— Ha deciso di trascorrere la sera fuori. Non stiamo andando troppo bene in questo momento.

— Lei sa?

Vergil sorrise languidamente. — Come potrebbe non sapere? Mi può vedere nudo ogni notte. — E distolse subito lo sguardo. Edward capì che stava mentendo.

— Sembri ubriaco. Che ti succede?

Lui scosse il capo. Poi annuì lentamente. — Sto ascoltando — disse.

— Che cosa?

— Non lo so. Suoni. Non-suoni. Come una musica. Il cuore. Tutti i vasi sanguigni, la frizione del sangue lungo le vene e le arterie. Attività. Musica nel sangue. — Fissò blandamente Edward. — Che scusa hai raccontato a Gail?

— Nessuna. Le ho detto solo che eri un po’ nei guai e che venivo a parlare con te.

— Puoi restare?

— No. — Percorse il locale con uno sguardo insospettito, in cerca di mozziconi di sigarette drogate, bottiglie o altro materiale equivoco.

— Non sono ubriaco, Edward — disse Vergil. — Può darsi che mi sbagli, ma mi sta succedendo qualcosa di grosso. Penso che loro stiano scoprendo chi sono io.

Edward sedette di fronte a lui e lo scrutò con attenzione. Vergil parve non accorgersene. Era assorbito da qualcosa che accadeva dentro di lui.

— C’è del caffè? — chiese Edward. Vergil fece un cenno verso la cucina. Edward mise a bollire un po’ d’acqua e trovò un pacchetto di caffè liofilizzato. Ne versò un po’ in una tazza, infine tornò a sedersi in soggiorno. Vergil stava facendo oscillare la testa avanti e indietro, a occhi aperti.

— Tu hai sempre saputo quel che volevi diventare, vero? — domandò a Edward.

— Più o meno.

— Condotta integerrima. Un ginecologo. Mai un passo falso. Io ero diverso. Avevo dei traguardi, ma non una direzione di marcia. Come una mappa senza strade, soltanto con le città. Non ho fatto niente per nessuno, salvo che per me. Anche la scienza: un mezzo per giungere a un fine. C’è da sorprendersi che io sia arrivato tanto lontano. — Afferrò i braccioli della poltrona. — E in quanto a mia madre… — Le sue mani erano bianche per la tensione. — Una strega. Una strega e un fantasma per genitori. E come figlio un changeling. Qui le piccole cose portano a grandi mutamenti.

— Non ti senti bene?

— Loro mi stanno parlando, Edward. — Chiuse gli occhi.

— Gesù! — Non c’era nient’altro che potesse dire o pensare. Cercò di convincersi che Vergil era sempre stato un burlone, capace di tutto, anche di scherzi di cattivo gusto, ma non poteva prescindere dai fatti nudi e crudi che le apparecchiature diagnostiche gli avevano mostrato.

Per un quarto d’ora Vergil sembrò dormire in poltrona. Edward gli controllò il polso e lo sentì nitido e regolare; gli tastò la fronte, che risultò fresca, poi andò a farsi un altro po’ di caffè. Stava sbirciando il telefono, incerto se chiamare un’ambulanza oppure Gail, quando Vergil spalancò gli occhi e si girò a fissarlo intensamente.

— Difficile capire come scorra il tempo per loro — disse. — Ci hanno messo forse tre o quattro giorni per decifrare il senso del linguaggio, per trovare la chiave dei concetti umani. Riesci a immaginarlo, Edward? Loro non capivano. Loro pensavano che io fossi l’universo. Ma adesso ci stanno arrivando. Stanno arrivando a me. Proprio ora. — Si alzò, ciabattò sul tappeto beige fino alle tende chiuse della finestra, annaspò dietro di esse in cerca della cordicella e le aprì di colpo. La luce della stanza parve uscire nell’abisso dell’immensa notte stellata, e Vergil fissò il firmamento con un brivido. — Devono avere migliaia dei loro ricercatori intenti ad analizzare i miei neuroni. Sono maledettamente efficienti, sai, per non avermi ammazzato per sbaglio. Così delicati dentro di me. Cambiando e cambiando.

— L’ospedale — disse Edward con voce rauca. Si schiari la gola. — Ti prego, Vergil. Subito.

— Cosa diavolo può fare un ospedale? Riesci a immaginare un qualche modo di controllare le cellule? Voglio dire, loro sono me stesso. Colpisci loro e colpirai me.

— Avrei pensato una cosa. — In realtà l’idea gli era balenata in quel preciso istante, segno chiaro che stava cominciando a credere a Vergil. — L’actinomicina può fissarsi al DNA e bloccarne la capacità di codificare. Potremmo ostacolarli in questo modo… certo arresterebbe la loro azione, come hai detto, sulle altre molecole.

— Sono allergico all’actinomicina. Mi ucciderebbe.

Edward si fissò le mani senza vederle. Questa era stata la miglior soluzione che poteva escogitare, ne era sicuro. — Potremmo fare qualche esperimento, vedere come metabolizzano, scoprire la differenza con le cellule normali. E, una volta isolato il loro principale nutrimento, forse potremmo farli morire di fame. Oppure con l’uso di radiazioni…

— Colpisci loro — ripeté Vergil voltandosi a guardarlo, — e colpirai me. — Venne a fermarsi al centro del soggiorno e si tolse la vestaglia, restando in mutande. Ma Edward, con la luce negli occhi, non vide molto. — Non sono certo di volermi liberare di loro. Non mi stanno facendo alcun male.

Edward deglutì, cercando di controllare l’ira e la frustrazione, ma stava fremendo. — Come fai a saperlo?

Vergil scosse il capo e alzò un dito. — Stanno cercando di capire che cos’è lo spazio. Questo è difficile per loro. Concepiscono la distanza in termini di diverse concentrazioni di elementi chimici. Per loro lo spazio è un susseguirsi di variazioni nell’intensità di ciò che percepiscono.

— Vergil…

— Ascoltami, Edward, rifletti! — Il suo tono era eccitato ma sotto controllo. — Dentro di me sta accadendo qualcosa. Si parlano l’un l’altro mediante proteine e acidi nucleici, attraverso i fluidi, attraverso le membrane. Costruiscono qualcosa, forse dei virus, come veicoli per trasmettere lunghi messaggi, o tratti personali, o biologici. Strutture tipo plasmidi. C’è una logica. Questi sono alcuni dei comportamenti per cui li ho programmati. Forse è questo che il tuo computer scambia per un’infezione… tutte le nuove informazioni che scorrono nel mio sangue. Chiacchiere. Sapori di altri individui. Pari loro. Superiori. Subordinati.

— Vergil, io ti sto ascoltando ma…

— Questo è il mio show, Edward. Io sono il loro universo. Sono stupefatti da questa nuova scala di grandezze. — Tornò a sedersi e per un poco restò quieto. Edward si alzò e andò a raccogliere la vestaglia di Vergil. Fu in quel momento che notò l’intreccio di linee bianche sulle sue braccia.

— Io chiamo un’ambulanza — esclamò, andando al telefono.

— No! — gridò Vergil. Si alzò di scatto. — Te l’ho detto: non sono malato. Questo è il mio show. Cosa potrebbero fare altri per me? Sarebbe una farsa.

— Allora che accidenti sono venuto a fare qui? — chiese Edward, rabbiosamente. — Hai chiamato uno dei tuoi cavernicoli, e pretendi ora…

— Tu sei un amico — disse Edward, guardandolo negli occhi. Edward ebbe l’intollerabile sospetto d’essere fissato da qualcosa di più che il solo Vergil. — Volevo che tu fossi qui a tenermi compagnia. — Rise. — Ma non posso dire d’essere precisamente solo, vero?

— Devo chiamare Gail — disse Edward, componendo il numero.

— Gail, certo. Ma non dirle niente.

— Oh, no. Ci puoi scommettere.

XI

All’alba Vergil stava ancora andando avanti e indietro per l’appartamento, toccava oggetti, guardava fuori dalle finestre, e ogni tanto si fermava in cucina a mangiare qualcosa. — Sai, in questo momento posso sentire i loro pensieri — disse. Edward lo fissava, esausto e rigido per la tensione, da una poltrona del soggiorno. — Voglio dire, il loro citoplasma sembra avere una volontà sua. Una specie di vita inconscia, per contrasto con la razionalità che hanno acquisito così di recente. Sentono il rumore chimico delle molecole che scorrono loro attorno.

Si fermò al centro del soggiorno, con la vestaglia aperta, gli occhi chiusi. Era come se ogni tanto si fermasse per fare un sonnellino. Non era da escludere, pensò Edward, che si trattasse di brevi attacchi di petit mal. Chi poteva dire quali danni quei linfociti gli stessero facendo al cervello?

Edward chiamò ancora Gail dalla derivazione telefonica della cucina. La trovò alzata e sul punto di recarsi a scuola. Le chiese di telefonare in ospedale e di avvertire che lui stava troppo male per andare al lavoro.

— Sei costretto a cercare una scusa? Allora la cosa è seria. Cosa sta succedendo a Vergil. Non riesce a cambiarsi i pannolini da solo?

Edward non disse niente.

Dopo una lunga pausa lei chiese: — Va tutto bene?

Doveva essere sincero? Decise di no. — Benissimo — rispose.

— Cultura! — esclamò Vergil, sbucando da dietro il divisorio della cucina. Lui la salutò e riattaccò in fretta. — Nuotano continuamente in un bagno d’informazioni. Vi contribuiscono. È una specie di gestalt sociale. La gerarchia è assoluta. Mandano fagociti appositi alla caccia delle cellule che non interagiscono. Virus specifici contro un individuo o un gruppo. Non c’è fuga. Una volta attaccata dal virus la cellula si spacca e si dissolve. Ma non è esattamente una dittatura. Penso che in effetti godano di libertà maggiore della nostra. Sono così diversi… voglio dire da individuo a individuo, sempreché siano esseri individuali; ma lo sono in modi che non si possono paragonare ai nostri. Questo ha un senso per te?

— No — disse sottovoce Edward, massaggiandosi le tempie. — Vergil, mi stai portando allo stremo. Non potrò sopportare tutto questo per molto. Non capisco, e non sono neppure sicuro di cominciare a…

— Neppure adesso?

— Va bene, ammettiamo che tu mi stia dando la giusta interpretazione, l’esatta e completa versione della realtà. Ti sei preoccupato d’immaginarne le conseguenze?

Vergil lo fissò, guardingo. — Mia madre — disse.

— Che c’entra lei?

— C’entra chiunque debba pulire la tazza di un cesso.

— Per favore, sii chiaro. — La disperazione rese fievole la voce di Edward.

— Non sono mai stato molto bravo in questo — mormorò Vergil. — Nell’immaginare a cosa possa portare un avvenimento.

— Non hai paura?

— Sono terrorizzato — disse lui. Il suo sogghigno divenne maniacale. — Ed esilarato. — S’inginocchiò accanto alla sedia di Edward. — All’inizio volevo controllarli. Ma loro sono molto più abili di me. Ma chi sono io, uno sciocco confusionario, per tentare di ostacolarli? Loro stanno facendo qualcosa di molto importante.

— Che succederebbe se ti uccidessero?

Vergil si distese sul pavimento, allargando braccia e gambe. — Un cane morto! — dichiarò. Edward sentì l’impulso di dargli un calcio. — Guarda, non voglio che tu pensi che ti stia scavalcando, ma ieri sono andato a parlare con Michael Bernard. Mi ha ricevuto nella sua clinica privata, mi ha preso un sacco di campioni. Biopsie. Già non si distingue più dove mi ha tolto pezzetti di pelle, di tessuto muscolare e osseo: è tutto guarito. Cicatrizzato, ha detto lui. Mi ha chiesto di non parlarne con nessuno. — La sua espressione tornò a farsi sognante. — Città di cellule. Edward, loro costruiscono tubature come strade attraverso i tessuti, si spostano, mandano informazioni, trasformano altri tipi di cellule…

— Smettila! — esplose Edward, con voce rotta. — Che cosa è risultato da quegli esami?

— Da come la mette Bernard, io avrei dei linfociti «gravemente deformati». Gli altri dati non sono ancora pronti. Capisci, è stato soltanto ieri. Perciò non sei il solo a lambiccarti il cervello.

— E lui cosa pensa di fare?

— Sta cercando di convincere la Genetron a riassumermi. E a ridarmi il laboratorio.

— È questo che vuoi?

— Non si tratterebbe soltanto di avere un laboratorio a disposizione. Lascia che ti faccia vedere. Da quando ho interrotto il trattamento con le lampade la mia pelle sta cambiando di nuovo. — Sempre disteso sul pavimento si aprì la vestaglia.

Sull’intero corpo di Vergil l’epidermide era un fitto reticolo di strisce bianche. Si girò. Sulla schiena le linee si stavano ispessendo e formavano creste sporgenti.

— Mio Dio! — ansimò Edward.

— Sto diventando sempre meno adatto a girare in luoghi che non siano un laboratorio chiuso — dise Vergil. — Non avrei l’animo di mostrarmi in pubblico.

— Tu… tu puoi parlare loro, dirgli di smetterla. — Edward fu però subito conscio di quanto suonavano ridicole quelle parole.

— Si, certo che potrei, ma questo non significa che mi ascolterebbero.

— Pensavo che tu fossi il loro Dio.

— Quelli che si sono piazzati sui miei neuroni non sono i pezzi grossi. Sono i ricercatori, o almeno hanno funzioni analoghe. Loro sanno chi sono io, e che sono qui, ma non è detto che possano convincere i livelli superiori della loro gerarchia.

— Sono in dissidio fra loro?

— Qualcosa del genere. — Si rimise la vestaglia e andò alla finestra, sbirciando dalle tendine come in cerca di qualcuno. — Mi sono rimasti soltanto loro. E loro non hanno paura di niente. Edward, prima d’ora non mi ero mai sentito così vicino a qualcuno o a qualcosa. — di nuovo un sorriso di beatitudine. — Io sono responsabile per loro. La loro grande madre. Sai, fino a qualche giorno fa non avevo neppure un nome per identificarli. Una madre dovrebbe dare un nome alle sue creature, no?

Edward non rispose.

— Ho dato un’occhiata attorno… dizionari, libri di testo e così via. Poi mi è venuta l’ispirazione: Noociti. Dalla parola greca «noos», che significa «mente». Noociti. Suona un po’ macabro, vero? L’ho detto a Bernard. Credo che gli sia sembrato un buon nome…

Edward sollevò le braccia, esasperato. — Non hai la più pallida idea di quello che stanno facendo! Hai detto che sono come una società…

— Un migliaio di società.

— Sì, e le società si evolvono in modo drammatico. La guerra, le dispute sui confini… — Da quando era arrivato aveva cercato di controllare una paura sempre crescente, ma adesso era come se cercasse di aggrapparsi a una pagliuzza. Lui non aveva la competenza per destreggiarsi nell’enormità di quel che stava accadendo. E neppure Vergil. Vergil era l’ultimo individuo che Edward stimasse abbastanza riflessivo e analitico da esaminare le cose nella loro reale estensione.

— Ma io sono l’unico che rischia — osservò Vergil.

— Questo non lo sai. Gesù, ragazzo, guarda quello che ti stanno facendo!

— Io lo accetto — disse stoicamente lui.

Edward scosse il capo come davanti a una sconfitta. — E va bene. Bernard farà riaprire il laboratorio alla Genetron, tu ti trasferirai lì e reciterai la parte della cavia nei tuoi stessi esperimenti. E poi?

— Mi daranno il trattamento che merito. Adesso sono qualcosa di più che il buon vecchio Vergil I. Ulam. Sono una stramaledetta galassia, una super-madre.

— Un super-ospite, vorrai dire.

Vergil glielo concesse con una scrollata di spalle.

Edward aveva un groppo in gola. — Non posso far nulla per te — disse. — Non posso parlarti, né convincerti, né aiutarti. Sei più testardo che mai. — Il termine gli parve perfino benevolo: come poteva «testardo» descrivere il comportamento esibito da Vergil? Provò l’impulso di spiegarsi meglio, ma emise soltanto un ballettio confuso. — Devo andarmene — riuscì infine a dire. — Qui non posso fare niente di utile.

Vergil annuì. — Suppongo di no. Sarebbe impossibile.

— Già. — Edward deglutì a vuoto. Vergil fece un passo avanti e parve sul punto di mettergli una mano su una spalla. D’istinto lui indietreggiò.

— Se non altro, vorrei la tua comprensione — disse Vergil, riabbassando la mano. — Questa è la cosa più importante che io abbia mai fatto. — Il suo volto si contorse in un sogghigno. — Non so fino a quando potrò fronteggiarli. Faccia a faccia con loro, intendo. E non so se mi uccideranno oppure no. C’è una tensione reciproca, Edward.

Edward indietreggiò fino alla porta e poggiò una mano sulla maniglia. L’espressione di Vergil, contratta da quell’angoscia momentanea, tornò a distendersi nell’estasi. — Ehi! — mormorò. — Ascolta. Loro stanno…

Edward aprì la porta, uscì sul pianerottolo e la richiuse con decisione dietro di sé. A passi svelti raggiunse l’ascensore e premette il pulsante del pianterreno.

Nell’atrio sostò per qualche minuto, cercando di placare l’ansito che gli spezzava il respiro. Controllò l’orologio: le nove del mattino.

Chi stava ascoltando Vergil?

Aveva detto d’essersi consultato con Bernard; forse adesso era Bernard il cardine intorno a cui ruotava la situazione. Vergil ne aveva parlato come se l’uomo fosse non solo convinto ma anche molto interessato. Persone della statura di Bernard non perdevano il loro tempo con tutti i Vergil Ulam che bussavano alla loro porta, a meno che non presumessero di trarne qualche vantaggio. Mentre spingeva il doppio battente a vetri dell’ingresso Edward stabilì di verificare una sua idea.


Vergil era disteso a terra nel centro del soggiorno, con le braccia e le gambe spalancate, e rideva. Ad un tratto tornò serio e si domandò quale impressione avesse fatto a Edward, e anche a Bernard. Non era importante, decise. Niente aveva importanza se non quello che stava accadendo all’interno. L’universo interno.

— Sono sempre stato un bravo ragazzo — mormorò.

Tutte le cose.

— Sì, io sono tutto adesso.

Spiega.

— Cosa? Voglio dire, che c’è da spiegare?

Le cose semplici.

— Sì, immagino che sia duro svegliarsi alla vita. Be’, se avete delle difficoltà ve le meritate. Maledetto DNA finalmente sveglio.

Parlato con altri.

— Che cosa?

PAROLE comunicato con °corpo esterno struttura condivisa°. Questo è come se la °totalità° di °intero DENTRO° fosse simile a ESTERNO?

— Non vi capisco. Non siete chiari.

In lui scese il silenzio. Per quanto? Era difficile stabilire lo scorrere del tempo, suddividere i giorni in ore e i minuti in secondi. I noociti avevano sfasato il suo orologio cerebrale. E cos’altro?

TUO interfaccia sta fra °ESTERNO° e °INTERNO°. Questi sono uguali?

— L’interno e l’esterno? Oh, no.

Il °corpo struttura condivisa° ESTERNO è uguale?

— Volete dire Edward, no? Sì, infatti… condivide la mia struttura.

EDWARD e l’altra struttura hanno INTERNO simile/uguale?

— Oh, sì, sono abbastanza uguali per quel che riguarda voi. Solo… sì, ma lei sta meglio adesso? Ieri sera lei non stava bene.

A quella domanda non ci fu risposta.

Interrogare

— Lui non vi ha dentro di sé. Nessuno vi ha. Lei sta bene? Noi siamo gli unici. Io vi ho creato. Nessun altro che noi vi ha in sé.

Il silenzio restò profondo e assoluto.


Edward posteggiò l’auto fuori dal Museo d’Arte Moderna di La Jolla, e attraversò lo spiazzo di cemento fino a un telefono pubblico accanto a una fontana di bronzo. Dall’oceano saliva una nebbia che velava i contorni color crema della St. James Church, in stile spagnolo, e imperlava di umidità le foglie degli alberi. Inserì nel telefono la sua carta di credito e chiese il numero della Genetron Inc. L’informazione gli fu data da una voce elettronica, e lui fece la chiamata.

— Per favore, mi metta in contatto col Dr. Michael Bernard — disse alla centralinista.

— Chi lo desidera, prego?

— Questo è il suo Servizio Risposte. Abbiamo una chiamata di emergenza, e sembra che il suo apparecchio non funzioni. Pochi minuti dopo Bernard fu in linea. — Che diavolo significa? — chiese con calma. — Io non ho un Servizio Risposte.

— Mi chiamo Edward Milligan. Sono un amico di Vergil Ulam. Penso che abbiamo un certo problema da discutere.

All’altro capo del filo ci fu un lungo silenzio. — Lei lavora al Mount Freedom, non è così, Dr. Milligan?

— Sì.

— Si trova lì?

— Non esattamente.

— Oggi non posso vederla. Domattina andrebbe bene?

Edward rifletté su tutto il suo andare e venire, sul tempo che perdeva, su Gail che si preoccupava. Niente sembrava più molto importante. — Sì — rispose.

— Alle nove in punto, alla Genetron. 60895 North Torrey Pine Road.

— Benissimo.

Nel grigiore che offuscava l’aria Edward tornò all’auto. Mentre apriva la portiera e sedeva al volante ebbe un pensiero improvviso: quella notte Candice non era rientrata a casa.

Al mattino era stata lì, invece.

Vergil le aveva mentito su di lei, di questo non ebbe alcun dubbio. Perciò che ruolo stava giocando la ragazza?

E dove si trovava?

XII

Gail trovò Edward profondamente addormentato sul divano, mentre fuori sibilava una pungente brezza invernale. Sedette al suo fianco e gli toccò un braccio finché lui aprì gli occhi.

— Ehilà — disse lei.

— Ehilà a te. — Sbatté le palpebre e si guardo attorno. — Che ore sono?

— Sono appena arrivata a casa.

— Le quattro e mezzo. Cristo. Ho dormito finora?

— Io non ero qui — disse Gail. — Lo hai fatto?

— Mi sento ancora a pezzi.

— Dunque, cos’ha combinato Vergil stavolta?

Lui si costrinse a esibire una maschera di tranquillità. Le accarezzò una guancia con un dito, in un gesto che lei contestava definendolo «lisciare il pelo alla gatta».

— C’è qualcosa che non va — affermò Gail. — Hai intenzione di parlarmene, o dobbiamo far finta che tutto sia normale?

— Non so cosa dirti — rispose Edward.

— Oh, Signore! — con un sospiro lei si alzò. — Ho capito: vuoi divorziare per risposarti con la signora Baker. — La signora Baker pesava 150 chili, e non s’era accorta d’essere incinta fino al quinto mese.

— Non ancora — la informò Edward.

— Un commosso grazie. — Gail gli sfiorò lievemente la fronte. — Sai bene che farti il terzo grado mi dà il mal di testa.

— Be’, non c’è poi molto di cui io possa parlare, così… — Le prese la mano e gliela sbaciucchiò.

— Riconosco il tuo istinto protettivo all’opera. Sei ripugnante — disse lei. — Di conseguenza mi farò il tè. Ne vuoi un po’? — Attese di vederlo annuire e sparì in cucina.

Lui si chiese perché non rivelarle tutto. Un vecchio amico si stava trasformando in una galassia.

Invece di farlo cominciò a liberare il tavolo di cucina.

Quella notte, incapace di dormire, seduto contro un cuscino poggiato alla spalliera del letto, Edward abbassò gli occhi sulla forma immobile di Gail e cercò di determinare cosa c’era di reale, e di irreale, in quello che aveva saputo.

Io sono un medico, si disse. Una professione tecnica, scientifica. Si suppone che uno come me sia immune da cose come la paura del futuro.

Vergil Ulam si stava trasformando in una galassia.

Che sensazione avrebbe provato lui ad avere dentro di sé un miliardo di cinesi? Nell’oscurità sogghignò, e nello stesso istante fu sul punto di gemere. Ciò che Vergil aveva in sé era enormemente strano, piuttosto che enormemente cinese. Al di là di qualunque cosa lui — o Vergil — potesse mai capire. Forse definitivamente incomprensibile.

Che razza di psicologia, o di personalità, poteva mai sviluppare una cellula… o un gruppo di cellule, se era per questo? Cercò di ricordare le sue nozioni scolastiche sugli ambienti in cui le cellule umane si potevano muovere: il sangue, i vasi linfatici, molti tessuti, il fluido intestinale, il fluido cerebrospinale… Non poteva immaginare un organismo sociale, complesso come il corpo umano, che in un ambiente così chiuso non finisse con l’impazzire per la noia. Le strutture erano relativamente semplici, le necessità semplici, e le funzioni erano svolte da cellule, non da esseri umani. Forse lo stress sarebbe diventato il fattore chiave… l’ambiente era benevolo con le cellule a lui familiari, mortale con quelle estranee.

Ma se non sapeva cos’era reale era certo di sapere cos’era importante: la camera da letto, con le luci stradali e le ombre degli alberi proiettate sulle tende, e Gail addormentata.

Questo era importante. Gail a letto, che dormiva tranquilla.

Ripensò a Vergil che sterilizzava le colture di E. Coli mutanti. La beuta colma di linfociti intelligenti. Con perversa soddisfazione la paragonò a Krypton: la patria di Superman, con miliardi di esseri geniali distrutti da una calamità inevitabile. Omicidio? Genocidio?

La sua mente vagava fra la veglia e il sonno. Nelle tende si aprì una fessura da cui balenarono le luci della città. Avrebbe potuto essere una città qualsiasi, anche New York (se l’illuminazione fosse stata più forte) o Chicago. Lui aveva abitato a Chicago per due anni…

D’un tratto un colpo di vento spalancò silenziosamente la finestra e gli parve che la città si precipitasse all’interno: una confusione di segnali e di luci che parlavano un linguaggio preciso ma incomprensibile, fatto di lontani clackson, di voci, di rumori di cantieri al lavoro. Cercò di spingere fuori quel bailamme ma lo vide trasformarsi in una fiumana di cellule bianche che si rovesciavano sul letto, schizzavano su Gail e invadevano la stanza.

A ridestarlo, più tardi, fu una corrente d’aria e il rumore delle tende che ondeggiavano. Decise che era meglio evitare altri sogni e rimase a occhi aperti fino all’ora di svegliare Gail. Mentre la moglie usciva per andare a scuola la baciò con passione, assaporando la sana realtà delle sue labbra umane e inviolate.

Prima delle otto ripartì in auto, e sessanta chilometri più a sud imboccò di nuovo la Torrey Pine Road, oltrepassò l’Istituto Salk con la sua frastagliata e solida architettura e si lasciò alle spalle dozzine di quei nuovi o riconvertiti centri di ricerche che avevano dato il nome alla Enzyme Valley, cinti dagli eucalipti e dalle nuove conifere ibride a crescita rapida i cui antenati avevano a loro volta dato il nome alla strada.

La lastra nera incisa con rosse lettere romane incorniciava il monticello coltivato a trifoglio coreano. Gli edifici più oltre si accordavano alle stesse linee solide e squadrate, anche se il cubo nero riservato alle ricerche per il Ministero della Difesa aveva un’aria macabra.

Al cancello un uomo robusto e segaligno in divisa blu uscì dal suo cubicolo e si chinò accanto al finestrino della Volkswagen. Esaminò Edward con pacata indifferenza. — Sì, signore?

— Sono qui per vedere il Dr. Bernard.

Il guardiano gli chiese un documento d’identità. Tornò poi nel cubicolo e leggendone gli estremi parlò al telefono con qualcuno per un paio di minuti. Quando ne uscì la sua espressione placida era immutata. — Non abbiamo un parcheggio per i visitatori. Prenda il numero 31 nello spazio riservato agli impiegati. Si trova dietro quella curva, sull’ala ovest dell’edificio, di fronte all’ingresso degli uffici. Deve entrare subito, senza gironzolare altrove.

— Naturalmente! — borbottò Edward, stizzito. — Dietro la curva — ripeté. Il guardiano annuì seccamente e rientrò nel suo cubicolo.

Edward seguì il sentiero in lastre di roccia fino all’ingresso degli uffici. Rossi papiri crescevano intorno a vasche di cemento piene di carpe rosa e dorate. La porta a vetri si aprì da sola davanti a lui, lasciandolo entrare in un’anticamera circolare fornita solo di un divano per i visitatori e di un tavolo con sopra giornali e riviste tecniche.

— Cosa posso fare per lei? — domandò la receptionist, una ragazza snella e attraente coi capelli accuratamente sollevati nella ciambella in quei giorni molto di moda e che Gail non poteva assolutamente soffrire.

— Il Dr. Bernard, per favore.

— Il Dr. Bernard? — si stupì lei. — Noi non abbiamo…

— Dr. Milligan? — disse una voce.

Edward si volse e vide il Dr. Bernard entrare dalla porta automatica. L’uomo sorrise alla receptionist. — Grazie, Janet. — Lei annuì e tornò a occuparsi delle chiamate telefoniche interne. — Prego, venga con me, Dr. Milligan. Avremo una sala-conferenze tutta per noi. — Condusse Edward fuori per la porta posteriore e poi lungo il sentiero in cemento che correva attorno al pianterreno dell’ala ovest.

Bernard indossava un elegante abito grigio che si accordava al colore dei suoi capelli; il suo profilo era magro e attraente, molto simile a quello di Leonard Bernstein, e non era difficile capire perché la stampa gli accordava spesso una copertina. Era un pioniere della scienza, e per di più fotogenico. — Qui teniamo molto alla sicurezza. È un obbligo imposto dal Governo dieci anni fa, come saprà. Una massa di idioti, a mio parere. Costringono i laboratori a circondarsi di reti elettrificate, e poi a ogni conferenza di studiosi circolano valanghe di notizie. Ma cosa c’è da aspettarsi quando i politicanti ignorano la realtà che ci sta intorno? — La domanda sembrava retorica. Edward si limitò ad annuire, poi ubbidì al gesto con cui l’altro lo indirizzava su per una scala d’acciaio verso il secondo piano.

— Ha visto Vergil di recente? — chiese Bernard, chiudendo dietro di sé la porta della stanza 245.

— Ieri.

Bernard accese le luci. Il locale non era più largo di cinque metri, fornito di un tavolo rotondo con quattro sedie e una lavagna sul muro. — Sediamoci — lo invitò. Edward prese una sedia e l’altro si accomodò di fronte a lui, poggiando i gomiti sul tavolo. — Ulam è brillante. E anche, non esito a dirlo, coraggioso.

— È mio amico. Sono molto preoccupato per lui.

Bernard alzò un dito. — Coraggioso… ma è stato un maledetto sciocco. Quel che gli è accaduto non avrebbe mai dovuto essere consentito. Può aver agito per cause di forza maggiore, però non ha scuse. Comunque, quel che è fatto è fatto. Lei sa tutto, presumo.

— Nelle linee generali — annuì Edward. — Ma non ho ancora capito come sia arrivato a quel punto.

— Neanche noi, Dr. Milligan. Questo è uno dei motivi per cui gli abbiamo offerto di nuovo un laboratorio. E una casa, intanto che cercheremo di capire meglio questa faccenda.

— Non può mostrarsi in pubblico — disse Edward.

— No, infatti. Stiamo costruendo un laboratorio isolato proprio ora. Ma siamo una compagnia privata, e le nostre risorse sono limitate.

— Questo dovrebbe essere riferito alla NIH e alla FDA.

Bernard sospirò. — Sì. Be’, se in questo momento la cosa trapelasse rischieremmo di perdere molto. Non sto parlando di decisioni manageriali… vedremo andare a gambe all’aria l’intera industria dei biochip. Le conseguenze nel mondo degli affari sarebbero clamorose.

— Vergil è molto malato. Fisicamente e mentalmente. Potrebbe morire.

— Non sono affatto certo che rischi la vita — disse Bernard. — Ma ci stiamo allontanando dal nocciolo della questione.

— Quale sarebbe il nocciolo? — sbottò Edward, irritato. — Suppongo che lei stia lavorando a braccetto con la Genetron, adesso… e parla tenendo presenti gli interessi della ditta. Cosa conta di guadagnarci la Genetron?

Bernard si appoggiò allo schienale della sedia. — Posso ipotizzare un gran numero di usi pratici per minuscoli elementi computerizzati a base biologica. Lei no? La Genetron ha già fatto questo passo. Ma il lavoro di Vergil è qualcosa di ancor più evoluto.

— Quali sviluppi prevede?

Il sorriso di Bernard fu luminoso e chiaramente falso. — Non sono veramente autorizzato a parlarne. Sarà qualcosa di rivoluzionario. Dovremo studiarlo in condizioni di laboratorio. Occorreranno esperimenti su animali. Bisognerà ripartire dall’inizio, naturalmente. Vergil è… uh, una colonia che non può essere trasferita. La coltura è basata sulle sue stesse cellule. Dovremo sviluppare organismi che non possano far scattare reazioni immunizzanti in altri animali.

— Come un’infezione? — chiese Edward.

— Suppongo che ci siano dei paralleli. Ma Vergil non è infetto o ammalato nel comune significato del termine.

— Gli esami che ho fatto io dicono che lo è — replicò Edward.

— Non credo che la normale diagnostica sia appropriata, le pare?

— Non lo so.

— Ascolti — disse Bernard, piegandosi in avanti. — Mi piacerebbe che venisse a lavorare con noi, una volta che Vergil sarà sistemato qui. La sua esperienza può esserci utile.

Dietro quell’offerta c’era un’intenzione così scoperta che Edward per poco non si alzò. — Che cosa pensa di trarre da tutto ciò? — chiese. — Intendo lei personalmente.

— Edward, io sono sempre stato un uomo d’avanguardia nella mia professione. Non vedo ragioni per cui non dovrei dare una mano qui. Con la mia esperienza del cervello e delle funzioni nervose, e le ricerche che ho fatto sull’intelligenza artificiale e in neurofisiologia…

— Potrebbe aiutare la Genetron a tenere alla larga un’indagine governativa — terminò Edward.

— Questo è molto poco gentile. È ingiusto e offensivo. — Per un momento Edward captò in Bernard un momento d’incertezza, e perfino di ansia.

— Forse lo sono — rispose. — E forse questa non è la peggiore fra le cose che possono succedere.

— Non la seguo — disse lo scienziato.

— Sogni premonitori, Mr. Bernard.

L’altro strinse le labbra e inarcò un sopracciglio. Quella era un’espressione che il pubblico non gli conosceva, e ben poco adatta alle copertine di Time, Mega o Rolling Stone: una smorfia perplessa e irritata. — Il nostro tempo è troppo prezioso per sprecarne ancora. Le ho fatto un’offerta in buona fede.

— Naturalmente — disse Edward. — E naturalmente mi piacerebbe visitare il laboratorio dove Vergil verrà sistemato. Se sarò il benvenuto, scarsa gentilezza e tutto.

— Naturalmente — gli fece eco Bernard, ma i suoi occhi dicevano ben altra cosa: Edward poteva togliersi dalla testa l’idea di ficcare il naso nel suo lavoro. Si alzarono insieme e lo studioso tese la mano. Aveva il palmo umido; era nervoso almeno quanto Edward.

— Suppongo che desideri che tutto ciò resti strettamente confidenziale — disse Edward.

— Non sono certo di poterglielo chiedere. Lei non è sotto contratto.

— No — sottolineò Edward.

Bernard lo fissò per un lungo momento, poi annuì. — La accompagno.

— C’è un’altra cosa. Sa niente di una ragazza di nome Candice?

— Vergil ha detto che aveva un’amica di questo nome.

— Aveva o ha?

— Sì, capisco cosa intende dire — si accigliò Bernard. — Potrebbe rappresentare un problema per la sicurezza.

— No, non è questo che volevo dire — puntualizzò seccamente Edward. — Non è affatto ciò che volevo dire.

XIII

Bernard lesse con cura il fascicolo che aveva davanti, con una mano sulla fronte, girando lentamente i fogli dall’aspetto ufficiale, e il suo cipiglio si fece sempre più scuro.

Ciò che stava accadendo nel cubo nero era abbastanza da farlo incanutire del tutto. Il rapporto era chiaramente incompleto, e tuttavia i suoi amici a Washington avevano fatto un buon lavoro. Gli era stato recapitato da un corriere speciale appena mezz’ora dopo che Edward Milligan se n’era andato.

Quella conversazione l’aveva riempito di un senso di vergogna che aveva finito col metterlo sulla difensiva. In quel giovane dottore dallo sguardo franco aveva visto una lontana versione di se stesso, e il paragone lo feriva. Il vecchio e famoso Michael Bernard non s’era forse incamminato, negli ultimi mesi, nella palude delle seduzioni capitalistiche?

All’inizio l’offerta della Genetron gli era parsa pulita e gradevole: una minima partecipazione nei primi mesi, e poi il riconoscimento come Padre e Pioniere, e la sua immagine usata per scopi promozionali.

Gli era occorso decisamente troppo tempo per scoprire quanto era vicino a sentir scattare la trappola.

Si volse alla finestra, poi si alzò per aprire le tende. Con quel semplice movimento ebbe una visione dolorosamente chiara della Genetron, del cubo nero, e delle nuvole spazzate dal vento al di là di esso.

Poteva sentire l’odore del disastro. Il cubo nero, ironicamente, non vi sarebbe stato coinvolto; ma se non fosse stato Vergil Ulam a far precipitare gli eventi, prima o poi l’avrebbe fatto l’altra faccia della Genetron.

Ulam era stato tolto di mezzo così precipitosamente, e messo sulla lista nera spietatamente, non perché aveva condotto ricerche pericolose e incaute… ma perché aveva arato nel campo che il reparto ricerche della Difesa stava recintando per sé. Lui aveva avuto successo dove loro non erano finiti che in strade senza sbocco e fallimenti. E malgrado che si fossero studiati per mesi i suoi appunti (ne avevano fatte innumerevoli copie) non erano riusciti a duplicare i suoi risultati.

Il giorno prima Harrison aveva borbottato che le scoperte di Ulam dovevano essere state in buona parte casuali. Adesso era ovvio il motivo per cui parlava così.

Ulam era andato vicinissimo a completare i suoi studi ed a lasciare la Genetron — e il Governo — con le braghe in mano. I Pezzi Grossi non potevano né permettersi quello smacco né dare fiducia a Ulam.

Ulam era la frattura nel loro sistema. Nessun servizio di sicurezza avrebbe mai potuto dargli il suo benestare.

Così lo avevano fatto fuori, e avevano cercato di sotterrarlo.

E poi lui era tornato indietro, come uno spettro che scuotesse le sue catene intorno alla Genetron. Ora non avrebbero potuto rifiutarlo.

Bernard rilesse l’incartamento una seconda volta e si chiese come poteva tirarsi fuori da quell’imbroglio con un minimo danno.

Se la sentiva di farlo? Se costoro erano dei tali idioti, la sua esperienza non sarebbe stata utile… o almeno chiarificatrice? Non aveva alcun dubbio di vederci più chiaro di Harrison e di Yng.

Ma alla Genetron lui interessava più che altro per la sua immagine, come facciata. Quanta influenza reale aveva ancora, in effetti?

Chiuse le tende e andò al telefono, quindi compose il numero interno dell’ufficio di Harrison.

— Sì?

— Qui Bernard.

— Oh, certo, Michael.

— Sto per informare Ulam. È il momento di portarlo qui, adesso. Oggi stesso. Guarda di tener pronta tutta la squadra, e anche quelli del reparto ricerche per la Difesa.

— Michael, questo è…

— Non possiamo più permetterci di lasciarlo là. Harrison ci pensò un poco. — Già. Sono d’accordo.

— Allora datevi da fare.

XIV

Edward pranzò nel separé di un self-service, e al termine del pasto poggiò un gomito sul davanzale della finestra e attraverso i vetri fissò il traffico esterno senza vederlo. Alla Genetron stava accadendo qualcosa di poco chiaro. Analizzare i suoi presentimenti più forti non gli era mai stato difficile: quella parte del cervello con cui catalogava e sommava i dettagli insignificanti talvolta metteva insieme due più due e otteneva un inquietante cinque, e questo significava che per il suo subconscio uno di quei due era in realtà un tre. Anche se a livello razionale non ne aveva le prove.

Bernard e Harrison stavano nascondendo qualcosa d’importante. La Genetron stava facendo di più che aiutare un dipendente con un problema collegato al suo lavoro, di più che limitarsi a trarre vantaggio da quel passo in avanti nella ricerca scientifica. Ma non potevano agire con precipitazione, cosa che avrebbe destato sospetti. E forse non erano sicuri di possedere i mezzi tecnici e le leve politiche per condurre avanti la manovra.

Si accigliò, sforzandosi di estrapolare quella catena di deduzioni dalla palude del suo inconscio per esaminarla anello per anello. Bernard aveva parlato di problemi di sicurezza in rapporto a Candice. A preoccuparli poteva essere null’altro che la generica paura dello spionaggio industriale, quella che aveva trasformato ogni ditta privata lungo la Torrey Pine Road in una torta circondata dal filo spinato e chiusa al pubblico. Ma doveva esserci dell’altro.

Non potevano essere sciocchi e di vista corta come Vergil; dovevano aver capito che quanto stava accadendo a Vergil era troppo importante per restare circoscritto in una semplice operazione di mercato.

Di conseguenza avevano già contattato il Governo. Questa era una deduzione giustificata? (Che la Genetron l’avesse fatto o meno, forse c’era qualcosa che lui poteva fare). Comunque il Governo aveva i suoi tempi di manovra — misurabili in giorni o settimane — per prendere decisioni, stabilire programmi e passare all’azione. E nel frattempo Vergil era solo. La Genetron non avrebbe osato far niente contro la sua volontà; le ricerche genetiche erano già guardate dal pubblico con abbastanza sospetto, e uno scandalo poteva far perfino di peggio che distruggere i loro piani.

Vergil era lasciato a se stesso. E Edward conosceva il suo vecchio amico troppo bene per ignorare che non avrebbe comunque permesso a nessuno di controllarlo. Meno che mai a chi non lo riteneva affidabile. Ma si era messo da solo in quarantena (all’apparenza) nel suo appartamento, affetto da una sorta di trasformazione mentale, aggrovigliato in un’estasi psichica autoindotta, prigioniero dei risultati del suo lavoro.

Con un brivido Edward concluse di essere l’unica persona che avrebbe potuto fare qualcosa.

Lui era rimasto il solo individuo responsabile.

Era tempo di tornare all’appartamento di Vergil per cercare almeno di mettere in chiaro la situazione prima che i Pezzi Grossi piombassero sulla scena.

Mentre guidava l’auto Edward rifletté sul cambiamento fisico. Un cambiamento troppo grosso, forse, perché un individuo potesse sopportarne il pensiero. Le innovazioni, anche quelle radicali, erano essenziali alla società, ma i risultati dovevano essere applicati con cautela e con lucida visione del futuro. Niente doveva essere forzato o imposto. Questo era l’ideale. Ciascuno aveva il diritto di restare fisicamente lo stesso finché non avrebbe deciso altrimenti.

Questa era una visuale maledettamente ingenua, ringhiò fra sé.

Ciò che Vergil aveva fatto era la cosa più grossa mai accaduta alla scienza da…

Da quando? Non c’erano paragoni. Vergil Ulam era diventato un Dio. Nelle sue carni portava centinaia di miliardi di creature intelligenti.

Edward non riusciva ad afferrare quel concetto. — Eretico. Neo Luddita — borbottò a se stesso in pungente tono d’accusa.

Quando suonò il campanello alla porta di sicurezza del condominio, Vergil rispose quasi all’istante. — Sì? — canterellò, chiaramente esilarato e su di giri.

— Edward.

— Ehilà, Edward! Vieni su. Sto facendo il bagno. La porta è aperta.

Edward entrò nel soggiorno dell’appartamento e girò nel corridio che portava alla stanza da bagno. Vergil era nella vasca, immerso fino alla nuca in un’acqua color rosa. Sorrise vagamente all’amico e agitò il liquido con le mani. — Sembra che io mi sia tagliato i polsi, no? — disse allegramente. — Non preoccuparti. Adesso tutto è a posto. La Genetron sta preparandosi ad accogliermi. Bernard e Harrison, i ragazzi dei laboratori e tutta la baracca. — Il suo volto era costellato di pallide creste, e le mani pullulavano di tonde escrescenze bianche.

— Questa mattina ho parlato con Bernard — disse Edward, perplesso.

— Ehi, mi hanno chiamato proprio poco fa. — Vergil indicò il telefono-interfono del bagno. — Me ne sto qui da un’ora, un’ora e mezzo. A galleggiare e a pensare.

Edward sedette sulla tazza del cesso. La lampada al quarzo, spenta, era stata ficcata dietro il porta-asciugamani.

— Sei sicuro che questo è ciò che vuoi? — chiese, curvando le spalle.

— Sì. Sicurissimo — annuì Vergil. — Sarà una bella riunione di famiglia. Il ritorno del figliol prodigo, fin troppo prodigo. Sai, non ho mai capito cosa significhi prodigo. Non vorrà dire prodigioso? Io lo sono certamente. Torno in grande stile. Tutto sarà in grande stile d’ora in poi.

Il colore rosa dell’acqua non sembrava dovuto al sapone. — Usi sali da bagno? — domandò Edward. D’un tratto un altro pensiero gli fece accapponare la pelle.

— No — rispose Vergil. — Viene fuori dalla mia epidermide. Loro non mi dicono tutto, ma sospetto che mandino esploratori all’esterno. Ehilà, astronauti! Sicuro! — E guardò l’amico con un’espressione che non riusciva a esprimere paura; più che altro, anzi, curiosità su come lui avrebbe reagito.

Edward aveva i muscoli addominali contratti quasi in attesa di un secondo pugno. Fino allora non aveva voluto — non consciamente — considerare quella possibilità, preferendo lo sforzo di concentrarsi su problemi più immediati. — È la prima volta?

— Sì — disse Vergil, e rise. — Ho una mezza intenzione di lasciar andare quelle piccole pulci curiose giù per lo scarico. Di fargli scoprire cos’è realmente il mondo esterno.

— Potrebbero andare ovunque — osservò Edward.

— Abbastanza probabile.

Edward annuì. Abbastanza probabile. — Non mi hai mai presentato a Candice — disse. Vergil scosse il capo.

— Ehi, questo è vero. — Non aggiunse altro.

— Come… come ti senti?

— In questo momento molto bene. Devono essercene miliardi. — Agitò l’acqua con le dita, scrutandola. — Che ne pensi, devo lasciare che le pulci vadano fuori?

— Ho bisogno di bere qualcosa — disse Edward.

— Candice tiene una bottiglia di whisky in uno stipo, in cucina.

Edward s’inginocchiò accanto alla vasca, e Vergil lo scrutò incuriosito. — Che cosa dobbiamo fare? — mormorò.

L’espressione di Vergil mutò di colpo, trasformandosi in una maschera di tristezza. — Gesù, Edward, mia madre… vedi, stanno venendo a riprendermi con loro, ma lei mi ha chiesto… dovrei chiamarla. Parlarle. — Due lacrime gli scivolarono sulle creste che ormai gli deformavano le guance. — Mi ha chiesto di tornare da lei. Quando… quando sarebbe venuto il momento. È il momento, Edward?

— Sì — disse lui, sentendosi come sospeso in una nebbia brulicante di scintille. — Penso che debba esserlo. — Allungò una mano alla lampada al quarzo e le sue dita risalirono per il supporto in cerca dell’interruttore.

Vergil era stato uno studente goffo e bislacco, gli aveva fatto bere un punch per colorare di azzurro la sua urina, aveva giocato a tutti centinaia di scherzi di cattivo gusto, e non era mai cresciuto, mai diventato abbastanza maturo da capire quanto fosse in realtà geniale, e quanto capace di stravolgere il mondo.

Vergil frugò con una mano in cerca del tappo della vasca. — Sai, Edward, credo proprio che…

Non finì mai quella frase. Edward aveva inserito la spina nella presa a muro, sollevando la lampada, e dopo che l’ebbe gettata nella vasca balzò indietro per evitare il lampo e le zaffate di scintille che scaturirono dagli elettrodi fusi, mentre nell’aria si alzava un’onda di vapore.

La luce del bagno si spense. Vergil urlò, si agitò in brevi convulsioni che fecero schizzare l’acqua, ricadde indietro e poi tutto fu immobile, eccetto la spirale di fumo che gli saliva dai capelli e le bollicine che gorgogliavano fuori dalla lampada. Dalla finestra filtrava un raggio di sole che tagliava come una lama l’aria densa di fumo.

Edward sollevò il coperchio della tazza del gabinetto e vomitò. Poi si asciugò la faccia e barcollò lungo il corridoio fino in soggiorno. Le gambe gli si piegarono e cadde di traverso sul divano.

Ma non c’era tempo. Si tirò in piedi, debole per la nausea, e andò in cucina. Trovò il whisky di Candice, una bottiglia di Jack Daniel’s, e tornò nel bagno. Tolse il tappo, quindi versò il contenuto della bottiglia nella vasca cercando di non guardare il volto di Vergil. Ma occorreva qualcos’altro. Avrebbe dovuto sterilizzare bene tutto prima di andarsene.

Per un attimo fu sul punto di chiedere a Vergil se aveva della candeggina o dell’ammoniaca, ma si trattenne in tempo. Vergil era morto. Lo stomaco di Edward riprese a torcersi, un sussulto di vomito lo fece sbandare contro la parete del corridoio e per un poco restò lì con una guancia premuta contro la tappezzeria fredda. Da quando la sua vita aveva cominciato a diventare irreale?

Dal giorno in cui Vergil era entrato al Mount Freedom Medical Center. Questo era come un altro degli scherzi di Vergil, pensò. Gli aveva fatto bere un punch di follia che avrebbe colorato di nero tutto il resto della sua esistenza, col ricordo di ciò che aveva fatto a un amico.

Frugò negli armadietti di cucina ma trovò solo tovaglie e tovaglioli. In camera da letto aprì l’armadio ma non vide altro che vestiti e biancheria di Vergil. Solo allora si accorse che l’appartamento aveva i doppi servizi, e che oltre la camera da letto c’era un secondo bagno; da dove si trovava poteva vedere la tazza del gabinetto. Aggirò il letto disfatto ed entrò nel bagno. Era più grande dell’altro, e in fondo c’era una cabina separata per la doccia. Da sotto la porta usciva un rivoletto d’acqua. Edward cercò di accendere la luce, ma in quella parte dell’appartamento l’elettricità mancava; l’unica illuminazione era data dalla finestra della camera da letto. Dietro la tazza del cesso trovò comunque un contenitore di candeggina e una latta da mezzo litro di detergente ammoniacale.

Ripercorse il corridoio e vuotò entrambi i liquidi nella vasca, sempre evitando di guardare gli occhi spalancati di Vergil. Se ne levò un vapore aspro e puzzolente che lo costrinse a uscire ed a chiudere la porta, tossendo.

Qualcuno stava chiamando sottovoce il nome di Vergil. Con i contenitori vuoti in mano Edward tornò in camera, e stupito s’accorse che la voce sembrava provenire dal bagno più grande. Fermo sulla soglia, ancora tossendo a tratti per il vapore ammoniacale, si accigliò e tese gli orecchi.

— Ehi, Vergil, sei tu? — domandò la voce. Proveniva dallo sgabuzzino della doccia. Edward fece un passo avanti, poi si fermò. È troppo, pensò. La realtà adesso stava roteando troppo, e lui voleva solo fermarsi e uscire da quell’allucinazione. Fece un secondo passo, quindi un terzo, e con una mano sfiorò il vetro opacizzato della porta.

La voce gli era parsa quella di una donna, rauca, strana, ma abbastanza tranquilla.

A tentoni trovò la maniglia e la abbassò. Con un lieve click la porta si aprì. Sforzandosi di adattare gli occhi al buio sbirciò all’interno della doccia.

— Gesù, Vergil, non mi trascurare così. Dobbiamo andarcene da questo albergo. È buio e piccolo, e non mi piace.

Riconobbe la voce che gli aveva risposto al telefono, anche se non avrebbe potuto in nessun modo riconoscere lei dall’aspetto, neppure se avesse visto una sua fotografia.

— Candice? — sussurrò.

— Vergil? Andiamo via.

Edward si volse e fuggì.

XV

Quando Edward rientrò a casa il telefono stava suonando. Non rispose. Avrebbe potuto essere l’ospedale. Avrebbe potuto essere Bernard… o la polizia. S’immaginò nell’atto di dover raccontare ogni cosa alla polizia. La Genetron avrebbe fatto tutto l’ostruzionismo possibile; Bernard era praticamente un intoccabile.

Edward era esausto, tutti i muscoli del corpo gli si erano contratti per la tensione, per il groviglio di sensazioni che una persona normale può provare dopo aver…

Commesso un genocidio?

Questo sicuramente non sembrava realistico. Non poteva convincersi di aver appena assassinato un triliardo di creature intelligenti. Noociti. Che volevano conquistare una galassia. C’era addirittura da ridere. Ma lui non rise.

Poteva ancora vedere Candice, in quella doccia.

Il lavoro era andato avanti su di lei molto più rapidamente. Le sue gambe erano andate; il torace era ridotto a qualcosa di molto sottile e impressionante. La ragazza aveva sollevato verso di lui un volto coperto di creste bianche spesse come la costola di un libro.

Aveva lasciato il palazzo a tempo per vedere un furgone bianco apparire velocemente da dietro la curva e parcheggiare di fronte, seguito dalla limousine di Bernard. Seduto nella Volkswagen aveva spiato gli uomini in candide tute isolanti usciti dal furgone, che, ci aveva fatto caso, era privo di contrassegni.

Poi aveva messo in moto, ingranato la marcia, ed era filato via di nascosto. Con la massima facilità. Per tornare a Irvine. Per scacciare l’intera faccenda dalla testa in qualunque modo, a qualunque costo, altrimenti sarebbe diventato ben presto pazzo come lo era diventata Candice.

Candice, che si stava trasformando sopra lo scarico aperto di una doccia. Lasciamo andar fuori quelle piccole pulci, aveva detto Vergil. Mostriamo loro cos’è il mondo esterno.

Non era per niente difficile convincersi che aveva appena ucciso un essere umano, un amico. Il fumo, gli elettrodi fusi della lampada, il cordone che sfrigolava nell’acqua e il puzzo di bruciato.

Vergil.

Lui aveva immerso la lampada nella vasca in cui c’era Vergil.

Erano bastati il corto circuito e il disinfettante a eliminare tutte le cellule? Forse Bernard e il suo gruppo si sarebbero preoccupati di finire ciò che lui aveva cominciato.

Ma ne dubitava molto. Chi mai avrebbe potuto circoscrivere davvero quella faccenda, capirla davvero? Lui no di certo; erano accaduti dei fatti orribili, spiacevoli da pensare e ancor peggiori da vedere, e non poteva illudersi di presagire ciò che sarebbe successo in seguito. A stento riusciva a credere vero quel che era capitato.

Ricordò il sogno, la città di leucociti che aggrediva Gail, le galassie di cellule che turbinavano contro tutti loro. Che angoscia… e tuttavia poi che potenziale di seduzione: un nuovo genere di vita, di simbiosi e di trasformazioni.

No. Quello era un pensiero sbagliato. Ma cambiare — cambiare molto — poteva significare in meglio e così come giustificare le sue obiezioni a un nuovo ordine, una nuova trasformazione visto che, lui lo sapeva bene, gli esseri umani non erano ancora abbastanza evoluti, e doveva esserci qualcosa di più, e Vergil aveva fatto quel passo, e nel suo modo sciocco e cieco aveva dato l’avvio al prossimo stadio dell’umanità.

No. Nella vita non c’erano stadi né mutamenti così drastici, non c’era posto per cose sconvolgenti come Candice nella doccia o Vergil morto nella vasca. La vita era il diritto di un individuo al normale progresso della sua normalità. Chi poteva togliergli quel diritto? Chi poteva presumere che avrebbe accettato di perderlo? E perché lui si metteva a ipotizzare su quel che poteva succedere, se non capiva neppure quel che era successo? Gli girava la testa.

Disteso sul divano si coprì gli occhi con un avambraccio. In vita sua non s’era mai sentito così stanco: psichicamente svuotato, senza più emozioni, incapace anche di pensare con chiarezza. Ma era riluttante a dormire un poco; sentiva gli incubi costruire già le loro teste di ponte, in attesa di mostrargli echi deformati di ciò che aveva visto.

Spostò il braccio e fissò il soffitto. C’era una vaga possibilità di quello che aveva appena avuto inizio venisse fermato. Forse lui era il solo che poteva dare il via a una catena di fatti diretti a quell’obiettivo. Avrebbe potuto avvertire il Centro Controllo Malattie Epidemiche (sì, ma quali erano le loro possibilità di azione?). O forse il Ministero della Difesa. O cominciare dall’Ufficio Igiene della Contea, attraverso la solita burocrazia? E c’erano anche il VA Hospital e la Clinica Scripps di La Jolla.

Si rimise l’avambraccio sugli occhi. Non esisteva alcuna chiara linea di condotta.

Gli eventi, semplicemente, esorbitavano dalla sua capacità di affrontarli. Immaginava che nella storia umana fosse capitato spesso: onde di marea di avvenimenti che surclassavano gli individui singoli e li trascinavano via. Li spingevano a pensare con desiderio a qualche posto isolato, magari un piccolo villaggio messicano dove niente accadeva mai, e dove potevano rifugiarsi a dormire, nient’altro che dormire.


— Edward? — Gail era china su di lui e gli sfiorava la fronte con dita fresche. — Ogni volta che torno a casa ti trovo qui… morto al mondo. Non hai un bell’aspetto. Ti senti bene?

— Certo. — Si sedette sul bordo del divano. Lo stordinemto e la debolezza rischiarono di fargli perdere l’equilibrio. — Che pensi di fare per cena? — La sua bocca non stava funzionando a dovere, impastava la parole. — Potremmo andare a mangiar fuori.

— Tu hai la febbre — disse Gail. — Una febbre da cavallo. Vado a prendere il termometro. Non ti muovere da qui.

— No — cercò di richiamarla stancamente. Si alzò e barcollò fino in bagno per guardarsi allo specchio. Lei lo raggiunse e gli ficcò il termometro sotto la lingua. E come al solito Edward fece finta di morderlo come Harpo Marx, assaporandolo come un candito. Da sopra una sua spalla lei lo studiò nello specchio.

— Che cosa sono queste? — gli chiese.

Sotto il colletto di lui, attorno al collo, c’erano delle linee. Strisce bianche, come un intreccio di strade.

— Le mani umide — sussurrò. — Vergil aveva le mani umide. E loro erano già dentro di lui, ormai da giorni. — Era talmente ovvio.

— Edward, ti prego! Che cos’è?

— Devo fare una telefonata — disse lui. Gail lo seguì in camera da letto e restò in piedi, mentre lui componeva il numero della Genetron. — Il Dr. Bernard, per favore — chiese. La receptionist rispose con eccessiva fretta che alla Genetron non c’era nessuno con quel nome. — Non faccia la stupida. È una cosa troppo importante — la rimbeccò freddamente. — Dica al Dr. Bernard che sono Edward Milligan, e che è urgente.

La receptionist lo lasciò attendere in linea. Forse Bernard era ancora a casa di Vergil, pensò, e cercava di mettere insieme i pezzi di quel rompicapo; o forse stavano semplicemente mandando qualcuno ad arrestarlo. La cosa non avrebbe ormai avuto nessuna importanza.

— Qui Bernard. — La voce dello scienziato era piatta e affilata: simile, si disse Edward, a quella che doveva sembrare la sua.

— È troppo tardi, dottore. Abbiamo stretto la mano a Vergil. Palmo umido. Ricorda? E cominci a chiedersi chi ha toccato lei da quel momento. Tutti noi siamo i portatori, adesso.

— Oggi sono stato a La Jolla, Milligan — sbottò Bernard. — Ha ucciso lei Ulam?

— Sì. Stava per mettere in circolazione i suoi… microbi. I noociti. O qualunque cosa siano diventati.

— Ha trovato la sua ragazza.

— Sì.

— Che ne ha fatto di lei?

— Di lei? Niente. Era nella doccia. Ma stia a sentire…

— Quando siamo arrivati noi lei era sparita. C’erano solo i suoi vestiti. Ha ucciso anche lei?

— Apra gli orecchi, dottore. Io sono pieno dei microbi di Vergil. E così anche lei.

All’altro capo del filo ci fu un lungo silenzio, poi un sospiro. — Sì?

— Ha ideato un sistema per tenerli sotto controllo? Voglio dire, all’interno del nostro corpo?

— Sì. — Poi, sottovoce: — No, non ancora. Antimetabolici, terapia con radiazioni controllate, actinomicina. Non abbiamo provato tutto. Però… no.

— Allora lei sa come stanno le cose, Dr. Bernard.

Un’altra lunga pausa. — Mmh!

— Io intendo stare qui con mia moglie, per trascorrere insieme il tempo che ci resta.

— Sì, — disse Bernard. — Grazie per avermi chiamato.

— Era mio dovere. Arrivederci.

Edward riappese e passò un braccio attorno alle spalle di Gail.

— È un’epidemia, è vero? — mormorò lei.

Edward annuì. — Questo è ciò che ha creato Vergil: un’epidemia che pensa. E non credo che esista un modo per fermare una malattia intelligente.

XVI

Harrison sfogliava il manuale delle procedure, interrompendosi per prendere metodicamente qualche nota. In un angolo Yng era sprofondato in una morbida poltrona di cuoio, le dita di entrambe le mani unite a piramide davanti alla faccia, coi lunghi capelli neri che gli ricadevano flosci fin sulle lenti degli occhiali. In piedi accanto al piano in fòrmica nera della scrivania Bernard sembrava curvarsi sotto il peso di quel silenzio. Harrison si appoggiò indietro allo schienale e batté un dito sul suo blocco per appunti.

— Prima cosa, non siamo noi i responsabili. Questo è quanto mi risulta qui. Ulam ha condotto le sue ricerche senza la nostra autorizzazione…

— Ma non lo abbiamo licenziato nel momento in cui ce ne siamo accorti — replicò Yng. — Questo sarebbe un punto a nostro sfavore in tribunale.

— Di tutto ciò ce ne preoccuperemo più avanti — disse secco Harrison. — Quello di cui siamo responsabili è il rapporto alla CDC. Questo non è uno scarico abusivo di sostanze nocive, né un inquinamento dovuto ai laboratori, ma…

— Nessuno di noi, nessuno, ha pensato che le cellule di Ulam potessero disperdersi all’esterno del corpo — disse Yng, intrecciando con forza le dita.

— È molto probabile che non potessero farlo, all’inizio — disse Bernard, attirato suo malgrado nella discussione. — È ovvio che c’è stato un grosso cambiamento rispetto ai linfociti originali. Un cambiamento autodiretto.

— Io continuo a rifiutarmi di credere che Ulam abbia creato delle cellule intelligenti — disse Harrison. — Le nostre ricerche nel cubo nero hanno dimostrato quanto ciò sarebbe difficile. Come ha determinato la loro intelligenza? Come ha potuto addestrarle? No… c’è qualcosa…

Yng rise. — Il corpo di Ulam è stato trasformato, ridisegnato… come possiamo dubitare che ci fosse un’intelligenza dietro quelle sue trasformazioni?

— Signori — disse a bassa voce Bernard. — Tutto questo è accademico. Ci decidiamo a mettere sull’avviso Atlanta e Bethesda, oppure no?

— E cosa diavolo dovremmo dirgli?

— Che siamo tutti allo stadio iniziale di una pericolosa affezione epidemica — disse Bernard, — originata nei nostri laboratori da un ricercatore, attualmente perito…

— Assassinato — mormorò Yng, scuotendo il capo con stupore.

— … e che bisogna dare il via alle misure precauzionali.

— Sì — disse Yng. — Ma cosa può fare la CDC in merito? Il contagio si è sparso, a quest’ora forse già per tutto il continente.

— No — disse Harrison, — non su un raggio così vasto. Vergil non ha avuto contatti con molta gente. Potrebbe essere ancora circoscritto alla California meridionale.

— Ha avuto contatti con noi - si lamentò Yng. — Secondo la vostra opinione, siamo contagiati?

— Sì — disse Bernard.

— C’è qualcosa che possiamo fare, per noi personalmente?

Lui fece mostra di rifletterci, poi scosse il capo. — Se volete scusarmi c’è del lavoro che devo fare prima che rilasciamo una dichiarazione. — Uscì dalla sala-conferenze e percorse il corridoio esterno fino alle scale. Di fronte all’ala ovest c’era un telefono pubblico. Tolse dal portafoglio la carta di credito, la inserì nella fessura e compose il numero del suo ufficio di Los Angeles.

— Qui Bernard — disse. — Sto per partire con la mia limousine per l’aeroporto di San Diego. George è disponibile?

— La receptionist fece alcune chiamate e riuscì a metterlo in linea con George Dilman, il suo ingegnere e talvolta suo pilota.

— George? Mi spiace darti un preavviso così breve, ma è una specie di emergenza. Il jet dev’essere pronto fra un’ora e mezzo, con i serbatoi pieni.

— Dove, stavolta? — chiese Dilman, già abituato a voli lunghi ed a preavvisi brevi.

— Europa. Fra una mezz’ora saprò dirti dove con precisione, così potrai comunicare il piano di volo.

— Ci sarà qualche problema, dottore.

— Un’ora e mezzo, George.

— Saremo pronti.

— Viaggerò da solo.

— Dottore, preferirei pilotare io, in caso…

— Da solo, George.

George sospirò, riluttante. — Va bene.

Riabbassò il contatto del ricevitore e quindi compose un numero di ventisette cifre, che iniziava col prefisso per mettersi in linea via satellite e terminava con una chiave in codice, confidenziale, per inserirsi in un impianto anti-intercettazioni. A rispondere fu una donna, in tedesco.

— Doktor Heinz Paulsen-Fuchs, bitte.

Lei non fece domande. Chiunque avesse potuto usare quella linea il dottore gli avrebbe parlato. Paulsen-Fuchs rispose solo dopo diversi minuti, e nel frattempo Bernard si guardò attorno a disagio, conscio che lì in piena vista stava correndo qualche rischio.

— Paul, qui Michael Bernard. Devo chiederti un favore, una cosa di estrema importanza.

— Herr doktor Bernard! Tu sei sempre il benvenuto, sempre! Cosa posso fare per te?

— Hai un laboratorio a isolamento totale nell’impianto di Wiesbaden? Uno che possa essere reso libero in giornata?

— Per quale scopo? Scusami Michael, ma entro un tempo così breve… è davvero indispensabile?

— Sì, te lo assicuro.

— Se c’è un’emergenza seria, be’… suppongo di sì.

— Bene. Avrò bisogno di quel laboratorio, e anche dei codici privati di comunicazione della B.K. Pharmek. Quando scenderò dal mio aereo dovrò disporre di una tuta isolante, e trasferirmi all’istante in un furgone sigillato per trasporti biologici ad alto rìschio. Poi il mio aereo verrà distrutto sulla pista, e l’intera area dovrà essere cosparsa di schiuma sterilizzante. Credo che sarò tuo ospite… se così si può dire, per un periodo indefinito. Bisogna che il laboratorio sia attrezzato in modo che io possa abitare all’interno e fare il mio lavoro. Dovrò usufruire di un terminale del vostro computer, con tutti i servizi.

— Tu sei un famigerato scolabottiglie, Michael, e quando abbiamo fatto bagordi insieme non ti sei mai smentito. Ma questa ha l’aria di una cosa seria. Stiamo parlando di un contagio, Michael? Qualcosa che hai preso dalla provetta di un laboratorio?

Bernard si chiese come Paulsen-Fuchs avesse scoperto che lui stava lavorando sull’ingegneria genetica. O la sua era solo una deduzione? — È un’emergenza grave, Herr Doktor. Puoi favorirmi?

— La cosa verrà resa pubblica?

— Sì. E andrà a tuo vantaggio, e a vantaggio della tua nazione esserne al corrente in anticipo.

— Sembra una cosa poco divertente, Michael.

Lui provò un irrazionale impulso di rabbia. — A paragone di questo, qualsiasi altra cosa è divertente, Paul!

— Allora quel che chiedi sarà fatto. Quando possiamo aspettarti?

— Entro ventiquattr’ore. Ti ringrazio, Paul.

Riappese e gettò un’occhiata all’orologio. Dubitava che chiunque alla Genetron avesse capito l’enormità di ciò che stava per accadere. Lui stesso faticava a immaginarlo. Ma una cosa era certa: entro quarantott’ore dall’arrivo del rapporto di Harrison alla CDC l’intero continente Nordamericano sarebbe stato praticamente messo in quarantena… sia che le autorità prendessero alla lettera le informazioni o meno. Le parole chiave sarebbero state «epidemia» e «laboratori per l’ingegneria genetica». L’azione sarebbe stata del tutto giustificabile, ma lui non credeva che avrebbe servito a molto. Poi sarebbero state prese misure molto più drastiche.

Non aveva intenzione di restare bloccato negli USA quando questo fosse accaduto, ma d’altra parte non voleva essere responsabile di un diffondersi del contagio. Così si sarebbe offerto come una sorta di cavia ad uso della più attrezzata industria per le ricerche farmaceutiche esistente in Europa.

La mente di Bernard era strutturata in modo da non avere mai ripensamenti o dubbi dell’ultima ora… non nel suo lavoro, comunque. In un’emergenza o in una situazione critica questo gli consentiva di proporre una soluzione in anticipo, non di rado quella corretta. Le soluzioni di riserva restavano a maturare indisturbate nel suo subconscio intanto che lui agiva. Così era sempre stato nelle riunioni operative, e così era adesso. Non guardava a quella sua capacità con molto compiacimento. A volte lo trasformava in un freddo robot, mosso da una fiducia in sé che andava oltre la ragione. Ma doveva ad essa il successo, la posizione di grande prestigio che aveva raggiunto nel campo della ricerca neurofisiologica, e il rispetto di cui godeva presso gli studiosi e il pubblico.

Tornò nella sala-conferenze e recuperò la sua valigetta. La limousine, come sempre, lo attendeva nel parcheggio della Genetron, con l’autista che leggeva o giocava a scacchi su un computer da tasca. — Se avrete bisogno di me, sarò nel mio ufficio — mentì, rivolto ad Harrison. Yng era intento a fissare la lavagna, vuota, con le mani dietro la schiena.

— Ho appena telefonato alla CDC — disse Harrison. — Ci richiameranno per darci istruzioni.

La notizia si sarebbe subito sparsa in tutti gli ospedali della zona. Fra quanto avrebbero ordinato di chiudere gli aeroporti? Fino a che punto sarebbero stati efficienti? — Tenetemi informato, allora — disse Bernard. Uscì dalla porta, e per un attimo esitò chiedendosi se non c’era altro che avrebbe dovuto portare con sé. Decise di no. Nella valigetta aveva copie su disco delle note lasciate da Ulam nel computer. E in quanto ai microrganismi di Ulam li aveva nel sangue.

Di certo questo sarebbe bastato a tenerlo occupatissimo per un po’ di tempo.

Conoscenti? Qualcuno che fosse suo dovere avvertire?

L’una o l’altra delle sue tre ex mogli? Non sapeva neppure dove abitassero, adesso. Era l’amministratore a mandar loro l’assegno degli alimenti. E in realtà non c’era alcun modo sicuro per…

Qualcuno che gli stava davvero a cuore, o a cui stesse a cuore lui?

L’ultima volta che aveva visto Paulette era stato in marzo. S’erano lasciati in modo amichevole. Ogni cosa era stata amichevole. Avevano orbitato l’uno intorno all’altra come un pianeta e una luna, senza mai realmente toccarsi. A Paulette non era piaciuto essere la sua luna, e abbastanza a buon diritto. Era salita in alto col suo lavoro, come direttrice per la citotecnologia alla Cetus Corporation di Palo Alto.

Ora che ci pensava, probabilmente era stata lei a suggerire inizialmente il suo nome ad Harrison alla Genetron. Dopo il loro successo coi biochip. Senza dubbio s’era detta che agiva in modo imparziale e obiettivo, ed era stata all’oscuro dei retroscena.

Non poteva farle una colpa di questo. Ma in lui non aleggiava alcun sentimento che lo spingesse a chiamarla, ad avvertirla.

Sarebbe stata una cosa poco opportuna.

Da suo figlio non aveva ricevuto neppure una lettera in cinque anni. Era da qualche parte in Cina, con una borsa di studio per la ricerca scientifica.

S’era tolto dalla testa anche l’idea della sua esistenza.

Forse non ho proprio nessun bisogno di una camera d’isolamento, pensò. Sono già fin troppo maledettamente isolato dal mondo.

XVII

Sapevano che la morte era vicina. Edward non aveva neppure la forza di muoversi, e con gli occhi socchiusi guardò Gail telefonare ai suoi genitori, poi ad alcuni ospedali, infine alla scuola. Il timore d’aver contagiato i suoi alunni la rendeva quasi frenetica. Lui tentò d’immaginare l’effetto di quella notizia quando la voce si sarebbe sparsa a macchia d’olio. Il panico. Ma Gail non ce la fece a continuare, ebbe un tremito di stanchezza e si lasciò cadere sul letto al suo fianco.

La giovane donna cercò di sedersi e imprecò, fremendo come un cavallo che si sforzasse di alzarsi dopo essersi spezzato una gamba, ma i suoi tentativi furono inutili.

Con le ultime energie si girò verso di lui, e giacquero l’uno nelle braccia dell’altra, bagnati di sudore. Gail aveva gli occhi chiusi, il volto color del gesso. Pian piano il suo corpo si fece inerte come quello di una bambola di pezza. Per un poco Edward pensò che fosse già morta, e pur debole com’era tremò di rabbia e di odio, sentendosi angosciosamente in colpa per ciò che le aveva trasmesso e per la sua lentezza nell’esaminare le peggiori ipotesi. Poi anche questo perse ogni importanza. Perfino tenere gli occhi aperti era troppo faticoso, così li chiuse e attese.

C’era un ritmo nelle sue braccia, nelle sue gambe. A ogni pulsazione del sangue una specie di suono sgorgava in lui come un’orchestra che provasse centinaia di strumenti, ma non all’unisono: erano sinfonie e sinfonie che si sovrapponevano. Musica nel sangue. La sensazione si fece più precisa e udibile, le onde sonore salirono e scesero d’intensità, poi si separarono in intervalli armonici.

Gli intervalli erano ritmati sui battiti del suo cuore.

Nessuno dei due aveva più il senso dello scorrere del tempo. Potevano essere passati giorni quando lui ritrovò abbastanza forza da barcollare fino al lavandino, in bagno. Bevve fino a non poterne più e tornò con un bicchiere d’acqua. Sollevò la testa di Gail e glielo premette alla bocca. Aveva le labbra screpolate, gli occhi rossi e cerchiati da un gonfiore giallastro, ma le era tornato un po’ di colore sulla pelle. — Stiamo morendo, Edward? — ansimò con voce fievole e rauca. — Voglio essere fra le tue braccia quando moriremo.

Qualche minuto dopo lui ebbe l’energia di portarla a sedere in cucina. Sbucciò un’arancia e la divise con lei, e sentì pulsare lo zucchero e il succo e l’acido giù per l’esofago. — Che fine hanno fatto tutti? — mormorò lei. — Ho chiamato l’ospedale, i nostri amici… dove sono?

La sensazione di un’orchestra al lavoro tornò in lui, coi battiti coordinati in frammenti riconoscibili. I frammenti si unirono, cominciarono a esprimere significati, e ad un tratto…

È presente DISAGIO?

— Sì.

Edward aveva risposto automaticamente e con calma, come se si fosse atteso quel contatto e fosse pronto per una lunga conversazione.

PAZIENZA. Ci sono difficoltà.

— Cosa? Non capisco…

°Rispostaimmunizzante°. °Conflitto°. Difficoltà.

— Lasciateci stare, allora! Andate via!

Non possibile. Troppo INTEGRATI.

Non stavano guarendo. Non nel senso che si dà allo scemare di un’infezione. Ogni momentanea sensazione di miglioramento era illusoria. In poche parole, poiché le forze non gli consentivano altro, cercò di spiegare a Gail ciò che sapeva su quel che stava loro accadendo.

Lei riuscì ad alzarsi dalla sedia e andò alla finestra con le gambe scosse da tremiti, poi si appoggiò al davanzale e lasciò vagare gli occhi sul prato e sugli appartamenti di fronte. — Cos’è successo alla gente? — domandò. — L’hanno presa anche loro? È per questo che non c’è nessuno fuori?

— Non lo so. Probabilmente è presto.

— Loro ti… la malattia, ti stava parlando?

Lui annuì.

— Allora non sono impazzita. — Lentamente lei attraversò il soggiorno. — Sento che non ce la faccio più a muovermi. E tu? Forse potremmo cercare di fuggire.

Lui le prese una mano e scosse il capo. — Sono dentro di noi, ormai parte del nostro corpo. Loro sono noi. Dove potremmo fuggire?

— Allora quando non potremo più muoverci voglio stare a letto con te. Voglio le tue braccia intorno a me.

Tornarono a stendersi sul letto e si abbracciarono debolmente.

— Eddie…

Quello fu l’ultimo suono che lui udì. Cercò di opporsi, ma ondate di pace rotolavano su di lui e poté soltanto assorbire quell’esperienza. Fluttuò sopra un immenso mare viola e azzurro. Era il suo corpo visto dall’interno, fatto di distese senza limiti, irretito di percorsi. Gli interventi dei noociti erano visibili ovunque, e gli fu facile rendersi conto dei loro progressi. Era ovvio che il suo corpo era già quasi del tutto noocita e solo ancora in minima parte Milligan.

— Cos’altro ci accadrà?

Non più MOVIMENTO.

— Stiamo morendo?

Cambiando.

— E se non volessimo cambiare?

Niente DOLORE.

— Né paura? Non ci permettete neppure di avere paura?

Il mare azzurro e viola e l’intreccio di percorsi svanirono in una calda tenebra.

Aveva ora quanto tempo voleva per riflettere sui fatti, ma non abbastanza informazioni. Era questo ciò che Vergil aveva sperimentato? Non c’era da stupirsi se era parso scivolare nella follia. Sepolto nella sua prospettiva interna, priva dei rapporti con lo spazio. Sentì un aumento del calore, una vicinanza e una presenza impellente.

(Edward…)

— Gail? Io riesco a udirti… no, non a udirti…

(Edward, so che dovrei essere terrorizzata. Vorrei provare rabbia, ma non posso.)

Non essenziale.

(Andate via! Edward, voglio combatterli…)

— Lasciateci, per favore! Lasciateci!

PAZIENZA. Difficoltà.

Parve loro di scivolare con placida semplicità nel piacere della reciproca compagnia. Ciò che Edward si sentiva accanto non era la forma fisica di Gail, neppure l’immagine che aveva della personalità di lei, ma qualcosa di ancor più convincente con tutti i dettagli e i caratteri della realtà. Stava sperimentando una diversa dimensione di Gail.

— Quanto tempo è trascorso?

(Non lo so. Domandalo a loro.)

Una pausa di silenzio.

(Te lo hanno detto?)

— No. Non credo che loro sappiano veramente come parlare con noi… non ancora. Forse questa è tutta un’allucinazione. Vergil aveva allucinazioni, e può darsi che io stia solo imitando i suoi sogni febbrili…

(Dimmi chi sta dando allucinazioni e a chi. Aspetta. Arriva qualcosa. Puoi vederlo?)

— Non riesco a vedere niente… ma posso percepirlo.

(Descrivimelo.)

— Non posso.

(Guarda… sta facendo qualcosa.)

Con riluttanza: (È bello.)

— È molto… Non credo che ci sia da averne paura. È più vicino, adesso.

Non MALATTIA. Non DOLORE. °Imparare° e °adattare°.

Non si trattava di un’allucinazione, tuttavia non poteva essere descritta a parole. Edward non si agitò mentre la sentiva avvicinarsi.

(Che cos’è?)

— È il posto dove staremo per qualche tempo, credo.

(Resta con me!)

— Naturalmente…

D’improvviso ci fu un gran lavoro da fare e a cui prepararsi.

Edward e Gail crebbero assieme sul letto: sostanza che passava attraverso i vestiti, pelle che si univa solidificando il loro abbraccio, e labbra che si fondevano alle labbra nel punto di contatto.

XVIII

Bernard era molto orgoglioso del suo Falcon 10. L’aveva acquistato a Parigi dal presidente di una fabbrica di computer che era fallito. Per prendere la licenza da pilota gli erano bastati tre mesi di intense lezioni, e da tre anni ormai si coccolava quel levigato jet da affarista internazionale. Con un dito sfiorò amorevolmente il bordo del nero pannello dei comandi, assaporando il contatto del mogano. Era singolare che dopo essersi lasciato tutto alle spalle — e dopo aver perduto tanto — l’interno di un aereo potesse significare per lui qualcosa d’importante. Libertà, appagamento, prestigio… chiaro che nelle prossime settimane, se avesse vissuto tanto, avrebbe subito molti cambiamenti dal lato fisico. Si sarebbe trovato alle prese con la sua fragilità umana, la sua caducità.

L’aereo era stato rifornito al La Guardia senza bisogno che lui lasciasse l’abitacolo. Aveva dato istruzioni per radio, accordandosi col servizio a terra per gli aerei privati, ed era sceso sulla pista. Gli inservienti avevano fatto rapidamente il loro lavoro, quindi lui s’era accordato con la torre di controllo per continuare secondo il suo piano di volo. Non aveva toccato nessuno, né respirato la stessa aria del personale di terra.

A Reykjavik aveva dovuto scendere e provvedere da solo al rifornimento, ma indossava tuta e casco ben stretti ed era stato attento a non toccare niente senza i guanti.

Mentre faceva rotta verso la Germania la mente gli si era schiarita un po’… solo per divenire acuta in modo spiacevole nell’autocritica. Neppure una delle conclusioni cui pervenne gli piacque. Cercò di scacciarle dalla mente, ma nella carlinga c’era poco a cui dedicare la sua attenzione e le accuse e le recriminazioni tornavano di continuo a tormentarlo, finché non decise di mettere il pilota automatico e di affrontarle a viso aperto.

Molto presto lui sarebbe morto. Offrire se stesso alla Pharmek, al mondo che ancora non era stato contaminato, era probabilmente una specie di nobile autosacrificio. Ma questo non bastava certo a compensare ciò che lui aveva lasciato accadere.

Come avrebbe potuto immaginarselo?

— Milligan sapeva — si disse a denti stretti. — Dannazione a tutti loro! — Dannazione a Vergil I. Ulam. Ma lui non era della stessa razza di Vergil, forse? No, questo rifiutava di ammetterlo. Vergil era stato brillante (rivide il corpo arrossato e coperto di escrescenze nella vasca da bagno. Era stato, era stato) ma irresponsabile, cieco alle precauzioni che lui invece avrebbe preso quasi d’istinto. Tuttavia, se Vergil avesse preso quelle precauzioni non avrebbe mai terminato il suo lavoro.

Nessuno glielo avrebbe permesso.

E Michael Bernard sapeva fin troppo bene quanto fosse avvilente vedersi bloccare da altri mentre si stava seguendo una promettente linea di ricerca. Lui avrebbe potuto curare migliaia di vecchi affetti dal Morbo di Parkinson… se solo gli fosse stato concesso di usare parti del tessuto cerebrale di embrioni abortiti. Invece, nel loro fervore moralistico, gli individui — con e senza faccia — da cui era stato fermato avevano contribuito a lasciare migliaia di persone nella sofferenza più umiliante. Quante volte s’era augurato che la giovane Mary Shelley non avesse mai scritto quel romanzo, o almeno non avesse scelto un nome tedesco per il suo scienziato. Tutte le paure nate agli inizi dell’età della scienza vivevano ancora nella mentalità della gente…

Sì, sì, e lui stesso non aveva appena maledetto Ulam per la sua genialità? Non aveva fatto inconsciamente quel paragone?

Il mostro di Frankenstein. Inevitabile. Noiosamente ovvio.

La gente temeva tutto ciò che era nuovo, ogni cambiamento.

E ora anche lui aveva paura, benché ammettere quella paura non fosse facile. Meglio essere razionale e presentarsi come un soggetto di studio, un involontario sacrificio umano come il Dr. Louis Slotin, a Los Alamos nel 1946. Vittime di un incidente, Slotin e altri sette erano stati esposti a una forte dose di radizioni ionizzanti. Slotin aveva ordinato agli altri sette di non muoversi. Poi aveva tracciato circoli intorno ai suoi piedi e ai loro, per dare agli scienziati dati probanti sulla distanza dalla sorgente e sull’intensità dell’esposizione su cui basare i loro studi. Slotin era morto dieci giorni dopo. Un altro era morto vent’anni più tardi per complicazioni attribuite alle radizioni. Altri due erano morti di una forma acuta di leucemia.

Cavie umane. Nobile, stoico Slotin.

Ma non era accaduto loro di desiderare, in quei terribili momenti, che nessuno avesse mai scoperto come scindere l’atomo?

La Pharmek aveva affittato un piccolo aeroporto a due chilometri dai propri impianti di ricerca, nella campagna fuori Wiesbaden, per ricevere scienziati e uomini d’affari, materiali di ogni genere, sostanze chimiche e campioni spediti da squadre di ricerca di tutto il pianeta. Bernard si mise a volare in cerchio sopra i boschi e i campi arati, a tremila metri di quota, proprio mentre il cielo d’oriente si schiariva nell’alba.

Collegò la sua radio secondaria al sistema automatico ILS della Pharmek, e facendo scattare due volte il microfono ottenne l’accensione delle luci del campo. La pista apparve sotto di lui nel grigiore antelucano, con una freccia luminosa laterale che indicava la direzione del vento.

Bernard planò in direzione della doppia fila di luci e sentì le ruote poggiarsi con un lieve tonfo sulla pista di cemento: un atterraggio perfetto, l’ultimo che lo snello jet dirigenziale avrebbe compiuto.

Dal portello laterale della carlinga poté vedere un grosso furgone bianco e alcune persone con indosso tute a protezione integrale, in attesa che lui scendesse. Gli stavano puntando contro un grosso riflettore mobile. Aprì un finestrino e con una mano fece loro cenno di non muoversi da dove stavano. Poi tornò alla radio e disse: — Deponete una tuta isolante a cento metri di distanza dal jet. Il furgone dovrà attendermi altri cento metri ancora più indietro.

Un uomo in piedi sul predellino del furgone ascoltò il collega alla guida e segnalò «ricevuto» alzando il pollice. La tuta in plastica venne appoggiata sulla pista, quindi il furgone e gli uomini indietreggiarono alla distanza richiesta.

Bernard spense i motori e le apparecchiature di bordo, lasciando accese solo le luci interne e il sistema per lo scarico d’emergenza del carburante. Con la valigetta Jeppesen sotto un braccio attraversò la cabina passeggeri e tolse una latta pressurizzata di disinfettante dallo scomparto dei bagagli. Con un profondo respiro si allacciò sulla faccia una maschera-filtro di gomma, e lesse le istruzioni stampate sulla latta. Era fornita di un tubo flessibile, terminante in un beccuccio nero a pistola. Sul grilletto c’era un sigillo che lui strappò.

Con la latta in una mano e l’estremità del tubo nell’altra Bernard tornò nella cabina di pilotaggio e cosparse di spray i comandi, i sedili, il soffitto e il pavimento, finché tutto grondò di fluido verdastro e schiumoso. Poi tornò nello scomparto dei passeggeri e spruzzò ogni cosa che poteva avere toccato, finché la pressione all’interno della latta fu a zero. La depose su uno dei sedili di pelle.

Guardandosi attorno si tastò con una mano la tasca dei pantaloni per accertarsi che la pistola da segnalazione fosse ben infilata, insieme alle sei cartucce di riserva, quindi scese dalla scaletta e andò a deporre la valigetta Jeppesen sulla pista, a una decina di metri dal rosso muso del piccolo jet. Ne tolse gli utensili.

Passo per passo sabotò il velivolo, dapprima svuotando del contenuto i sistemi idraulici, poi spaccando i tubi dell’aria compressa e dei freni. Con un accettino sfondò i vetri della cabina di pilotaggio e gli oblò laterali, arrampicandosi su un’ala per raggiungerli.

Risalì la scaletta, tornò in cabina e si appoggiò a uno dei sedili grondanti di schiuma verde per girare l’interruttore dello scarico d’emergenza del carburante. Un coperchietto schizzò via, scoprendo un pulsante rosso; lo premette e le valvole si aprirono. Bernard uscì in fretta dal velivolo, chiuse la valigetta e corse fin dove la tuta isolante grigia e arancione giaceva sulla pista.

I tecnici e il personale della Pharmek non avevano neppure accennato a intervenire. Bernard si tolse di tasca la pistola e i razzi di riserva, si spogliò completamente nudo e indossò l’indumento pressurizzato. Arrotolando gli indumenti li portò fino alla pozza di benzina sotto il Falcon 10. Tornò indietro, aprì la valigetta, ne tolse soltanto il suo passaporto e lo mise in una scatoletta di plastica. Poi raccolse la pistola.

La cartuccia scivolò liscia nella canna. Prese accuratamente la mira — sperando che la traiettoria non fosse troppo curva — e sparò il razzo contro il jet che era stato il suo orgoglio e la sua gioia.

Il carburante prese fuoco con un’alta fiammata arancione che in pochi secondi si striò di lingue nere, mentre bruciavano plastiche e vernici. Una silhouette scura sullo sfondo di quell’inferno di fiamme; Bernard raccolse la valigetta e s’incamminò verso il furgone.

Era poco probabile che fra i presenti ci fosse un funzionario della dogana, ma per rispettare le formalità legali lui sollevò la scatoletta trasparente col passaporto e la indicò con un dito. Un uomo in tuta isolante simile alla sua si fece avanti e lo prese.

— Niente da dichiarare — disse Bernard. L’uomo sollevò una mano davanti al copricapo integrale in rigida plastica nell’imitazione di un saluto militare, quindi indietreggiò. — Disinfettatemi, prego.

Girò su se stesso sotto il getto di un liquido sterilizzante rosato, sollevando le braccia e uno alla volta anche i piedi. Mentre saliva dalla scaletta nel furgone isolato sentì i filtri dell’aria mettersi in moto e vide accendersi le luci antibatteriche a raggi ultravioletti. Il portello fu chiuso dietro di lui, con un lieve fruscio di guanizioni a tenuta che venivano compresse.

Durante il percorso fino alla Pharmek, su una stretta strada a due corsie fra verdi e umidi pascoli, Bernard poté gettare un’occhiata dal finestrino laterale alla pista dell’aeroporto. La fusoliera del jet era già ridotta a un nero scheletro fumante. Le fiamme lingueggiavano basse sullo sfondo del cielo chiarissimo, e sembrava che nella carcassa di metallo arroventato non vi fosse ormai più niente ad alimentarle.

XIX

Heinz Paulsen-Fuchs guardò l’elenco delle chiamate sullo schermo del suo telefono. Avevano già cominciato. C’erano in corso inchieste di parecchie commissioni governative, inclusi il Bundesumweltamt (l’organo della Sorveglianza Ambientale) e il Bundesgesundheitsamt (l’Ufficio Federale per la Sanità). Le autorità municipali di Francoforte e di Wiesbaden erano altrettanto preoccupate.

Tutti i voli da e per gli Stati Uniti erano stati cancellati. Ci si poteva già aspettare l’arrivo di qualche funzionario, questione di ore. E prima di doversi spiegare con loro Paulsen-Fuchs intendeva avere chiarimenti da Bernard.

Non era quella la prima volta che gli capitava di pentirsi amaramente d’aver aiutato un amico. E non poteva permettersi quella sua debolezza: era uno dei più importanti operatori industriali della Germania post-bellica, e agiva come un sentimentale dal cuore tenero.

Indossò un impermeabile trasparente sul completo di lana grigia e con cura si sistemò il berretto sui capelli bianchi. Poi si fermò davanti alla porta di casa in attesa che la Citroen bagnata di pioggia venisse a fermarsi sul vialetto.

— Buon giorno, Uwe — salutò l’autista, sceso ad aprirgli la portiera, e salì in fretta sul sedile posteriore. — Ti avevo promesso questi per Richard. — Gli porse tre romanzi gialli. Richard era il figlio dodicenne di Uwe, e come Paulsen-Fuchs era un appassionato di narrativa gialla. — Vai un po’ più in fretta del solito, per favore.


— Devi scusarmi se non ti sono venuto incontro all’aeroporto — disse Paulsen-Fuchs. — Ero qui a preparare le cose per il tuo arrivo… e poi sono stato chiamato altrove. Il mio Governo ha già ordinato inchieste a vari livelli. Sta succedendo qualcosa di molto serio. Tu ne sei al corrente?

Bernard si avvicinò al triplo cristallo della larga finestra che separava il laboratorio a isolamento biologico dall’anticamera. Sollevò una mano a mostrare l’intreccio di linee bianche che la ricopriva. — Sono contaminato.

Paulsen-Fuchs strinse le palpebre e si grattò una guancia con due dita. — È chiaro che non sei il solo, Michael. Cosa sta succedendo in America?

— Da quando ne sono partito non ho saputo più niente.

— Il vostro Centro Controllo Malattie Epidemiche di Atlanta ha diramato istruzioni d’emergenza. Tutti i voli interni e internazionali sono stati aboliti. Si dice che alcune città non rispondano alle comunicazioni, sia radio sia telefoniche. Sembra che molti stati siano in preda al caos. Ora tu sei venuto qui, hai bruciato il tuo aereo sulla pista, facendo in modo di essere l’unica creatura vivente e ben sterilizzata giunta fino a noi da oltre oceano. Che genere di provvedimenti ti aspetti da noi, Michael?

— Paul, ci sono diverse misure che il resto del mondo dovrà prendere immediatamente. Bisogna che mettiate in quarantena tutti i viaggiatori arrivati di recente dagli USA e dal Messico… possibilmente da tutto il Nord America. Non ho idea di quanto lontano possa estendersi il contagio, però sembra che si espanda rapidamente.

— Sì, il nostro Governo sta già lavorando in questa direzione. Ma tu sai quanto sia lenta la burocrazia…

— Dovete aggirare la burocrazia. Troncate ogni contatto fisico col Nord America.

— Non posso certo convincerli, se mi limito a suggerire…

— Paul — disse Bernard, tornando a mostrargli le mani. — Ho forse una settimana; meno se quel che riferisci è certo. Spiega al tuo Governo che questa è più che una semplice epidemia. Ho tutti i dati più importanti nella mia valigetta. Dovrò conferire coi vostri migliori biologi appena avrò fatto un paio d’ore di sonno. Prima che vengano a parlarmi, voglio che si studino gli appunti che ho portato con me. Inserirò i dischi nel terminale, qui. Adesso non posso dirti molto di più. Casco letteralmente dal sonno.

— Molto bene, Michael. — Paulsen-Fuchs si morse le labbra, il volto segnato da rughe di preoccupazione. — È una delle cose che avevamo ipotizzato potessero accadere?

Bernard ci pensò un momento. — No — mormorò. — Direi di no.

— Ancora peggio, allora — disse Paulsen-Fuchs. — Farò subito il necessario. Trasferisci i dati nel computer. E poi dormi. — Spense la luce nella camera di osservazione e uscì.

Bernard attraversò la sua nuova abitazione, un locale di appena tre metri per tre. Il laboratorio era stato costruito nel 1980 per esperimenti genetici che all’epoca venivano ritenuti potenzialmente pericolosi. L’intera camera interna era sospesa in un contenitore ad alta pressione; ogni falla nella parete avrebbe prodotto un ingresso di aria, non una fuga. L’intercapedine pressurizzata poteva essere saturata da diversi tipi di disinfettanti, ed era circondata da un altro contenitore in cui c’era il vuoto pneumatico. Tutti i contatti elettrici e i sistemi meccanici che passavano attraverso i contenitori erano immersi in un bagno di soluzione sterilizzante. L’aria e i rifiuti in uscita dal laboratorio venivano sottoposti a due successivi processi di cremazione; ogni campione prelevato dall’interno passava in un locale adiacente dove lo si trattava con cautela non minore. Da quel momento fino alla soluzione del problema, o alla morte di Bernard, nulla che provenisse dal suo corpo sarebbe stato toccato da un altro essere vivente fuori dal laboratorio.

Le pareti erano di un grigio neutro; la luce era data da lampade al neon incorporate verticalmente nei muri, e da tre pannelli mobili a luce diurna controllabili sia dall’interno sia dall’esterno. Il pavimento era in lisce mattonelle nere. Nel centro del locale, chiaramente visibile da entrambe le opposte camere di osservazione, c’era una scrivania da ufficio con una poltroncina girevole, e su di essa campeggiava un terminale VDT ad alta risoluzione. Un letto dall’aspetto pratico ma comodo, privo di lenzuola e di coperte, lo attendeva in un angolo. Uno scaffale a cassetti stava sotto il portello d’acciaio a chiusura ermetica del passa-oggetti. Alla parete opposta un’altra scaffalatura conteneva attrezzi più voluminosi. L’arredamento era completato da un tavolo da lavoro e da una doccia-gabinetto chiusa da una tenda, che sembrava essere stata tolta di peso da un piccolo aereo o da un veicolo per lunghi percorsi.

Sollevò i pantaloni e la camicia lasciati per lui sul lettuccio e ne tastò la stoffa fra il pollice e l’indice. Non ci sarebbe stata alcuna concessione all’intimità e alla decenza da quel momento. Lui non era più una persona privata. Sarebbe stato studiato, tenuto in gabbia e analizzato dai medici, e trattato in tutto come un animale da laboratorio.

Molto bene, pensò, stendendosi sul letto. Me lo sono meritato. Mi merito qualunque cosa accadrà adesso. Mea culpa.

Bernard si rilassò sul materasso e chiuse gli occhi.

Le pulsazioni del sangue gli suonavano negli orecchi.

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