— Mamma? Howard? — Suzy McKenzie s’infilò il vestito di flanella azzurro-cielo che il suo ragazzo le aveva regalato il mese prima in occasione del suo diciottesimo compleanno, e uscì a piedi nudi in corridoio. — Ken? — Come al solito lei era l’ultima ad alzarsi dal letto. Suzy la Pigra, così talvolta si riferiva a se stessa con un sorrisetto segreto.
Non teneva orologi nella sua camera, ma fuori dalla finestra il sole era abbastanza alto da far pensare che fossero almeno le dieci. Le porte delle altre stanze da letto erano chiuse. — Mamma? — Bussò piano alla camera di sua madre. Non ci fu risposta.
Sicuramente uno dei suoi fratelli era già alzato. — Kenneth? Howard? — A metà del corridoio tornò indietro, facendo cigolare alcune assicelle del pavimento di legno. Girò la maniglia della prima porta e aprì. — Mamma? — Il letto non era stato ancora rifatto, e le coperte giacevano per metà in terra. Dovevano essere tutti al piano di sotto. Andò in bagno a lavarsi la faccia, ispezionò la pelle delle guance in cerca di eventuali punti neri e fu soddisfatta di non trovarne neppure uno, quindi scese le scale e attraversò l’andito. Non si sentiva volare una mosca.
— Ehi! — chiamò dal soggiorno, confusa e di malumore. — Nessuno mi ha svegliato. Farò tardi al lavoro! — Da tre mesi era stata assunta come cameriera in un ristorante delle vicinanze. Quel lavoro le piaceva (era molto più interessante e reale che sgobbare nella cucina economica dell’Esercito della Salvezza) e le permetteva di dare un contributo in casa. Sua madre aveva perso l’impiego tre mesi prima e vivevano con gli assegni saltuari del padre di Suzy, oltreché coi loro risparmi in rapida diminuzione. Gettò uno sguardo all’orologio navale Benrus sul tavolo e scosse il capo. Le dieci e mezzo; era sul serio in ritardo. Ma questo non la preoccupava come il pensiero di dove potessero esser andati gli altri. Bisticciavano spesso, certo, però erano una famiglia molto unita (salvo il padre, di cui lei difficilmente sentiva la mancanza. Non molto, comunque) e nessuno sarebbe uscito senza dirle niente, tantomeno senza svegliarla.
Spinse la porta a molla della cucina e dopo due passi si fermò di colpo. Dapprima i suoi occhi non registrarono ciò che si trovò davanti: tre forme stranamente scomposte, tre corpi, uno contenuto in un vestito da donna e steso sul pavimento, contro la base del lavandino, un altro con i soli jeans addosso e seduto al tavolo di cucina, e il terzo mezzo dentro e mezzo fuori dalla dispensa. Nessun movimento, nessun rumore, soltanto tre corpi che lei non riuscì affatto a riconoscere.
Per un poco la ragazza non ebbe alcuna reazione. Riusciva solo a pensare che aprire la porta in quel momento doveva essere stato un errore: se l’avesse aperta un secondo prima, o un secondo dopo, tutto quanto sarebbe stato normale. In qualche modo avrebbe allora spalancato una porta diversa — la porta del suo mondo — e la sola cosa fuori posto sarebbe stato il fatto che nessuno l’aveva svegliata per tempo. Invece lei non era stata attenta, e questo era proprio spiacevole: aveva aperto la porta nel momento sbagliato, e adesso era troppo tardi per richiuderla.
Il corpo accanto all’acquaio indossava un vestito di sua madre. La faccia, le braccia, le gambe e le mani erano marcate da rigonfie strisce bianche. Suzy fece un altro breve passo avanti, col fiato mozzo e accelerato. La porta le scivolò via dalle dita e si richiuse. Indietreggiò e fece un passo di lato, come se il suo corpo scattasse in una danza di terrore e indecisione. Avrebbe dovuto chiamare la polizia, naturalmente. Forse un’ambulanza. Ma prima doveva scoprire cos’era successo, e tutti i suoi istinti la spingevano a correre via da quella cucina, a fuggire in strada.
Howard aveva vent’anni, e d’abitudine in casa girava con i soli jeans, senza camicia. Gli piaceva andare a petto nudo da quando aveva messo su un robusta massa muscolare. Ora il suo torace era di un colore bruno rossastro, come quello di un indiano, strisciato da protuberanze simili a quelle di un’asse per lavare vecchio stile. Aveva gli occhi chiusi, la bocca chiusa, e i lineamenti distesi. Stava ancora respirando.
Kenneth — doveva essere Kenneth — sembrava più un mucchio di frittelle avvolto in un vestito che il suo fratello più anziano.
Qualunque cosa fosse accaduta era totalmente incomprensibile. Si chiese se non si trattasse di una cosa che tutti gli altri già sapevano, ma di cui avessero dimenticato d’informarla.
No, questo non aveva senso. A volte la gente era crudele con lei, ma sua madre e i suoi fratelli non erano mai crudeli. La cosa migliore era uscire di lì e chiamare la polizia, o qualcuno. Qualcuno che sapesse ciò che bisognava fare.
Nell’ingresso scorse la lista di numeri appesa sopra il vecchio telefono nero, quindi cercò di comporre quello del soccorso d’emergenza. Le sue dita tremanti incespicavano nei fori del disco. Aveva gli occhi pieni di lacrime quando finalmente riuscì a fare le tre cifre.
Per alcuni minuti l’auricolare le trasmise soltanto il suo monotono squillo. Poi una registrazione le rispose: — Le nostre linee sono sovraccariche. È pregato di non riappendere o perderà la sua priorità. — Tornarono a farsi udire gli squilli. Dopo altri cinque minuti, con un singhiozzo, riappese e compose il numero della centrale telefonica. Neppure da lì ebbe risposta. D’un tratto ricordò quel che aveva detto sua madre la sera prima circa una qualche specie di epidemia in California. Ne aveva parlato la radio. Gente che si ammalava, e l’esercito chiamato a prestare soccorso. Soltanto allora, scossa da quel pensiero, Suzy McKenzie corse fuori dalla porta d’ingresso, si fermò sugli scalini e chiamò aiuto con voce rotta.
La strada era deserta. Su entrambi i lati erano parcheggiate file di auto… incomprensibilmente, perché la sosta era proibita dalle otto alle diciotto di tutti i giorni salvo il giovedì e il venerdì, e quello era un giovedì, e la polizia non scherzava. Non c’era un’auto in movimento. E non si vedeva un’anima né sui marciapiedi, né in macchina, né alle finestre delle case. La ragazza cominciò a correre in una direzione a caso, piangendo e a tratti gridando in tono supplichevole, poi con rabbia, quindi con voce stridula per il terrore, infine di nuovo invocando aiuto.
Smise di gridare quando vide un postino steso al suolo davanti a un elegante edificio d’appartamenti, fra le cancellate che portavano all’ingresso. Giaceva sulla schiena, a occhi chiusi, e sembrava ridotto proprio come Howard e sua madre. Per Suzy i postini erano sacri e degni di fiducia come i poliziotti. Si passò le mani sulla faccia come per toglierne la maschera di terrore e chiuse gli occhi, cercando di pensare. — Quell’epidemia si è sparsa dappertutto — si disse. — Qualcuno dovrà pur sapere cosa bisogna fare.
Tornò a casa sua e prese di nuovo il telefono. Poi cominciò a chiamare tutti i numeri che conosceva. Alcuni squillarono a vuoto, altri risposero solo col silenzio o con strani rumori da computer. Rifece il numero del suo ragazzo, Cary Smyslov, e ascoltò l’apparecchio suonare otto, nove, dieci volte prima di riappendere. Fece una pausa, rifletté qualche istante, quindi chiamò sua zia Dawn, nel Vermont.
Stavolta ebbe risposta al primo squillo. — Pronto? — La voce era tremula e sfinita, ma apparteneva senza dubbio a sua zia.
— Zia Dawn, qui è Suzy, da Brooklyn. Ci sta succedendo una cosa terribile, noi…
— Suzy? — balbettò la donna, come incapace di collegare quel nome.
— Sì, lo sai, Suzy. Suzy McKenzie.
— Cara, adesso non mi sento troppo bene. — La zia Dawn non era una vecchia decrepita. Aveva soltanto trentun’anni. Ma la sua voce adesso ne dimostrava il doppio.
— La mamma è malata, forse è morta, non lo so, e Kenneth e Howard, e qui non c’è più nessuno, oppure sono tutti ammalati, e io non so cosa…
— Anch’io mi sento molto male — disse zia Dawn. — Ho preso quei bubboni. Tuo zio non è tornato a casa, o forse è in garage. Comunque non lo vedo da… — Ebbe un ansito. — Da ieri sera. Parlava da solo come un matto. E non è ancora rientrato. Cara…
— Cosa sta succedendo? — gridò Suzy, con voce rotta.
— Cara, io non lo so, ma non ce la faccio più a parlare. Penso che stia diventando matta. Arrivederci, Suzy. — E poi, incredibilmente, riattaccò. La ragazza cercò di chiamarla ancora ma non ci fu risposta, e infine, alla terza volta, neppure lo squillo sulla linea.
Fu sul punto di aprire l’elenco telefonico e di fare chiamate a caso, ma lasciò perdere quell’idea e tornò in cucina. Doveva sforzarsi di fare qualcosa per loro… tenerli al fresco, oppure al caldo, o trovare nell’armadietto un qualche medicinale che potesse servire.
Sua madre era visibilmente assottigliata. Le creste bianche sembravano essersi gonfiate molto sul volto e sulle braccia. Suzy allungò una mano verso una guancia della donna, esitò, poi si costrinse a toccarla. La pelle era tiepida e asciutta, non febbricitante, abbastanza normale a parte il colore. In quel momento sua madre aprì gli occhi.
— Oh, mamma! — gemette Suzy. — Cosa sta succedendo?
— Be’… — disse la donna. Si passò la lingua sulle labbra. — È abbastanza bello in questo momento. Tu stai bene, vero? Ah, Suzy! — Poi chiuse gli occhi e non disse altro. La ragazza si volse a Howard, che sedeva appoggiato al tavolo. Gli sfiorò un braccio, e sentendo che la pelle sembrava sgonfiarsi come un sacco vuoto fece un balzo indietro. Solo allora notò l’intreccio di tubicini simili a radici che gli sbucavano da sotto i pantaloni e andavano a sparire dentro una fessura, fra il pavimento e il muro.
Altre di quelle strane radici emergevano dal corpo color pastafrolla di Kenneth, e giravano dietro l’angolo della dispensa. E seminascosto dalla schiena di sua madre c’era un singolo spesso tubo di carne pallida, che uscendo da sotto la gonna serpeggiava fin dentro l’armadietto accanto all’acquaio. In un istante di follia Suzy pensò che quello era cinema dell’orrore, un trucco, e che i suoi familiari stavano girando un film senza averle detto niente. Si accostò a sbirciare dietro al corpo di sua madre. Lei non era un’esperta, però quel tubo di carne non era un trucco. Poteva vedere il sangue che pulsava dentro di esso.
Lentamente Suzy risalì le scale e tornò in camera sua. Sedette sul letto, passandosi le dita fra i lunghi capelli biondi e del tutto inconscia di quel che faceva, infine si distese e fissò la vecchia tappezzeria argentea del soffitto. — Gesù, ti prego, vieni ad aiutarmi perché ho bisogno di te adesso — mormorò. — Gesù, ti prego, vieni ad aiutarmi perché ho bisogno di te adesso.
La ragazza continuò a sussurrare suppliche per ore e ore, finché nel pomeriggio la sete la costrinse ad andare a bere nel bagno. E anche dopo aver inghiottito qualche sorso ripeté meccanicamente la sua preghiera, finché l’insensata monotonia della cosa non la ridusse al silenzio. Si appoggiò alla ringhiera delle scale, sempre vestita con l’abito azzurro che aveva messo quel mattino, e cominciò a pensare a quel che doveva fare. Lei non era ammalata — non ancora — e certamente non era morta.
Dunque doveva esserci qualcosa che potesse fare, qualche posto dove andare.
E tuttavia, in un angolo della mente, ancora sperava che forse nell’aprire una porta o nel girare un angolo di strada avrebbe trovato il varco attraverso il quale tornare nel suo mondo normale. Non credeva che ciò fosse probable, ma per quella vaga speranza valeva la pena di muoversi.
C’erano da prendere alcune difficili decisioni. A cosa le servivano la sua educazione e tutti i suoi studi se non riusciva a pensare a se stessa ed a prendere decisioni difficili? C’era una cosa che non voleva fare, ed era di andare in cucina, però il cibo era in cucina. Avrebbe potuto tentar di penetrare in altre case, o nel negozio di alimentari in fondo al caseggiato, ma sospettava che avrebbe trovato altri corpi là.
Se non altro questi corpi — vivi o morti — erano i i suoi familiari. Entrò in cucina tenendo o sguardo sul soffitto. Poco a poco però, mentre passava da un armadietto all’altro, i suoi occhi si abbassarono. I corpi erano diminuiti di volume visibilmente; Kenneth sembrava poco più che una chiazza coperta da filamenti negli abiti afflosciati. Le radici color carne serpeggiavano sul pavimento, si arrampicavano su per l’acquaio e sparivano nel foro stappato dello scarico. Rigida, aspettandosi che da un momento all’altro qualcosa si protendesse ad afferrarla — o che sua madre o Howard si alzassero come orribili zombies — strinse i denti finché si sentì dolere la mandibola, ma nessuno di loro si mosse. Non avevano più neppure l’aspetto di qualcosa capace di muoversi.
Uscì da lì con una cassetta piena di roba in scatola: il cibo che pensava le sarebbe bastato per qualche giorno… e l’apriscatole, che s’era quasi dimeticato.
Era il crepuscolo quando le venne l’idea di accendere la radio. Non avevano più avuto un apparecchio televisivo da dopo che l’ultimo s’era guastato oltre ogni possibilità di riparazione; la sua carcassa ora raccoglieva polvere nel sottoscala fra pile di vecchie riviste. Accese l’apparecchio, che sua madre teneva sempre con le pile cariche, e metodicamente esplorò le frequenze. Da bambina aveva manovarato con abilità la sua piccola radio, ma ora tutte quelle cifre non le dicevano niente.
Sulle bande AM e FM non stava trasmettendo neppure una stazione. Passò a esaminare le onde corte: lì alcune si ricevevano con chiarezza, però nessuna era in lingua inglese.
La stanza s’era fatta sempre più buia. Un estremo dubbio bloccò il suo desiderio di accendere la luce: se tutti erano ammalati ci sarebbero state ancora luci?
Quando la stanza fu immersa dalle d’ombre e non ci fu modo di evitare il dilemma — sedere nel buio o scoprire se doveva sedere nel buio — andò alla grossa lampada a stelo accanto al divano e girò l’interruttore.
La luce si diffuse, intensa e ferma.
Questo squarciò la diga che aveva alzato davanti alle sue emozioni, e cominciò a piangere. Stesa sul divano e con le ginocchia strette al petto si rotolò da una parte e dall’altra, gemendo come una demente, il volto bagnato di lacrime e le mani nei capelli. Con la lampada che spandeva luce dorata e impersonale sul suo pianto singhiozzò finché la gola cominciò a dolerle e gli occhi le si gonfiarono al punto che non riusciva più a tenerli aperti.
Senza mangiare nulla risalì al piano di sopra, accese tutte le luci — ogni lampada in più era un’amica — e crollò sul letto. Ma non poté dormire, perché con l’immaginazione continuava a udire orribili passi su per le scale e cose che strisciavano in corridoio fino alla sua porta.
Quella notte durò un’eternità, e nel lento trascorrere delle ore Suzy diventò un po’ più matura, o soltanto un po’ pazza, non seppe stabilire quale delle due cose. Alcuni fatti smisero di pesarle addosso. Seppe che aveva la forza di volontà, ad esempio, di lasciarsi il passato alle spalle per cercare un nuovo modo di vivere. Si aggrappò a quella risoluzione nella speranza che qualunque cosa fosse accaduta questo non impedisse alle luci di brillare ogni notte.
L’alba la trovò in uno stato di esaurimento psichico: sfinita, affamata ma nauseata all’idea di mangiare, i muscoli tesi e contratti dalla paura e dalla mancanza di sonno. Bevve ancora dal rubinetto del bagno… e d’improvviso ricordò le radici carnose che s’immergevano nell’acquaio. Con un sussulto si ritrasse e sedette sul bordo della vasca, restando a fissare insospettita il getto d’acqua limpida. Infine la sete la convinse a correre il rischio, ma si ripromise di aggiungere alle provviste qualche bottiglia d’acqua.
In soggiorno fece colazione con carne in scatola fredda e piselli, e scoprì d’essere abbastanza affamata da vuotare inoltre un vasetto di marmellata di prugne. Lasciò le scatolette in fila sul malconcio tavolino da caffè. Poi ripulì il barattolo di marmellata; niente le era mai parso così gustoso.
Tornò a stendersi in camera da letto, e stavolta dormì per cinque ore, finché un tonfo rumoroso non la strappò dal sonno. Qualcosa era caduto, all’interno della casa. Cautamente scese le scale e sbirciò nell’ingresso e nel soggiorno.
— Non in cucina — sussurrò, e all’istante fu certa che il rumore era giunto proprio da lì. Lentamente aprì la porta a molla. Le vesti di sua madre — ma non sua madre — giacevano in un mucchietto davanti all’acquaio. Suzy entrò e guardò la soglia della dispensa, dov’era stato Kenneth. Vestiti vuoti e nient’altro. Si volse.
I jeans di Howard poggiavano su una gamba della seggiola, rovesciata di lato. Un lucido strato simile a una tappezzeria marroncina ricopriva tutte le pareti del locale, delineando nettamente la forma delle cornici, degli infissi e degli oggetti che ricopriva.
La ragazza prese la scopa dall’angolo dietro il frigorifero e fece qualche passo avanti, puntando il manico contro quella strana tappezzeria. Sto diventando incredibilmente coraggiosa, pensò. Dapprima premette leggermente il lenzuolo marroncino; la sua superficie si aprì e il manico penetrò oltrepassando la vernice, l’intonaco e fermandosi solo contro i mattoni sottostanti. Il lenzuolo fu percorso da fremiti ma non ebbe altra reazione. — Tu! — strillò lei. Vibrò la scopa avanti e indietro lungo lo strato, aprendovi squarci da un angolo all’altro della parete. — Tu!
Quando dozzine di frammenti furono piombati a terra e il muro fu pieno di buchi, lei gettò via la scopa e fuggì dalla cucina.
L’orologio navale batté l’una del pomeriggio. Suzy riprese fiato e fece il giro della casa, spegnendo le luci. Quella miracolosa energia poteva abbandonarla presto, perciò doveva usarla senza perdere tempo.
Prese l’agenda degli indirizzi dal tavolino del telefono e fece l’inventario dei rifornimenti di cibo, annotando ciò di cui avrebbe avuto bisogno. Le restavano almeno cinque ore di luce diurna, poco più se calcolava il lungo crepuscolo. S’infilò il soprabito e uscì, lasciando la porta aperta dietro di sé.
Sotto il soprabito aveva una tuta azzurra da ginnastica, sulla quale aveva infilato un pesante pigiama. Tenendosi al centro della strada fra le immobili file delle auto si diresse all’angolo dove c’era il negozio di generi alimentari, riflettendo che non aveva con sé neanche un dollaro ma decisa a capire cos’era successo nel resto di Brooklyn e nel mondo esterno. Si sentiva perfino vagamente tranquilla. Il vento si stava rinfrescando ancora e refoli di foglie secche staccatesi dai rari alberi scivolavano sull’asfalto. L’edera s’arrampicava sulle cancellate dei minuscoli giardini davanti alle case, e sui davanzali delle finestre i vasi da fiori erano vivaci chiazze di colore.
L’ingresso principale della Mithridates’ Grocery era chiuso da una saracinesca a inferriata. Sbirciò attraverso le sbarre delle finestre chiedendosi se non ci fosse un modo per entrare, e le venne in mente la porta di servizio oltre l’angolo. Con suo sollievo la trovò socchiusa: dovette spingere con tutta la sua forza un pesante battente rinforzato in metallo per aprire un po’ di più. Scivolò dentro e lo controllò con un’occhiata per accertarsi che non si sarebbe richiuso. Nel corridoio di servizio scavalcò un altro mucchietto di vestiti distesi a terra, spinse la porta a molla e penetrò nel vasto negozio silenzioso.
Decisa ad agire con metodo Suzy andò all’ingresso e prese un carrello. Ne tolse via una foglia di lattuga appassita e un lungo scontrino rilasciato dalla cassa, quindi si avviò lungo i banchi scegliendo quello che le parve un buon rifornimento di cibarie. Le sue abitudini alimentari non erano fra le migliori; tuttavia il suo corpo aveva una linea molto più estetica di tutti i fanatici delle diete e della macrobiotica che conosceva… cosa questa che le dava una solenne sensazione d’orgoglio.
Prese scatolette di prosciutto, confezioni di bistecche sottovuoto, lattine di pollo disossato, verdura fresca e frutta (immaginando che presto non ce ne sarebbe stata più), marmellata, tutte le bottiglie d’acqua minerale che poté mettere in una cassetta per liquori nello scomparto inferiore del carrello, pane e qualche leggera confezione di brioches, e due contenitori di latte ancora freddo dai banconi a bassa temperatura. Si fornì di aspirina e di shampoo, pur chiedendosi per quanto tempo ancora vi sarebbe stata acqua nelle case, e di una grossa confezione di vitamine. Sullo scaffale dei sanitari cercò qualcosa che potesse combattere ciò di cui era stata preda la sua famiglia… e il postino, e il padrone del negozio, e forse tutti gli altri. Lesse e rilesse le etichette su tutte le confezioni e i barattoli che c’erano, ma non trovò niente che le sembrasse adatto.
Spinse infine il carrello fino ai registratori di cassa, fermandosi nello spazio fra questi e la porta chiusa. Nessuno a cui pagare. Una fortuna, visto che non aveva soldi. Oltrepassò il cancelletto girevole e tornò sul retro. Era a mezza strada quando un pensiero la rese perplessa, e girò nuovamente il carrello verso la cassa.
Proprio dove immaginava che ne avrebbe trovata una, nel cassetto sotto il registratore, c’era una grossa pistola nera a canna lunga. La esaminò cautamente, badando bene a non puntarsela addosso, finché non scoprì il modo di far ruotare il tamburo. Era caricato con sei grosse pallottole.
Suzy detestava le armi. Suo padre aveva alcuni fucili da caccia, e le poche volte che gli aveva fatto visita era stata avvertita di starne lontana e di non sfiorarli neppure. Ma una pistola era un’arma da difesa non un giocattolo, e lei non intendeva giocare con quell’affare, di questo era certa. D’altro canto dubitava che si sarebbe trovata davanti a qualcosa a cui avrebbe potuto sparare con qualche risultato effettivo.
— Però non si sa mai — disse. Mise la pistola in una scatola di plastica marrone e la sistemò nel piccolo scomparto anteriore, poi spinse il carrello nel corridoio sul retro, oltrepassò i vestiti del negoziante e uscì sul marciapiede.
Tornata a casa sistemò le cibarie nell’ingresso ed esitò, con un cartone di latte in ogni mano, cercando di decidere se doveva andare a metterli in frigorifero. — Andrà a male, se non lo faccio — disse a se stessa, sforzandosi d’assumere un tono pratico. — Oh, Dio! — mormorò con un tremito violento. Depose i cartoni e si strinse le braccia al petto. Chiudendo gli occhi aveva l’impressione di vedere tutte le cucine di Brooklyn, piene di vestiti afflosciati a terra o di corpi che si dissolvevano. Si appoggiò alla ringhiera delle scale e chinò il capo. — Suzy, Suzy… — sussurrò. Trasse un lungo respiro, si raddrizzò e raccolse i contenitori. — Devo andare — si disse con uno sforzo di volontà.
Il lenzuolo marroncino era svanito, lasciando solo una quantità di buchi nei muri. Aprì il frigorifero e mise il latte nello scomparto inferiore, poi tirò fuori qualcosa da preparare per cena.
La vista dei vestiti sul pavimento la disturbava. Raccolse la scopa e smosse gli indumenti di sua madre per vedere se ci fosse qualcosa nascosta fra la stoffa; non c’era niente. Sollevò la gonna fra il pollice e l’indice. Un paio di slip e la maglietta scivolarono al suolo, e dagli slip rotolò fuori un tampone assorbente bianco. Qualcosa tintinnò sotto la camicetta e lei si chinò a guardare. Minuscoli pezzi di metallo grigio e d’oro, di forma irregolare.
La spiegazione riuscì a emergere dalla nebbia d’angoscia che le aveva ottuso la mente: otturazioni dentarie e capsule d’oro.
Raccolse gli abiti e li gettò nella cesta della biancheria sporca nella veranda posteriore. Per quello che valevano, pensò. Addio mamma, e Kenneth, e Howard.
Poi spazzò il pavimento, raccolse le otturazioni e la polvere (non c’erano scarafaggi morti, il che era insolito) con una paletta e vuotò il tutto nella pattumiera accanto al frigorifero.
— Io sono la sola — disse quand’ebbe finito. — Sono la sola rimasta a Brooklyn. Non mi sono ammalata. — In piedi davanti al tavolo mordicchiò pensosamente la mela che aveva tolto dalla fruttiera. — Perché? — chiese.
— Perché — si rispose, girando per la cucina ed esplorando con gli occhi ogni angoletto nascosto, — perché sono bellissima, e il diavolo mi vuol prendere in sposa.
— Negli ultimi quattro giorni — disse Paulsen-Fuchs, — abbiamo perso i contatti con la maggior parte del continente nordamericano. L’eziologia del morbo non è nota con precisione, tuttavia è chiaro che non corrisponde a nessuno dei vettori noti agli epidemiologi. Gli appunti di Mr. Bernard indicano che i microrganismi portatori della malattia sono essi stessi intelligenti e capaci di azioni predeterminate.
I visitatori nella camera di osservazione — direttori della Pharmek e rappresentanti di quattro nazioni europee — sedevano con faccia impassibile nelle loro poltroncine. Paulsen-Fuchs, in piedi di fronte agli esponenti francesi e danesi, dava le spalle alla tripla finestra. Si volse a indicare Bernard, che sedeva alla scrivania e ne tocchettava il piano con una mano pesantemente segnata da creste bianche.
— Con gran rischio personale, e una certa sconsideratezza, Mr. Bernard è venuto in Germania Occidentale per fornirci di un soggetto per i nostri esperimenti. Come potete vedere le strutture di cui disponiamo sono ben equipaggiate per dare a Mr. Bernard un sicuro isolamento, senza che ci sia bisogno di trasferirlo in altri laboratori o ospedali. Un simile trasferimento potrebbe in effetti essere molto pericoloso. Siamo comunque ben disposti ad accogliere suggerimenti esterni sulla condotta da seguire.
«Francamente, anzi, non sappiamo ancora quale genere di esperimento iniziare. Campioni di tessuto prelevati a Mr. Bernard indicano che la malattia (se vogliamo chiamarla così) avanza rapidamente nel suo organismo, benché non ne stia ancora danneggiando le funzioni. In realtà egli dichiara che, con l’eccezione di alcuni sintomi peculiari di cui parleremo più tardi, non si è mai sentito meglio in vita sua. Ed è evidente che la sua anatomia ha subito alterazioni sostanziali.
— Perché Mr. Bernard non si è trasformato completamente? — chiese il rappresentante della Danimarca, un giovanotto grassoccio dai capelli a spazzola vestito di un completo nero. — Dai nostri contatti radio con gli Stati Uniti risulta che la trasformazione e la dissoluzione avvengono entro una settimana dal contagio.
— Non lo so — rispose Bernard. — La mia situazione non è identica a quella di chi ne è stato affetto in un ambiente esterno. Forse gli organismi nel mio corpo sono consci che non converrebbe loro completare la trasformazione.
Lo stupore delle persone che lo fissavano gli confermò che non avevano ancora afferrato ciò che erano i noociti. O forse semplicemente non gli credevano.
Paulsen-Fuchs proseguì la conferenza, ma Bernard chiuse gli occhi e cercò di ignorare i visitatori. Era peggio di quel che aveva immaginato: in appena quattro giorni lo avevano costretto (esibendo cortesia e mielata preoccupazione) a sopportare quattordici riunioni di quel genere, una raffica di test condotti attraverso il pannello di comunicazione, e domande su ogni aspetto della sua vita, passata e presente, privata e pubblica. Era al centro dell’ondata secondaria di spavento che stava facendo il giro del mondo, l’ondata della reazione a ciò che era accaduto nel Nord America.
Ne era venuto via appena in tempo. L’eziologia dell’epidemia s’era alterata enormemente e ora seguiva diversi schemi, o forse nessuno schema; era possibile che i microrganismi reagissero all’ambiente e si accordassero per diversificare il loro comportamento. Comunque le grandi città tendevano a cadere in un improvviso silenzio, con tutti o quasi i loro abitanti trasformati a quarantott’ore dal momento del contagio. Le piccole città e le zone rurali, forse per la scarsezza di fognature e condutture d’acqua, venivano colpite più gradualmente. Lì il contagio sembrava espandersi usando come veicoli gli animali e gli insetti più che gli esseri umani.
Fotografie a raggi infrarossi, prese da satelliti meteorologici e satelliti spia, e analizzate in Giappone e in Gran Bretagna, mostravano incipienti cambiamenti perfino lungo le foreste e le vie d’acqua del Nord America.
Michael Bernard aveva già l’impressione di non esistere più. Era stato sommerso da qualcosa di più grande e impressionante di lui, e adesso era nulla più d’un reperto da museo, etichettato e, abbastanza stranamente, capace di rispondere ai visitatori. Ex-neurochirurgo, maschio, una volta ben conosciuto e stimato, di recente non molto attivo, incline ai rituali della società ed esperto nell’arricchirsi con giri di conferenze, diritti editoriali, esibizioni dinanzi alle telecamere…
Non era da escludere che Michael Bernard fosse un essere inesistente da ormai sei anni, svanito qualche tempo dopo aver applicato per l’ultima volta il bisturi alla carne, il trapano a un cranio.
Aprì gli occhi e guardò la donna e gli uomini nella camera d’osservazione.
— Dr. Bernard! — La donna stava cercando d’attirare la sua attenzione, evidentemente per la terza o la quarta volta.
— Sì?
— È vero che lei è, almeno in parte, responsabile dell’epidemia?
— No, non direttamente.
— Indirettamente?
— Non potevo in alcun modo prevedere le conseguenze delle azioni di altra gente. Non sono un chiaroveggente.
Il volto della donna mostrò un improvviso rossore, anche al di là dei tre pannelli di vetro. — Io ho… o avevo, una sorella negli Stati Uniti. Benché di nazionalità francese, sono nata in California. Cos’è accaduto laggiù? Lo sapete?
— No, signora, non lo so.
La donna diede un colpo sul braccio a Paulsen-Fuchs, che aveva alzato una mano, e gridò: — Non finirà mai questo? Disastri e morte, e gli scienziati… sono responsabili, voi tutti siete colpevoli. E io vi dico che allora voi… — Non terminò la frase perché gli altri stavano uscendo e Paulsen-Fuchs ne approfittò per spingerla fuori. L’anziano studioso rientrò, ebbe un gesto di scusa e scosse il capo. Le due salette d’osservazione si svuotarono e lui fu lasciato solo.
E poiché era un niente, un nessuno, questo significava che una volta lasciato solo lì non c’era più assolutamente nulla.
Nulla salvo i microbi, i noociti, col loro incredibile potenziale, in attesa del loro momento… del loro scopo.
In attesa di trasformarlo in qualcosa di più di ciò che lui fosse mai stato.
Le luci si spensero il quarto giorno: al mattino, appena dopo che lei s’era svegliata. Indossò i suoi jeans firmati (provenienti dal magazzino dell’Esercito della Salvezza), il pullover migliore e una blusa, poi tolse l’impermeabile dall’attaccapanni nell’ingresso e uscì nella luce del giorno. Non era più benedetta, disse a se stessa, non più desiderata dal diavolo né da nessun altro. — La mia fortuna se ne va! — esclamò.
Ma aveva un po’ di cibo, e l’acqua usciva ancora dai rubinetti. Considerò per un momento la sua situazione e stabilì di non essere poi così malridotta. — Perdonami, Signore — mormorò gettando uno sguardo al cielo.
Sull’altro lato della strada le case erano completamente tappezzate da un lenzuolo biancastro e marroncino, che sotto il sole riluceva come pelle o cuoio. Dagli alberi e dalle ringhiere di ferro pendevano brandelli della stessa sostanza. Anche gli edifici adiacenti a casa sua stavano per esserne del tutto ricoperti.
Era l’ora di andarsene. Non sarebbe stata risparmiata ancora per molto.
Impacchettò il cibo e mise sacchetti e scatolette in un cestello. Il gas arrivava sempre; si cucinò una bistecca con le ultime uova e un po’ di pancetta, abbrustoli fette di pane sul fornello come sua madre le aveva insegnato, le spalmò con quel che restava del burro e le coprì con fettine di prosciutto. Terminato di mangiare scese nel sottoscala in cerca di una borsa da viaggio. Meglio viaggiare leggera, pensò. Una robusta giacca da inverno, vestiti, la pistola, stivaletti. Calze di lana dai cassetti dei suoi fratelli. Guanti. I giorni della frontiera, l’epoca dei pionieri.
— Potrei essere l’ultima donna della Terra — meditò. — Dovrò essere pratica.
L’ultima cosa che sistemò nel carrello da supermarket, in attesa sul marciapiede davanti agli scalini, fu la radio. L’aveva accesa soltanto pochi minuti ogni sera, e da Mithridates’ s’era provvista d’una scatola di batterie. Le sarebbero state utili per qualche tempo.
Dalla radio aveva appreso che la gente era molto, molto preoccupata, non solo per ciò che era accaduto a Brooklyn ma in tutti gli Stati Uniti, e anche al di là dei confini, in Messico e in Canada. Una nuova stazione inglese, sulle onde corte, aveva parlato del silenzio radio, dell’epidemia, di viaggiatori messi in quarantena, e di sommergibili e aerei che sorvegliavano le coste. Uno speaker inglese dalla voce educata aveva detto che nessun velivolo era penetrato nello spazio aereo del Nord America, e che da voci raccolte presso chi usava i satelliti-spia risultava che la nazione era paralizzata, forse morta.
Non io, pensò Sizy. Paralizzata significava incapace di muoversi. — Io mi muovo. Mandate i vostri sommergibili e aeroplani a guardarmi. Io mi muoverò, dovunque sia il posto in cui andrò.
Era tardo pomeriggio quando Suzy spinse il carrello lungo Adams Street. La nebbia oscurava i lontani grattacieli di Manhattan, consentendo solo alla pallida silhouette del World Trade Center di emergere dalla grigia e biancastra opacità. Non aveva mai visto una nebbia così fitta sul fiume.
Voltandosi a guardare indietro vide stralci e vele di sostanza marrone aleggiare nel vento sopra Cadman Plaza. La Williamsburgh Saving Bank era tappezzata in tutti i suoi duecento metri d’altezza da un rivestimento marrone scuro, come un grattacielo impacchettato e pronto a essere spedito per posta. Girò per la Tillary, e stava percorrendo la Flatbush diretta al ponte quando dovette riflettere a quanto assomigliava a un’accattona.
L’ipotesi di poter diventare un’accattona l’aveva sempre spaventata. Sapeva che talvolta la gente che aveva dei problemi come il suo non riusciva a trovare un’abitazione, e si rassegnava a vivere nelle strade.
Adesso questo non le faceva affatto paura. Le cose erano molto diverse. Il pensiero stuzzicò anzi il suo senso dell’umorismo. Un’accattona in una città ricoperta da uno strato di sostanza marrone. La situazione aveva perfino un lato divertente, ma era troppo stanca per riderci sopra.
Qualsiasi genere di compagnia sarebbe stata la benvenuta: accattoni, gatti, uccelli. Ma non si muoveva nulla, salvo il lenzuolo marroncino.
Spinse il carrello lungo la Flatbush, si fermò un poco a riposare su una panchina alla fermata dei mezzi pubblici, quindi proseguì. Aveva fatto bene a portare con sé la blusa di Kenneth: se la mise sulle spalle accorgendosi che l’aria della sera era piuttosto fredda. — Potrei canticchiare per riscaldarmi — disse a se stessa. Aveva sempre la testa piena di ritornelli, rock e rhythm-and-blues, ma in quel momento non riusciva ad azzeccare le note. Mentre sollevava il carrello sul marciapiede del ponte, una ruota alla volta, finalmente le note giuste le vennero in mente e cominciò a cantare Michelle, dei Beatles, che risaliva ai tempi in cui sua madre era ragazza. Ma Michelle, ma belle erano le uniche parole che ricordava, cosicché continuò a canticchiare solo quelle intanto che ansando spingeva avanti il carrello carico.
La nebbia avviluppava l’East River, addensandosi intorno ai piloni. La lunga campata la sovrastava, come una strada distesa sulle nuvole. Infreddolita e solitaria Suzy proseguì la marcia, accompagnata soltanto dal fruscio del vento e da uno strano mormorio che dopo un poco identificò come il vibrare dei possenti cavi d’acciaio.
Senza alcun traffico, dal ponte poteva sentire piccoli rumori di ogni genere che prima non le erano mai giunti agli orecchi: i gemiti del metallo, bassi e soffocati ma impressionanti, il canto lontano del fiume, il profondo silenzio al di là di esso. Nessuna voce umana, nessun rumore umano. Avrebbe potuto trovarsi in mezzo a un deserto.
— Come un pioniere — ricordò a se stessa. L’orizzonte era già buio ovunque, salvo che dalla parte del New Jersey dove a ricordo del sole restava una striscia di luce verde-arancio. La strada divenne una trincea d’oscurità. Fermò il carrello e si accovacciò sul bordo del marciapiede stringendosi nei vestiti, poi indossò i calzini di lana e gli stivali. Per alcune ore restò seduta in uno stato di smarrimento accanto alle sue cose, con la punta di un piede sotto una ruota per impedire al carrello di rotolare via.
Sotto il ponte il rumore del fiume mutò. Sentì i capelli che le si rizzavano sulla nuca, benché non vedesse nessun vero motivo d’avere paura. Tuttavia poteva avvertire una presenza, l’impressione che qualcosa le passasse vicino. In alto le stelle splendevano nitide e brillanti, e la Via Lattea tracciava un pulviscolo di luce sul buio e sulla nebbia della città.
Si alzò e si stiracchiò, sbadigliando, spaurita dalla sua solitudine eppure sentendosi stranamente euforica. Scavalcò la ringhiera, attraversò la corsia esterna del ponte e fece qualche passo proprio sull’orlo. Con le mani intorpidite dal freddo malgrado i guanti si appoggiò alla balaustra e spinse lo sguardo sull’East River, verso South Street, poi si volse a osservare la chiazza più chiara dell’approdo dei ferry-boat.
Mancava ancora molto all’alba, e tuttavia le acque del fiume erano colme di una misteriosa luminosità, che lungo le rive si addensava in linee di luci soffuse verdi e azzurrine. La corrente era piena di occhi, di ruote, di dischi e cerchi che giravano lenti bruciando in miriadi di fuochi interni, stagliandosi contro profondità in cui aleggiava un’immobile luce color cobalto. Le parve di osservare dall’alto milioni di città che rotolavano e passavano via in una notte bluastra e ultraterrena.
Il fiume era vivo, da una riva all’altra e fin giù a Governors Island, dove la Upper Bay sembrava una Via Lattea rovesciata. Il fiume baluginava, si muoveva, e ogni particella di esso aveva uno scopo; Suzy questo lo sapeva.
E sapeva di essere ora appena una formica nella strada di una grande città. Lei era una creatura inconsapevole, limitata, effimera e fragile. Il fiume era più complesso e affascinante delle luci al neon di Manhattan il sabato sera.
— Non credo che capirò mai questo — mormorò. Scosse il capo e alzò lo sguardo verso i grattacieli.
Uno di essi non era completamente all’oscuro. All’ultimo piano della torre meridionale del World Trade Center brillava una luce verdolina. — Ehi! — disse, più meravigliata da quello che da tutto il resto.
Si allontanò dalla balaustra e tornò accanto al carrello sul marciapiede interno. Le luci soffuse del fiume erano molto belle, pensò, ma la cosa più importante era di stare al calduccio fra i suoi abiti in attesa che l’alba le consentisse di vederci abbastanza da riprendere il cammino. Si sedette vicino al carrello.
— Andrò a vedere cosa c’è in quel palazzo — disse. — Forse un altro come me, qualcuno che almeno s’intende di elettricità. Domattina andrò a vedere.
Mentre dormicchiava, a tratti svegliandosi tremante per coprirsi meglio, con la fantasia continuò a sentire qualcosa al di là dell’udito: il rumore del cambiamento, l’epidemia, il fiume e le ruote fluttuanti in esso come un immenso coro parrocchiale i cui membri spalancavano migliaia di bocche, cantando il silenzio.
Con un lontano strofinio metallico Paulsen-Fuchs avvicinò una sedia al vetro della camera di osservazione e sedette. Disteso sul letto Bernard lo guardò con occhi insonnoliti. — A quest’ora di mattina? — borbottò.
— È pomeriggio. Hai perso la cognizione del tempo.
— Sono in una miniera, per quel che riguarda il mondo. Niente visitatori oggi?
Pulsen-Fuchs scosse il capo ma non aggiunse spiegazioni.
— Novità?
— I russi sono usciti dall’ONU, a Ginevra. Ovviamente non vedono il vantaggio di far parte delle Nazioni Unite, ora che sono l’unica superpotenza nucleare del pianeta. Ma prima di andarsene hanno cercato di far dichiarare al consiglio di sicurezza che gli Stati Uniti, senza Governo, sono un pericolo per tutto il resto del mondo.
— A cosa mirano?
— Credo che tentassero d’avere l’approvazione per un attacco atomico.
— Buon Dio! — disse Bernard. Sedette sul bordo del lettino e si sfregò gli occhi col dorso delle mani. Le creste bianche s’erano sgonfiate di recente; le lampade al quarzo ottenevano se non altro un effetto cosmetico. — Non hanno parlato del Messico e del Canada?
— Solo degli Stati Uniti. Vogliono prendere a calci il cadavere.
— E gli altri cosa ne dicono? Che stanno facendo?
— Le forze americane stanziate in Europa vogliono organizzare un Governo a interim. Hanno dichiarato un senatore della California, qui in giro turistico, l’unico in linea di successione per la presidenza. Ma gli ufficiali delle vostre basi aeree stanno facendo resistenza. Affermano che il Governo provvisorio degli Stati Uniti è pertinenza dei militari. In tutte le vostre ambasciate regna il caos. I russi pretendono che tutte le navi e i sommergibili americani siano riuniti in quarantena a Cuba e nei porti sovietici del Pacifico e del Mar del Giappone.
— E le navi sono d’accordo?
— Nessuna risposta finora. Almeno, credo. — L’uomo sorrise.
— E sul fronte dei pesci e degli uccelli?
— Sì. In Inghilterra stanno ammazzando tutti gli uccelli migratori, che vengano dal Nord America o meno. Alcuni vogliono sterminare ogni specie di volatili. C’è una reazione selvaggia, e non solo contro gli animali, Michael. Dappertutto gli americani stanno subendo un trattamento indegno, anche se hanno vissuto per decenni in Europa. Certi gruppi religiosi affermano che Cristo ha stabilito negli USA la sua base per il Secondo Avvento e sta per marciare sull’Europa. Ma avrai la tua dose di notizie giornaliere sul terminale, come al solito. Potrai divertirti a leggerle da solo.
— Quelle cattive sono migliori se portate da un amico.
— Sì — disse Paulsen-Fuchs. — Ma anche le parole di un amico non possono migliorare quelle di oggi.
— Un attacco nucleare potrebbe risolvere il problema? Io non sono un esperto di epidemiologia, ma… ora come ora, l’America potrebbe essere sterilizzata?
— Altamente improbabile, e i russi ne sono consapevoli. Sappiamo abbastanza sulle loro testate atomiche, percentuali d’imprecisione e così via. Potrebbero distruggere ogni forma di vita su forse metà del continenete nordamericano. Questo sarebbe praticamente inutile. E le ricadute radioattive, per non parlare dei mutamenti meteorologici e dei microrganismi che si solleverebbero con le nubi di polvere, sarebbero insostenibili. Ma… — Scosse le spalle. — Loro sono russi. Tu non li ricordi a Berlino. Io sì. Ero un ragazzino, ma non ho dimenticato… forti, sentimentali, crudeli, capaci e stupidi allo stesso tempo.
Bernard si trattenne dal fare commenti su quello che era stato il comportamento dei tedeschi in Russia. — Allora cos’è che li trattiene?
— La NATO. La Francia, sorprendentemente. Le forti obiezioni dei paesi non allineati, specialmente del Centro e Sud America. Ma ora basta con questo. Ho bisogno del tuo rapporto.
— Ay, Ay - lo salutò Bernard. — Mi sento bene, anche se un po’ stordito. Vengo considerato un alienato mentale che blatera stupidaggini. E mi sento in prigione.
— Comprensibile.
— Ancora nessuna volontaria di sesso femminile?
— No. — Paulsen-Fuchs scosse il capo. Assolutamente serio aggiunse: — E non le capisco. Si dice che la fama sia l’afrodisiaco migliore.
— Per me non basta, suppongo. Se ti è di qualche consolazione non ho notato alcun mutamento nella mia anatomia da l’altro ieri. — Era da allora che le creste bianche avevano cominciato a recedere.
— Hai deciso di continuare con le lampade al quarzo?
Bernard annuì. — Datemi qualcosa da fare.
— Stiamo ancora vagliando gli antimetabolici, e gli inibitori della polimerasi del DNA. Gli animali infettati non mostrano ancora sintomi… pare che ai tuoi noociti gli animali non piacciano. Non qui, almeno. Ci sono teorie di ogni sorta. Hai mai avuto mal di testa, dolori muscolari o altro del genere, ma di natura diversa dai dolori comuni?
— Non sono mai stato meglio in vita mia. Dormo come un bambino, ogni cibo mi risulta appetitoso, niente dolori o malesseri. Ogni tanto un prurito epidermico. Oh… e qualche volta doloretti addominali che non riesco a localizzare bene. Non sono fastidiosi.
— Il ritratto della salute — disse Paulsen-Fuchs, spegnendo il computer tascabile su cui aveva preso appunti. — Ti spiacerebbe se mettessimo alla prova la tua sincerità?
— Non ho molta scelta, no?
Gli fecero completi esami medici due volte al giorno, regolandosi sull’orario dei suoi peraltro imprevedibili periodi di sonno. Lui li sopportò esibendo un sogghigno di pazienza messa a dura prova. Poi vennero inserite nel laboratorio quattro braccia snodabili in metallo e plastica, e fu sperimentata l’efficienza delle estremità prensili. Nello scomparto sterile dietro i comandi degli arti meccanici entrò una donna, che sbirciò Bernard attraverso i cristalli. Sul gomito di una delle braccia artificiali una telecamera girò con un ronzio, la spia rossa accesa.
— Buongiorno, Dr. Bernard — lo salutò cortesemente. Era giovane, seria e attraente, con capelli color mogano riuniti in una ciambellina dietro la nuca.
— È adorabile, dottoressa Schatz — disse lui, steso sul tavolo girevole sotto l’attrezzatura elettronica.
— Solo per lei, e solo per oggi, sono Frieda. Anche noi la troviamo adorabile, dottore — disse la Schatz. — Ma se fossi al suo posto non adorerei affatto chi sta al mio.
— La faccenda sta cominciando ad avere aspetti piacevoli, Frieda.
— Umpf! — La Schatz usò un micromanipolatore per sollevare un’ampolla a vuoto da un vassoio. Con abilità ed efficienza ne azionò un altro, fornito di siringa, per inserirgli un ago in una vena del braccio e gli estrasse 10 cc. di sangue. Lui notò con un certo interesse che il sangue aveva un colore rosa acceso.
— Attenta che i miei piccoli amici non la mordano — la avvertì.
— Non siamo molto attenti, dottore — disse lei. Bernard intuì la tensione dietro il suo sorrisetto professionale. Potevano esserci moltissime cose circa le sue condizioni che loro non gli avevano detto. Ma perché nascondergli qualcosa? Da tempo lui si riteneva ormai condannato.
— Lei non me la racconta giusta, Frieda — osservò, mentre gli applicava un tampone per prelievi batterici alla pelle della schiena. Il micromanipolatore premette, poi strappò via il tampone adesivo e lo mise in una beuta. Un altro braccio meccanico sigillò il contenitore e lo immerse in un bagno di paraffina liquida.
— Oh, io credo che tutti siano sinceri con lei — replicò la dottoressa distrattamente, concentrata sui suoi attrezzi. — Ha qualche domanda da fare?
— Nel mio corpo sono rimaste ancora cellule non trasformate?
— Non tutti sono noociti, Dr, Bernard. Ma la più parte delle cellule ha subito mutamenti, sì, in un modo o nell’altro.
— Cosa ne fate di loro dopo che li avete analizzati?
— A quel punto sono ormai tutti morti, dottore. Non si preoccupi. Noi siamo molto accurati.
— Non sono preoccupato, Frieda.
— Questo è bene. Ora si giri, prego.
— Non di nuovo l’uretra! Dove vuole infilarmi quell’affare?
— Mi è stato detto che una volta i giovani gentiluomini della Repubblica di Weimar lo consideravano un divertimento molto costoso. Una rara esperienza nei sofisticati bordelli di Berlino.
— Frieda, devo dire che lei mi fa rimanere sbalordito.
— Sì. Ora per favore si giri, dottore.
Lui si girò supino e chiuse gli occhi.
Le candele erano allineate sul davanzale della finestra del grande atrio al pianterreno, di fronte alla piazza. Suzy si fece indietro ed esaminò il suo lavoro. Il giorno prima s’era aperta la strada fra vasti brandelli del lenzuolo marroncino, scossi dal vento, penetrando in un negozio dove vendevano candele. Usando un altro carrello, rubato in un piccolo supermarket armeno di South Street, aveva riportato uno scatolone di candele votive al World Trade Center, dopo aver stabilito la sua residenza al piano terra della torre nord. Dal basso aveva ancora visto la luce verde alla sommità dell’altissimo edificio.
Con tutte quelle candele forse un sottomarino o un aeroplano l’avrebbero trovata. E un altro impulso la spingeva ad accenderle, ma era così sciocco che nel pensarci ridacchiava. Era determinata a rispondere al fiume. Così accese l’una dopo l’altra tutte le candele, e sospirò nel vedere com’erano insignificanti le loro fiammelle stagliate contro l’immensa tenebra che avevano di fronte.
Nei giorni successivi ne dispose altre in ampie spirali sul pavimento, nello spazio che aumentava a mano a mano che le sue scorte diminuivano. La sera le accendeva passando dall’una all’altra, in ginocchio sulla moquette spessa, sorridendo alle loro piccole luci e sentendosi vagamente in colpa per la cera che colava dappertutto.
Al tramonto del terzo giorno cenò con una confezione di cibo sottovuoto M M, e alla luce di cinque candele lesse una copia di Lady’s Home Journal rubata a un’edicola. Leggere non era mai stato il suo forte, ed era lenta, inoltre c’erano molte parole che non capiva. Le pagine della rivista, con la loro abbondanza di cifre e di colonne scritte fittamente sotto le foto degli abiti e dei cibi, avevano comunque su di lei un piacevole effetto soporifero.
Distesa supina su un tappeto, accanto al carrello del cibo e a quello delle candele, si chiese se si sarebbe mai sposata — sempreché ci fossero ancora uomini da sposare — e se avrebbe mai avuto un casa da riempire con gli oggetti che esaminava con occhi assonnati. — Probabilmente no — si disse. — Adesso sono davvero una zitella. — Non aveva mai avuto molti appuntamenti, e anche a Cary non aveva concesso di avere molto da lei. Nella classe speciale delle scuole medie cui era stata iscritta aveva goduto fama d’essere simpatica… e stupida. Ma nessun ragazzo di quella classe era stato troppo sveglio, in specie per quel che riguardava i rapporti con le compagne di sesso diverso.
— Be’, io sono ancora qui — disse, fissando l’alto soffitto oscuro. — E sono ancora stupida.
Si alzò, scese nell’elegante seminterrato con una candela e in uno degli uffici trovò una copia di Cosmopolitan da leggere. Risalita nell’atrio dormicchiò per un poco, si ridestò con un sussulto quando la rivista le sfuggì dalle mani e girò fra le candele accese soffiando su ognuna di esse nel caso che avesse voluto usarle anche l’indomani. Poi tornò a stendersi sul tappeto, con una sola candela accesa accanto a sé e la giacca di Kenneth arrotolata sotto la testa, e pensò a quant’era enorme l’edificio che la sovrastava. Non ricordava se le due torri gemelle erano ancora le più alte del mondo. Le sembrava di no. Ciascuna era come un transatlantico puntato verticalmente verso il cielo… anzi, più alta di un transatlantico, come diceva la pubblicità per i turisti.
Sarebbe stato divertente esplorare tutti gli uffici e i negozi del seminterrato, ma anche insonnolita com’era Suzy sapeva quel che invece avrebbe dovuto fare. Voleva arrampicarsi per le scale — dovunque fossero quelle scale — fino alla sommità, per scoprire cos’era quella luce e guardare il panorama di New York. Da lassù avrebbe potuto vedere tutta la città e buona parte dello stato, vedere cos’era accaduto e cosa stava accadendo. A quell’altezza la radio avrebbe forse ricevuto più stazioni. Inoltre sapeva che sulla cima c’era un ristorante, e questo significava altro cibo. E c’era un bar. D’improvviso desiderò di potersi ubriacare, una cosa che aveva tentato di fare solo altre due volte in vita sua.
Non sarebbe stato facile. Sapeva che per salire quelle scale poteva occorrerle un giorno o forse più.
Uscì dal sonno con un sussulto. Qualcosa aveva prodotto un rumore nelle vicinanze, un suono prolungato e frusciante. All’esterno l’alba stava spandendo la sua grigia luce diffusa. Nella piazza c’erano dei movimenti: oggetti che rotolavano mollemente, come grumi di peluria sotto un letto o cespugli divelti. Sbatté le palpebre e si sfregò gli occhi, alzandosi in ginocchio per vedere meglio.
Enormi foglie scure ondeggiavano nel vento, talora precipitando al suolo, talaltra attraversando l’intera estensione della piazza, con i loro orli irregolari e sbrindellati che sventolavano attorno. I pezzi che cadevano sull’asfalto vi aderivano e si estendevano, allargando stralci che crescevano a vista d’occhio. Stavano invadendo la piazza adesso, con l’arrivo del giorno, ricoprendo finestre e porte, panchine, muri e marciapiedi con uno strato bianco-grigiastro o marroncino.
— Non potrò più uscire in strada — disse fra sé. — Uh… mmh!
Mangiò un paio di brioches e accese la radio sperando di ricevere ancora la stazione inglese dei giorni precedenti. Dopo aver girato la manopola sentì lo speaker, oltre un crepitio di scariche. La sua voce era stanca, come quella di un uomo che parlasse da solo.
— … e dire che l’economia mondiale avrà un collasso è quasi un eufemismo. Chi può dire quante delle risorse del pianeta (sia minerarie sia in forma di merci, documenti bancari e capitali) giacciano ora inaccessibili nel Nord America? Capisco che molti si preoccupino più della loro sopravvivenza e si domandino se il morbo attraverserà l’oceano, o se non sia già in incubazione fra noi, ma… — Scariche statiche sopraffecero il segnale per alcuni minuti. Suzy restò seduta a gambe incociate davanti alla radio, in paziente attesa. Non capiva molto, ma quella voce era confortante. — … perciò, come economista, mi preoccupo di cosa accadrà al termine della crisi. Se questa avrà un termine. Ma io non rinuncio all’ottimismo. Dio, nella Sua saggezza, avrà dei motivi per fare questo. Sì. Dunque non abbiamo più avuto comunicazioni dal Nord America, con l’eccezione della nota stazione meteorologica di Afognak Island. I grandi manovratori della finanza sono morti, allora. Gli USA sono sempre stati il principale bastione del capitale privato. Oggi la nazione che domina il pianeta è la Russia, sia militarmente sia finanziariamente. Cosa possiamo prevedere?
Suzy spense la radio. Chiacchiere. Lei aveva bisogno di sapere che cos’era successo in casa sua.
— Perché? — chiese ad alta voce. Guardò i rotoli marroncini scivolare su e giù per la piazza, ricoprendo pian piano l’asfalto. — Perché non uccidermi e farla finita con tutto? — Allargò di colpo le braccia in gesto melodrammatico e dalla bocca le sfuggì una risata. Rise finché col fiato mozzo e la gola dolorante capì, spaventata, che non riusciva a smetterla. Con le mani sulla bocca corse alla fontana in mezzo all’atrio e bevve a garganella, il volto immerso nell’acqua limpida e ferma.
Ciò che la preoccupava realmente, rifletté infine, era il pensiero dell’arrampicata fino in cima al grattacielo. Avrebbe avuto bisogno di chiavi? Sarebbe arrivata fino a metà altezza per scoprire che qualcosa le impediva di proseguire?
— Sarò coraggiosa — disse, mangiando un’altra brioche. — Dovrò esserlo per forza.
La sua era stata una vita normale e accettabile. Aveva venduto pezzi d’automobile e oggetti usati nel cortile posteriore, tutta roba racimolata alle aste pubbliche o comprata a prezzi di realizzo. Aveva allevato un figlio ed era stato orgoglioso di sua moglie, maestra elementare. Le più grandi soddisfazioni le aveva avute dai suoi affari migliori: un carico di piastrelle in ceramica, di tipi diversi, con cui aveva rifatto il bagno e la cucina nella loro vecchia casa bianca; una jeep inglese d’epoca; quindici fra auto e furgoni tutti di colore azzurro; una tonnellata e mezzo di vecchi mobìli da ufficio, incluso un antico armadietto di legno la cui vendita l’aveva ripagato dell’acquisto di tutto il lotto.
La cosa più bislacca che avesse mai fatto (a parte il matrimonio) era stato di radersi la sommità del cranio per accelerare il momento in cui sarebbe andato del tutto in piazza. Detestava le vie di mezzo. Ruth s’era messa a piangere dopo averlo visto. Questo comunque era successo due mesi prima, e adesso i radi capelli gli erano ricresciuti, meno estetici e più disordinati che mai.
John Olafsen era stato contento di vivere quando la vita era ancora qualcosa di comprensibile. Aveva mantenuto decentemente Ruth e il piccolo Loren, di sette anni, ben vestiti e ben nutriti. La casa apparteneva alla sua famiglia da novant’anni, anche se li dimostrava tutti. E loro non avevano avuto molte pretese.
Abbassò lo scalcinato binocolo nero e si asciugò la fatica e il sudore dagli occhi col suo fazzolettone rosso. Poi continuò a guardare nelle lenti. Stava osservando il complesso dei Lawrence Livermore National Laboratory, ed i Sandia Laboratory dall’altra parte della strada. L’odore d’erba secca e di polvere gli saturava il naso, mettendogli una gran voglia d’alzarsi, prendere su le sue cose e andarsene… ma dove? Stare lì era esattamente lo stesso che andarsene altrove, perché non aveva più nessun posto in cui andare. Erano le cinque e mezzo, e stava scendendo il crepuscolo. — Sventola il fazzoletto, Jerry — ringhiò fra sé. — Muoviti, figlio di puttana.
Jerry era il suo fratello gemello, cinque minuti più giovane e cinque volte più irrequieto di lui. Jerry aveva evitato per un pelo quelle dannate cose che s’erano sparse per la Salinas ValIey. Come fosse riuscito a squagliarsela da laggiù era ancora un mistero per loro; probabilmente era troppo pieno di DDT e di EDB e degli altri veleni che gli facevano maneggiare sul lavoro. A suo dire, lui non provava alcun interesse per quella cosa, qualunque cosa fosse, che s’era mangiata tutto quanto, anche la cittadina di Livermore.
E Ruth, e Loren.
Jerry era giù fra i grossi e squadrati edifici più moderni, e i bungalow e le vecchie costruzioni minori, per esaminare la montagnola alta una decina di metri che ora sorgeva sul terreno degli LLNL dove una volta c’era stato un cortile vuoto. Aveva un altro fazzolettone rosso legato a un bastone. Né l’uno né l’altro dei gemelli usciva mai senza uno di quei fazzoletti attorno al collo. Ogni Natale se ne regalavano uno a vicenda, in un pacchetto rosso ornato di nastri anch’essi rossi.
— Fai il segnale! — grugnì John. Giusto allora il binocolo gli mostrò un oggetto rosso: il fazzolettone compì un giro a destra, uno a sinistra e poi altri tre a destra in rapida successione. Questo significava che John avrebbe dovuto scendere e vedere da vicino quel che c’era da vedere. Niente di pericoloso… almeno, a parere di Jerry.
Tirò in piedi i suoi cento chili di ossa e muscoli e si spazzolò le ginocchia dei malridotti Levis neri. A oriente il cielo s’era scurito. Passandosi una mano sulla barba rossiccia l’uomo uscì dal canaletto di drenaggio, quindi oltrepassò una rete metallica, strisciò attraverso il filo spinato e superò un terzo reticolato in cui non passava più la corrente elettrica.
Scese di corsa per un pendio erboso, saltò un altro canaletto e sul sentiero si fermò qualche istante. Si accese una sigaretta e spezzò il fiammifero gettandolo nella polvere. Quindici o venti auto erano ancora parcheggiate sullo spiazzo di cemento, di fronte alle complesse tubature di un edificio dove un tempo s’erano fatti esperimenti sulla fusione nucleare. Sull’adiacente spazio sterrato sorgeva un monticello emisferico, largo una ventina di metri, che aveva l’aria di ricoprire qualcosa. Jerry era salito su di esso. Da qualche parte aveva trovato un piccone e ora stava saggiando il terriccio col manico, il volto privo di barba contratto in un sogghigno.
— Nessun vagabondo in vista — esclamò, mentre John s’inerpicava verso di lui. Quello era il nome con cui si riferivano alle strane cose che avevano visto vagare per Livermore. Era parso loro adatto, dal momento che quelle cose si muovevano in continuazione e non ne avevano mai vista una starsene ferma.
— Adesso fammi ridere — disse John. — Che stai combinando qui?
— Mi scavo la strada per la Cina. — Jerry batté ancora sul terreno. — Tu non sei curioso?
— Ci sono curiosi e curiosi — borbottò John. — Che succede se qui sotto c’è roba sepolta da quella gente dei laboratori… dico roba dell’esercito, o magari un esperimento sfuggito al loro controllo?
— L’esperimento è già sfuggito da un pezzo al loro controllo. Te l’ho detto.
— Però non credo che quella roba sia uscita da qui.
— Merda! — Jerry girò il piccone e saggiò il terriccio, pieno di crepe e di cespuglii d’erba secca. — Perché no? E da dove diavolo è venuta fuori, allora?
— Di laboratori ce n’è dappertutto.
— Sicuro. E magari è venuta dallo spazio.
John scosse le spalle. Era probabile che non l’avrebbero saputo mai. — Se hai voglia di scavare, scava.
Jerry sollevò il piccone e con un movimento esperto lo abbatté. La punta oltrepassò lo strato di terreno come un guscio d’uovo e urtò contro qualcosa di solido, con un colpo che gli fece quasi sfuggire il manico dalle dita. — Vuoto — grugnì, scalzando via l’attrezzo. Si chinò a esaminare la buchetta. — Non ci vedo. — Si rialzò e sollevò ancora il piccone.
— Aspetta. — John si leccò nervosamente le labbra. — Non colpire così. Faccio io.
— Non sappiamo un accidente di quello che c’è qui sotto — disse Jerry, tenendo il piccone lontano dalla larga mano protesa del fratello.
John annuì con riluttanza e si ficcò la mano in tasca. Controllò l’altezza del sole e scosse il capo. — Non c’è niente che possiamo fare contro di loro — brontolò. — Siamo soli.
Jerry sferrò tre colpi in rapida successione, e d’un tratto si aperse un foro largo un braccio. I due fratelli balzarono indietro, poi si allontanarono di qualche passo per maggior sicurezza. Il resto del monticello sembrava però solido. Jerry si accovacciò a quattro zampe e avanzò fino al bordo del foro. — Non ci vedo, qui dentro — disse. — Vai a prendere la torcia elettrica.
Quando John tornò con la grossa lampada a prova d’acqua che aveva lasciato sul furgone era già quasi buio. Jerry era seduto sul bordo della buca e fumava, scuotendovi dentro la cenere della sigaretta. — Ho portato anche una fune — disse John, gettando il rotolo di corda accanto al fratello.
— Hai dato un’occhiata a quello che succede in città? — chiese Jerry.
— Da quel che ho visto è sempre uguale a prima, più o meno.
— Credi che domani non ci resterà niente?
John fece spallucce. — Ci resterà quello in cui si sta trasformando, suppongo.
— Va bene. Là è già buio e la notte non fa differenza. Tu reggi la corda, io vado giù con la lampada e…
— Nossignore — sbottò John. — Io qui al buio non ci resto.
— Allora scendi tu.
John ci pensò sopra. — Diavolo, no. Possiamo legare la corda a una macchina e andar giù tutti e due.
— Benone — annuì Jerry. Scese con la corda fino alla più vicina delle auto, la annodò a un paraurti e risalì svolgendola dietro di sé. Quando fu in cima al monticello ne restavano ancora una dozzina di metri. — Prima io — disse.
— È un bel salto — disse la Rana.
Jerry cominciò a calarsi nel foro. — La luce.
John gli diede la lampada. La testa di Jerry scomparve oltre il bordo. — Si riflette qui attorno — borbottò. Il raggio che usciva verticalmente nell’aria un po’ nebbiosa della sera illuminò il volto di John quando si sporse a guardare. Appena ebbe spazio a sufficienza si afferrò con forza alla robusta corda e seguì il fratello.
La loro madre aveva raccontato loro delle favole, che a sua volta aveva udito dalla nonna danese, circa simili monticelli di terreno in cui abitavano gli elfi, pieni di tesori e di scheletri e di esseri demoniaci che gridavano nel sottosuolo.
John non lo avrebbe ammesso, ma ciò che si aspettava veramente di trovare erano i Morlock.
I gemelli stavano sudando copiosamente allorché misero piede sul fondo del pozzo. L’aria era molto più calda e più umida che all’esterno. Il raggio della grossa torcia tagliava una nebbia spessa che in bocca dava un sapore dolciastro. I loro stivali affondavano in una superficie purpurea, elastica, che appena si mossero mandò un forte scricchiolio. — Ghaa! Porca…! — rantolarono contemporaneamente.
— Cosa accidenti pensi di fare, adesso che siamo qui? — chiese John appena si fu calmato.
— Dobbiamo cercare Ruth e Loren, e forse anche Tricia. — Tricia era stata l’amichetta di Jerry negli ultimi sei anni. Lui non l’aveva vista dissolversi, ma non ci voleva molto a supporre che questo fosse accaduto anche a lei.
— Loro sono morti — sussurrò John cupamente, con un groppo in gola.
— Morti un corno. Sono stati smontati a pezzettini e portati quaggiù.
— Dove diavolo l’hai presa quest’idea?
Jerry scosse la testa. — O le cose stanno così oppure, come hai detto tu, sono morti. Ti sembrava che fossero morti?
John ci rifletté un momento. — No — ammise. Entrambi avevano già sperimentato la sensazione che la morte di un parente stretto dava loro, anche a distanza, prima ancora che qualcuno li informasse. — Ma forse sto soltanto prendendo in giro me stesso.
— Stupidaggini — disse Jerry. — Io so che loro non sono morti. E se non sono morti, non lo sono neanche tutti gli altri. Perché hai visto…
— Ho visto! — sbottò John. Aveva visto i loro abiti pieni di carne che si dissolveva. E non aveva saputo cosa fare. Era successo nella tarda mattinata, quando Ruth e Loren erano scesi con addosso quella che sembrava la malattia di cui aveva parlato la radio la sera prima. Strisce bianche sulle mani e sulla faccia. Lui era uscito a tirare fuori il furgone per portarli dal dottore, e rientrando li aveva trovati a terra. Da lì al momento in cui era arrivato Jerry i vestiti s’erano vuotati, e lui era così rauco per il gran gridare che a stento era riuscito a parlare.
Lo guardò di tralice. — Allora perché non l’abbiamo presa anche noi?
Jerry si batté una mano sull’addome, prominiente come quello del fratello. — Troppo duri da mordere — disse. Agitò la nebbia con una mano. Il raggio della torcia non penetrava per più di un paio di metri in ogni direzione. — Gesù, ho paura — disse.
— Mettiti a fischiare — brontolò John.
— Be’, sei tu quello che ha avuto la pensata di scendere qui — disse Jerry, rovesciando completamente la verità. — Adesso decidi tu da che parte si deve andare.
— Diritto in avanti — stabilì John. — E attento ai Morlock.
— Sì, Gesù! I Morlock.
A passi lenti si mossero sulla morbida superficie purpurea. Trascorsero parecchi minuti in quella nebbia che li colmava di disagio prima che la luce si riflettesse contro una superficie verticale. C’erano alcune tubature orizzontali dal tono grigio e marroncino, e qualcosa che sembrava uno strato di materiale vagamente lucido, steso sul muro, che pulsava ritmicamente. Sulla sinistra i tubi giravano un angolo e sparivano dentro un tunnel oscuro. — Non ci credo! — sussurrò Jerry.
— E allora? — John indicò interrogativamente il tunnel.
Jerry annuì. — Ora sappiamo che le cose stanno ancora peggio.
— Non sappiamo un fottuto niente — grugnì John.
Jerry gli accennò di muoversi. — Prima tu.
— Carino, l’amico.
— E muoviti!
I due fratelli avanzarono nel tunnel.
Paulsen-Fuchs disse a Uwe di fermare l’auto alla sommità dell’altura. Nell’ultima settimana l’accampamento dei manifestanti intorno ai recinti della Pharmek era raddoppiato di dimensioni. Adesso dovevano essercene circa centomila: un mare di tende punteggiato da cartelli e striscioni, per lo più davanti al cancello principale sul lato est. Non sembrava una protesta organizzata, ed era questo a preoccuparlo. Fra loro non c’erano politicanti: era gente di ogni estrazione, tedeschi trascinati lì dalla paura di una catastrofe che non riuscivano a capire. Stavano picchettando la Pharmek a causa della presenza di Bernard, e senza neanche sapere quel che volevano. Ma così non sarebbe durata. Qualcuno avrebbe finito per prenderli sotto controllo e dare loro un obiettivo.
Non mancavano i cartelli che chiedevano l’eliminazione di Bernard e la sterilizzazione del suo laboratorio, ma un’ipotesi simile era quanto mai improbabile. Quasi tutti i Governi europei avevano dichiarato che la ricerca accentrata su Bernard poteva essere l’unica strada per studiare l’epidemia e trovare il modo di tenerla sotto controllo.
Tuttavia l’Europa era nella morsa del panico. Moltissimi viaggiatori — turisti, uomini d’affari, perfino militari — erano tornati dal Nord America prima che ci si decidesse a ordinare la quarantena. Localizzarli tutti s’era rivelato impossibile. Alcuni erano stati trovati già in via di trasformazione fisica in stanze d’albergo, o a casa loro. Quasi invariabilmente le vittime erano state uccise dalle autorità locali, gli edifici dati accuratamente alle fiamme, e le fogne e condutture dell’acqua inondate di sostanze sterilizzanti.
Nessuno sapeva se quelle misure erano state davvero efficaci.
Molti studiosi, sparsi in ogni angolo del mondo, erano convinti che fosse solo questione di tempo.
Dopo le notizie che aveva ricevuto quel mattino lui sperava quasi che avessero ragione. L’epidemia poteva essere preferibile al suicidio. — Al cancello nord — ordinò Paulsen-Fuchs, rientrando nell’auto.
L’attrezzatura gli era stata finalmente fornita ed ora riempiva metà della camera di contenimento. Bernard cambiò posto al letto e alla scrivania, poi fece un passo indietro ed esaminò con soddisfazione il laboratorio di cui disponeva. Adesso avrebbe potuto punzecchiarsi e manipolarsi da solo.
Erano trascorse settimane e il suo corpo era ancora lontanissimo dalla trasformazione finale. Nessuno di coloro che lo studiavano sapeva dirgliene il perché, né lui sapeva spiegare a se stesso perché non aveva ancora comunicato con i noociti, come Vergil aveva fatto. O come credeva di aver fatto.
Forse Vergil era semplicemente diventato pazzo. Comunicare sembrava in effetti piuttosto irreale.
Gli sarebbero servite più attrezzature di quelle che il locale poteva contenere, comunque pensava di far eseguire all’esterno quasi tutte le analisi chimiche, i cui dati gli sarebbero giunti sul suo terminale.
Sentiva ora tornare qualcosa del vecchio Michael Bernard. Era al lavoro. Intendeva scoprire, o aiutare gli altri a scoprire, il sistema di comunicazione delle cellule, il linguaggio chimico che esse usavano. E se non avessero voluto parlargli direttamente voleva cercare un metodo per parlare a loro. Forse per metterle sotto controllo. La Pharmek disponeva delle possibilità e dell’equipaggiamento, tutto ciò che aveva avuto Ulam e ancora di più; se necessario potevano duplicare i suoi esperimenti ripartendo da zero.
Bernard dubitava che questo gli sarebbe stato concesso. Dalle conversazioni con Paulsen-Fuchs e altri dipendenti della Pharmek aveva avuto l’impressione che intorno a lui si stesse addensando un temporale.
Dopo un breve inventario delle attrezzature cominciò a leggere i manuali acclusi per rinfrescarsi la memoria sulle procedure. Qualche ora più tardi se ne stancò e tirò fuori il suo minicomputer per inserire i primi appunti nella memoria, ben conscio che presto o tardi la Pharmek sarebbe riuscita a metterci il naso; per non parlare degli psicologi e dei medici che il Governo aveva accluso al personale. Tutto ciò che riguardava lui era adesso ritenuto importante.
A mio avviso non esiste nessuna ragione di carattere biologico per cui la Terra intera non avrebbe già dovuto soccombere da tempo. L’agente epidemico è versatile, capace di trasformare ogni creatura vivente. Ma l’Europa ne è rimasta immune (a parte episodi isolati) e dubito che ciò sia stato merito delle misure protettive. Forse la risposta al perché io sono un caso atipico rispetto alle recenti vittime (subisco mutamenti più simili a quelli di Vergil Ulam) spiegherà anche quest’altro mistero. Domani i tecnici mi preleveranno campioni di sangue e tessuti, ma non tutti saranno esaminati all’esterno. Lavorerò io su alcuni di essi, in particolare sul sangue e sulla linfa.
Esitò, con le dita sulla tastiera, e stava per continuare quando Paulsen-Fuchs richiamò la sua attenzione col cicalino della camera d’osservazione.
— Buon pomeriggio — disse Bernard, ruotando sulla poltroncina girevole. Come al solito era nudo. Una telecamera piazzata in una angolo alto nella stanza oltre i cristalli riprendeva di continuo contorni e caratteristiche del suo corpo, mandando l’immagine a un computer che l’analizzava.
— Non è un buon pomeriggio, Michael — disse Paulsen-Fuchs. La sua faccia era ancora più lunga e malinconica del consueto. — Come se non avessimo già abbastanza guai, ora siamo di fronte all’eventualità d’una guerra.
Bernard vide che lo studioso gli mostrava la prima pagina di un quotidiano inglese e s’accostò alla finestra. Il titolo a caratteri cubitali gli produsse un brivido gelido lungo la schiena.
— Quando? — domandò.
— Ieri pomeriggio. I cubani registrano una nube radiattiva che avanza sull’Atlantico. I satelliti militari della NATO hanno confermato le esplosioni avvenute sul canale. Suppongo che i militari l’abbiano saputo subito, grazie ai loro sismografi o in altri modi, ma la stampa lo ha scoperto solo in nottata. I russi hanno usato nove o dieci bombe da un megatone, probabilmente lanciate da un sommergibile. L’intera zona del canale è… — Scosse il capo. — Da Mosca nessuna dichiarazione. Metà della popolazione, qui, si aspetta che la Germania sia invasa entro la settimana. L’altra metà è ubriaca.
— Niente messaggi dal continente? — Era così che si riferivano al Nord America da un paio di giorni: il continente, il centro effettivo di ciò che stava accadendo.
— Niente. — Paulsen-Fuchs sbatté il giornale sul tavolo della camera d’osservazione.
— Voi… dico voi europei, vi aspettate che la Russia invada il Nord America?
— Sì. Da un giorno all’altro. Diritto d’esproprio, o comunque lo definiate voi in inglese. Diritti di recupero. — Ebbe una risatina. — Io non sono un avvocato, ma non c’è dubbio che scoveranno fuori una formula legalmente corretta per giustificarsi a Ginevra. Sempre che nel frattempo non abbiano bombardato anche Ginevra. — Poggiò le mani sul tavolo, ai lati del giornale. — Nessuno è preparato a discutere le contromisure in caso di una loro invasione. Il Governo USA in esilio ha fatto capire che le vostre basi aeree e navali in Europa reagiranno, ma la Russia non li prende sul serio. Un mese fa, quando mi hai telefonato, stavo progettando di prendermi la prima vacanza da sette anni a questa parte. Non so se ci riuscirò più — disse. — Michael, tu hai scombussolato la mia esistenza con qualcosa che può condurmi alla tomba. Scusa se ogni tanto ti sembra che io vada fuori fase.
— Capisco — disse sottovoce Bernard.
— Qui in Germania abbiamo un proverbio — mormorò Paulsen-Fuchs fissandolo. — È la bomba che non senti arrivare quella che ti scoppia sulla testa. Significa qualcosa per te?
Lui annuì.
— Allora mettiti al lavoro, Michael. Dacci dentro prima che la bomba che ci hai messo in mano ci ammazzi tutti.
Dietro il bancone della portineria Suzy trovò una lunga e potente torcia elettrica, simile a un complicato cannocchiale nero e con un raggio che poteva essere dilatato oppure ristretto al massimo. Scese così a esplorare il seminterrato e i livelli sotterranei che collegavano le due torri gemelle. Impiegò un po’ di tempo a provarsi abiti in una boutique, ma alla luce della torcia non riusciva a vedersi bene e presto le venne a noia. Inoltre era piuttosto tesa. Col batticuore s’era costretta a guardare se altri come lei erano entrati nell’edificio, avventurandosi perfino brevemente nella stazione della metropolitana di Courtland Street. Quando fu certa che i sotterranei erano vuoti — a parte i macabri vestiti vuoti stesi al suolo dovunque — tornò nella Sala delle Candele, come l’aveva chiamata, e cominciò a pensare all’ascensione che la aspettava.
Nella torre nord aveva trovato una pianta del grattacielo, e con un dito seguì il percorso dall’atrio ai piani superiori. Scartabellando lo spesso libretto riuscì a stabilire che l’edificio non aveva una scala continua, bensì rampe scaglionate in punti diversi di ogni piano.
Questo avrebbe reso la sua arrampicata ancora più difficile. Individuò sulla carta la porta oltre cui c’era la prima scala e vi si diresse. Era chiusa a chiave. Tornò al banco della portineria, frugò con un piede in un’uniforme che giaceva sul pavimento e mise allo scoperto un grosso anello pieno di chiavi fissato a una catenella. Lo sollevò, insieme alla cintura cui era collegato, e mentre staccava la fibbia dall’uniforme cadde fuori un reggiseno. — Scusatemi — sussurrò, rimettendo gli abiti più o meno nella posizione originaria. — Le sto solo prendendo a prestito. E ve le restituirò quanto prima. — Poi si azzitti con una mano, rabbrividendo, e si morse il pollice fino a lasciarvi un segno rosso. Qui non c’è nessuno, si disse. Nessuno, da nessuna parte. Ci sono solo io adesso.
Le occorsero alcuni minuti per leggere le piccole etichette delle chiavi e trovare quella che apriva la porta del piano terra. Al di là di essa c’era una rampa in metallo, pratica quanto disadorna. Al primo piano terminava, e c’era una porta che dava in un corridoio. La ragazza lo seguì fino all’angolo oltrepassando molti locali adibiti a ufficio, alcuni con porte intestate a ditte diverse e altri semplicemente numerati. Le brevi occhiate che gettò in vari uffici non le dissero molto.
— Va bene — rifletté. — Sarà soltanto una scarpinata. Ho bisogno di cibo e acqua. — Abbassò gli occhi sui suoi stivaletti e sospirò. Doveva accontentarsene, a meno che non avesse deciso di prelevare un paio di scarpe più comode da uno dei…
L’idea non le sorrideva. Tornata nell’atrio trovò una borsa di plastica da massaia e la riempì coi cibi più leggeri che aveva nel carrello. L’acqua era un problema, poiché la teneva in una tanichetta piuttosto scomoda da portarsi appesa alla cintura, ma sospirò fra sé che non aveva altra scelta. E se avesse trovato acqua potabile ai piani superiori — dovevano pur esserci distributori o frigoriferi — avrebbe potuto liberarsi di quel contenitore.
Erano le otto e mezzo del mattino quando cominciò a salire. Ciò che le conveniva, pensò, era superare dieci piani e poi fare una pausa per riposare, magari davanti a una finestra che le consentisse di osservare il panorama esterno da quel livello. Misurando le forze avrebbe potuto arrivare in cima verso sera.
Canticchiando Michelle e con una mano sulla ringhiera salì da un piano all’altro, oltrepassando porta dopo porta. Ciò che le serviva era un ritmo. Una volta Kenneth e Howard l’avevano portata a fare una lunga camminata, nel Maine, e aveva imparato che ogni tipo di marcia doveva avere il suo ritmo. Seguendolo si andava avanti con facilità; rompere il ritmo o cambiarlo significava maggior dispendio di energie.
— Ma non ho nessuno da seguire — sospirò al quarto piano. Tentò di ricominciare con Michelle ma quel ritmo non si adattava al suo passo, così fischiettò una marcetta di John Williams. Al nono piano scoprì di avere il fiato grosso. — Un altro ancora. — E al decimo cadde a sedere con la schiena appoggiata al muro oltre cui c’era il pozzo dell’ascensore, di fronte alla porta. — Forse non è stata una buona idea. — Ma lei era testarda (sua madre lo diceva sempre, con un certo orgoglio) e perciò avrebbe continuato. — Non c’è altro da fare — disse, e la sua voce risuonò nel silenzio assoluto della scale.
Appena ebbe ripreso fiato si alzò, sistemò meglio il contenitore dell’acqua e la borsa, andò alla porta e la aprì. Su per un’altra rampa, un altro pianerottolo e un’altra porta, altri corridoi e altri uffici. Decise di esplorare una delle varie sale di attesa.
— Vediamo se c’è dell’acqua — disse. Davanti a lei c’erano due porte: Uomini e Donne. Ridacchiò fra sé e poi scelse quella Uomini. Spostando il raggio della torcia elettrica sugli specchi e sugli infissi fu colta dalla curiosità e avanzò lungo i lavandini. Non aveva mai visto prima gli alti infissi in ceramica bianca allineati verticalmente lungo il muro. Aveva anche dimenticato come si chiamavano. Gettò un’occhiata sotto le porte dei cessi e rabbrividì, mentre la sua curiosità si mutava in un fremito di paura e di pena.
Dentro uno di essi alcuni abiti giacevano al suolo. — Risucchiato giù nel gabinetto — mormorò, raddrizzandosi, e si asciugò le lacrime che le erano spuntate negli occhi. — Poveraccio. Dio lo accolga. — Terminò di tamponarsi gli occhi con una manica della blusa, quindi girò il rubinetto dell’acqua calda di un lavandino. Ne uscì un breve rigagnolo. Da quello della fredda ne sgorgò di più, ma anche lì mancava la pressione.
Usci dai gabinetti e s’incamminò per un corridoio. Oltre una grossa doppia porta di legno con inciso un nome che suonava giapponese scoprì una sala d’attesa, divani di morbido velluto e tavolini di vetro, e sul fondo una massiccia scrivania. Dietro di essa non c’erano vestiti al posto occupato un tempo dalla receptionist. E non c’era nulla che la interessasse.
Dalla finestra del locale guardò giù nella piazza. Il cemento era adesso completamente coperto da uno strato marrone. Sali, disse a se stessa. Tutte le scale portano al cielo. Se morirai lassù sarai più vicina al Paradiso. Sali.
— È come scendere nella gola di una balena — bofonchiò John.
— Gesù, sei delicato!
— E con questo? A te piace qui dentro?
— Già — rifletté Jerry. Grugnì e rallentò il passo. — Ci stiamo comportando da idioti. Perché siamo scesi qui, e perché adesso?
— Quel buco l’hai aperto tu.
— E non so perché. Forse proprio senza nessuna ragione.
— Una ragione vale l’altra, suppongo.
Mentre avanzavano poterono vedere che le pareti del tunnel cambiavano aspetto. I grossi tubi color carne si ramificavano in una rete di sostanza lucida simile a trippa spruzzata di vernice trasparente. John avvicinò il volto e la lampada per esaminarla, e scorse minuscole incavature piene di quelli che sembravano dischetti, cubi e palline ammucchiati confusamente. Il percorso si restringeva, e la spugnosa pavimentazione purpurea si sollevava in creste parallele ai muri del tunnel. — Drenaggio — ipotizzò Jerry, indicandole.
Sostavano di continuo qua e là il raggio della torcia per tranquillizzarsi con la sua luce, a tratti puntandosela in faccia a vicenda, o ispezionandosi la pelle e i vestiti per accertarsi che nulla si stesse arrampicando loro addosso.
D’improvviso il tunnel si allargò e intorno a loro roteò densa la nebbia dolciastra. — Abbiamo camminato abbastanza da essere finiti sotto un altro monticello — disse Jerry. Si fermò e sollevò uno stivale da qualcosa di vischioso. — Il pavimento è tutto coperto da questa robaccia.
John gli diresse il raggio sullo scarpone. La suola grondava di poltiglia bruno-rossiccia. — Non sembra molto profonda — disse.
— Non ancora, comunque. — La foschia aveva un vago odore di fertilizzante, o di salmastro. Viveva. Circolava in veli alti e spessi, come imprigionata fra cortine d’aria.
— Da che parte adesso? Non possiamo stare qui a guardarci attorno — disse Jerry.
— Sei tu il capo — replicò John. — Non chiedere a me una decisione.
— C’è un puzzo come di alghe e di pasticceria — brontolò Jerry. — Mi confonde il naso.
— Funghi — disse John, puntando la luce a terra. Tutto intorno ai loro piedi spuntavano bolle biancastre larghe pochi centimetri, che vibravano mollemente a contatto delle scarpe. Rialzò la lampada e vide linee orizzontali e verticali che intersecavano la nebbia davanti a loro.
— Scaffalature — disse Jerry. — Ripiani con certa roba che ci cresce sopra. — Gli scaffali erano spessi un paio di centimetri e sostenuti da mensole irregolarmente spaziate, il tutto fatto d’una materia bianca e dura che rifletteva la luce. Sui ripiani c’erano mucchietti di quella che sembrava carta bruciata… carta bruciata e inzuppata d’acqua.
— Polpa — commentò Jerry saggiando uno dei mucchietti con un dito.
— Se fossi te non toccherei niente — lo rimbrottò John.
— Diavolo, tu sei me. Con poche differenze.
— Io però non tocco niente.
— Già. Forse è una buona idea.
Continuarono per tutta la lunghezza delle scaffalature e giunsero a un muro ricoperto di tubi. I tubi giravano sopra i ripiani e si ramificavano in altri più piccoli, che finivano nei mucchietti di sostanza umida e marroncina. — Cos’è questa roba, plastica o che altro? — chiese Jerry, tastando una delle mensole di sostegno.
— Non sembra plastica — disse John. — Ha più l’aria di osso, bianco e liscio. — Si fissarono l’un l’altro.
— Spero che non lo sia. — Jerry si allontanò. Incamminandosi nei lenti turbini di nebbia fino al lato opposto dello scaffale i due trovarono una palla spugnosa e biancastra, simile a un favo di miele, coperta da bubboni aperti in cui luccicava uno sciroppo purpureo. Da alcuni bubboni il liquido colava sul pavimento, e le gocce sfrigolavano e fumavano sulla sua superficie.
John non seppe trattenere una smorfia e mugolò qualcosa sull’impulso di vomitare.
— Certo — disse Jerry, chinandosi a guardare i bubboni. — Ma prima dai un’occhiata qui.
Riluttante John s’inginocchiò e osservò il bubbone che il fratello gli indicava.
— Guarda tutti questi filamenti — borbottò Jerry. — Ci sono diverse bollicine che viaggiano sui fili, sopra quella roba purpurea. Bolle rosse. Sembra sangue, no?
John annuì. Si frugò nella tasca posteriore dei jeans e ne tolse un coltello in dotazione all’esercito svizzero che aveva trovato sotto il sedile della jeep inglese. Con un’unghia estrasse una piccola lente d’ingrandimento dal manico di plastica. — Illumina quest’affare. — Col raggio di luce puntato sul bubbone mise a fuoco la lente sul liquido purpureo e sui filamenti cosparsi di goccioline rosse.
Con un occhio quasi applicato al vetro riuscì a distinguere minuti dettagli. Nulla che potesse riconoscere, tuttavia la superficie dello sciroppo purpureo era composta da miriadi di piramidi. Il materiale bianco assomigliava a schiuma plastica o a sughero.
Digrignò i denti. — Molto interessante — commentò. Afferrò l’orlo del bubbone e lo strappò via. Il liquido precipitò ai suoi piedi e la nebbia s’infittì. — Loro non sono qui.
— Perché l’hai fatto? — domandò Jerry.
John colpì con violenza il morbido favo e la sua mano luccicò di liquido purpureo. — Perché loro non sono qui.
— Loro chi?
— Ruth e Loren. Sono proprio andati.
— No, fermo… — cercò di trattenerlo Jerry, ma il fratello ora colpiva con ambo le mani, spaccando i bubboni e facendo schizzare via il contenuto. La nebbia dolciastra che questo produceva a contatto del suolo li avvolgeva entrambi. Jerry lo afferrò per le spalle, tirandolo indietro. — Basta! Basta, John, maledizione!
— Loro li hanno presi! — urlò il fratello. Vacillò, con le lacrime agli occhi, e continuò a prendere a pugni il favo mandando gemiti finché non scivolò. — Non ci sono qui, Jerry!
I due ruzzolarono avvinghiati nella poltiglia che copriva il pavimento, con la lampada che rimbalzava fra le loro gambe. Poi Jerry riuscì a tirare il fratello a sedere e lo tenne fermo. John si passò una mano sugli occhi e scosse il capo, quindi cominciò a singhiozzare, a denti stretti e in silenzio. Jerry recuperò la lampada, la girò attorno nella fitta caligine e gli poggiò una mano su una spalla. — Su, su — mormorò più volte. Grondavano di maleodorante sostanza marroncina. — Su, non fare così.
— È troppo che me lo tengo dentro — disse l’altro dopo un ultimo tremulo sospiro. — Lasciami sfogare, Jerry. È troppo che me lo tengo dentro. Andiamocene via da qui. Tanto non c’è nessuno. Non c’è nessuno qui sotto.
— Già — disse Jerry. — Non qui. Forse da altre parti, ma non qui.
— Io posso sentirli, Jerry.
— Lo so. Ma non qui.
— Allora dove accidenti…
— Ssssh! — Restarono seduti nella poltiglia, con gli orecchi tesi all’impercettibile fruscio della nebbia e delle cortine d’aria. Jerry s’accorse che i suoi occhi erano spalancati come quelli di un gatto nel buio. — Ssssh! C’è qualcosa…
— Oh, Cristo! — ansimò John, sciogliendosi dalle braccia del fratello. Gocciolando brodaglia si tirarono in piedi, lo sguardo fisso lungo il raggio della lampada. Dentro di esso la nebbia si torceva e ondeggiava.
— È un vagabondo — sussurrò John, quando nella caligine apparve una vaga forma.
— È troppo grosso — replicò Jerry.
L’oggetto era una sfoglia piatta larga circa tre metri, con frange che pendevano attorno, e nella debole luminosità appariva di un colore marrone chiaro.
— Non ha gambe — mormorò Jerry spaurito. — Sta fluttuando nell’aria.
John fece un passo avanti. — Maledetti marziani — disse, freddamente. Sollevò un pugno. — Io gli spacco il…
Un istante dopo intorno a loro tutto fu tenebra e oblio.
L’aurora spandeva nel cielo un pallido colore acquamarina. E coperta da uno strato di sostanza bianca e marrone la città aveva l’aspetto di qualcosa che sarebbe stato più facile immaginare sott’acqua, una piatta e bassa sezione del fondo oceanico.
I due erano in piedi nel fossato fuori dai recinti, e fissavano quel panorama un tempo abitato.
— Quasi non ce la faccio a muovermi — si lamentò Jerry.
— Neppure io.
— Credo che quella cosa ci abbia punti.
— Io non ho sentito niente.
John mosse le braccia come per collaudarle. — Penso di averli visti.
— Visti chi?
— Mi sento stordito, Jerry.
— Anch’io.
Prima che trovassero l’energia di mettersi in cammino il sole era già alto nel cielo. Sopra la città, fra i contorni degli edifici, si vedevano aleggiare alcuni emisferi trasparenti dai quali ogni tanto scendevano sottili raggi di luce. — Guarda un po’, sembrano meduse — commentò Jerry mentre scendevano sulla strada verso il furgone.
— Credo d’avere visto Ruth e Loren. Non ne sono sicuro — disse John. Raggiunsero il veicolo lentamente, a passi rigidi, e dopo avere chiuso il portello posteriore sedettero nella cabina. — Filiamocela.
— Dove?
— Li ho visti quando eravamo in quel buco. Ma non erano là. Questo non ha senso.
— No, voglio dire dove andiamo adesso.
— Fuori città. Da qualche altra parte.
— Loro sono dappertutto, John. Lo ha detto la radio.
— Maledetti marziani.
Jerry sospirò. — I marziani ci avrebbero fatti fuori, John.
— Si fottano. Andiamocene da qui.
— Qualunque cosa siano — disse Jerry. — Giurerei che sono usciti da qualche posto qua attorno. — Indicò i terreni circostanti. — Forse proprio da dentro quel recinto.
— Metti in moto — disse John. Il fratello girò la chiavetta, ingranò la marcia e accelerò lungo la strada polverosa. Più avanti sbucarono sulla East Avenue, evitarono per un capello un’auto abbandonata in mezzo all’incrocio e girarono per la South Vasco Road verso l’autostrada. — Quanta benzina abbiamo?
— Ieri ho fatto il pieno prima che quella roba marrone ricoprisse anche il distributore.
— Sai una cosa — borbottò John raccogliendo dal pavimento uno straccio bisunto per asciugarsi le mani. — Credo che non ne capiremo mai abbastanza per sapere cos’è successo. È che non ne abbiamo la minima idea.
— Non abbiamo fantasia, forse. — Jerry strinse le palpebre: un miglio più avanti, sulla strada, c’era qualcuno che agitava vigorosamente le braccia. Vedendolo stupito John seguì il suo sguardo.
— Sembra che non siamo soli — commentò.
Jerry rallentò. — È una donna. — Si fermarono a una trentina di metri dalla sconosciuta, che li attendeva sul bordo della strada. Jerry si sporse dal finestrino per esaminarla meglio. — Non è una donna giovane — borbottò un po’ deluso.
Dimostrava una cinquantina d’anni, ma aveva capelli neri e lunghi e una gonna giovanile, color pesca, che nel correre le svolazzava attorno.
Si avvicinò sulla destra del furgone, sorridente e col fiato mozzo. — Grazie a Dio! — ansimò. — O a chi per lui. Credevo d’essere l’unica superstite della città.
— Evidentemente no — disse Jerry. John aprì lo sportello, si scostò per farle posto e lei salì in cabina; si gettò a sedere con un sospiro e rise ancora. Poi li scrutò entrambi con occhi acuti e vivaci. — Voi due non sarete giovinastri da strada, eh?
— Non credo proprio — replicò Jerry, esplorando i dintorni con un’occhiata. — Lei di dov’è?
— Abitavo qui in città. La mia casa è andata, e tutte le altre sono impacchettate e pronte per essere spedite… chissà dove. A dirla tutta credevo d’essere rimasta sola al mondo.
— Allora non ha ascoltato la radio — disse John.
— No. Non mi piacciono le carabattole elettroniche. Comunque so già cos’è successo.
— Ah, sì? — chiese Jerry, rimettendo in movimento il furgone.
— Proprio così. Mio figlio. È lui il responsabile di tutto questo. Non avevo idea di quale forma avrebbe preso la cosa, ma già allora non dubitavo che sarebbe accaduto. L’ho anche avvertito.
I gemelli si fissarono l’un l’altro. La donna scosse i capelli e se li fermò intorno alla fronte con un nastro.
— Sì, lo so — ridacchiò fra sé. — Matto come un cavallo. Più matto di chiunque altro in città. Ma intanto posso dirvi io dove andare.
— Dove? — domandò Jerry.
— A sud — disse lei con fermezza. — Dove mio figlio lavorava. — Si stirò la gonna sulle ginocchia. — Il mio nome, se vi interessa, è Ulam. April Ulam.
— John — si presentò lui, imbarazzato, stringendole la mano. — Questo è mio fratello Jerry.
— Vedo — annuì April. — Gemelli. Questo ha un significato, suppongo.
Jerry cominciò a ridere, e dopo un po’ gli si riempirono gli occhi di lacrime. Se le asciugò con il dorso della mano, ancora sporco di poltiglia marroncina secca. — A sud, signora?
— Senza esitare.
Diario elettronico di Michael Bernard
15 Gennaio: Oggi hanno cominciato a parlare con me. Dapprima non senza difficoltà, ma sempre più facilmente col trascorrere delle ore.
Come descrivere l’esperienza delle loro voci? Hanno finalmente attraversato la barriera sangue-cervello, ed esplorato l’immensa frontiera costituita dalla mia mente, e scoperto lo schema che sta dietro le attività bioelettriche di questo mondo (lo schema che sono io) e scoperto che le informazioni sul loro passato e sulla loro origine sono vere, e che fuori di me esiste un mondo macroscopico…
E dopo aver appreso tutto ciò, essi dovevano comprendere cosa significa essere un uomo. Perché solo così potevano comunicare con questo loro Deus ex Machina. Incaricando decine di milioni di studiosi di lavorare a questo progetto, credo solo negli ultimi tre giorni, hanno chiarito la situazione e adesso chiacchierano con me non più stranamente che se fossero (ad esempio) aborigeni australiani.
Mi siedo alla scrivania e quando viene il momento stabilito converso con loro. In parte lo faccio in inglese (credo che loro captino la fase pre-vocale, quella che subito dopo la mia mente trasforma in parole), in parte in immagini visive, in parte con impressioni sensorie: più che altro il senso del gusto da cui sono particolarmente attratti.
Non ho ancora afferrato la complessità della popolazione che vive dentro di me. Si dividono in molte classi: i noociti originali e i loro derivati, quelli trasformati subito dopo l’invasione, le categorie di cellule mobili molte delle quali evidentemente nuove nel mio corpo, di nuova concezione e con nuove funzioni; le cellule fisse, forse non dotate d’individualità mentale, senza mobilità e con funzioni più complesse; le cellule tuttora non alterate (quasi tutto il mio cervello e il sistema nervoso rientra in questo gruppo) e poi altre di tipo a me ancora non conosciuto.
Insieme, ammontano a decine di trilioni.
A occhio e croce direi che in me esistono forse due trilioni di individui dall’intelligenza pienamente sviluppata.
Se moltiplico questo numero per il numero degli abitanti del Nord America (mezzo miliardo, all’incirca), ottengo una cifra di almeno un bilione di trilioni, nell’ordine di 1020. Tanti sono attualmente gli esseri senzienti sulla faccia della Terra… trascurando, è ovvio, l’ormai trascurabile popolazione umana.
Dopo avere fissato le note nella memoria elettronica, Bernard scostò la poltroncina dalla scrivania. Ci sarebbe stato troppo da registrare, troppi particolari; non sperava più di riuscire a spiegare quelle sensazioni ai ricercatori esterni. Dopo settimane di frustrazione, di isolamento, di tentativi d’interpretare il linguaggio chimico del suo sangue, adesso era subissato da una tale quantità d’informazioni che non riusciva ad assorbirne neppure una parte. Tutto ciò che doveva fare era chiedere, e mille o un milione di esseri intelligenti si organizzavano per analizzare le sue domande e fornirgli rapide e dettagliate risposte.
— Chi sono io per voi? — avrebbe ottenuto in risposta:
Padre/Madre/Universo
Mondo-Sfida
Sorgente di tutto
Antico, lento
°montagna-galassia°
E poteva trascorrere ore facendosi spiegare le complesse sensazioni che accompagnavano le parole: il sapore del suo siero sanguigno, i tessuti del suo corpo, la gioia con cui venivano accolte le sostanze nutritive, le necessità relative alla protezione e alla pulizia.
Nella quiete notturna, disteso sul letto e senza altro che uno scanner a infrarossi puntato addosso e gli immancabili sensori scaglionati sul corpo, s’immergeva nei suoi sogni e nelle caute, quasi riverenti, domande e risposte dei noociti. Ogni tanto si destava, come se un cane da guardia mentale lo avvertisse che un nuovo territorio dentro di lui veniva esplorato.
Anche durante il giorno gli capitava di perdere il senso del tempo. I minuti trascorsi a conversare con le cellule gli sembravano ore, e tornava poi alle attrezzature che lo circondavano con un’impressione distorta della realtà.
Le visite di Paulsen-Fuchs e degli altri avvenivano a intervalli che gli risultavano casuali e irregolari, mentre di fatto erano programmate ogni giorno sempre alla stessa ora.
Alle tre pomeridiane Paulsen-Fuchs arrivava con le sue interpretazioni delle notizie che Bernard aveva già letto o visto sullo schermo quel mattino. Le novità erano invariabilmente spiacevoli e sempre peggiori. L’Unione Sovietica, imprevedibile come un orso solitario, dopo aver indotto l’Europa al panico la lasciava ora in preda a una rabbia impotente. S’era trincerata in un improvviso silenzio che non tranquillizzava nessuno. Bernard rifletté un poco su quei problemi, poi chiese a Paulsen-Fuchs quali progressi s’erano fatti nel controllo delle cellule intelligenti.
— Nessuno. È ovvio che hanno in mano l’intero sistema immunitario; e oltre a possedere un tasso metabolico accelerato si travestono nei modi più diversi. Pensiamo che adesso riescano a neutralizzare ogni antimetabolita prima che entri in azione, e sono già capaci di fronteggiare inibitori come l’actinomicina. In breve, non possiamo danneggiare loro senza danneggiare te.
Bernard annuì. Stranamente questo non lo preoccupava più.
— E ora tu sei in comunicazione con loro — disse Paulsen-Fuchs.
— Sì.
Lo studioso sospirò, scostandosi dal triplo cristallo. — Sei ancora un essere umano, Michael?
— Si capisce che lo sono — esclamò lui. Ma poi dovette riflettere che il suo corpo non lo era, e che da più di un mese non poteva definirsi esattamente umano. — Sono sempre me stesso, Paul.
— Perché ci hai costretti a ficcare il naso nei tuoi appunti per scoprire questo fatto?
— Io non lo chiamerei curiosare. Davo per scontato che i miei appunti venissero scovati e analizzati.
— Michael, perché non lo hai detto a me? Mi sento sciocco, e offeso. Credevo di contare qualcosa nel tuo mondo.
Bernard ridacchiò e scosse il capo. — E conti molto, Paul. Sono tuo ospite. Appena avrò chiarito a me stesso, in parole, quel che devo dirti, te ne parlerò. Ti dirò tutto. Il discorso fra me e i noociti è appena all’inizio; non posso essere certo che fra me e loro non vi siano dei fraintendimenti sulle cose basilari.
Paulsen-Fuchs si mosse verso la porta di sicurezza. — Fammi sapere quando sarai pronto. Potrebbe essere molto importante — disse stancamente.
— Stanne certo.
Paulsen-Fuchs uscì dalla camera d’osservazione.
Bernard aveva captato in lui una certa freddezza. Lo stavano trattando come qualcuno sospeso dal consesso umano. E Paulsen-Fuchs era un amico.
Comunque lui cosa poteva farci?
Forse la sua umanità stava davvero giungendo al termine.
Al sessantesimo piano Suzy comprese che per quel giorno non ce l’avrebbe fatta a salire più in alto. Sedette sulla poltrona di un dirigente (aveva gettato in un angolo le scarpe di coccodrillo, la camicia di seta e l’elegante completo grigio del dirigente) e dalla finestra osservò la città duecento metri più in basso. Le pareti erano tappezzate in pannelli di mogano, con infissi artistici di bronzo firmati Norman Rockwell. La ragazza aveva mangiato cracker con prosciutto e burro d’arachidi tolti dalla sua borsa, e bevuto da una bottiglia di acqua minerale Calistoga trovata nel ben fornito bar dell’ufficio.
Il piccolo telescopio montato sul davanzale le aveva dato un’ampia visuale del quartiere intorno a casa sua, ora coperto da uno spesso strato di sostanza color del cuoio, e di tutta la periferia a sud e ad est su cui aveva puntato lo strumento. Il fiume intorno a Governor’s Island non sembrava più composto da acqua. La corrente aveva l’aspetto di fanghiglia congelata, e strane onde semisolide s’allargavano in circolo a incontrare altre onde provenienti da Ellis Island e Liberty Island. Si sarebbe detta più sabbia scomposta che acqua, ma lei sapeva che il fiume non poteva essere diventato sabbia.
— Devi esser stato un uomo molto ricco, e avere fatto un sacco di soldi — disse al vestito grigio, alla camicia di seta e alle scarpe. — Voglio dire, qui è tutto elegante e bello. Ti ringrazierei, se potessi. — La bottiglia era finita e la depose in un cestino per la cartastraccia sotto la scrivania, anch’esso in mogano.
La poltrona era abbastanza comoda da prestarsi a un pisolino, ma lei contava di trovare un letto. Sul suo vecchio televisore aveva visto spesso che gli alti dirigenti avevano camere da letto private annesse agli uffici. Quello era un ufficio così lussuoso che non poteva esserne privo. Decise però d’essere troppo stanca per alzarsi e andare a cercarla.
Mentre il sole scendeva sul New Jersey si massaggiò le gambe irrigidite dalla fatica.
La maggior parte della città, a quanto poteva vedere da lì, era nascosta sotto una tappezzeria marroncina e nerastra. Non riusciva a descriverla in un modo migliore. Qualche tappezziere era andato attorno ricoprendo di quel lenzuolo gli edifici di tutta Manhattan fino al decimo e anche al ventesimo piano. Di tanto in tanto vedeva ampi stralci di quel materiale sollevarsi nell’aria e svolazzare via, come avevano fatto a Brooklyn, ma adesso quel tipo d’attività era diminuito.
— Arrivederci, sole — disse. La rimanente sezione del disco rosso rimpicciolì, scomparve, e per la prima volta in vita sua lei vide, nell’estremo bagliore di luce riflessa, un brevissimo lampo verde. Alla scuola superiore gliene avevano parlato; l’insegnante aveva detto che si trattava di un fenomeno molto raro (anche se non s’era preoccupato di spiegare cosa lo produceva) e la ragazza sorrise compiaciuta: lo aveva visto, infine.
— Sono una privilegiata, questo è tutto — disse. Un’idea cominciò a prendere forma in lei. Non sapeva se si trattasse di una delle sue premonizioni bislacche o soltanto di un sogno a occhi aperti. La sorvegliavano. Il lenzuolo marrone stava spiando lei. Il fiume. Il mucchietto di vestiti. Qualsiasi cosa fosse, la sostanza in cui la gente s’era trasformata la teneva d’occhio. Non era uno spiare maligno, perché Suzy sentiva di piacere a quella cosa. Ma lei non si sarebbe trasformata, non finché avrebbe continuato a fare quel che stava facendo.
— Be’, andiamo a cercare un letto adesso — stabilì, alzandosi dalla poltrona. — Simpatico quest’ufficio — disse al mucchietto degli abiti.
Nell’anticamera, dietro la scrivania della segreteria, c’era una piccola porta priva di contrassegni. La spinse e vide un ripostiglio pieno di fogli e cancelleria ordinata su uno scaffale, e fissata al muro una cassetta metallica su cui brillava una spia rossa. Lì continuava ad arrivare l’elettricità. Forse si trattava di un impianto antifurto, pensò, alimentato a batterie. Forse un impianto antincendio. Chiuse la porta e s’avviò nella direzione opposta. Sulla destra dell’ufficio principale c’era un’altra porta, su cui una targhetta d’ottone diceva Privato. Lei annuì fra sé e girò la maniglia. La trovò chiusa, però era ormai diventata un’esperta sgominatrice di serrature. Frugò nella scrivania, vi trovò chiavi che sembravano andare bene e le provò. Il secondo tentativo fu quello buono. Spinse la maniglia e aprì la porta.
La stanza era buia. Accese la torcia elettrica e il fascio di luce le mostrò un letto dall’aria confortevole, un comodino un tavolo con un piccolo computer in un angolo e…
Suzy gridò di spavento. Sentì un tonfo e con la coda dell’occhio vide una piccola forma muoversi sotto il tavolo, mentre altre scivolavano sotto il letto. Risollevò la torcia: da oltre il letto una specie di tubo si alzò verticalmente. Sulla cima di esso c’era un oggetto pieno di sporgenze triangolari e corti lacci che pendevano attorno, che ondeggiò come per sfuggire alla luce. Qualcosa di piccolo e scuro passò velocemente fra i piedi della ragazza, che balzò indietro e puntò la torcia al suolo.
Avrebbe potuto essere un topo, ma era troppo grosso e di tutt’altra forma, e non assomigliava neppure a un gatto. Possedeva molti occhi, o comunque fessure luccicanti, intorno alla testa, ma aveva soltanto tre zampe coperte di peluria rossa. Lo vide correre nell’ufficio del dirigente. Chiuse di colpo la porta della camera da letto e indietreggiò, con le mani sulla bocca.
Al diavolo la cima del grattacielo. Non le importava più nulla.
Il corridoio che usciva dall’anticamera era sgombro. Con mani tremanti raccolse la radio, la tanichetta dell’acqua e la borsa dalla scrivania della segretaria; agganciò il manico del contenitore alla cintura e si gettò la borsa a tracolla. — Gesù! Gesù! — sussurrò. Corse via per il corridoio, con la tanichetta che le batteva su una coscia, e spalancò la porta delle scale. — Giù! — ansimò. — Giù, giù, giù! — Avrebbe dovuto fuggire da quel grattacielo. Se ai piani superiori c’erano cose di quel genere non aveva scelta. I suoi stivaletti ticchettarono rapidamente giù per le scale. Ad un tratto la borsa le s’impigliò nella ringhiera e si spaccò da cima a fondo: cracker e scatolette e brioches volarono sugli scalini. Un vasetto andò in pezzi, e una confezione di prugne secche rimbalzò e rotolò fin sul pianerottolo inferiore.
Lei esitò, corse a raccogliere le prugne, e nel girarsi vide il muro:era coperto da uno strato di sostanza bianca e marroncina. Lentamente, a occhi sbarrati, girò lo sguardo sulla ringhiera. Filamenti biancastri stavano risalendo lungo di essa, tortuosi e oscillanti, ed altri avanzavano sulla porta e sul muro esterno.
— No! — gemette. — Maledetti, no! Lasciatemi stare, lasciatemi andare via da qui! — Ciecamente si gettò contro la ringhiera e colpì i filamenti con i pugni chiusi, spellandosi e graffiandosi le dita. Il suo volto era rigato di lacrime. — Non toccatemi! Andatevene! - gridò. Ma il lenzuolo marroncino continuò a muoversi verso di lei.
Doveva salire. Qualunque cosa ci fosse più in alto doveva rischiare. Colpire quella roba con la scopa era un conto, ma camminarci in mezzo… no, questo sarebbe stato troppo per lei, avrebbe finito col farla impazzire.
Raccolse tutto il cibo che poteva e se ne riempì le tasche. Nel ristorante doveva pur esserci qualcosa da mangiare.
— Non voglio neppure pensarci! — disse a se stessa, e continuò a ripeterselo più volte. Ma non si riferiva al cibo che in quel momento era l’ultima delle sue preoccupazioni. Ciò che non voleva pensare era quel che avrebbe fatto dopo essere arrivata in cima al grattacielo.
Quel mare di sostanza sottile color cuoio aveva evidentemente deciso di sommergere l’intera città, perfino gli ultimi piani del World Trade Center.
E questo avrebbe lasciato molto poco spazio per Suzy McKenzie.
Volgendosi verso il sole nascente April Ulam si fece schermo agli occhi. I generatori a vento di Tracy erano silhouette possenti contro l’arancione del cielo, e le pale ancora in movimento continuavano a mandare energia elettrica alla stazione di servizio dove i gemelli avevano rifornito il furgone. La donna fissò John e annuì senza parlare: sì, proprio così, quello era un altro giorno. Poi entrò nel piccolo negozio di alimentari a dirigere le scelte di Jerry che era entrato in cerca di cibo.
John stabilì che era molto più dura e decisa di quel che sembrava. Pazza o no, lui e il fratello pendevano dalle sue labbra. Avevano trascorso la notte lì al distributore, esausti benché non si fossero allontanati che di una quarantina di chilometri da Livermore. La sera prima avevano deciso di prendere la statale al centro della valle. Era stata April a suggerirlo, dicendo che sarebbe stato meglio evitare le zone un tempo molto popolate. — A giudicare da quanto è successo a Livermore — aveva detto — dobbiamo cercare di non cacciarci in trappola a San Josè o in posti simili.
La strada che stavano seguendo li avrebbe portati inevitabilmente attraverso Los Angeles se non avessero trovato il modo di aggirare la città, ma John aveva fatto a meno di dirlo.
Lei stava dando loro una meta, se non altro. Criticarla non avrebbe avuto senso, visto che senza di lei loro sarebbero rimasti intorno a Livermore e che questo li avrebbe fatti ammattire entrambi… forse di brutto. John girò intorno al furgone, con le mani in tasca e lo sguardo nella polvere.
Tutti loro erano attesi dalla morte.
Non gli importava niente. Dalla notte precedente si sentiva enormemente stanco: stanco in un modo che il semplice sonno non poteva curare. E capiva che per Jerry era lo stesso. Che quella donna bislacca se li portasse pure dietro per il naso: chi se ne curava?
Los Angeles poteva essere interessante. Comunque, lui dubitava che sarebbero veramente andati a La Jolla.
April e Jerry uscirono dal negozio portando ciascuno due borse piene di cibarie. Le misero nel retro del furgone, poi Jerry tirò fuori una carta stradale malconcia dallo scomparto dei guanti.
— Sono 580 chilometri, andando a sud sulla 5 — disse. April ebbe un cenno d’assenso. John prese il volante e partirono sulla statale.
Per buona parte l’autostrada che imboccarono era sgombra di macchine. Ma ogni tanto videro fermi sui bordi alcuni veicoli abbandonati — autocarri, auto, anche bus dell’Air Force — su cui non c’era nessuno, o almeno nessun essere umano. Non si fermarono a investigare.
L’asfalto era libero e la guida veloce. Le colline intorno alle riserve forestali di San Luis e di Los Banos avrebbero dovuto essere verdi per le piogge invernali, invece apparivano di un grigio fosco, come se si fossero spogliate nell’attesa di assumere un nuovo colore. Anche le foreste, immobili come ricami di vetro, avevano una tonalità smorta. Non si vedevano da nessuna parte uccelli né insetti. April osservava quel panorama con una sorta di oscuro orgoglio; mio figlio ha fatto questo, sembrava voler dire, e mentre guardava accigliata la riserva sparire più indietro aveva quasi l’aria di non disapprovare tutto ciò.
Jerry era confuso dagli atteggiamenti di lei, anche un po’ spaurito, e si asteneva dal fare qualsiasi commento. Tuttavia John poteva avvertire il suo disagio.
I campi ai lati dell’autostrada 5 erano coperti da un irregolare lenzuolo marrone che sotto il sole luccicava come plastica. — Tutti quegli alberi, e gli ortaggi — disse April scuotendo il capo. — Secondo voi che cos’è successo ai raccolti?
— Non lo so, signora — borbottò Jerry. — Io spruzzavo antiparassitari e basta, mica m’intendevo di campi.
— Non soltanto la gente. Ha preso ogni cosa. - Sorrise e scosse ancora la testa. — Povero Vergil. Non se lo immaginava proprio.
Uscirono dall’autostrada per fermarsi qualche minuto al Carl’s Junior Restaurant. Le porte alla francese erano aperte, e accanto al bancone del bar c’erano mucchietti di vestiti, ma l’edificio era libero e non trasformato. Nella saletta d’attesa, mentre orinavano fianco a fianco, John disse: — Io le credo.
— Perché?
— Perché è sicura di quel che dice.
— Questo non è un motivo.
— Non ha l’aria di chi racconta balle.
— Diavolo, no. È una squilibrata.
— Non credo.
Jerry si tirò su la lampo e grugnì: — È una strega, quella.
John non volle dargli torto.
Il monotono manto marroncino dei campi mutò gradualmente aspetto e colore mentre s’avvicinavano ai versanti delle Colline Perdute. Cominciò ad apparire molta terra nuda, polverosa e spoglia di vegetazione. In distanza piccoli turbini d’aria percorrevano la campagna, come donne di servizio che spazzassero dopo un party selvaggio. — Dove sono finite le piante e i raccolti? — si meravigliò April.
Jerry scosse il capo. Non lo sapeva. Non voleva saperlo.
John aguzzò lo sguardo verso la polverosa caligine verso cui si dirigevano e tolse il piede dal pedale dell’acceleratore, rallentando con esperta delicatezza. Ma ad un tratto inchiodò il freno di colpo e il furgone sbandò con uno stridore di pneumatici. Jerry bestemmiò, mentre April si puntellava a fatica contro il finestrino aperto.
Il veicolo si arrestò di traverso nel centro della strada. John lo raddrizzò di nuovo, ma invece di ripartire mise in folle.
I tre guardarono ciò che accadeva più avanti. Nessun commento era necessario… o addirittura possibile.
Una collina stava attraversando l’autostrada. Lenta, poderosa, alta forse una quarantina di metri, l’enorme massa striata di marrone traslucido e di grigio si spostava in una nuvola di polvere a poco più di trecento metri di distanza da loro.
— Quante di quelle cose ci sono lì dentro, secondo voi? — chiese bruscamente April, rompendo il silenzio.
— Non si può dire — mormorò John.
— Forse è l’ultima delle Colline Perdute che torna a casa — disse Jerry, ma non col tono di chi vuol fare dello spirito.
— Può essere che tutti i raccolti siano finiti lì — speculò April.
I due fratelli non si presero la briga di ragionare su quel particolare. John attese che l’enorme massa avesse liberato la strada, strisciando sui campi verso ovest, e mezz’ora dopo stabilì che poteva rimettere in movimento il furgone. Con cautela oltrepassò i detriti rimasti sull’asfalto sconvolto. L’aria odorava di polvere e di piante schiacciate.
— Marziani — borbottò John. Quella fu la sua ultima obiezione alla sicurezza con cui April aveva detto di conoscere ciò che era veramente accaduto. Da lì in poi non parlò quasi, finché non risalirono i versanti del Grapevine oltrepassando gli alberi ancora intatti, le costruzioni di Fort Tejon e quelle più lontane e velate di Fort Gorman. Mentre procedevano verso la sommità delle alture si volse a Jerry, con occhi dilatati e pupille sbarrate, e disse: — Si avvicina la Città degli Angeli.
Erano le cinque della sera e stava scendendo il crepuscolo.
L’aria al di sopra di Los Angeles era purpurea come carne ustionata.
A mezzogiorno Bernard si vide consegnare il pranzo attraverso il piccolo portello di comunicazione: un vassoio di frutta, un sandwich contenente una fetta di carne e una bottiglia d’acqua minerale. Mangiò senza fretta, assorto nei suoi pensieri e gettando ogni tanto un’occhiata al VDT. Sullo schermo c’erano i risultati delle ultime analisi di repertorio sulle proteine del suo siero.
Il video aveva uno sfondo verdolino. Sotto le cifre prendevano forma linee rosse, che poi sparivano a mano a mano che venivano aggiunte altre file di numeri.
Bernard, cos’è questo?
— Non preoccupatevi — rispose alla domanda interna. — Se non faccio ricerche comincio a funzionare male.
Il livello delle comunicazioni era enormemente migliorato in appena un paio di giorni.
?Tu stai analizzando qualcosa da fare con i nostri collegamenti. Non ce n’è bisogno. Comunichi già attraverso il canale adatto, attraverso noi.
— Sì, infatti. Ma mi direte tutto ciò che ho bisogno di sapere?
Ti diciamo ciò che siamo incaricati di dirti.
— Ma mi ponete certi indovinelli, perciò consentitemi di fare lo stesso nei vostri confronti. Ho bisogno di sapere che non sono un impotente, che sto facendo qualcosa di utile.
Con grande difficoltà abbiamo cercato di comprendere °codificare° la tua situazione. Di VISUALIZZARE. Tu sei in uno SPAZIO chiuso. Questo è uno SPAZIO di concentrazione che tu consideri PICCOLO.
— Ma adeguato, ora che ho voi ragazzi con cui chiacchierare.
Tu sei trattenuto. Tu non puoi °diffonderti° oltre i limiti dello SPAZIO chiuso. Questo essere trattenuto è una tua scelta?
— Non mi stanno punendo, se è di questo che vi preoccupate.
Noi non °codifichiamo° comprendiamo PUNIRE. Tu stai bene. Le tue funzioni organiche sono in ordine. Le tue EMOZIONI non sono estreme.
— Perché dovrei essere sconvolto? Io sono finito. Tutto è perduto fuorché il (ahem!) codificare altre nozioni.
Noi VORREMMO che tu fossi più conscio della psicologia del tuo cervello. Noi potremmo dirti molto di più sul tuo stato. Stando così le cose abbiamo estrema difficoltà nel trovare PAROLE per descrivere la dislocazione delle nostre squadre. Ma torniamo al primo interrogativo. Perché vuoi escogitare altre forme di comunicazione?
— Io non sto bloccando i miei pensieri, no? (Lo sto facendo?) Dovreste essere capaci di estrapolare da soli quello che intendo fare. (Come potrei celarvi i miei pensieri?)
Tu hai capito la nostra capacità inadeguata. Tu sei molto nuovo per noi. Noi ti consideriamo con…
— Sì?
Quelli che sono stati assegnati a replicare questo stato su°°°°°° Questo none chiaro.
— Direi anch’io.
Noi ti consideriamo come se tu fossi capace di un certo biasimo °dissociazione° per le prestazioni minime in progetti assegnati.
— Voi mi considerate cosa?
Noi ti consideriamo come °supremo comando di gruppo°.
— Cosa sarebbe? E questo porta in superficie un intero scaglione di domande che mi piacerebbe farvi.
Noi siamo stati autorizzati a rispondere a queste domande.
(Gesù! Conoscevamo il contenuto delle domande ancor prima che gli si formassero nella mente).
— Mi piacerebbe parlare a un individuo.
INDIVIDUO?
— Non proprio la squadra o il gruppo di ricerca. Uno di voi, il quale agisce da solo.
Noi abbiamo studiato la tua concezione di INDIVIDUO. Non corrispondiamo a questa parola.
— Non ci sono individui?
Non precisamente. Le informazioni sono condivise fra gruppi di°°°°°°
— Non è chiaro.
Forse questo è ciò che tu intendi per INDIVIDUO. Non è lo stesso che una mentalità singola. Tu sai che le cellule si raggruppano per formare strutture di base. Ogni gruppo è il minimo INDIVIDUO. I gruppi raramente si separano a lungo entro le singole cellule. Le informazioni passano fra i gruppi che condividono compiti assegnati, inclusi la memoria e l’istruzione. La mentalità è perciò suddivisa fra gruppi che compiono una funzione. Memorie importanti possono essere °diffuse° a tutti i gruppi. Ciò che tu consideri come INDIVIDUO può definirsi attraverso la °totalità°.
— Ma voi non fate tutti parte di una sola mentalità, di un gruppo mentale, di una consapevolezza collettiva.
No, per quanto possiamo capire analizzando questi concetti.
— Voi potete litigare l’un l’altro.
Possono esserci diversità di approccio, sì.
— Allora cos’è un gruppo di comando?
Un gruppo chiave dislocato su un percorso di collegamento, nei vasi sanguigni o linfatici, per controllare le prestazioni dei gruppi in spostamento, delle cellule di servizio, delle cellule °costruite°. Tu sei come il più grosso dei gruppi di comando delle cellule, tuttavia tu sei CHIUSO e non hai ancora deciso di esercitare il tuo potere di °espansione°. Perché non eserciti il controllo?
A occhi chiusi lui ponderò a lungo — un secondo o forse più — su quella domanda, e replicò:
— Vi state ormai abituando al mistero.
Le tue ricerche con le nostre comunicazioni sono da interpretare come un atto di sfida?
— No.
C’è una frattura nel collegamento qui.
— Adesso sono stanco. Per favore, lasciatemi solo per un poco.
Capito.
Si sfregò gli occhi e raccolse una mezza mela. D’improvviso si sentiva esausto.
— Michael?
Paulsen-Fuchs era in piedi nella camera d’osservazione. — Salve, Paul — disse Bernard. — Ho appena avuto la più strana delle conversazioni.
— Sì?
— Credo che mi stiano trattando come una specie di deità minore.
— Oh, povero caro! — sospirò Paulsen-Fuchs.
— E probabilmente non mi restano che un paio di settimane.
— Quando sei arrivato qui dicesti… proprio quel giorno, parlasti di una settimana al massimo.
— Adesso posso sentire il cambiamento. È lento, ma inevitabile nel suo avanzare.
Attraverso i tre strati di cristallo si fissarono l’un l’altro. Paulsen-Fuchs fece alcuni tentativi di parlare, ma non riuscì a proferire verbo. Allargò le mani con aria scoraggiata.
— Proprio così — sospirò Bernard.
Sì, a posto… alquanto raffazzonate queste linee separate… Qui siamo tutti un po’ nervosi, non fate caso se mi sentite battere i denti. Registrate adesso? E il collegamento diretto… sì, Arnold? Uno, due, tre, qui Lloyd Upstonato, che è come mi sento… D’accordo, Colin, quella bottiglia lì. Questo vestito arancione non manderà fuori fase il video? Be’, manda fuori fase me. Andiamo a cominciare.
Salve a tutti, qui è Lloyd Upton, della branca inglese della European Broadcasting Network. Vi sto parlando da un’altezza di ventimila metri sopra il territorio degli Stati Uniti d’America, e più precisamente dallo scompartimento poppiero di un bombardiere americano B-I modificato in esploratore da alta quota, un RB-IH. Con me ci sono i corrispondenti inviati dalle principali reti continentali, compresi quelli delle due organizzazioni nuove e separate degli statunitensi in Europa, e i colleghi della BBC. Siamo i primi giornalisti civili autorizzati a volare sopra gli Stati Uniti dall’inizio di quella che è la più orribile catastrofe nella storia dell’umanità. Con noi ci sono due scienziati non militari che intervisteremo nel percorso di ritorno del nostro volo, il quale procede a una velocità doppia di quella del suono, vale a dire Match 2.
In appena otto settimane, due soli mesi, l’intero continente nordamericano ha dovuto soccombere a una trasformazione praticamente indescrivibile. Tutti i familiari punti di riferimento — intere città — si sono trasformati in un panorma che è un incubo biologico, o sono stati assorbiti dentro di esso. Il nostro velivolo ha seguito un percorso a zig-zag da New York ad Atlantic City, poi su Washington, quindi attraverso la Virginia, il Kentucky e l’Ohio, e presto ci abbasseremo a mille metri di quota per sorvolare Chicago, l’Illinois e i Grandi Laghi. A questo punto torneremo indietro lungo la costa orientale fino in Florida e oltre il Golfo del Messico per rifornirci da una cisterna volante decollata dalla Base Navale di Guantanamo a Cuba, che è miracolosamente scampata ai peggiori effetti del morbo.
Possiamo immaginare il dolore degli americani rimasti in Inghilterra, in Europa e in Asia, o in altre parti del globo. Temo molto che non potremo portare loro nessun sollievo con questo storico volo. Ciò che abbiamo visto può solo rattristare ogni membro della razza umana. Tuttavia non abbiamo osservato soltanto desolazione, bensì anche un selvaggio e — se mi si scusa questo giudizio estetico un po’ bizzarro — meraviglioso panorama formato da un’inusitata forma di vita le cui origini sono avvolte nel mistero, benché non sia escluso che vari Governi ne sappiano qualcosa. Le voci secondo cui il morbo sia dilagato da un laboratorio di San Diego, in California, non sono state negate né confermate dalle autorità politiche, e la EBN non ha avuto il permesso d’intervistare uno degli uomini chiave di questo… uh, dramma, il famoso neurochirurgo Michael Bernard, attualmente sotto sorveglianza in una camera sterile presso Wiesbaden, nella Germania Ovest.
Stiamo ora trasmettendo immagini video e fotografie riprese da grande altezza grazie a una speciale telecamera posta a bordo del nostro velivolo. Questa che vedete è una registrazione. Altri filmati sono in preparazione, ma presto potremo mostrarvi in diretta momenti significativi del nostro storico volo.
Come posso soltanto cominciare a descrivere il territorio che si stende sotto di noi? Sarebbe necessario un nuovo vocabolario, un nuovo linguaggio. Strutture e forme del tutto sconosciute ai biologi o ai geologi coprono le città e i sobborghi, perfino le terre incolte del Nord America. Intere foreste sono diventate grigiastre… uh… foreste di spine, aculei, aghi. Attraverso le lenti ad alto potere d’ingrandimento abbiamo notato dei movimenti in quelle strutture, oggetti delle dimensioni di un elefante che si spostavano in attività incomprensibili. Abbiamo visto fiumi la cui corrente appariva sotto una sorta di controllo esterno, il cui flusso esulava da quello delle normali masse d’acqua. Sulla costa atlantica, specialmente di fronte a New York e ad Atlantic City e per un’estensione di dieci o venti chilometri, lo stesso oceano era coperto da quello che aveva l’aspetto di uno strato vivente, di un brillante colore verdolino.
In quanto alle città… non un segno delle normali creature viventi, non una traccia di esseri umani. New York è un irriconoscibile dedalo di forme geometriche, una città evidentemente smantellata e ricostruita per adeguarsi agli scopi di un’epidemia… se un’epidemia può avere scopi. In realtà ciò che abbiamo visto conferma le dicerie secondo cui il Nord America è stato invaso da una forma di vita biologica intelligente, ovvero microrganismi intelligenti, i quali cooperano, si adattano, mutano e alterano il loro ambiente. Il New Yersey e il Connecticut mostrano simili strutture biologiche, che i giornalisti chiamano megaplexis in mancanza di un termine migliore, cioè megaorgani. Lasceremo agli scienziati il compito di trovare definizioni più adeguate.
Ecco, stiamo scendendo. La città di Chicago si trova nell’Illinois, all’estremità meridionale del Lago Michigan: un’enorme distesa d’acqua tranquilla. Ci troviamo a undici chilometri di distanza, e stiamo dirigendo sopra il lago verso la città. La telecamera ora inquadra quello che noi, giornalisti e studiosi, stiamo guardando a occhio nudo. Il sistema d’ingrandimento ad alta definizione vi mostra la superficie del lago, ed è assolutamente liscia, molto simile a quella dell’oceano di fronte alle aree metropolitane. Il reticolo che vedete serve, a quanto mi dicono, per cartografare la zona. Scusate se inserisco una mano nel campo visivo, ma vorrei adesso farvi notare queste strane forme già da noi osservate nelle acque del fiume Hudson… ecco, questi circoli caratteristici di un giallo-verde brillante, e questi atolli con le complesse linee radiali simili ai raggi di una ruota. Non è ancora stata data nessuna spiegazione su queste forme, benché foto scattate da satelliti abbiano talora mostrato che vasti addensamenti di esse lungo una spiaggia siano in connessione con i cambiamenti topografici del territorio interno.
Scusate… Sì? Certo, capisco. Chiedo scusa, ma mi hanno appena informato che certi particolari sono da considerarsi confidenziali per il momento. Solo per gli occhi degli esperti diciamo così.
Adesso abbiamo cambiato rotta e stiamo percorrendo un semicerchio, e mi dicono che quella sotto di noi è Waukegan, Illinois. L’Illinois è noto per il suo territorio piatto, come per le sue automobili, visto che a Detroit… no, uh, Detroit si trova nel Michigan. Sì, notoriamente quella dell’Illinois è una topografia piatta, e Chicago è detta anche la Città del Vento, per via dei venti che soffiano dal Lago Michigan. Ma da quel che possiamo vedere il territorio ha suddivisioni simili a campi e fattorie, con la differenza che invece di rettangoli queste suddivisioni formano degli ovali… delle ellissi, anzi, e noto anche dei cerchi, piccoli cerchi all’interno di altri più larghi. Nel centro di ogni cerchio campeggia un monticello, qualcosa che ricorda il punto centrale dei crateri lunari, di forma conica. Questi coni… be’, ora che li vedo meglio direi piuttosto piramidi… sì, piramidi con quelli che sembrano scalini o gradinate concentriche lungo i lati esterni. La cima di queste piramidi o coni è arancione, un po’ come il colore dell’abito che indosso in questo momento. Arancione acceso, molto intenso.
Abbiamo notevolmente rallentato. I deflettori sono stati aperti e stiamo sorvolando a velocità ridotta Evanston, a nord di Chicago. Dovunque si guardi non c’è nulla che sembri umano. Tutti noi siamo… mmh, piuttosto nervosi adesso, anche gli ufficiali e l’equipaggio americano dell’Air Force, perché se qualcosa andasse male ci vedremmo depositati proprio nel mezzo di… sì, be’, meglio non pensare in mezzo a cosa finiremo. Ci abbassiamo e rallentiamo ancora.
Abbiamo stabilito di passare sopra Chicago perché le foto scattate da grande altezza da alcuni satelliti hanno rivelato una concentrazione di attività biologica intorno a questa città un tempo assai popolosa. Così come allora Chicago era un po’ la capitale dei territori interni americani, oggi appare al centro di un’attività che riguarda vastissime zone circostanti, forse una specie di centrale di smistamento fra il Canada e il Messico. Sono visibili enormi tubature che giungono a Chicago da tutte le direzioni. In alcuni tratti queste tubature appaiono aperte, come grossi canali, nei quali in questo momento possiamo vedere un liquido verdastro e vischioso che scorre rapido… sì, laggiù. Possiamo…? Be’, più tardi allora trasmetteremo queste immagini registrate. Il canale che sto osservando dev’essere largo mezzo chilometro. Stupefacente. Impressionante!
Voci raccolte nelle sedi del controspionaggio militare a Wiesbaden, a Londra e in Scozia dicono che esiste un altro centro d’attività, di diverso genere, sulla costa occidentale degli Stati Uniti. I particolari non sono disponibili, ma è chiaro che Chicago condivide con la California meridionale il titolo di località più interessante per gli osservatori e gli studiosi. Tuttavia noi non sorvoleremo la costa del Pacifico: il nostro velivolo non ne avrebbe l’autonomia senza rifornimento in volo, e questo non può esserci fornito su quel lato del continente.
Stiamo ora compiendo giri piuttosto stretti e veloci, in cui sperimentiamo una certa forza centrifuga. Passando sopra il sobborgo di Oak Park ho controllato sulla mappa qui davanti a me: nessuna strada può essere identificata. Ora dovremmo essere sul centro di Chicago. E ora a giudicare dalla distanza su Cicero Avenue. Ed eccoci di nuovo sul lago… sì, quello è il Porto di Montrose, e poi la Lake Shore Drive e il Lincoln Park, che però identifico solo grazie alla posizione relativa al lago. Acceleriamo un poco allargando il circolo sulla zona del Museo della Scienza e dell’Industria… o almeno è quello che supponiamo tutti noi. Posso ora scorgere dell’acqua, forse il Canale delle Navi. Ci troviamo ad appena un migliaio di metri da terra, una quota piuttosto pericolosa visto che non abbiamo idea dell’altezza a cui eventuali microrganismi potrebbero giungere. Santo cielo, confesso che ho paura. Tutti quanti l’abbiamo. Adesso stiamo passando sopra… sì…
Gesù! Scusatemi. Quelli dovevano essere i recinti del bestiame, gli Union Stockyards. Ecco cos’erano, una volta. Ho fatto appena in tempo a dare un’occhiata perché il pilota ha cabrato velocemente dirigendo poi a sud. Ma quello che ho visto…
Chiedo scusa. Stento ancora a credere di non aver avuto un’allucinazione. È spaventoso. Non ho mai visto niente di simile in tutto il tempo che abbiamo trascorso sopra questa terra da incubo. Mi passano ora le telefoto appena sviluppate, scattate su dettagli di quelli che una volta erano i famosi recinti del bestiame di Chicago. Quando si pensi all’enorme quantità di animali — vitelli e maiali — concentrate laggiù forse non dovremmo essere sorpresi o sconvolti. Ma le più grosse creature viventi che ho visto in vita mia sono le balene, e ciò che mostrano queste foto è molto più grosso di qualsiasi balena. Enormi ovoidi bianchi e marrone, che sembravano spostarsi a poche spanne d’altezza. O forse strisciavano a livello del suolo. Più grosse di dinosauri, ma senza gambe visibili, né teste, né code. Non prive di… uh, lineamenti, tuttavia: sporgenze, prolungamenti sostenuti o circondati da poliedri, non saprei, icosaedri o dodecaedri… questi con zampe da insetto, non articolate, rigide, zampe spesse direi due o tre metri. Le creature ovoidali, qualunque cosa siano, potrebbero riempire comodamente ciascuna un campo da rugby.
Sì, sì. Ci dicono ora… sono appena stato informato che ci sono forme di vita volanti, esseri viventi, e che per un capello non ne abbiamo investito un paio, simili a gigantesche manta molto piatte, tipo alianti o pipistrelli, anch’essi di colore bianco e marroncino. Stanno fluttuando sulle ali del vento verso sud-ovest, insieme ad altri, come in formazione. Scusatemi. Scusate.
Taglia il sonoro! Chiudi i microfoni, maledizione! E non puntare la telecamera su di me!
(Una pausa di cinque minuti)
Siamo sulla rotta di ritorno. Scusate l’interruzione. Io sono soltanto un essere umano e… be’, a volte il panico ha un brutto effetto. Spero che chi mi ascolta capisca. In quanto a me, sono stupefatto dalla calma e dalla padronanza di cui stanno dando prova gli… uh, gli ufficiali e l’equipaggio di questo velivolo. Tutti professionisti, e ragazzi dannatamente in gamba. Abbiamo appena oltrepassato Danville, nell’Illinois, e fra breve… fra pochi secondi saremo sopra Indianapolis. Abbiamo visto dei cambiamenti nelle caratteristiche fisiche, o forse dovrei dire biologiche, del territorio. Forme e colori che siamo lungi dal poter interpretare. E come se sorvolassimo un pianeta del tutto nuovo. E i nostri due scienziati sono troppo occupati a prendere appunti e ad annotare dati strumentali per dare voce alle ipotesi e teorie che potrebbero avere.
Indianapolis è sotto di noi, tanto indecifrabile e misteriosa quanto… affascinante e aliena come gli altri megaplexis. Molte delle strutture qui si direbbero alte quanto gli edifici di cui hanno preso il posto, altre sono cento o duecento metri più alte, e col sole basso proiettano immense ombre. Presto il tempo sembrerà accelerarsi per noi, mentre faremo rotta a est, anzi a sud-est, e vedremo il sole tramontare più in fretta. Le ombre già coprono questo panorama biologico, l’atmosfera è piuttosto limpida: niente industrie né automobili… tuttavia chi può dire quale specie d’inquinamento può emettere questa biologia aliena? All’apparenza tuttavia esso non riguarda l’atmosfera.
Sì? Cosa…
Sì, questo è confermato anche dai nostri scienziati. Quando abbiamo sorvolato Chicago gli strumenti indicavano un’aria molto pura, senza tracce di fumo o sostanze chimiche, e ciò si nota nella limpidezza dell’orizzonte. C’è però molta umidità, e per questa stagione dell’anno una temperatura inspiegabilmente alta. Sembra che quest’anno il Nord America godrà di un inverno assai mite, visto che a Chicago e in altre zone settentrionali non abbiamo notato neve. Niente neve. Ci sono piogge, calde e con grosse gocce… abbiamo oltrepassato densi banchi di nuvole, ma niente neve, né ghiaccio.
Sì, sì, l’ho visto anch’io. Stiamo osservando una palla di fuoco, forse una meteora di qualche genere; notevole… e ce ne sono altre. Sembra che…
(Voci in sottofondo, in tono alto e indecifrabile, grida di sorpresa)
Mio Dio! Questo era evidentemente un veicolo in rientro, o un gruppo di moduli in rientro dall’alta atmosfera, ad appena una dozzina di chilometri da noi. Gli strumenti di bordo hanno indicato la presenza di forti radiazioni. I piloti e gli ufficiali hanno attivato tutti i sistemi d’emergenza e stiamo salendo di quota per allontanarci dalla zona con… sì, con una… no! Siamo in planata rapida. Scendiamo, credo, presentando la poppa all’oggetto che… qualunque cosa sia…
Qui mi dicono che il velivolo esploso poco fa era un satellite sovietico, e che gli oggetti in rientro dall’alta atmosfera erano missili balistici a lungo raggio. Ripeto, missili balistici a lungo raggio. Ma non siamo stati raggiunti dall’onda d’urto, e non dovremmo precipitare. Non dovremmo precipitare adesso…
(Altre voci, imprecazioni stupite, rumori e grida d’allarme)
Credo che non ce la faremo a risalire dalla caduta a vite. Abbiamo grossi danni alla strumentazione. I motori sono spenti, e stiamo precipitando. Vedo che la radio funziona ancora, ma…
(Termine della trasmissione dell’RB-IH. Fine della cronaca diretta di Lloyd Upton. Interruzione nell’arrivo dei dati telemetrici.)
Bernard era disteso sul letto, con una gamba di fuori e l’altra ripiegata, il piede bloccato contro il materasso. Da una settimana non si radeva né faceva la doccia. La sua pelle era pesantemente segnata da creste bianche, e sulle gambe gli erano cresciute alcune prominenze dalle ginocchia in giù, anche sotto la pianta dei piedi. Benché nudo, sembrava che indossasse strani stivali alti fino ai fianchi.
Non gliene importava. A parte l’ora di colloquio con Paulsen-Fuchs e i dieci minuti giornalieri di esami fisici, non faceva altro che stare sul letto a occhi chiusi e comunicare con i noociti. A tratti si alzava e cercava di analizzare il linguaggio chimico. In questo i noociti non gli davano molto aiuto. L’ultima conversazione sull’argomento era avvenuta tre giorni prima.
La tua idea non è completa, non è corretta.
— Ancora non ho finito.
Perché non lasci che siano i tuoi compagni a lavorare su questo? Ci sono altre cose che potrebbero essere portate a termine se dedicassi la tua attenzione all’interno.
— Sarebbe più semplice se voi ci diceste come comunicate…
Noi VORREMMO essere più °puri° l’un l’altro, ma il nostro gruppo di comando crede che per ora sia preferibile la segretezza.
— Già, infatti.
I noociti nel frattempo assorbivano dati da lui… e dai ricercatori esterni alla camera d’isolamento. A sua volta la Pharmek ricavava dati dal suo corpo. Bernard poteva solo fare supposizioni sui loro scopi; non s’era ribellato quando Paulsen-Fuchs aveva cominciato a ridurre sempre più la sua razione quotidiana di notizie e di quelli che erano i risultati delle ricerche. In un certo modo questo non gli interessava molto: aveva fin troppo da fare per adattarsi alle interazioni dei noociti.
Il terminale era acceso in continuazione, e mostrava l’elaborazione di dati inseriti nel computer tre giorni addietro. I numeri verdi erano stati completamente rimpiazzati dalle righe rosse. Ogni tanto ad esse si appaiavano delle frasi in blu. La curva determinata dalle loro lunghezze si appiattiva sempre più, come se, un bit dopo l’altro, la chimica lasciasse il posto a un linguaggio matematico che nella fase successiva si sarebbe trasformato in una specie di pidgin, fatto di immagini logiche e di inglese. Ma quella fase distava ancora settimane o mesi.
Focalizzando la sua attenzione sui ricordi causò un’interruzione, insolita, da parte dei noociti:
Bernard. Tu lavori ancora sulla °musica del sangue°.
Non era stato Ulam a usare quella frase, un giorno?
È questo che VUOI per unirti a noi al nostro livello? Non avevamo considerato questa possibilità.
— Non sono sicuro di capire cosa state suggerendo.
La parte di te che sta dietro tutta la comunicazione emessa può essere codificata, attivata, rimandata. Sarà come un SOGNO, se abbiamo capito il significato di questa parola. (NOTA: Tu sogni tutto il tempo. Lo sapevi?)
— Io potrei diventare uno di voi?
Noi pensiamo che questa affermazione sia giusta. Tu sei già uno di noi. Abbiamo codificato parti di te in molte squadre per elaborarle. Tu puoi codificare la tua PERSONALITÀ e completare il cerchio. Sarai uno di noi, temporaneamente, se lo desideri. Adesso possiamo fare questo.
— Ho paura. Ho paura che voi possiate rubarmi l’anima dall’interno…
La tua ANIMA è già stata codificata, Bernard. Noi non cominceremo senza averne ricevuto il permesso da tutti i tuoi frammenti mentali.
— Michael? — La voce di Paulsen-Fuchs lo distolse dalla conversazione. Bernard scosse il capo e socchiuse le palpebre, fissando la finestra della camera d’osservazione. — Michael, sei sveglio?
— Io ero… sveglio. Che c’è?
— Qualche giorno fa ci hai dato il permesso di invitare Sean Gogarty. Adesso è qui.
— Sì, sì. — Michael si alzò. — È lì con te? Ho la vista offuscata.
— No, è fuori. Pensavo che avresti voluto vestirti e metterti in ordine prima di riceverlo.
— Perché? — replicò secco lui. — Sbarbato o meno resto una vista ben poco piacevole.
— Vuoi incontrarti con lui in quelle condizioni?
— Sì. Portatelo dentro. Hai interrotto qualcosa d’interessante, Paul.
— Ormai non facciamo altro che interromperti di continuo, no?
Bernard cercò di sorridere. Si sentiva la faccia rigida, estranea. — Fallo entrare, Paul.
Sean Gogarty, dell’Università di Londra, insegnante di fisica teorica al Kings College, avanzò nella camera d’osservazione e si fece schermo agli occhi con una mano per guardare il laboratorio al di là dei cristalli. Aveva un volto aperto, amichevole, un naso lungo e aguzzo e denti sporgenti. Fisicamente era alto e di bel portamento, con braccia muscolose sotto le maniche della sua giacca di lana scozzese. Mentre fissava Bernard attraverso le lenti degli occhiali strinse le palpebre e il suo sorriso si smorzò. — Dr. Bernard — salutò, con piacevole accento scozzese in cui non mancava un tocco di Oxford.
— Dr. Gogarty.
— La prego, professore, può bastare Sean. Preferisco fare a meno dei titoli.
— Allora io sono Michael. — Lo sono?
— Sì, be’, nel tuo caso… uh, mi è meno facile darti del tu. Io ti conosco, ma sono certo che tu non hai mai sentito parlare di me, uh, Michael. — Sorrise di nuovo, benché con uno sforzo. Come se, pensò Bernard, si fosse atteso d’incontrare un essere umano e invece…
— Paul mi ha riassunto alcuni dei tuoi lavori. Tu sei qualche passo più avanti di me, Sean.
— Penso di sì. Ma quanto è accaduto nella tua terra va oltre la mia comprensione, ne sono sicuro. C’è qualcosa di cui vorrei parlare con te, Michael, e non solo con te.
Paulsen-Fuchs stava fissando Gogarty con una certa apprensione. Senza dubbio quella visita era stata approvata dal Governo, rifletté Bernard, altrimenti non avrebbe avuto luogo, eppure Paul era sulle spine.
— Vuoi dire con i miei colleghi. — Bernard accennò verso Paulsen-Fuchs.
— Non con i tuoi colleghi umani, no — disse Gogarty.
— I miei noociti.
— Noociti? Sì, sì, capisco. I tuoi noociti. Tielhard de Chardin avrebbe approvato questo nome, credo.
— Ultimamente non ho avuto molto tempo per pensare a Tielhard de Chardin — annuì Bernard, — ma avrebbe potuto essermi d’ispirazione.
— Già. Be’, io sono riuscito a entrare qui per il rotto della cuffia — disse Gogarty — e mi hanno concesso un tempo limitato. Ho una teoria da proporti, e mi piacerebbe che tu e i tuoi piccoli colleghi la esaminaste.
— Come hai avuto informazioni dettagliate su di me e sui noociti? — domandò Bernard.
— Sono stati contattati esperti di tutta l’Europa. Alcuni sono venuti a chiedermi un consulto. Spero che non se la prendano se ho lavorato sulle loro informazioni. Non posso dire d’essere eccessivamente rispettato da tutti i miei colleghi, Dr. Bernard… Michael. Le mie idee sono più che semplicemente anticonformiste.
— Esponimele pure — lo incitò Bernard impaziente.
— Sì. Penso che tu non abbia mai sentito parlare della Meccanica dell’Informazione, è così?
— Neppure un sussurro — disse Bernard.
— Io sto lavorando in una branca molto specializzata della fisica, finora mai esplorata, che riguarda gli effetti dei processi informativi sullo spazio-tempo. La riassumo così perché i noociti potrebbero già saperne più di me, ed essere in grado di spiegartela…
— Non contarci. A loro piacciono le cose complicate, e a me no.
Gogarty sedette e restò immobile e silenzioso per parecchi secondi. Paulsen-Fuchs lo scrutava con crescente preoccupazione.
— Michael, ho raccolto una gran quantità di strutture teoriche per supportare quello che sto per dirti. — Fece un profondo respiro. — Il processo informativo (o più strettamente, l’osservazione) ha un effetto sugli eventi che accadono nello spazio-tempo. Gli esseri viventi consapevoli giocano un ruolo integrale nell’universo: noi fissiamo i suoi limiti, determiniamo in alto grado la sua natura, proprio come esso determina la nostra natura. Ho ragione di credere (è solo un’ipotesi per ora) che più che scoprire le leggi fisiche noi collaboriamo alla loro esistenza. Le nostre teorie sono costruite su osservazioni fatte in passato da noi stessi… e dall’universo. Se l’universo è d’accordo che gli eventi passati non contraddicono una teoria, questa diviene un fatto reale. E l’universo la assume come funzionante. Più le teorie collimano con i fatti, e più a lungo durano… e su spazi più vasti. Di conseguenza noi dividiamo l’universo in territori, e il nostro particolare territorio, il nostro spazio umano diviene sempre più distinto dal resto. Sai che non abbiamo contatti extraterrestri. Se a grande distanza dalla Terra vi fossero altri esseri intelligenti questi occuperebbero altri territori con altre leggi fisiche. Non dobbiamo aspettarci grosse differenze fra le leggi fisiche di questi territori adiacenti (l’universo, infine, gioca il ruolo preponderante) ma piccole diversità non dovranno meravigliarci.
«Le teorie non possono restare funzionanti per sempre. L’universo sta già cambiando; possiamo immaginare regioni in cui la realtà si evolve finché non diverranno necessarie nuove teorie. Fino ad oggi la razza umana non ha prodotto una densità o un ammontare di processi informativi (pensiero, memoria computerizzata, o che altro vuoi) sufficiente a manipolare in modo effettivo lo spazio-tempo. Non abbiamo creato teorie così complete da vederle imporsi all’evoluzione della realtà. Ma tutto ciò è recentemente cambiato in modo notevole.
Ascolta con attenzione GOGARTY.
Bernard si raddrizzò e cercò di concentrarsi maggiormente.
— Se solo potessi presentarti le mie equazioni, le correlazioni fra la meccanica dell’informazione e i quanta elettrodinamici… e se solo tu potessi capire!
— Ti sto ascoltando. Ti stiamo ascoltando, Sean.
Gogarty spalancò gli occhi. — I… noociti? Hanno risposto?
— Hai dato loro poco a cui rispondere. Vai avanti, professore.
— Finora l’unità più capace di raccogliere processi informativi sul nostro pianeta è stata il cervello umano… oltre forse a quello dei cetacei, ma senza tuttavia la capacità di stimolare processi di modifica. Quattro, cinque miliardi di esseri umani che pensano ogni giorno. Effetti scarsi. Minimi tremiti nello spazio-tempo, neppure misurabili. Il nostro potenziale d’osservazione (il nostro potere di formulare teorie complesse) non è abbastanza intenso da portare a quel tipo di effetti che ho scoperto col mio lavoro. Non esisteva niente del genere nel Sistema Solare, forse neppure nell’intera galassia!
— Sta divagando troppo, professor Gogarty — intervenne Paulsen-Fuchs. L’altro gli gettò uno sguardo irritato, poi si volse a Bernard con aria supplichevole.
Lui parla di cose interessanti.
— Non mettergli fretta, Paul. Sta arrivando al punto.
— Grazie. Ti sono molto grato, Michael. Ciò che voglio dire è che ora abbiamo le condizioni necessarie per realizzare gli effetti che ho descritto nei miei articoli. Non solo quattro o cinque miliardi di individui pensanti, Michael, bensì triliardi… forse miliardi di triliardi. Per la maggior parte in Nord America. Minuscoli, molto fitti, che focalizzano la loro attenzione su tutti gli aspetti di ciò che li circonda, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. Osservano tutto nel loro ambiente, e teorizzano su quello che non possono osservare. L’osservare e il formulare teorie possono fissare la forma degli eventi, della realtà, in varie e significative maniere. Non c’è nulla, Michael, che non sia informazione. Tutte le particelle, tutta l’energia, lo spazio e il tempo stessi in ultima analisi non sono che informazioni. La natura e l’identità intima dell’universo possono essere alterate, Michael, proprio in questo momento. Dai noociti.
— Sì — disse Bernard. — Ti ascolto.
Qualcosa di non formulato… un’evidenza…
— Due giorni fa — disse Gogarty con più vivacità, il volto arrossato dall’eccitazione — l’Unione Sovietica ha lanciato un attacco nucleare su larga scala contro il Nord America. Ma a differenza di quello su Panama, nessuna delle loro testate nucleari ha funzionato.
Bernard fissò Paulsen-Fuchs dapprima con stupore, poi risentito. Nessuno gli aveva detto una parola di quel fatto.
— I sovietici non sono dei costruttori di ICBM così incapaci, Michael. Avrebbe dovuto esserci un olocausto. Non c’è stato. Ora, io ho compilato parecchi grafici di quell’attacco, basandomi sulle osservazioni di cui disponiamo. Una fonte molto importante è stato un velivolo da ricognizione, che portava a bordo scienziati e giornalisti in un volo sull’America del Nord, collegato via satellite con l’Europa. Al momento dell’attacco il velivolo si trovava molto all’interno del territorio statunitense. Evidentemente è precipitato, ma non in seguito all’attacco stesso. Nessuno può essere certo sulla causa del disastro, ma il modo in cui i dati telemetrici e le comunicazioni si sono interrotti… i tempi, la successione degli eventi, tutto quadra con la mia teoria. Inoltre in varie parti del globo si sono verificati effetti peculiari. Silenzi radio, interruzioni nell’energia elettrica, fenomeni meteorologici. E anche intorno all’orbita geosincrona: due satelliti separati da 12.000 km di distanza hanno cessato di funzionare. Ho messo dati e coordinate di questi incidenti nel nostro computer, ed esso mi ha fornito questo profilo di campo quadrimensionale. — Tolse dalla sua cartella una grossa foto stampata da un computer.
Bernard strinse le palpebre per vederla meglio. La sua capacità visiva si acutizzò d’improvviso. Riuscì a distinguere perfino la grana della carta. — Sembra l’incubo di un sollevatore di pesi — commentò.
— Sì, un toroide un po’ contorto — fu d’accordo Gogarty. — Questa è la sola figura che abbia un senso alla luce delle informazioni inserite. E nessuno può dare un senso a questa figura… a parte me. Temo che non mi renderà molto popolare nell’ambiente scientifico, perché se ho ragione, e credo di averla, ci troviamo di fronte a un guaio ancora più grosso di quel che credevamo, Michael… o magari più piccolo, dipende da quale genere di guaio tu avevi previsto.
Bernard poteva sentire l’intensità con cui quel diagramma veniva assorbito in lui. I noociti avevano tralasciato il costante contatto con la sua mente già da alcuni secondi.
— Tu stai dando ai miei piccoli colleghi molto su cui riflettere, Sean.
— Già. E le loro reazioni?
Bernard chiuse gli occhi.
Dopo una ventina di secondi li riaprì e scosse il capo. — Non una parola — disse. — Mi spiace, Sean.
— Be’, non mi ero aspettato molto.
Paulsen-Fuchs diede uno sguardo all’orologio. — Non c’è altro, Dr. Gogarty?
— No. Solo un’ultima cosa. Michael, l’epidemia non si spanderà oltre il Nord America. O meglio, non oltre un cerchio di settemila chilometri di diametro se i noociti stanno lavorando su quell’area del globo.
— Perché no?
— A causa di ciò che ho detto. Ce ne sono già troppi di loro. Se si espandessero su un raggio maggiore creerebbero qualcosa di molto singolare: una porzione di spazio-tempo troppo intensamente osservata. Il territorio non avrebbe possibilità di evolversi. Troppi brillanti teorici, se mi spiego. Si verificherebbe una sorta di congelamento, un crollo nei livelli quantici. Una singolarità. Un buco nero di pensieri. Il tempo ne verrebbe gravemente distorto e gli effetti potrebbero distruggere la Terra. Sospetto che abbiano limitato la loro crescita proprio perché l’hanno capito. — Gogarty si asciugò la fronte con un fazzoletto e sospirò.
— Come hanno potuto impedire l’esplosione delle testate nucleari? — domandò Bernard.
— Direi che hanno trovato il modo di creare sacche di osservazione molto potenti. Hanno usato triliardi di osservatori per stabilire una piccola sacca temporanea di spazio-tempo alterato. Una sacca in cui le leggi fisiche sono abbastanza diverse da non consentire la detonazione di bombe atomiche. La sacca non sarà durata a lungo (il resto dell’universo era in violento disaccordo con essa) ma a sufficienza per prevenire l’olocausto.
— C’è un’altra questione cruciale — continuò poi. — I tuoi noociti sono in comunicazione col Nord America?
Bernard ascoltò ma non ebbe risposta. — Non lo so.
— Loro possono essere in comunicazione, lo sai, senza bisogno di radio o altri mezzi a noi familiari. Se riescono a controllare gli effetti sulla complessità locale da loro stessi creata, possono originare sottili distorsioni nel continuum temporale. E temo che non abbiamo strumenti abbastanza sensibili da captare segnali di questo genere.
Paulsen-Fuchs si alzò e si toccò l’orologio con fare significativo.
— Paul — disse Bernard. — È per questo che mi censurate le notizie? Perché non sono stato informato dell’attacco nucleare sovietico?
Paulsen-Fuchs non rispose. — C’è altro che tu possa fare per Mr. Gogarty? — chiese.
— Non in questo momento. Io…
— Allora ti lasciamo alle tue meditazioni.
— Aspetta un secondo, Paul. Che diavolo sta succedendo? È chiaro che a Mr. Gogarty piacerebbe dedicarmi altro del suo tempo, e lo stesso vale per me. Perché tutte queste limitazioni?
Gogarty spostava gli occhi dall’uno all’altro, visibilmente imbarazzato.
— La sicurezza, Michael — disse Paulsen-Fuchs. — Sono pignoli, lo sai.
La reazione di Bernard fu una risata improvvisa, secca come un latrato. — Lieto d’averti incontrato, professor Gogarty — disse.
— Anch’io — annuì Gogarty. Il microfono della camera d’osservazione fu spento e i due uomini uscirono. Bernard spostò la tenda del cesso e orinò. Il colore del liquido era d’un rosso porporino.
Non sei tu che li dirigi? Sono loro a comandare te?
— Se non l’aveste ancora capito, io sono un semplice mortale. Che succede alla mia orina? È purpurea.
Fenoli e chetoni vengono scaricati. Noi dobbiamo TRASCORRERE PIÙ TEMPO a studiare la vostra situazione gerarchica.
— Io sono un pesce piccolo — disse lui ad alta voce. — Più piccolo ancora, adesso.
Il fuoco scoppiettava gagliardamente, proiettando le tre alte ombre nere sulle storiche e antiche costruzioni di Fort Tejon. In piedi e con le spalle alla fiamma, la leggera gonna che le svolazzava attorno nella fredda brezza serotina, April Ulam si strinse le braccia al petto. Jerry depose il ramo con cui aveva attizzato i ceppi e si volse al fratello. — Allora cos’è che abbiamo visto?
— L’inferno — dichiarò fermamente John.
— Abbiamo visto Los Angeles, signori — disse April dal buio.
— Io non ho riconosciuto niente - sbottò John. — Non era neanche come Livermore, o i campi delle fattorie. Voglio dire…
— Non c’era niente di reale là — terminò Jerry per lui. — Solo un gran… roteare.
April si avvicinò e sedette su un ciocco aggiustandosi la veste sulle ginocchia. — Penso che ciascuno di noi dovrebbe dire ciò che ha visto, descrivendolo meglio che può. Comincerò io, se volete.
Jerry scosse le spalle. John continuò a fissare nel fuoco.
— Credo d’avere riconosciuto la forma della San Fernando Valley. Sono dieci anni dall’ultima volta che ho visitato Los Angeles, ma non ho scordato quelle colline, e c’erano anche Burbank e Glendale… solo che non ricordo bene com’erano a quel tempo. C’era molto smog e faceva caldo, al contrario di oggi.
— Lo smog c’è sempre — la corresse Jerry. — Ma non sembra lo stesso.
— Smog porpora. — John scosse il capo con una risatina.
— Ora, se siamo d’accordo d’avere visto la valle…
— Sì — borbottò Jerry. — Forse era quella.
— Allora c’era qualcosa nella valle, tutto sparso attorno.
— Ma non solido. Non fatto di materia solida — disse sottovoce John.
— Credo anch’io — annuì April. — Energia, allora?
— Sembravano chiazze sparpagliate, come un quadro di Jackson Pollack — disse Jerry.
— O uno di Picasso — aggiunse John.
— Sono d’accordo, signori, con una piccola riserva: a me sembrava molto di più un Max Ernst.
— Non so niente di lui — si accigliò Jerry.
— Qualcosa roteava là in mezzo. Un tornado.
April assentì. — Già. Ma che genere di tornado?
John si sfregò gli occhi con le dita. — Più largo alla base, con spunzoni di tutte le specie che ne schizzavano fuori… come fulmini, ma senza luce. Come ombre di fulmini.
— Che toccavano — disse John — e poi sparivano.
— Un tornado ballerino, magari — suggerì April.
— Sì — dissero i gemelli.
— Io ho visto file di dischi che ondeggiavano dentro e fuori, sotto il tornado — continuò lei. — E voi no?
I due scossero la testa all’unisono.
— E sulle colline luci in movimento, come lucciole che si affollassero verso il cielo. — Negli occhi le brillò ancora uno sguardo esaltato, mentre li abbassava sognanti sul fuoco. John unì le mani dietro la nuca e scosse di nuovo il capo.
— Irreale — disse.
— Proprio così. Del tutto irreale. Ma deve avere una connessione con ciò che ha fatto mio figlio.
— Balle! — brontolò John.
— No — disse Jerry. — Io le credo.
— Se ha cominciato a La Jolla, per spargersi poi dappertutto, dove può essere il luogo in cui la cosa è andata più avanti?
— A La Jolla. — Jerry la guardò con aria interrogativa. — Forse è partita dall’UCSD.
April scosse il capo. — No, a La Jolla, dove Vergil abitava e lavorava. Ma è dilagata in fretta su e giù per la costa. Forse fin giù a San Diego, e poi si è riunita tutta quanta e ha fatto di questo luogo il suo centro.
— Fottute balle — ripeté John.
April disse: — Non possiamo andare a La Jolla, non con quella roba a sbarrarci la strada. E io sono venuta qui per cercare mio figlio.
— Lei è pazza, ecco quello che penso — disse John.
— Non ho idea del perché voi due gentiluomini siete stati risparmiati — disse lei. — Ma è chiaro il perché lo sono stata io.
— Perché è sua madre? — ridacchiò Jerry, annuendo come ad approvare la propria deduzione.
— Esattamente — replicò April. — Perciò, gentiluomini, domani oltrepasseremo queste colline, e se volete potrete venire con me. Altrimenti proseguirò anche da sola e andrò a raggiungere mio figlio.
Jerry tornò serio. — April, questa è una follia. Che farebbe se trovasse qualcosa di veramente pericoloso come un tempesta elettrica o una centrale a energia nucleare sul punto di esplodere?
— Non ci sono centrali a energia nucleare a Los Angeles — disse John. — Ma Jerry ha ragione. È da idioti solo pensare di poter camminare dentro quell’inferno.
— Se mio figlio è li, non mi succederà niente di male — disse April.
Jerry riattizzò rabbiosamente il fuoco. — La porterò fin là — borbottò. — Ma non verrò con lei.
John gettò al fratello un’occhiata dura. — Vi ha dato di volta il cervello a tutti e due.
— Posso sempre andarci a piedi — stabilì cocciutamente April.
Con le mani sui fianchi e una smorfia risentita sul volto John guardava il fratello e April Ulam che camminavano verso il furgone. La dolciastra nebbia purpurea che saliva dal bacino di Los Angeles fin sui pendii alberati sopra Fort Tejon filtrava la luce del mattino, creando un fantomatico panorama senza ombre.
— Ehi! — gridò John. — Maledizione, ehi! Non lasciatemi qui! — Corse dietro a loro.
Il fulgore seguì la strada deserta fino sulla dorsale delle colline, e i tre spinsero lo sguardo sul maelstrom sottostante. Non sembrava molto diverso nel fulgore del sole.
— È come tutti gli incubi che ho avuto in vita mia, arrotolati su in un blocco unico — disse Jerry, che guidava con attenzione.
— Non è un paragone malvagio — annuì April. — Un tornado di sogni. Forse i sogni di tutti quelli che sono stati presi nel cambiamento.
John poggiò le mani sul cruscotto e guardò giù verso la valle. — C’è ancora un miglio di strada libera — disse. — Poi dovremo fermarci.
Jerry fece un cenno d’assenso. Il veicolo rallentò.
A una velocità inferiore ai dieci km l’ora si avvicinarono a una cortina verticale di nebbia danzante. Era alta dai trenta ai quaranta metri e si estendeva ai due lati della strada, torcendosi attorno a vaghe forme arancione che un tempo potevano essere stati edifici.
— Gesù, Gesù! — sussurrò John.
— Ferma — ordinò April. Jerry arrestò il furgone. La donna fissò John finché lui non si decise ad aprire la portiera e a scostarsi per lasciarla uscire. Jerry spostò in folle la leva del cambio e mise il freno a mano, quindi scese dall’altra parte.
— Voialtri, signori, avete perso quelli che amavate, vero? — domandò April, lisciandosi la gonna spiegazzata. Il maelstrom ruggiva in distanza come un uragano: ruggiva e soffiava con un rumore di pioggia che scrosciasse giù per una grondaia.
John e Jerry accennarono di sì.
— Se il mio Vergil è lì dentro, e io so che c’è, allora devono esserci anche loro. Oppure lì c’è il modo di raggiungerli.
— È la cosa più stupida che abbia mai sentito — disse John. — Mia moglie e mio figlio non possono essere lì.
— Perché no? Sono morti?
John la fissò accigliato.
— Lei sa che non sono morti. E io so che mio figlio non è morto.
— Lei è una strega — la accusò Jerry, quasi con ammirazione.
— Altri l’hanno detto. Anche il padre di Vergil, prima di lasciarmi. Ma voi sapete. Non è così?
John ebbe un tremito. Due lacrime gli scivolarono sulle guance. Jerry fissò la cortina di nebbia con una smorfia.
— Saranno là dentro, John? — chiese al fratello.
— Non lo so. — Lui tirò su col naso e se lo asciugò su una manica.
April s’avviò verso la cortina. — Grazie per l’aiuto, gentiluomini — disse. Mentre penetrava nella nebbia cominciò a distorcersi come un’immagine televisiva fuori sintonia, e poi scomparve.
— Gesù, guarda! — ansimò John, con un brivido.
— Ha ragione lei — mormorò Jerry. — Non lo senti?
— Non lo so! — gemette John. — Cristo, fratello, non lo so!
— Andiamo a cercarli — disse Jerry, prendendolo per mano. Lo incitò con un cenno del capo. John fece resistenza.
Jerry lo spinse avanti.
— E va bene — stabilì John sottovoce. — Insieme.
Fianco a fianco percorsero gli ultimi metri di discesa ed entrarono nella parete di nebbia.
Quando fu all’ottantaduesimo piano le gambe le cedettero di colpo. Con un gemito e una mezza giravolta cadde, battendo la testa sulla ringhera e un ginocchio contro l’orlo di uno scalino, proprio sotto la rotula. La torcia elettrica e la radio le volarono via dalle mani, sul pianerottolo. Il contenitore dell’acqua si spaccò in due, inzuppandola e rotolando via, ed ella non poté fare altro che seguirlo con gli occhi, paralizzata dal dolore. Le parvero ore — ma probabilmente furono solo pochi minuti — prima che trovasse la forza di trascinarsi sul pianerottolo. Lì giacque sulla schiena, con occhi velati dalla sofferenza ma incapace di piangere.
Un bernoccolo sulla fronte, una gamba che non voleva piegarsi più molto bene, poco cibo e niente acqua, spaurita, dolorante, e con altri trenta piani da fare. Poi la torcia elettrica sfarfallò e si spense, lasciandola nel buio più completo. — Merda! — disse. Sua madre aveva detestato quella parola quanto il pronunciare il nome di Dio invano. Poiché non erano stati una famiglia molto religiosa quella veniva giudicata un’infrazione minore, oscena solo quando fatta davanti a chi se ne sarebbe offeso. Ma dire merda era peggio, era un’ammissione di cattive maniere e cattiva educazione, o semplicemente il sintomo che si stava cedendo a emozioni degradanti.
Suzy tentò di alzarsi e cadde di nuovo, stordita dalla fitta di dolore che le partiva dal ginocchio. — Merda, merda, MERDA! — gridò. — Non farmi tanto male! Oh, non farmi male! — Provò a massaggiarsi la rotula ma toccarla era peggio che lasciarla stare.
A tentoni cercò la torcia e la recuperò. Dopo qualche colpetto riuscì a farla accendere, e subito girò il raggio attorno per controllare che il lenzuolo marrone e i filamenti non l’avessero raggiunta. Guardò la porta dell’ottandaduesimo piano e seppe che non avrebbe potuto continuare l’ascesa per un po’, forse per il resto del giorno. Vacillò al battente, s’appoggiò alla maniglia e si volse a cercare la radio. Era finita sul pianerottolo inferiore, dopo avere preso alcuni brutti colpi. Per un momento pensò che tanto valeva lasciarla là; ma per la radio rappresentava ancora qualcosa di speciale. Era il solo oggetto umano che le restava, il solo oggetto che le parlava. Frugando nell’edificio avrebbe sempre potuto trovarne un’altra, ma abbandonarla significava rischiare il silenzio. Tenendo rigida la gamba sofferente scese a riprenderla.
Oltrepassare carponi la pesante porta antincendio risultò tragicamente difficile, e si procurò un’altra escoriazione quando il battente le si chiuse su un braccio; infine, però, giacque sul tappeto del corridoio davanti all’ascensore e sospirò, con gli occhi fissi al rivestimento antiacustico del soffitto. Si girò bocconi, tesa a captare ogni movimento.
Silenzio, immobilità.
Pian piano, cercando di dosare le forze, avanzò nel corridoio e girò un angolo.
Al di là di una porta a vetri c’era un vastissimo locale pieno di tavoli da disegno, le cui gambe smaltate poggiavano su una moquette gialla, e da ciascuno di essi si levavano lampade nere come fenicotteri dal collo regolabile. La porta era tenuta aperta da un cuneo di gomma. Barcollò oltre una scrivania e un divano e si appoggiò al più vicino dei tavoli, gli occhi senza espressione per la stanchezza e il dolore. Sul piano c’erano dei disegni tecnici. Quello era l’ufficio di un architetto, dunque. Si chinò a osservare meglio gli schemi e vide che erano gli interni di un’imbarcazione. Lì aveva lavorato gente che disegnava barche. — E che diavolo me ne importa? — gemette fra sé.
Sedette su un alto sgabello fornito di ruote girevoli. Per mezzo minuto armeggiò con un piede sulla leva che sbloccava le ruote, quindi lo usò per avanzare nella fila di centro sfruttando i bordi dei tavoli per spingersi oltre.
Una larga vetrata separava il locale dei disegnatori da un serie di uffici. Si fermò a scrutarli. La paura l’aveva abbandonata, adesso. Fuggendo se l’era lasciata indietro. Il mattino dopo ci sarebbero state altre paure per lei, rifletté, ma intanto ne avava abbastanza. Ora si limitava a osservare.
I cubicoli degli uffici erano pieni di cose in movimento. Erano così strane che per un poco pensò di non saperle descrivere neppure a se stessa. Su e giù per il vetro si spostavano dei dischi dai piedi artigliati, i cui bordi emanavano luce. In un altro cubicolo c’era qualcosa di fluido e senza forma, come cera liquida, che emetteva pseudopodi e bolle bianche; in un terzo si contorcevano dei cavi neri da cui sprizzavano scintille; nel quarto tutto era ricoperto da una sostanza verde fluorescente. Nell’ultimo ufficio una foresta di bastoncelli simili a zampe di gallina, di altezza diversa, si piegavano e oscillavano come sotto l’impatto di un vento irreale.
— È pazzesco — sussurrò. — Questo non ha nessun significato. E se nulla ha senso, allora non sta succedendo nulla.
Spinse lo sgabello a rotelle lontano dagli uffici, fino alla finestra sul lato opposto. Nel resto dei locali sembrava non esserci niente, neppure vestiti vuoti. Visti da quella distanza i cubicoli oltre la vetrata le parvero un acquario di creature esotiche.
Forse lì era al sicuro. Solitamente quello che stava dentro un acquario non ne usciva fuori. Cercò di convincersi che nulla la minacciava, e tuttavia neppure questo le importava più. Per il momento non c’era nessun altro posto in cui potesse andare.
Il ginocchio le si gonfiava, aderendo ai jeans stretti. Pensò che avrebbe potuto tagliare la stoffa, ma poi stabilì che era più saggio levarseli. Con un mugolio scese dallo sgabello e si appoggiò a uno scaffale. In equilibrio su una gamba si slacciò i jeans e contorcendosi un poco li sfilò, togliendone via il ginocchio gonfio con cautela.
Non aveva un brutto aspetto, a parte il lieve gonfiore e una chiazza violacea sotto la rotula. Se lo tastò e le vennero le lacrime agli occhi, non tanto per il dolore quanto per la situazione in cui si trovava. Lì non restava più niente per Suzy McKenzie. Il suo vecchio mondo se n’era andato finché di esso non erano rimasti che nudi edifici, e senza la gente essi erano soltanto scheletri. E presto anche la ragazza di nome Suzy McKenzie se ne sarebbe andata, senza lasciare di sé neanche il ricordo della sua ombra.
Si volse alla finestra che, sopra i bassi scaffali allineati contro la parete, si apriva verso nord.
C’era una nuova Manhattan là fuori, una città-tenda i cui pali erano grattacieli, una città di cubi giocattolo su cui era steso un lenzuolo aderente. Baluginava di un caldo color giallo-miele nel tramonto. Nuova New York, piena di vestiti afflosciati al suolo.
Suzy McKenzie si accovacciò sulla moquette, arrotolò i jeans sotto il ginocchio per tenerlo sollevato e si coprì il volto con le braccia. — Quando mi sveglierò — disse a se stessa, — io sarò Wonder Woman, forte e intelligente. E saprò cosa sta succedendo.
Nel profondo della sua mente, tuttavia, capiva che si sarebbe risvegliata trovandosi abbastanza normale, e che il mondo sarebbe stato sempre il solito.
— Non è una bella prospettiva — mormorò.
Nell’oscurità lunghi filamenti strisciarono avanti sulla moquette, penetrarono negli uffici-cubicolo oltre la vetrata e spensero le bizzarre attività creative dentro di essi.
— Io non appartengo a nessuno. Non sono ciò che ero una volta. Non ho passato. Sono stato liberato da ogni catena e non ho alcun posto dove andare, salvo quello in cui loro vogliono portarmi.
«Ero separato fisicamente dal mondo esterno, e ora lo sono anche mentalmente.
«Il mio lavoro qui è finito.
«Io sto aspettando.
«Sto aspettando.
Davvero tu VUOI viaggiare fra noi, essere fra noi?
— Sì.
Fissa gli occhi sul verde e sull’azzurro e sul rosso del VDT. In quel momento le immagini perdono ogni significato per lui, come se fosse un bambino appena nato. Poi lo schermo, il tavolo che lo sorregge, la tenda della doccia e i muri della camera di contenimento vengono sostituiti da un nulla argenteo.
Michael Bernard sta attraversando un interfaccia.
Egli è codificato.
Non è più conscio delle sensazioni di chi possiede un corpo. Non più movimenti automatici della muscolatura involontaria, non più brontolio di fluidi nell’addome, non più pulsare di sangue e battiti cardicaci. Non più senso dell’equilibrio, tensioni o rilassamenti. È come lasciare una città per entrare di colpo nel cuore di una caverna silenziosa.
Dapprima pensare a se stesso è un crearsi d’immagini granulose e discontinue. Se una cosa simile può essere, lui visualizza se stesso alla base chimica dell’universo, dove tutti gli atomi e le molecole si combinano e si separano scambiandosi rumori silenziosi come guizzanti pesci abissali. È sospeso dentro complesse attività senza suono, incapace di valutare la situazione e incerto su quale sia la sua identità attuale. Parte delle sue facoltà sono momentaneamente escluse. Ma d’un tratto… un sussulto! Lui può analizzare, valutare. I pensieri tornano a folate come foglie spinte dal vento in un prato. Un altro sussulto! Ora è un pigro flusso di gelatina che circola e cola in una tazza fredda.
Il viaggio di Bernard non è ancora neppure all’inizio. Si trova sempre nell’interfaccia, non grande e non piccolo. C’è una parte di lui che continua a giacere nel suo cervello-universo, che continua a inviare i pensieri lungo le cellule invece che dentro le cellule.
La sospensione rotea in un vortice d’incoscienza, i suoi pensieri vengono spinti come un filo nella cruna di un minuscolo ago
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La piccola esplosione che lo proietta oltre l’interfaccia lascia improvvisamente il posto all’ordine e a un senso di semplicità. Non c’è luce, però esiste il suono. Le cellule pulsano, si separano, si contraggono sotto la spinta del fluido. Lui è nel suo stesso sangue. Può tastare e udire le cellule che stanno costruendo il suo nuovo essere, e quelle che non sono direttamente parte di lui. Può udire il fruscio dei microtuboli che si diramano nel suo citoplasma. E ciò che di più notevole riesce a sentire — il sottofondo di ogni sensazione — è il citoplasma stesso.
Questa è infatti la base del suo essere, l’elettrica e fluente sensazione di vita pura. È conscio dell’affilato equilibrio fra l’animazione e la gelatina morta, che affonda le radici nell’ordine, nella gerarchla, nell’interazione. Cooperazione. Lui è un individuo e nello stesso tempo ognuno dei suoi compagni di squadra, gli altri gruppi di centinaia di cellule a monte e a valle del flusso. I compagni più a valle sono come distanti, come chimicamente isolati, quasi fossero nelle profondità di un pozzo; i compagni più a monte sono ricchi e intensi.
Non può decifrare la meccanica dei suoi pensieri più di quanto non lo poteva nel suo cervello-universo. I pensieri emergono dalle reazioni chimiche, dagli interscambi con i compagni di gruppo e dai processi interni alle cellule. Unirsi è pensare, l’interazione è il linguaggio.
Le sensazioni lungo le membrane delle sue cellule sono intense. È lì che lui riceve, avverte la pressione chimico-elettrica dei messaggi molecolari dall’esterno. Contatta un °frammento di dati° sotto forma di un plasmide, lo ingloba per estrarne informazioni, lo assorbe nel suo corpo e duplica quelle parti di lui che saranno necessarie ad altri suoi compagni. Adesso i plasmidi arrivano rapidamente, e intanto che li ingloba e ne assorbe le molecole, come libri da aggiungere a una biblioteca, sente che a lui ritornano pezzi e frammenti di Michael Bernard.
L’immenso Bernard è contenuto in un gruppo di un centinaio di cellule. Ora può rendersi conto che al livello dei noociti c’è davvero un essere umano: lui stesso.
Benvenuto.
— Grazie.
Individua i compagni del gruppo dalle differenze nel sapore, e sono sapori di ogni genere, ricchi e dolci. Il senso di cameratismo è sopraffacente. Lui ama il suo gruppo (come potrebbe amare qualcos’altro?). Ne è parte integrale, tanto amato quanto necessario.
Bruscamente avverte il sapore della parete d’un capillare. Lui è inserito in una squadra di ricerche, e veicola informazioni provenienti da esso fabbricando pacchetti di acidi nucleici. Assorbire, ristrutturare, veicolare, assorbire…
Estrudersi. Passare all’esterno.
Questa è l’istruzione che gli viene data. Lascia il capillare e penetra nel tessuto.
Lasciare un frammento di plasmide nel flusso di dati.
Si è spinto fra le cellule del capillare — cellule connettive, non noociti — e si ferma nella parete. Ora attende l’arrivo di dati sotto forma di strutture proteiche, ormoni e ferormoni, catene di acidi nucleici, o forse dati in forma di cellule °costruite°, virus o batteri addomesticati. Ha bisogno non solo di nutrimento base, facilmente ottenibile dal siero sanguigno, ma del rifornimento di enzimi che gli consentono di assorbire e analizzare i dati, di pensare. Gli enzimi sono forniti da batteri che li fabbricano e li distribuiscono.
Il sangue è un’autostrada, una sinfonia d’informazioni e di istruzioni. È una delizia analizzare e modificare quel ricco brodo. Le informazioni hanno il loro sapore e ciascuna è un pensiero vivente, capace di modificarsi nel sangue a meno che non venga costruita con cura, sfrondata dei sovrappiù e ben compattata. Le parole non potrebbero comunicare ciò che lui sta facendo. Il suo intero essere vive nelle chiacchiere che assorbe analizzando e processando.
E mentre pensa attraverso i suoi sottili processi mentali — molecole che pensano alle molecole, registrando se stesse — sente arrivare la vertiginosa spirale delle rivelazioni in termini che fino a quel momento non esistevano dentro di lui. È come ricevere la parola di Dio diretta a un albero, e portarla giù a quell’albero, e vederlo fiorire arrossendo di confusa emozione.
Tu sei il potere, il potere buono, il più ricco di tutti i sapori… il supremo messaggio dall’alto.
I suoi compagni lo avvicinano, si raggruppano intorno alle sue appendici nel sangue, si affollano. Lui è come un novizio in un monastero, improvvisamente ispirato dal respiro di Dio. I monaci si radunano, pregano per avere un tocco da lui, un segno di redenzione e uno scopo. È intossicante. Li ama perché sono la sua squadra; loro fanno perfino più che amarlo soltanto, poiché lui è la Sorgente.
Il gruppo di comando sa che lui, lui stesso, è parte di una gerarchla più vasta, ma quest’informazione non lo sminuisce né lo abbassa di livello ai loro occhi. I gruppi comuni Io considerano con timore reverenziale.
Tu sei il flusso della vita. Tu hai la chiave che °apre° e °chiude°, la chiave della pulsazione e del silenzio.
— Più avanti — dice lui. — Conducetemi più avanti e mostratemi la vostra vita.
— Suzy. Svegliati.
Gli occhi di Suzy si aprirono pian piano. Davanti a lei erano in piedi Kenneth e Howard. La ragazza sbatté le palpebre e girò lo sguardo sulle pareti azzurre della sua camera da letto. Sentì il suo cuscino sotto la nuca. — Kenny? — sussurrò.
— Mamma ti aspetta.
— Howard!
— Alzati, su, Fiorellino. — Era così che Kenneth la chiamava sempre. Scostò la coperta, poi se la tirò di nuovo addosso: aveva ancora la blusa, ma dalla vita in giù era nuda. A parte gli stivaletti.
— Devo vestirmi — disse.
Howard le porse i jeans. — Fai presto. — I due uscirono dalla camera da letto e chiusero la porta. Lei mise fuori le gambe e infilò i piedi nei pantaloni, poi si alzò e li tirò su chiudendo la lampo e il bottone. Il ginocchio non le faceva più male. Il gonfiore era sparito, e tutto quanto sembrava bello e a posto. Aveva anche un buon sapore in bocca. Cercò attorno la torcia elettrica e la radio. Erano sul pavimento ai piedi del letto. Le raccolse, aprì la porta e uscì in corridoio. — Kenny?
Howard la prese dolcemente per un braccio conducendola verso la porta della camera da letto della madre. Era chiusa. Kenneth girò la maniglia, spinse il battente e i tre entrarono nell’ascensore. Howard premette il pulsante per il ristorante e i vestiboli dell’ultimo piano.
— Lo sapevo — disse lei, ripiegandosi su se stessa. — Sto sognando. — I suoi fratelli la guardarono, sorrisero e scossero il capo.
— No, non stai sognando — disse Kenneth. — Siamo tornati.
Silenziosamente l’ascensore li portò su per i venticinque piani che restavano.
— È uno scherzo — mormorò lei, sentendo le lacrime scivolarle calde giù per le guance. — Questo è crudele.
— D’accordo, la parte che riguardava la camera da letto, la casa… consideralo un sogno. C’era lì altra roba che probabilmente non ti avrebbe fatto piacere vedere. Ma noi siamo qui. Siamo di nuovo con te.
— Voi siete morti — disse lei. — Anche Mamma.
— Siamo diversi — disse Howard. — Ma non morti.
— Ah! E cosa siete allora, zombies? Dio ci protegga!
— Loro non ci hanno uccisi — spiegò Kenneth. — Ci hanno solo… smantellati. Come tutti gli altri.
— Be’, quasi tutti gli altri. — Howard indicò lei, e i due giovanotti sorrisero.
— Tu non hai avuto fortuna, sei stata lasciata da parte — disse Kenneth.
Adesso la ragazza aveva paura. La porta dell’ascensore si aprì, e uscirono in una sala piena di eleganti specchi. Le luci elettriche si riflettevano in un’infinità di superfici. Le luci erano accese. L’ascensore funzionava. Era chiaro che stava sognando, oppure era definitivamente diventata pazza.
— Qualcuno è morto, però — disse Kenneth con gravità, prendendola per mano. — Incidenti, errori.
— Questa è solo una parte di ciò che sappiamo, adesso — disse Howard.
Oltrepassarono il corridoio di specchi, un nido di cristalli ornamentali tagliato in due, un monumentale frammento di quarzo rosa e un alto nodulo di malachite. Sulla porta del ristorante nessuno si fece loro incontro. — Mamma è dentro — disse Howard. — Se hai fame c’è una quantità di roba da mangiare qui, puoi starne certa.
— C’è la corrente elettrica — disse lei.
— Il generatore d’emergenza, nei sotterranei. Ha funzionato per un po’ dopo che la centrale si è fermata, ma poi è finito il carburante. Capisci? Così ne abbiamo trovato dell’altro. Loro ci hanno detto come funziona e lo abbiamo riacceso prima di venire a cercarti — disse Howard.
— Sì. E dato che per loro era difficile ricostruire molta gente lo hanno fatto soltanto con Mamma e noi. Non ci sono gli inservienti del grattacielo, né gli altri. Abbiamo fatto noi tutto il lavoro. Tu hai dormito per un bel po’, sai.
— Due settimane.
— Ecco perché il tuo ginocchio è guarito.
— Quello, e…
— Ssssh! — lo zittì Kenneth, mettendo una mano su un braccio al fratello. — Non tutto in una volta. — Suzy spostò lo sguardo dall’uno all’altro, mentre la conducevano nel ristorante.
Era tardo pomeriggio. La città, chiaramente visibile dalle larghe finestre panoramiche del locale, non era più ricoperta dallo strato biancastro e marroncino.
La ragazza non riuscì a riconoscere nessun punto di riferimento. In precedenza aveva almeno potuto discernere gli edifici dalla forma, le strade dalla posizione, e i contorni dei quartieri a lei noti.
Il luogo non era più lo stesso.
Forme nere e grigie, sconcertante biancore di marmi, edifici piramidali, immensi poliedri dai molti lati alcuni dei quali traslucidi come vetro o ghiaccio. Lastroni alti centinaia di metri erano in fila come pezzi del domino lungo quella che una volta era stata West Street, da Battery Park fino a Riverside Park. Tutti gli stabili e i grattacieli di Manhattan erano stati smontati a pezzi, rimescolati, quindi costruiti in altro modo e ridipinti.
Ma le strutture non le sembravano più di cemento e acciaio. Non aveva idea di cosa fossero fatte.
Erano vive.
Sua madre era seduta a un lungo tavolo ricoperto di cibarie. C’erano insalate di diverso genere intorno a un grosso prosciutto parzialmente affettato, vassoi di olive e antipasti sulla destra, dessert e paste sulla sinistra. La donna sorrise e si alzò, girando intorno al tavolo col suo passo elastico da ex giocatrice di tennis, e le tese le braccia. Indossava una gonna costosa di sartoria, un’elegante camicetta a maniche lunghe guarnita di pizzi e ricami, e appariva assolutamente terrificante.
— Suzy — le disse. — Non guardarmi con quell’aria sconvolta, via. Siamo venuti a farti visita.
La ragazza abbracciò sua madre, sentì il suo corpo di solida carne e smise di pensare che tutto fosse un sogno. Era realtà. I suoi fratelli non l’avevano prelevata davvero da casa loro (una cosa simile non sarebbe stata reale… o sì?) ma l’avevano portata lì in ascensore, e lì lei era davanti a sua madre, calda e piena d’amore e desiderosa di nutrire bene la sua bambina.
E oltre le spalle di sua madre, fuori dalla finestra, c’era la città cambiata. Quella non poteva essere un’allucinazione. O poteva?
— Che sta succedendo, Mamma? — domandò, asciugandosi le lacrime e facendo un passo indietro. Guardò Howard e Kenneth.
— L’ultima volta che ti ho vista eravamo in cucina — le ricordò sua madre. — Non mi andava molto di parlare in quel momento. Mi stavano accadendo un sacco di cose.
— Eri malata — balbettò Suzy.
— Sì… e no. Vieni a sederti. Devi avere appetito, eh?
— Se ho dormito per due settimane dovrei essere morta… morta di fame — disse lei.
— Ancora non ci crede — sogghignò Howard.
— Taci tu. — La donna gli accennò di scostarsi. — Neppure voi due ci credereste, al suo posto, no?
Loro ammisero che probabilmente non ci avrebbero creduto.
— Ho fame, però — confessò Suzy. Kenneth le scostò una sedia e la fece accomodare a un tavolo, coperto da un’immacolata tovaglia e con posate d’argento.
— Può darsi che ti abbiamo fatta svegliare in modo troppo fantasioso — sospirò Howard. — Troppo simile a un sogno.
— Sì — annuì Suzy. D’improvviso si sentiva euforica, felice, e non le importava più di sapere cos’era reale. — Voi pagliacci avete esagerato.
Sua madre le riempì un piatto con prosciutto e insalata, e lei indicò con un dito anche la purea di patate e il sugo di carne.
— Tutta roba che fa ingrassare — commentò Kenneth.
— Tsk! — Suzy scrollò le spalle. Infilò con la forchetta una fetta di prosciutto e lo masticò. Reale. Mordicchiò la forchetta. Reale. — Voi sapete cos’è successo?
— Non tutto — disse sua madre, sedendo accanto a lei.
— Noi potremmo essere molto più intelligenti adesso, se volessimo — disse Howard. Per un momento Suzy si sentì ferita; si stava riferendo a lei? Howard s’era sempre vergognato dei propri risultati scolastici; era un lavoratore volonteroso, ma non certo brillante. Tuttavia era sempre stato più intelligente della sua sorellina un po’ tarda.
— Non abbiamo neppure più bisogno dei nostri corpi — disse Kenneth.
— Piano, piano — li ammonì la madre. — È una cosa molto complicata, tesoro.
— Noi siamo i dinosauri, adesso — disse Howard, allungando una mano per prendere una fetta di prosciutto. La esaminò con una smorfia e la rimise nel vassoio.
— Quando eravamo ammalati… — cominciò sua madre.
Suzy depose la forchetta e nel masticare si accigliò, ascoltando non le parole della donna ma qualcos’altro.
Curato te
Rallegrato te
Necessario
— Oh, mio Dio! — disse sottovoce, con la bocca ancora piena di prosciutto. Deglutì il boccone e li guardò. Poi alzò una mano. Sul dorso c’erano alcune linee bianche che si estendevano al polso e all’avambraccio formando lievi disegni sotto la pelle.
— Non aver paura, Suzy — disse sua madre. — Ti prego, non aver paura. Loro ti hanno lasciata stare perché non avrebbero potuto entrare nel tuo corpo senza ucciderti. Tu hai una chimica insolita, cara. E così anche pochi altri. Questo non è più un problema. Ma la scelta è tua, tesoro. Solo, ascolta quello che ti diciamo noi… e loro. Adesso si sono evoluti molto di più, bambina. Sono più capaci di quando entrarono dentro di noi.
— Sono ammalata anch’io adesso, è così? — gemette lei.
— Loro sono così tanti — disse Howard, indicando il panorama esterno — che potresti contare ogni granello di sabbia sulla Terra, e tutte le stelle del cielo, e ancora non raggiungeresti il loro numero.
— Ora ascolta — intervenne Kenneth accostandosi a lei. — Tu hai sempre creduto a quello che io ti dicevo, vero, Fiorellino?
Lei annuì con la docilità di una bambina, forzandosi alla calma.
— Loro non vogliono uccidere né fare del male. Hanno bisogno di noi. Siamo una piccola parte di loro, ma hanno bisogno di noi.
— Sì? — mormorò lei, con voce fievole.
— Loro ci amano — disse sua madre. — Dicono di essere nati da noi, e ci amano come… come tu ami la tua culla, quella nel sottoscala.
— Come noi amiamo Mamma — disse Kenneth. Howard annuì con energia.
— E adesso ti lasciano la scelta.
— Quale scelta? — chiese Suzy. — Sono dentro di me!
— La scelta se continuare a essere quella che sei, o se unirti a noi.
— Ma voi siete di nuovo come me, ora.
Kenneth s’inginocchiò al suo fianco. — A noi piacerebbe mostrarti com’è e come sono loro.
— Ti hanno fatto il lavaggio del cervello — disse lei. — Io voglio rimanere viva!
— Siamo perfino più vivi di prima, con loro — disse sua madre. — Tesoro, non ci hanno fatto il lavaggio del cervello. Ci siamo convinti da soli. All’inizio siamo passati attraverso una faccenda abbastanza spiacevole, però adesso questo non è più necessario. Loro non distruggono niente. Possono prendere ogni cosa dentro di sé, come informazioni, solo che sono più che informazioni…
— Sì, perché tu puoi pensare te stessa dentro di loro, ed essere là, proprio come potresti…
— Tornare qua — terminò Howard.
— Non ho ancora capito cosa volete dire. Loro vogliono che gli regali il mio corpo? Stanno cominciando a cambiarmi, come hanno fatto con voi e con tutta la città?
— Quando sei con loro non hai più bisogno del tuo corpo — disse sua madre. Suzy la fissò inorridita. — Suzy, bambina, noi siamo stati là. E lo sappiamo.
— Siete come una banda di drogati — sussurrò lei. — Mi avete sempre messo in guardia contro i drogati, e tutta la gente che poteva approfittarsi di me. E adesso siete voi che volete lavarmi il cervello. Mi fate mangiare, e cercate di essere gentili e buoni, e io non so neppure se siete davvero mia madre e i miei fratelli.
— Puoi rimanere quella che sei, se questo è ciò che vuoi — disse Kenneth. — Soltanto, loro pensano che tu abbia il diritto di sapere. Se non desideri essere sola e spaventata c’è un’alternativa.
— Ma mi lasceranno il mio corpo? — mormorò lei, fissandosi la mano.
— Se questo è quel che desideri — annuì sua madre.
— Io voglio essere viva, non un fantasma.
— È la tua decisione? — chiese Kenneth.
— Sì — stabilì lei con fermezza.
— E vuoi anche che noi ce ne andiamo?
Lei sentì le lacrime salirle agli occhi e strinse una mano a sua madre. — Sono così confusa — gemette. — Voi non mi raccontereste una bugia così brutta, vero? Voi siete davvero Mamma e Kenny e Howard?
Loro annuirono. — Soltanto migliori — aggiunse Howard.
— Ascolta, sorellina, io non ero il ragazzo più intelligente della città, no? Bravo e buono, forse, ma qualche volta anche duro come una zucca. Ma quando loro sono venuti dentro di me…
— Chi sono loro?
— Sono nati da noi — disse Kenneth. — Sono come le nostre cellule, non come una malattia.
— Sono cellule? — Lei ripensò alle bollicine (aveva scordato come si chiamassero) che aveva visto al microscopio, a scuola. Questo la spaventò ancora di più.
Howard annuì. — E intelligenti, anche. Quando entrarono in me, io mi sentii forte… nella mente. Potevo pensare e ricordare un sacco di cose, perfino cose che non mi erano successe mai. Era come se parlassi al telefono con miliardi di persone intelligenti, tutti amici miei, e che collaboravano tutti…
— La maggior parte — lo corresse Kenneth.
— Be’, sì, qualche volta hanno delle discussioni, e anche noi le abbiamo. Però nessuno odia qualcun altro, perché siamo tutti duplicati migliaia, anzi miliardi di volte. Sai, come fotocopiati. Per tutto il continente. Così se io, mettiamo, morissi qui, adesso, ci sarebbero migliaia di altri sintonizzati con me, pronti per diventare me, e dunque non sarei affatto morto. Avrei soltanto perso questo particolare me. Così io potrei sintonizzarmi su qualcun altro, e potrei essere chiunque, perciò morire diventa impossibile.
Suzy aveva smesso di mangiare. Adesso smise anche di tocchettare il cibo con la forchetta e la depose. — Questo è troppo difficile per me, ecco — disse. — Voglio sapere perché non mi sono ammalata anch’io.
— Lascia che stavolta a risponderti siano loro — disse sua madre. — Tu ascoltali e basta.
Lei chiuse gli occhi.
Gente diversa
Alcuni come te
Morte/disastro/fine
Messe da parte, conservate
Come riserve/parchi
Queste persone/tu
Per imparare.
Nella sua mente non si formavano soltanto delle parole. Esse erano accompagnate da una nitida e viva serie di viaggi attraverso grandi distanze, mentali e fisiche, in cui entravano in gioco tutti i suoi sensi. Si rese conto della differenza fra l’intelligenza delle cellule e la sua, delle diverse esperienze che si stavano integrando; sfiorò la forma e i pensieri della gente assorbita nella memoria delle cellule; riuscì perfino a sentire i ricordi parzialmente recuperati di coloro che erano morti prima di venire assorbiti. Non aveva mai visto/udito/toccato niente di così complesso.
Suzy riaprì gli occhi. Già in quel momento non era più la stessa. Qualcosa in lei era stato oltrepassato: la parte di sé che l’aveva resa tarda di mente. Senza rendersene conto aveva fatto un passo oltre una soglia mentale che s’era aperta, irrevocabilmente.
— Hai visto com’è? — domandò Howard.
— Dovrò pensarci sopra — disse lei. Spinse indietro la sedia e si alzò. — Dite loro di lasciarmi stare, e di non farmi ammalare.
— Gliel’hai già detto tu stessa — rispose sua madre.
— Ho solo bisogno di tempo — disse Suzy.
— Tesoro, se vuoi potrai avere l’eternità.
Bernard fluttua nel suo stesso sangue, senza sapere chi sta comunicando con lui. La comunicazione gli arriva sulla corrente arteriosa tramite flagellati, protozoi riadattati capaci di alta velocità nel siero. Le sue risposte partono con lo stesso metodo, o vengono semplicemente inserite nel flusso sanguigno.
Ogni cosa è informazione, oppure mancanza d’informazione.
— Quanti me ci sono?
Il numero muta di continuo. In questo momento forse un milione.
— Lì incontrerò? Mi integrerò con loro?
Nessun gruppo ha la capacità di assorbire le esperienze di tutti i gruppi consimili. Questo dev’essere riservato ai gruppi di comando. Non tutte le informazioni sono ugualmente utili in un dato momento.
— Ma qualche informazione non va perduta?
C’è sempre perdita d’informazioni. Questo è il tormento. Nessuna struttura totale di gruppo va mai perduta. Esistono sempre i duplicati.
— Dove sto andando?
In ultima analisi, sulla °musica del sangue°. Tu sei il gruppo scelto per reintegrarsi in BERNARD.
— Io sono Bernard.
Ci sono molti BERNARD.
Forse milioni d’altri che pensano ciò che lui pensa in quell’istante, che si muovono attraverso il sangue e i tessuti, pian piano assorbiti nella gerarchia dei noociti. Un milione di versioni mutevoli che non saranno reintegrate mai più.
Tu incontrerai i gruppi di comando. Sperimenterai il PENSIERO UNIVERSO.
— È troppo per me. Ho ancora paura.
PAURA è impossibile senza le risposte ormonali del BERNARD in scala macroscopica. Hai veramente PAURA?
Lui cerca in sé i sintomi della paura e non li trova.
— No, ma dovrei averla.
Tu hai espresso interesse per la gerarchia. Regola i tuoi processi su °°°°°°°°°°°°
Il messaggio, incanalato nella biologia del gruppo di noociti, è incomprensibile per la sua mente umana, ma il gruppo lo capisce e si prepara a ricevere pacchetti di dati specifici.
Mentre entrano i dati — fini catene elicoidali di RNA e compatti grovigli di proteine — sente le sue cellule assorbirli e incorporarli. Non c’è modo di sapere quanto tempo gli occorra, ma ha l’impressione di capire all’istante le esperienze delle cellule che corrono via nel capillare. Si nutre delle esperienze-memorie di cui si sono appena liberate.
Quelle in numero di gran lunga maggiore non sono noociti maturi, ma normali cellule somatiche di poco alterate per prevenire interferenze con l’attività dei noociti stessi, o cellule di servizio con funzioni limitate alle semplici costruzioni biologiche. Alcune di queste sono messaggeri dei gruppi di comando, altre trasportano esperienze e memorie in forma di frammenti polimerizzati da una località all’altra. Molte adempiono a nuove funzioni corporali, impossibili per le cellule somatiche non modificate.
Ancora più in basso nella scala sociale vi sono i batteri domestici, progettati per compiere una funzione o due. Alcuni di tali batteri (non c’è modo di classificarli o paragonarli con quelli a cui la scienza ha dato un nome) sono vere e proprie colture che fluttuano nel sangue con le molecole necessarie ai noociti.
E al fondo della scala, ma non per questo indegni d’importanza, ci sono virus fagociti modificati. Qualche tipo di virus funge da trasporto ad alta velocità per le informazioni cruciali, o da rimorchio per batteri flagellati e linfociti particolari, altri tipi vagano liberamente nel sangue, circondando le cellule più grosse come nubi di pulviscolo. Se le cellule somatiche, o quelle di servizio, o taluni noociti — ribelli o malfunzionanti — abbandonano il loro posto nella gerarchia, i virus li attaccano iniettando in loro un RNA di carattere distruttivo. Le cellule così colpite esplodono in breve, liberando una quantità di virus dello stesso genere, e i detriti vengono spazzati via sia dai noociti sia da plasmoidi — divoratori di rifiuti.
Ogni genere di cellule preesistenti nel suo corpo — amiche o nemiche — è stato studiato e utilizzato dai noociti.
Spostati e segui la traccia del gruppo di comando. Sarai intervistato.
Bernard sente il suo gruppo indietreggiare nel capillare. Le pareti si stringono forzandolo ad allungarsi in una linea sottile, e le sue comunicazioni intercellulari si riducono fino a dargli quello che per i noociti è l’equivalente della soffocazione. Poi oltrepassa la parete e si trova immerso nel fluido interstiziale. La traccia è molto nitida. Può assaggiare la presenza di noociti maturi, in gran numero.
Improvvisamente gli sovviene che lui, di fatto, è ancora vicino al suo cervello, forse sempre dentro il suo cervello, e che sta per incontrare uno dei ricercatori responsabili della sua discesa dal mondo macroscopico.
Passa attraverso una folla di cellule-serventi, flagellati che trasportano informazioni, noociti in attesa di istruzioni.
— Sto per essere condotto alla presenza del Grande Lunare — dice a se stesso. Il pensiero e la risatina mentale che lo accompagna sono quasi subito trasformati in dati chimici, estrusi verso le cellule-serventi, recuperati e portati al gruppo di comando. Ancora più rapidamente gli arriva una risposta.
BERNARD ci paragona a un MOSTRO.
— Niente affatto. Sono io il mostro, qui. O questo, oppure è la situazione a essere mostruosa.
Siamo lontani dal capire le sottigliezze del tuo pensiero. Hai trovato informativa la tua °discesa°?
— A questo punto, molto informativa. Ammetto di sentirmi molto umile qui.
Non come un supremo gruppo di comando?
— No. Io non sono un dio.
Noi non comprendiamo DIO.
Il gruppo di comando è assai più numeroso di un normale gruppo di noociti. Bernard calcola che ne facciano parte almeno diecimila cellule, e che abbia una capacità intellettuale grande in proporzione. Ha l’impressione d’essere mentalmente un nanerottolo, anche se è difficile formulare simili paragoni nel regno dei noociti.
— Avete accesso ai ricordi di H.G. Wells?
Una pausa, poi: Sì. Sono abbastanza vividi per non essere pure esperienze di memorie riflesse.
— Sì. Direi che provengono dai suoi libri, codificazioni di esperienze irreali.
Ci è familiare il concetto di °fantascienza°.
— Mi sento come Cavour nel Primo Uomo Sulla Luna. Mentre parla col Grande Lunare.
Il paragone può essere appropriato, ma noi non lo comprendiamo. Noi siamo molti diversi, BERNARD, troppo diversi da ciò che suggerisce il tuo paragone con un’esperienza irreale.
— Sì, ma come Cavour io ho migliaia di domande. Forse non desiderate rispondere a nessuna di esse.
Impedire ai tuoi compagni UMANI del mondo macroscopico di sapere ciò che possiamo fare, e di tentare di fermarci.
Il messaggio è poco chiaro quel tanto che basta a mostrare a Bernard che il gruppo di comando è ancora incapace di comprendere per intero la realtà del mondo macroscopico.
— Siete in contatto con i noociti del Nord America?
Siamo consapevoli che ci sono altri, una concentrazione molto più °potente°, in circostanze molto più favorevoli.
— E…
Nessuna risposta.
Poi: Sei consapevole che il tuo °spazio chiuso° è in pericolo?
— No. Che specie di pericolo? Vi riferite al laboratorio?
°Il laboratorio° è circondato da tuoi compagni in °relazione gerarchica incerta°.
— Non capisco.
Loro desiderano distruggere °il laboratorio° e probabilmente tutti noi.
— Come lo sapete?
Noi possiamo ricevere TRASMISSIONI DI FREQUENZE RADIO in parecchie LINGUE °codificate°. Tu puoi impedire quel tentativo? Sei in una posizione di INFLUENZA gerarchica?
Bernard s’interroga su quella richiesta.
Noi abbiamo registrazioni delle TRASMISSIONI.
— Fatemele ascoltare.
Può assaporare il passaggio di un flagellato che va a intercettare il messaggero del gruppo di comando e ritorna con un pacchetto di dati. Il gruppo di Bernard assorbe i dati.
Adesso ascolta le trasmissioni memorizzate. Non sono della migliore qualità e per la maggior parte sono in tedesco, lingua che lui traduce male. Ma ne capisce abbastanza da rendersi conto del perché il morale di Paulsen-Fuchs era sceso sempre più in basso.
Le istallazioni della Pharmek sono circondate da un accampamento di manifestanti. Ce ne sono su tutta la campagna fra lì e l’aeroporto; il loro numero ammonta a circa mezzo milione e ogni giorno ne arrivano altri, in automobile, in autobus o a piedi. L’esercito e la polizia non osano disperderli con la forza; l’umore della gente in Germania Ovest e in quasi tutta l’Europa è molto ostile, fra non ho il potere di fermarli.
PERSUASIONE?
Un’altra risatina interiore. — No. Ciò che loro vogliono distruggere sono io. E voi.
Nella tua terra tu sei molto meno influente di quanto lo sei qui.
— Oh, sì, naturalmente.
Per un lungo periodo dal gruppo di comando non giunge nessun messaggio. C’è ancora meno tempo. Adesso ti trasferiremo.
Avverte una lieve diversità nella voce che gli arriva mentre si allontana tra i flagellati. Seguici. Capisce che molte cellule si sono separate dal gruppo di comando. Stanno comunicando con lui e la loro voce gli sembra stranamente familiare, più diretta e accessibile.
— Chi è che mi sta guidando?
La risposta è chimica. Un flagellato gli porta un filamento di molecole-dati, e d’un tratto sa che a guidarlo sono quattro gruppi di linfociti-B primari, le versioni iniziali dei noociti. I linfociti-B primari hanno diritto a un posto in ogni gruppo di comando e sono trattati con grande rispetto; sono i precursori, anche se la loro attività è limitata. Sono primitivi in entrambi i significati della parola: meno sofisticati dei noociti recenti in struttura e funzioni, e gli antenati di tutti.
Tu puoi entrare nel PENSIERO UNIVERSO.
La voce svanisce a tratti come in una telefonata intercontinentale. Disturbata, incompleta.
L’impressione d’essere un gruppo di noociti ebbe bruscamente termine. Adesso Bernard non era più scorporizzato e contratto nel microcosmo delle cellule. I suoi pensieri semplicemente esistevano, e il luogo in cui essi esistevano era dolorosamente bello.
Se quello spazio aveva un’estensione, era illusoria. Le dimensioni sembravano definite da unità di memoria: le informazioni importanti per i suoi pensieri di quel momento erano a portata di mano, mentre altri argomenti erano più lontani. L’impressione generale era quella di una vasta libreria fitta di scaffali, sistemati sfericamente tutti intorno a lui. Condivideva il centro di quella sfera con un’altra presenza.
Umani, forma umana, disse la presenza. Un fiotto d’informazioni si precipitò addosso a Bernard, fornendolo di braccia, gambe, un corpo e un volto. Al suo fianco, seduto su quella che sembrava una sedia a sdraio, c’era un’immagine spettrale di Vergil Ulam. Il giovane gli sorrise senza vera emozione, asetticamente.
— Io sono il tuo Vergil cellulare. Benvenuto nel cerchio interno dei gruppi di comando.
— Tu sei morto — disse Bernard, con quella che gli parve solo un’approssimazione della sua voce.
— Così credo d’avere capito.
— Dove siamo?
— Traducendo rozzamente la catena di dati molecolari dei noociti, direi che siamo in un Universo Pensato. Io lo chiamo una noosfera. Ogni cosa che sperimentiamo qui è generata dal pensiero. Potremmo essere tutto ciò che vogliamo, o apprendere tutto ciò che desideriamo, oppure non pensare a niente. Non saremo limitati dalla mancanza di cognizioni o esperienze; tutto potrà esserci fornito. Trascorro molto del mio tempo in questo luogo quando non servo ai gruppi di comando.
Fra loro prese forma un dodecaedro di granito, dagli spigoli decorati con sbarre d’oro. Per qualche istante rotolò qua e là, poi si accostò alla pallida e traslucida figura di Vergil. Bernard non capì che genere di comunicazione vi fosse. Il dodecaedro svanì.
— Tutti noi qui prendiamo forme individuali, e molti di noi vi aggiungono abbellimenti e dettagli. I noociti non hanno nomi, Mr. Bernard; si identificano con sequenze di aminoacidi scelte fra introni di RNA ribosomatico. Suona complicato, ma in realtà è molto più semplice di un’impronta digitale. Nella noosfera tutti i ricercatori attivi devono avere un chiaro simbolo d’identità.
Bernard cercò di ritrovare in lui tracce del Vergil Ulam che aveva conosciuto e a cui aveva stretto la mano. Non sembravano essercene molte. Perfino la voce mancava dell’accento e delle lievi esitazioni che ricordava. — Non c’è molto di te qui, è così?
Il fantasma di Vergil scosse il capo. — Non tutto di me è stato trasferito al livello dei noociti, prima che le mie cellule ti infettassero. Spero che da qualche altra parte esistano registrazioni di me più complete. Questa è ben poco adeguata. Ci sarà circa un terzo di me, qui. Quello che è qui, comunque, è rispettato e protetto. L’ombra dell’antenato onorevole, la vaga memoria del creatore. — La sua voce a tratti svaniva, saltando o deformando qualche sillaba. L’immagine vibrava. — La speranza è che i noociti si riuniscano con quelli rimasti a casa mia, ritrovando altre parti di me. Non più che frammenti di una vaso ormai rotto.
La sua figura divenne più evanescente. — Ora devo andare. Sta arrivando qualcos’altro. Qui ci saranno sempre parti di me, ma sospetto che sia tu ad avere la precedenza adesso. Stammi bene.
Bernard rimase solo nella noosfera, circondato da opzioni dalle quali ben difficilmente avrebbe saputo come trarre un vantaggio. Allungò una mano verso le informazioni circostanti. Esse parvero precipirarsi su di lui, come onde di luce che balenavano fra lo zenith e il nadir. Eserciti di dati si univano e si ordinavano, e i suoi ricordi crescevano intorno a lui come un castello di carte, ciascuna rappresentata da una linea di luce.
Le linee gli si rovesciarono addosso.
Lui era stato un essere pensante…
— È un giorno come un altro per te, non è così? — Nadia si volse e salì con passo flessuoso sulla scala mobile del tribunale.
— Non il più divertente — disse lui. Si lasciarono trasportare verso il pianterreno.
— Proprio un giorno come un altro, allora. — Lei aveva un lieve profumo di lavanda, di tè, di pulito. Era sempre stata bella ai suoi occhi, e senza dubbio anche agli occhi degli altri: piccola, bruna, snella, non attraeva immediatamente l’attenzione. Ma pochi minuti in una stessa stanza con lei toglievano ogni dubbio: molti uomini avrebbero fatto carte false per trascorrere ore, giorni, mesi con lei.
Ma non anni. Nadia si annoiava in fretta di tutto, anche di Michael Bernard.
— Torna pure ai tuoi affari, certo — disse lei a mezza discesa. — Alle tue interviste. Ma bada a quel che dirai!
Lui non rispose. Annoiata, Nadia diventava pungente e tormentosa.
— Bene. Adesso ti sei liberato di me — disse lei verso il fondo. — E io mi sono liberata di te.
— Io non sarò mai libero da te — disse Bernard. — Tu hai sempre rappresentato qualcosa d’importante per me. — Lei ruotò sui tacchi altissimi e gli presentò la parte posteriore del suo immacolato abito azzurro di sartoria. Lui la afferrò per un braccio non troppo gentilmente, costringendola a voltarsi faccia a faccia. — Tu eri la mia ultima possibilità d’essere normale. Non amerò più un’altra donna come ho amato te. Bruciavi. Ne amerò altre, ma senza più compromettermi con loro. Non sarò più così ingenuo. — Scesero dalla scala mobile,
— Stai parlando a vanvera, Michael — disse Nadia, stringendo le labbra. — Lasciami andare.
— All’inferno, ti lascio andare! — sibilò lui. — Hai avuto un milione e mezzo di dollari. Dammi qualcosa in cambio.
— Vai a farti fottere! — disse lei.
— Non ti piace fare scene in pubblico, no?
— Stammi lontano!
— Fredda, dignitosa. Eppure potrei costringerti a darmi qualcosa in pagamento, proprio adesso, per quello che mi hai preso.
— Tu, bastardo!
Lui ebbe un tremito e la schiaffeggiò. — Questo per avermi tolto ogni ingenuità. Per tre anni: il primo, meraviglioso… l’ultimo, una regale miseria.
— Io ti ammazzo! — ansimò lei. — Nessuno…
Lui le girò un polpaccio dietro le gambe e la spinse. Nadia cadde a sedere con uno strillo. A gambe spalancate, annaspando sugli scalini dietro di lei, lo fissò rabbiosamente. — Tu, sporco…
— Bruto — terminò lui. — Fredda e razionale brutalità. Non molto diversa da quello che hai fatto subire a me. Ma tu non usavi la forza fisica. Ti divertivi a provocarla.
— Taci — Nadia alzò una mano, e lui la aiutò a rimettersi dignitosamente in piedi.
— Scusami — le disse. In quei tre anni trascorsi insieme non l’aveva mai colpita una sola volta. Sentì una stretta al cuore.
— Scusami un corno. Sei tutto quello che ho sempre detto, tu, bastardo. Tu, miserabile bambinetto!
— Scusami — ripeté lui. La folla di gente che c’era nell’atrio li osservava. Sguardi accigliati, mormoni di disapprovazione. Grazie a Dio non c’erano giornalisti.
— Torna a giocare con i tuoi giocattoli — ringhiò lei. — I tuoi scalpelli, le tue infermiere, i tuoi pazienti. Vai a rovinare la vita a loro, e stai alla larga da me!
Un ricordo più antico.
— Papà. — Era in piedi accanto al letto, a disagio per quell’inversione dei ruoli poiché lì non era un medico ma un visitatore. La stanza odorava di disinfettante e di quello che doveva occultare il disinfettante, acqua di rose o qualcosa di ugualmente dolciastro. L’effetto era da camera mortuaria. Sbatté le palpebre e strinse una mano di suo padre.
Il vecchio (sembrava vecchio, era vecchio, come già svuotato della vita) aprì debolmente gli occhi. Aveva la cornea gialla, occhiaie gonfie, e la pelle color mostarda. Quello che se lo stava portando via un pezzo dopo l’altro era un cancro al fegato. Non aveva richiesto nessun trattamento straordinario, e Bernard aveva portato i suoi avvocati a fare quattro chiacchiere con la direzione dell’ospedale, tanto per assicurarsi che i desideri di suo padre non venissero ignorati (Vuoi che tuo padre muoia? Vuoi assicurarti che muoia più rapidamente? No, si capisce. Vorresti che vivesse per sempre? Sì, oh, sì! Ma questo è impossibile, no?).
Ogni due ore gli veniva dato un antidolorifico potente, una moderna variazione del cocktail di Brompton che era stato il più usato quando Bernard cominciava il suo internato.
— Papà, sono Michael.
— Sì. Ho la testa ancora chiara. Ti riconosco.
— Ursula e Gerald ti salutano.
— Saluta Gerald. Saluta Ursula.
— Come ti senti? (Come vuoi che si senta uno che sta morendo, idiota.)
— Mi sento un rottame adesso, Mike.
— Già. Be’…
— Ora devo parlare.
— Di cosa, papà?
— Tua madre. Perché non è qui?
— Mamma è morta, papà.
— Sì. Questo lo so. La mia mente è chiara. Solo che… non mi sto lamentando, bada… è solo che fa male. — Prese la mano di Bernard e la strinse più forte che poté… una stretta debole. — Qual è la prognosi, figliolo?
— Questo lo sai, papà.
— Non puoi trapiantarmi il cervello?
Bernard sorrise. — Non ancora. Ci stiamo lavorando su.
— Ho paura che non farete in tempo.
— Probabilmente non si farà in tempo.
— Tu e Ursula… andate bene?
— Ci stiamo accordando senza bisogno del tribunale, papà.
— E Gerald come l’ha presa?
— Male. È molto giù.
— Una volta volevo divorziare da tua madre.
Bernard lo fissò, accigliandosi. — Ah!
— Lei aveva una relazione. Ero inferocito. Ho imparato molto, anche. E non ho divorziato da lei.
Bernard non aveva saputo niente di quella faccenda.
— Sai, anche con Ursula…
— È tutto finito, papà. Entrambi abbiamo una relazione, e la mia è una cosa sempre più seria.
— Non si può possedere una donna, Mike. Sono meravigliose compagne se non vuoi possederle.
— Lo so.
— Davvero? Sì, forse sì. Pensai, quando scopersi dell’amante di tua madre, pensai che avrei voluto morire. Faceva male, quasi quanto questa cosa qui. Credevo che lei fosse di mia proprietà.
Bernard desiderò che la conversazione avesse preso un’altra direzione. — A Gerald non importa perdere un anno di scuola.
— A me importava. Io la stavo condividendo con un altro. Anche se una donna ha solo te, la stai condividendo con qualcosa. E per lei è lo stesso con te. Tutto quello che riguarda la fedeltà è un’impostura, una maschera. Mike. Conta il risultato che ottieni. Quello che fai, quanto abilmente lo fai, quanto sei bravo a mascherarti.
— Sì, papà.
— Dico…
— Che cosa? — chiese Bernard, riprendendogli la mano.
— Siamo stati insieme trent’anni dopo quella storia.
— Io non ne ho mai saputo niente.
— Non avevi bisogno di sapere. Io ero l’unico che aveva bisogno di saperlo, di accettarlo. E sto pensando ancora ad altre cose, Mike. Ricordi il bungalow? C’è un pacco di fogli in soffitta, sotto il lettino.
Il bungalow nel Maine era stato venduto dieci anni prima.
— Stavo scrivendo delle cose — continuò l’uomo dopo avere deglutito a fatica e dolorosamente. Ebbe una smorfia e gli sfuggì un gemito. — Cose di quando ero un medico.
Bernard sapeva di quei fogli. Li aveva trovati e letti durante il suo internato. Adesso erano in uno schedario del suo ufficio di Atlanta.
— Li ho io, papà.
— Bene. Li hai letti?
— Sì. — E sono stati importanti per me, padre. Mi hanno aiutato a capire ciò che volevo fare in neurologia, la direzione che volevo prendere… diglielo! Diglielo!
— Bene. Io l’ho sempre saputo questo di te, Mike.
— Che cosa?
— Quanto ci volevi bene. Solo che non sei espansivo, vero? Non lo sei mai stato.
— Ti voglio bene. Volevo bene alla mamma.
— Lei lo sapeva. Non era infelice quando è morta. Bene. — Ebbe di nuovo una smorfia. — Adesso devo dormire. Sei sicuro di non potermi trovare un altro corpo, giovane e forte?
Bernard annuì. Diglielo.
— I tuoi scritti sono stati molto importanti per me, papà.
Non lo aveva più chiamato papà da quando aveva tredici anni, solo padre. Ma il vecchio (vecchio) non lo sentì. S’era addormentato. Bernard raccolse il soprabito e la valigetta e uscì, passando dalla stanza delle infermiere per domandare — contro ogni sua abitudine — per quando si prevedeva la prossima iniezione di antidolorifico.
Suo padre era morto alle tre del mattino successivo, nel sonno e da solo.
E più indietro…
Olivia Ferguson, come lui snella, come lui elegante, come lui diciottenne, un nome che ben dipingeva il suo aspetto, capelli neri compressi contro il paggiatesta della Corvette, si volse a fissarlo con una luce divertita nei grandi occhi verdi. Lui la guardò e le restituì il sorriso, e quella era certo la sera più inebriante del mondo, e il mondo era meraviglioso: per la terza volta stava portando fuori una ragazza. Anche se fra i due l’unica vergine era lui… cosa, tuttavia, che in quell’occasione non aveva però la minima importanza. L’aveva avvicinata sotto la torre campanaria del campus della Berkeley U.C. vedendola ferma a esaminare uno degli orsi di bronzo, e quando le aveva chiesto un appuntamento lei l’aveva scrutato con genuina simpatia.
— Ho già un ragazzo — era stata la risposta. — Voglio dire, non potrebbe essere niente di…
Deluso, ma sempre preparato a essere galante, lui aveva sospirato: — Be’, in questo caso sarà soltanto una serata fuori. Due nella città. Amici. — Praticamente non la conosceva, era con lei in classe al corso d’inglese. La più bella ragazza della classe: alta e flessuosa, riservata ma non di modi scostanti. Olivia aveva sorriso e annuito. — Okay.
E adesso lui assaporava l’amicizia, libero dagli obblighi del corteggiamento; la prima volta che si sentiva su un piede di parità con una donna. Il suo fidanzato, gli spiegò lei, era in Marina, distaccato al Cantiere Navale di Brooklyn. La famiglia abitava a Staten Island, nella stessa casa dove un tempo Herman Melville aveva trascorso un’estate.
Il vento le agitava i capelli senza scompigliarli… miracolosi, splendidi capelli che (in teoria) sarebbe stato delizioso carezzare facendoseli scorrere fra le dita. Avevano chiacchierato sin dal momento in cui lui l’aveva prelevata, all’appartamento che Olivia divideva con altre due ragazze accanto al vecchio e candido Clairemont Hotel. Poi avevano varcato il Golden Gate per andare a cena a Marin, in un piccolo ristorante conosciuto per le specialità di mare, il Klamshak, e s’erano attardati a parlare: la scuola, i loro progetti, e quello che significava sposarsi al giorno d’oggi (lui non lo sapeva, e non s’era preoccupato di fingere un atteggiamento sofisticato). S’erano trovati d’accordo sul fatto che la cucina era buona e l’arredamento non troppo originale: reti e attrezzi da pesca alle pareti, conchiglie di plastica, pesci imbalsamati, la prua di una barca e l’immancabile ruota di timone. Neppure per un momento s’era sentito goffo, o giovane, o comunque inesperto.
Mentre guidava in senso inverso sul ponte s’era trovato a pensare: In altre circostanze sicuramente ci innamoreremmo a vicenda. E scommetto che dopo pochi anni ci sposeremmo. È stupenda… e quello che farò è di non fare assolutamente niente. A quel pensiero s’era sentito triste, e romantico in modo meraviglioso.
Sapeva che se avesse insistito in quella direzione probabilmente Olivia sarebbe venuta a casa sua, e avrebbero fatto l’amore.
Ma anche detestando a morte il pensiero d’essere ancora vergine non se la sentiva di insistere con lei. Non l’avrebbe neppure velatamente suggerito. La cosa era troppo perfetta.
Rimasero seduti nella Corvette, posteggiata dietro il vecchio edificio dove lei alloggiava, e discussero di Kennedy, ridendo delle loro pause durante la crisi dei missili cubani; poi lui le strinse una mano e si guardarono in silenzio.
— Sai — le disse, — ci sono momenti che… — Tacque.
— Ti ringrazio — annuì lei. — Sapevo che sarebbe stato simpatico uscire con te. Molti altri, al tuo posto…
— Già. Be’, io sono fatto così. — Sogghignò. — Innocuo.
— Oh, no! Non innocuo in quel senso. Per niente.
Quello era il giro di boa. Adesso la cosa poteva dirottare in un senso o nell’altro. Lui lasciò cadere gli occhi su quel corpo flessuoso dall’incarnato un po’ scuro e seppe che era qualcosa di perfetto. Seppe che lei avrebbe accettato di venire a casa sua.
— Sei un romantico, non è vero? — chiese Olivia.
— Suppongo di sì.
— Anch’io. I romantici sono le persone più sciocche del mondo.
Lui sentì una vampata di rossore al volto e al collo. — Io amo le donne — mormorò. — Amo il loro modo di muoversi, di parlare. Le trovo incantevoli. — Si stava aprendo adesso, e più tardi se ne sarebbe pentito, ma ciò che provava era troppo autentico e insopprimibile, specialmente dopo una serata come quella. — Credo che molti uomini riescano a vedere una donna in qualche modo sacra. Non su un piedistallo o cose di questo genere. Ma solo troppo bella per esprimersi a parole. Essere amati da una donna e… be’, pensano che sia incredibile.
Olivia girò lo sguardo sul parabrezza e un lieve sorriso le aleggiò sul volto. Poi abbassò gli occhi sulla sua borsetta e si lisciò la lunga gonna azzurra con le mani. — Succede — disse.
— Già, certo — annuì lui. Ma non fra noi.
— Grazie — disse ancora Olivia. Lui le strinse una mano e le sfiorò una guancia con una carezza. Lei mosse il viso contro le sue dita come una gattinà e aprì la portiera dell’auto. — Ci vediamo in classe.
Non si erano neppure baciati.
— Cosa mi è accaduto da quei giorni? Tre mogli (la terza solo perché assomigliava a Olivia) e questo estraniarmi, questo ritirarmi in me stesso. Ho perduto molte, troppe illusioni.
Ci sono opzioni.
— Non capisco.
Cosa desideri rivivere?
— Se questo significa tornare al passato non vedo come sia possibile.
Tutto è possibile qui, nell’Universo Pensato. Simulazioni. Ricostruzioni dalla tua memoria.
— Potrei vivere un’altra vita?
Quando ci sarà tempo.
— Con la vera Olivia? Lei… dov’era, dov’è lei?
Questo non è noto.
— Allora lasciamo perdere. I sogni non m’interessano.
Ci sono altri ricordi in te.
— Sì…
Ma dove s’erano formati? Da dove venivano?
Il 17 novembre dell’anno 1943 Randall Bernard, ventiquattrenne, s’era unito in matrimonio con Tiffany Marnier in una chiesetta di Kansas City. Lei indossava un abito di seta bianca, guarnito di ricami in argento e merletti, fatto dalle mani di sua madre, niente strasciso, e i fiori erano rose rosse come il sangue. Avevano…
Avevano bevuto a un calice di vino, spezzato il pane, e s’erano scambiati la promessa. E il ministro (un teosofista che al termine degli Anni Quaranta si sarebbe convertito alla filosofia Vedanta) li aveva dichiarati uguali agli occhi della Divinità, e ora uniti nell’amore e nel rispetto reciproco.
Il ricordo era ingiallito come una vecchia fotografia e scarso di particolari. Ma era lì, una cosa anteriore alla sua nascita, una cosa che lui poteva vedere. E poté vedere la loro notte nuziale, meravigliato di quel rapido sguardo sull’atto da cui lui era stato creato, e di quanto poco fossero cambiate le cose fra un uomo e una donna, stupito della passione e del piacere di sua madre e dei modi esperti e precisi, scientifici, di suo padre che perfino a letto continuava a essere un medico…
E poi suo padre era andato in guerra, arruolato come ufficiale medico in Europa, e al seguito della Terza Armata di Patton aveva marciato nelle Ardenne e attraversato il Reno presso Coblenza — 65 miglia in tre giorni — e ora suo figlio rivedeva cose e fatti che non poteva materialmente avere visto mai. E vedeva perfino cose che neppure suo padre poteva avere visto.
Un soldato in mutande che barcollava nella penombra d’un corridoio in un bordello di Parigi; non suo padre, né qualcuno che lui conosceva…
Scura come un’ombra, ma precisa nei contorni, una donna che cullava un bambino stagliata nella luce arancione di una finestra dai vetri giallastri…
Un uomo che pescava con i cormorani in riva a un fiume, nel grigiore dell’alba…
Un bambino alla finestra di un granaio, intento a guardare il cortile sottostante dove alcuni uomini stavano macellando un grosso manzo nero dai bianchi occhi spalancati…
Uomini e donne che si toglievano lunghi abiti candidi, gettandosi poi a nuoto in un fiume fangoso orlato da spunzoni di roccia rossa…
Un uomo in piedi su un’altura, con un corno da segnalazione in mano, che spiava un branco di antilopi al pascolo su una pianura erbosa…
Una donna che sgravava in un oscuro luogo sotterraneo, illuminato da torce, sorvegliata da un circolo di facce sporche e ansiose…
Due vecchi che litigavano per il possesso di alcuni idoli scolpiti nell’argilla, in mezzo a un circolo disegnato sulla sabbia…
— Io non ricordo queste cose. Loro non sono me, io non ricordo queste cose. Loro non sono me, io non ho fatto quelle esperienze…
Si strappò via da quel flusso d’informazioni. Alzò entrambe le mani al baluginante cerchio di luci che roteavano su di lui, così calde e attraenti. Da dove venivano? Ne sfiorò alcune, e nel gruppo d’un centinaio di cellule che componevano il suo corpo sentì la risposta.
Non tutti i ricordi provengono dalla vita di un individuo.
— Da dove, allora?
I ricordi sono immagazzinati nei neuroni interattivi, trattenuti in forma di cariche potenziali, poi scaricati in forma chimica nella cellula, poi ridotti a livello molecolare. Infine depositati negli introni di ogni singola cellula.
Le immagini che balenavano in lui erano quasi dolorose nella loro completezza e intensità.
Nei batteri simbiotici e nei virus (prodotti naturalmente in tutti gli organismi animali, e diversi per ogni specie) è impiantata la memoria molecolare trascritta negli introni. Essi abbandonano un individuo e passano in un altro individuo, lo infettano, trasferiscono la memoria alle sue cellule somatiche. Quasi ogni memoria resta depositata in forma chimica, e poche tornano alla memoria-attiva.
— Attraverso le generazioni?
Attraverso i millenni.
— Gli introni non sono sequenze di scarto…
No. Sono depositi di memorie altamente concentrate.
Vergil Ulam dunque non aveva creato dal niente le sue mutazioni nelle cellule. S’era imbattuto in una funzione naturale: il trasferimento della memoria razziale. Aveva operato su un sistema già esistente.
Non m’importa! Basta con le rivelazioni. Basta con le visioni interiori. Ne ho avuto abbastanza. Cosa mi sta succedendo? Cosa sto diventando? A che serve una rivelazione quando ne usufruisce un pazzo?
Si ritrovò di nuovo nello sferoide di luci dell’Universo Pensato. Girò lo sguardo su quelle immagini, su quelle sorgenti simboliche di dati d’ogni genere, poi sui circoli che roteavano su di lui. Adesso balenavano d’un verde intenso.
Tu sei SCONFORTATO. Toccali.
Sollevò le mani e li sfiorò ancora.
Con un sussulto fu strappato via attraverso l’interfaccia e tornò a reintegrarsi nel Bernard del mondo macroscopico, su per il tunnel della dissociazione e di colpo fuori, nella calda penombra del laboratorio. Era notte… o almeno, il suo periodo di sonno.
Si distese all’indietro sul lettuccio, quasi incapace di muoversi.
Non possiamo mantenere più a lungo la tua forma corporea.
— Cosa?
Presto sarai riportato di nuovo nel nostro livello, entro due giorni. Per allora tutto il tuo lavoro nel mondo macroscopico dovrà essere terminato.
— No…
Non abbiamo scelta. Ci siamo trattenuti fin troppo. Dobbiamo completare la trasformazione.
— No! Io non sono pronto! Questo è troppo! — Accorgendosi che stava gridando si portò i pugni alla bocca.
Sedette sul bordo del letto. Il suo volto, grottescamente striato da creste bianche, grondava di sudore.
— Stai per andartene di nuovo? Mi lasciate sola? — Suzy afferrò Kenneth per un polso. Davanti all’ascensore lui si fermò. La porta si aprì.
— È duro il fatto d’essere di nuovo umani, lo sai? — le disse. — È la solitudine. Perciò dobbiamo tornare indietro, sì.
— Solitudine? E non pensi a ciò che proverò io? Tornerete a essere morti!
— Non morti, Fiorellino. Lo sai.
— Sarà esattamente lo stesso per me.
— Potresti unirti a noi.
Suzy fu scossa da un tremito. — Kenny, ho paura.
— Guarda, loro ti hanno lasciata proprio come hai chiesto, e ti lasceranno stare. Ma in quanto a ciò che potrai fare qui, non lo so. La città non è più fatta per la gente. Verrai nutrita e potrai vivere comodamente, ma… Suzy, tutto sta cambiando. La città subirà un altro grosso mutamento. Tu ci sarai proprio in mezzo… ma loro non ti faranno alcun male. Ti gireranno attorno, come tu fossi un parco nazionale.
— Venite con me, Kenny. Tu, Howard e la Mamma. Torneremo a casa…
— Brooklyn non esiste più.
— Gesù! Sei come un fantasma o… non so ancora. Non posso neppure parlare razionalmente con te.
Kenneth le indicò l’ascensore. — Fiorellino…
— Smettila di chiamarmi così, maledizione! Io sono tua sorella, disgraziato! E tu te ne vai, mi lasci sola qui a…
— Questa è stata la tua scelta, Suzy — disse Kenneth con calma.
— Volete fare di me una zombie.
— Tu sai che non siamo zombies, Suzy. Hai sentito cosa sono loro e cosa possono fare per te.
— Ma io non sarò più me stessa!
— Smettila di gridare. Tutti noi cambiamo.
— Non a questo modo!
Kenneth la fissò addolorato. — Oggi sei diversa da quando eri una bambinetta. Hai mai avuto paura di crescere, forse?
Lei si accigliò. — Sono ancora una bambinetta. Sono tarda di mente. Questo è quel che dicevano tutti.
— Hai mai avuto paura al pensiero che non saresti rimasta sempre una bambina? Questa è la differenza. Tutti gli altri sono imprigionati nei loro corpi di esseri-bambini. Noi no. Anche tu potresti crescere.
— No — disse Suzy. Volse le spalle all’ascensore. — Torno a parlare con Mamma. — Kenneth la afferrò per un braccio.
— Loro non sono più là — disse. — Costa davvero fatica, sai, essere ricostruiti a questo modo.
Suzy si liberò dalla sua mano, poi corse nell’ascensore e si appoggiò con le spalle alla parete. — Scenderai giù con me? — ansimò.
— No — rispose Kenneth. — Ora torno indietro. Noi ti amiamo sempre, Fiorellino. Veglieremo su di te. Hai più madri e fratelli e amici di quanti non ne abbia mai avuto. Forse ci lascerai tornare con te qualche volta.
— Vuoi dire dentro di me, come loro?
Kenneth annuì. — Noi saremo sempre intorno a te. Ma non ricostruiremo i nostri corpi per te.
— Voglio scendere, adesso — disse lei.
— Scendi, allora — disse Kenneth. La porta dell’ascensore cominciò a chiudersi. — Arrivederci, Suzy. Abbi cura di te.
— Kenny… KENNETH! — Ma l’ascensore era già in moto e il suo grido si spense sui battenti serrati. In piedi al centro della cabina si passò le mani fra i lunghi e scompigliati capelli biondi, e attese.
La porta si riaprì.
Il grande atrio era un reticolato di archi e strutture grigie dall’apparenza solida, sui quali poggiava la mole del grattacielo. Immaginò — ricordando ciò che le avevano mostrato — che il ristorante e il pozzo dell’ascensore fossero tutto quel che restava del grattacielo originale, lasciato intatto solo per lei.
Dove andrò?
Avanzò su un lucido pavimento grigio e rosso, non moquette, non cemento, bensì qualcosa che cedeva impercettibilmente come il sughero. Un lenzuolo bianco e marroncino, l’ultimo pezzo che vedeva attorno di quella sostanza particolare, scivolò sulla porta dell’ascensore e la sigillò con un sibilante fruscio.
Si avviò sotto l’intreccio di arcate, aggirando protuberanze cilindriche rosse e grigie, e lasciando la penobra dell’edificio in via di trasformazione uscì nella luce diurna filtrata dalle nuvole.
La Torre Nord era rimasta sola. L’altra torre era stata smantellata. Tutto ciò che restava del World Trade Center era una larga spirale tubolare, liscia e grigia in certi punti, rugosa e nera in altri, con ricami simili a spine che sporgevano attraverso il rivestimento esterno.
Fra la piazza, ora trasformata in una strana foresta di minuscoli alberi a forma di ventaglio, e la riva del fiume non c’era nulla che superasse l’altezza di cinque metri.
S’incamminò fra i ventagli che ondeggiavano dolcemente sul loro breve tronco rosso e raggiunse il fiume. L’acqua era una solida gelatina grigioverde, senza onde, liscia e lucida come uno strato di vetro. Al di là sorgevano le piramidi e le sfere irregolari di Jersey City, simili a una strana collezione di giocattoli educativi per bambini, e il loro riflesso nel fiume solidificato era nitidissimo, perfetto.
Il vento sospirava piacevolmente. Avrebbe dovuto essere freddo, o almeno fresco e umido, ma l’aria era calda. La ragazza si sentiva dolere il petto per lo sforzo di non piangere. — Mamma — disse in un gemito. — Io voglio soltanto essere ciò che sono. Niente di più. Niente di meno. — Niente di più? Suzy, questa è una bugia, pensò.
Rimase a lungo immobile sulla riva del fiume, poi si volse e cominciò a camminare a caso attraverso l’isola di Manhattan.
A Bernard, il ridicolo ambiente in cui aveva vissuto per tante settimane appariva la più insignificante fra le due realtà.
Non lavorava molto, adesso. Se ne stava disteso sul letto, con la tastiera del terminale sotto un braccio, e aspettava e rifletteva. Sapeva che all’esterno la tensione stava crescendo. Lui ne era il centro.
Paulsen-Fuchs non aveva alcun modo d’impedire che quei due milioni di persone arrivassero fin lì, facendo a pezzi lui e il laboratorio. (Gli abitanti del villaggio con le torce. E lui era sia il dottor Frankenstein sia il mostro. Ignoranti e terrorizzati contadini che facevano la volontà di Dio.)
Nel sangue e nella carne lui portava frammenti di Vergil I. Ulam, di suo padre e di sua madre, di gente che non aveva mai conosciuto, morta forse da migliaia d’anni. E aveva dentro anche milioni di duplicati di se stesso, che fluttuavano immersi nel mondo dei noociti scoprendone le leggi: le leggi di un universo celate in una cellula, quelle vecchie e quelle nuove, e quelle ancora solo potenziali.
E tuttavia… dov’era la polizza d’assicurazione, la garanzia che non lo avrebbero ingannato? Cosa l’aspettava se avevano congiurato mostrandogli dei falsi sogni per renderlo remissivo, drogandolo per facilitare la metamorfosi? E se le loro spiegazioni non fossero state che un modo per indorargli la pillola? Non aveva nessuna prova che i noociti mentissero… ma com’era possibile dire se creature così aliene mentivano, o sapere se capivano il concetto stesso di menzogna?
(Olivia. Due mesi dopo il loro unico appuntamento aveva saputo che lei aveva rotto col fidanzato. L’ultimo giorno di scuola s’erano scambiati un sorriso… e ciascuno se n’era andato per la sua strada. Lui era stato… cosa? Timido? Incapace? Troppo romantico, troppo innamorato quell’unica petrarchesca e deliziosa sera? Lei dov’era… nella biomassa del Nord America?)
E anche se accettava ciò che gli avevano detto, certamente non gli era stato detto tutto. Restavano migliaia di domande, alcune sciocche, molte importanti. Lui restava sempre, dopotutto, un individuo (lo era ancora?) a cui era stata presentata un’esperienza virtualmente ignota.
I gruppi di comando — i ricercatori — nessuno adesso gli dava risposta.
Nel Nord America… cos’era successo a tutta la gente malvagia i cui ricordi venivano preservati dai noociti? Certamente erano stati tolti via da quel mondo in cui avevano compiuto le loro malvagità, meglio che se fossero in prigione… ben più che tolti di mezzo. Ma essere malvagio significava cattivi pensieri, significava essere una cellula cancerogena nella società, una presenza imprevedibile e pericolosa, e lui non stava pensando solo ai maniaci omicidi. Stava pensando ai politicanti troppo avidi o ciechi per sapere quel che stavano facendo, ai colletti-bianchi capaci di rovinare con un gesto migliaia di piccoli risparmiatori, alle madri e ai padri troppo idioti per capire che non si deve picchiare a morte un figlio. Cos’era successo a quella gente e ai milioni di altri malvagi inseriti, rimescolati in quella nuova società?
Erano sempre identici a prima, duplicati in un milione di copie, o i noociti avevano esercitato su di loro una piccola sentenza? Erano stati pacificamente dirottati entro nuove personalità, ricostruiti… o eliminati?
E se i noociti si prendevano la libertà di manovrare l’immissione di questi individui, forse isolandoli, forse immobilizzandoli in qualche modo, forse penetrando i loro processi mentali con l’impatto di una gran massa di pensieri positivi per correggere le loro inclinazioni…
Chi poteva dire se non avrebbero modificato anche altri, gente con problemi minori, gente con tutti i complessi dei piccoli emarginati, con i loro difetti terreni… da cui nessun mortale si salva. I difetti di chi è un essere umano, di chi vive in un universo duro, un universo differente da quello abitato da noociti. Se loro correggevano, decidevano, alteravano, chi poteva stabilire la loro competenza? Chi poteva anche soltanto approvare la loro capacità di manovrare l’essenza stessa della personalità e dell’anima umana?
Cosa se ne facevano i noociti della gente che non aveva potuto sopportare il cambiamento, che era impazzita… o che, come avevano accettato, era morta prima dell’assimilazione lasciando memorie parziali come i frammenti di Vergil nel corpo di Bernard? Tutti nel mazzo?
C’era una politica, un’interazione sociale nella noosfera? Gli umani godevano dello stesso diritto di voto dei noociti? Ovviamente gli esseri umani erano diventati noociti… ma i veri e originali noociti avevano più o meno potere di loro?
Avrebbe potuto esserci un conflitto, una rivoluzione?
O ci sarebbe stata un’immensa pace… la pace della tomba, causata dalla sparizione della volontà di resistere? La libera volontà non doveva essere cosa importante per una rigida gerarchia. La noosfera era un sistema gerarchico senza il dissenso e la critica?
Questo lui non lo credeva.
Ma poteva esserne certo?
Rispettavano e amavano davvero gli esseri umani, come creatori e maestri, o si limitavano a risucchiarli, a rimasticarli, digerendo le informazioni a loro utili e gettando tutto il resto nell’entropia, dimenticato, disorganizzato, morto?
— Bernard — si disse, — quella che senti ora è la paura del Grande Cambiamento? La via del tutto diversa (sublime o infernale) contrapposta al difficile, e spesso infernale, status quo?
Dubitava che Vergil avesse mai riflettuto su quei particolari. Poteva essergli mancato il tempo, e tuttavia anche dandogliene a sufficienza Vergil non era tipo da soffermarsi su pensieri simili. Brillante nel creare, tardo nel considerare le conseguenze.
Non era questa una verità applicabile a qualsiasi creatore?
Chi mutava il corso degli eventi non conduceva, in ultima analisi, la gente — forse molta gente — alla morte, al dolore, al tormento?
Lo sventurato Prometeo che aveva portato il fuoco ai suoi compagni.
Nobel.
Einstein. Il povero Einstein e la sua lettera a Roosevelt. Parafrasandola: Io ho liberato i demoni dell’inferno, e ora lei deve firmare un patto col Diavolo, o lo farà qualcun altro. Qualcuno ancora più perfido.
La Curie con i suoi esperimenti sul radium; fino a che punto era responsabile per la morte di Slotin, quattro decenni dopo?
Il lavoro di Pasteur — o di Salk, o altri — aveva mai salvato la vita a un uomo o a una donna destinati a divenire malvagi, a scatenare massacri? Indubbiamente sì.
E le loro vittime non avrebbero avuto il diritto di pensare: Pasteur, quel bastardo!
Indubbiamente sì.
E se ognuno si fosse tormentato con quei pensieri, con quegli interrogativi, quanti genitori avrebbero ceduto all’impulso di uccidere i loro figli nella culla?
Il vecchio cliché: la madre di Hitler che abortiva.
C’era di che confondersi.
Bernard si agitò sul letto, fra il sonno e l’incubo, scivolando più spesso oltre il bordo dell’incubo ma a tratti emergendone sull’onda di una specie di estasi.
Niente sarebbe più stato lo stesso.
Bene! Meraviglioso! Infine non era già tutto marcio e inquinato?
No, forse no. Non fino a quel momento.
— Oh, Signore! — disse. — Eccomi costretto a pregare. Sono stanco e incapace di formulare giudizi. Io non credo in Te, non nella forma in cui ti hanno descritto, ma devo pregare perché ho paura, una paura maledetta.
Di cosa avevano causato la nascita?
Bernard riaprì gli occhi sulle sue braccia e sulle mani, umide di sudore e coperte di venature bianche.
È tutto così disgustoso, pensò.
Il cibo apparve alla sommità d’un grigio cilindro spugnoso, alto circa un metro, sul fondo di una rientranza semicircolare fra alte pareti.
Suzy abbassò lo sguardo sul contenuto del vassoio, tastò quello che con ogni evidenza era pollo arrostro e ritrasse lentamente il dito. L’arrosto era caldo, la tazza di caffè fumava, e l’insieme appariva del tutto normale. Non una volta s’era vista servire qualcosa che fosse di suo gusto, e non una volta era stato troppo, o troppo poco.
La stavano tenendo d’occhio da vicino, rintracciandola ovunque per ogni sua necessità. La curavano come un animale in uno zoo, o almeno questa era l’impressione che ne ricavava.
S’inginocchiò e cominciò a mangiare. Quand’ebbe finito sedette sul cilindro, bevve l’ultimo sorso di caffè e si tirò su il colletto. L’aria si andava rinfrescando. Aveva lasciato la giacca più pesante al World Trade Center (o quel che la Torre Nord era diventata) e nelle ultime due settimane non ne aveva sentito alcun bisogno. La temperatura era stata sempre confortevole, anche di notte.
Le cose stavano cambiando e questo la metteva a disagio… o la eccitava. Non sapeva decidere fra le due sensazioni.
A dire la verità, in tutto quel tempo Suzy McKenzie s’era annoiata molto. Non aveva mai avuto troppa immaginazione, e le distese della ricostruita Manhattan per cui aveva passeggiato non l’avevano fatta spasimare per l’interesse. L’enorme canale-tubatura che dal fiume pompava liquido verde nell’interno dell’isola, i ventagli dalle movenze lente e gli alberi-elica, le file di piastre argentee simili a specchi stradali che ricoprivano centinaia di acri di superficie irregolare: non una di queste cose aveva attratto la sua attenzione per più di pochi minuti. Loro non tenevano alcun contatto con lei. Non riusciva neppure a cominciare a capire quali fossero i loro scopi.
Sapeva che ciò che la circondava avrebbe dovuto essere affascinante, però non era umano: di conseguenza non le importava molto.
A lei interessava la gente, quel che pensava e faceva, chi era, cosa provava per lei e quali sentimenti destava in lei.
— Ti odio — disse al cilindro, rimettendo il vassoio e la tazza sulla sua superficie. Il cilindro ingoiò gli oggetti e si appiattì sparendo alla vista. — Odio tutti voi! — gridò alle pareti della rientranza. Si strinse le braccia al petto per riscaldarsi, poi raccolse la torcia e la radio. Presto si sarebbe fatto buio, lei avrebbe cercato un posto per dormire e forse avrebbe ascoltato la radio per qualche minuto. Le batterie si stavano scaricando, benché le avesse usate con economia. Uscì dalla rientranza e girò gli occhi sul boschetto degli alberi-ventaglio che crescevano sulle gradinate di un monticello marrone e rossastro.
Sulla cima di esso campeggiava un poliedro nero a molte sfaccettature, da ognuna delle quali sporgeva un ago argenteo lungo un braccio. Ce n’erano molti identici per tutta l’isola. Ormai non li notava neppure. Per girare intorno a quel monticello impiegò una decina di minuti. Si addentrò in una valletta vuota lunga quanto un campo di calcio, delimitata da tubature grosse quanto la sua vita e dalle curve dolci. I tubi sparivano in un’infossatura all’estremità nord. La ragazza aveva già dormito più volte in quelle piccole fosse, e quando ne ebbe raggiunta una vi s’inginocchiò accanto. Poggiò le mani sul fondo: era abbastanza caldo. Avrebbe potuto trascorrere la notte lì, sotto i tubi, e stare comoda a sufficienza.
A ovest il cielo era soffuso d’un brillante colore porpora. Di solito il tramonto spandeva veli arancone e rossi nell’aria; l’orizzonte non era mai stato così elettrico.
Accese la radio e si distese con un orecchio appoggiato all’altoparlante. Aveva sempre tenuto basso il volume con l’idea di risparmiare le batterie, benché sospettasse che l’espediente non servisse a nulla. La stazione inglese sulle onde corte, come al solito chiara, si fece udire subito. Regolò la sintonia e scivolò più all’interno sotto i tubi.
— … manifestanti che nella Germania Occidentale hanno circondato gli impianti della Pharmek dov’è ospitato Michael Bernard, sospetto portatore del morbo venuto dagli Stati Uniti. Mentre l’epidemia non si è ancora sparsa da nessuna parte, eccetto il Nord America, la tensione continua a crescere. Da oltre le frontiere chiuse della Russia… — Il segnale svanì e lei tornò a sintonizzare.
— … carestia in Romania e in Ungheria, già da tre settimane, e purtroppo si prevede che nulla possa ormai…
— … la signora Thelma Rittenbaum, nota psicologa di Battersea, afferma di sognare ogni notte che Cristo è risorto nel Nord America, dove risveglierà i morti per formare un esercito che marcerà sul resto del mondo. — Qui fu mandata in onda una voce femminile, registrata male, che in tono esagitato pronunciò qualche frase inintellegibile.
Il resto delle notizie riguardava l’Europa e l’Inghilterra. Ed era la parte che Suzy preferiva, poiché ogni tanto riusciva a darle l’impressione che il mondo fosse ancora normale, o almeno sulla via del ritorno alla normalità. Per la sua patria non c’era niente da fare: già da settimane aveva rinunciato a ogni speranza. Ma l’altra gente, al di là dell’oceano, riusciva a vivere la sua vita. Pensare a questo la risollevava.
Non che qualcuno, da qualche parte, sapesse della sua esistenza o gli importasse di lei.
Spense la radio e si rannicchiò al calduccio, ascoltando il fruscio del liquido che scorreva nelle tubature e i profondi, bassi gemiti metallici che provenivano da qualche luogo lontano da lei.
S’addormentò prima che il buio s’infittisse, mentre le strisce di cielo sopra le tubature si riempivano di stelle. E quando, nel bel mezzo di un sogno in cui stava acquistando vestiti in un negozio, le accadde di svegliarsi…
Qualcosa era drappeggiato su di lei. Lo tastò, insonnolita: stoffa soffice e calda come lana. Annaspò in cerca della torcia e la accese, girando il raggio di luce sul tessuto che aveva addosso. Si trattava di una morbida coperta, azzurra con sottili strisce verdoline: i suoi colori preferiti. Le braccia, senza quella protezione, le si erano intirizzite. Troppo stordita dal sonno per stare a porsi domande si tirò la coperta fino al mento e scivolò di nuovo nel mare dei sogni. Stavolta era una ragazzina e giocava in strada con gli amici d’infanzia, bambine e bambini ormai cresciuti, alcuni dei quali erano poi andati ad abitare altrove.
D’un tratto, l’uno dopo l’altro, gli edifici del quartiere vennero abbattuti. I bambini guardarono smarriti gli uomini con i bulldozer che facevano a pezzi le case dai mattoni rossi. Lei si volse a osservare la reazione dei suoi amichetti e vide che erano diventati adulti, vecchi, e indietreggiavano lanciandole richiami, invitandola a seguirli. Lei cominciava a piangere. Le sue scarpe erano incollate all’asfalto e non riusciva a fare un solo passo. Poi tutte le case vennero rase al suolo, il quartiere fu un ammasso di macerie dalle quali si levavano spunzoni e travature, fra cui la tazza di un cesso che penzolava da una tubatura all’altezza di quello che era stato un primo piano.
— Le cose stanno di nuovo cambiando, Suzy. — Le sue scarpe furono libere e lei si volse. Davanti a lei c’era Cary, imbarazzante nella sua nudità.
— Gesù! Non hai freddo? — chiese lei. — No… non lo sentiresti. Sei soltanto un fantasma.
— Be’, suppongo di sì — sorrise Cary. — Comunque volevamo avvertirti. Capisci? Tutto sta per cambiare ancora, e desideriamo farti sapere che puoi sempre scegliere.
— Non sto sognando, adesso, vero?
— No. — Lui scosse il capo. — Noi siamo nella coperta. Potrai parlarci quando vorrai, giorno e notte, se ne hai voglia.
— La coperta… tutti voi? Mamma, Kenny e Howard?
— E anche moltissimi altri. Tuo padre, se ti va di parlare con lui. È un regalo — le spiegò. — Una specie di regalo d’addio. Noi qui siamo tutti volontari, ma ci sono innumerevoli duplicati di me e degli altri, dei quali abbiamo molto bisogno.
— Dici cose prive di senso, Cary.
— Capirai. Tu sei una ragazza forte, Suzy.
Lo sfondo del sogno cominciò a farsi nebuloso. Stavano entrambi in piedi in una penombra arancione, col cielo che in distanza splendeva di giallo come se ci fossero fuochi all’orizzonte. Cary volse lo sguardo sui dintorni e annuì. — È tutto artistico. Ci sono moltissimi artisti e scienziati, tanto che mi sento sperduto fra essi. Ma potrei diventare uno di loro se volessi. Ci hanno dato tempo. Noi veniamo onorati, Suzy. Loro sanno che li abbiamo creati, e ci trattano veramente bene. Sai, laggiù… — Accennò verso il buio dietro di lui, — potremmo vivere insieme. C’è un posto dove tutti loro pensano. È come la vita reale, il mondo reale. Può essere com’era una volta, o com’è adesso. Può essere come tu vuoi.
— Io non mi unirò a voi, Cary.
— No. Non credo che tu voglia. Io non avevo proprio nessuna scelta quando mi unii a loro, ma non mi lamento. Così come sono adesso non mi piacerebbe più stare a Brooklyn Heights.
— Anche tu sei uno zombie.
— Sono un fantasma. — Le sorrise. — Comunque una parte di me starà con te, se vorrai parlarmi. E un’altra parte se ne andrà quando loro faranno il cambiamento.
— Tutto tornerà com’era una volta?
Lui scosse il capo. — Non sarà mai più lo stesso. E… guarda, io queste cose non le capisco bene, ma non manca molto a un altro cambiamento. Niente sarà mai più uguale a prima.
Suzy lo fissò negli occhi. — Sei venuto così nudo per tentarmi?
Cary abbassò lo sguardo su se stesso. — Non ci avevo neanche pensato — disse. — Questo ti dimostra quanto sto diventando indifferente a certe cose. Non vuoi cambiare idea?
Lei scosse il capo con fermezza. — Io sono l’unica che non si è ammalata — disse.
— Be’, non proprio l’unica. Ce ne sono altri venti o venticinque. Ci prendiamo cura di loro meglio che possiamo.
Lei avrebbe preferito essere l’unica. — Molto gentili! — esclamò, sarcastica.
— Comunque tienti la coperta. Quando ci sarà il cambiamento avvolgitela attorno, è stoffa vera. Lasceremo qui un sacco di roba da mangiare.
— Bene.
— Suppongo che tu stia per svegliarti, adesso. Tolgo il disturbo. Potrai anche vederci quando sarai sveglia. Per un po’.
Suzy annuì.
— Non gettarla via — la avvertì lui. — Altrimenti rischieresti di restare ferita.
— Non la getterò.
— Bene. — Lui allungò una mano e le sfiorò col palmo le braccia incrociate.
Lei aprì gli occhi. L’alba spandeva pallide foschie arancione oltre le tubature. La superficie della fossetta era fredda, come quella dei tubi.
Suzy si strinse addosso la coperta e attese.
In piedi nella camera d’osservazione, con le mani poggiate sul tavolo, Paulsen-Fuchs teneva gli occhi bassi. Non sopportava più di guardare ciò che giaceva sul lettino del laboratorio sterile.
Bernard aveva perduto le sue sembianze umane quel mattino presto. La telecamera aveva registrato la trasformazione. Adesso al suo posto c’era un’informe massa di sostanza marrone, parti della quale ricadevano ai lati fin sul pavimento. La massa era percorsa da continui movimenti, talvolta da brevi e violenti fremiti.
Prima di perdere l’ultima possibilità di muoversi Bernard aveva preso la tastiera del terminale, poggiandola sul lettuccio. Il cavo sporgeva ora su un fianco della massa, e la tastiera doveva essere da qualche parte sotto o dentro di essa.
E Bernard, benché non potesse parlare, stava ancora facendone uso per comunicare. Sul monitor del laboratorio scorreva un rapido flusso di parole, le registrazioni dell’uomo inerenti alla sua trasformazione.
Molto di ciò che la tastiera trasmetteva allo schermo era virtualmente inintellegibile. Forse Bernard era ormai lui stesso qualcosa di simile a un noocita.
Quella trasformazione, comunque, non rendeva per nulla più facile la decisione di Paulsen-Fuchs. I manifestanti — e il Governo, che non aveva osato opporsi a loro d’autorità — avevano preteso che Bernard fosse ucciso e il laboratorio accuratamente sterilizzato.
Erano ormai oltre due milioni là fuori, e se la loro richiesta non fosse stata accolta avrebbero potuto distruggere la Pharmek fino all’ultimo mattone. L’esercito aveva dichiarato che non intendeva proteggere le istallazioni; la polizia s’era lavata le mani da ogni responsabilità adducendo diverse scuse. Non c’era niente che Paulsen-Fuchs potesse fare per fermarli; nello stabilimento erano rimasti soltanto cinquanta impiegati, poiché tutti gli altri erano stati evacuati per la loro sicurezza.
Non di rado lui stesso aveva considerato l’idea di andarsene, semplicemente, trasferendosi nella sua villa in Spagna per isolarsi da tutto. Per dimenticare quel che era successo, per non pensare più a ciò che il suo amico Michael Bernard aveva portato con sé in Germania.
Ma Heinz Paulsen-Fuchs era sulla breccia da troppo tempo per volersi ritirare a quel modo. Quand’era un ragazzotto aveva visto i russi entrare a Berlino. S’era spogliato delle vestigia del suo poco entusiastico passato nazista, cercando di restare il più possibile nell’anonimato, ma non aveva permesso alla vita di schiacciarlo. E durante gli anni dell’occupazione aveva lavorato in tre posti diversi. Era rimasto a Berlino fino al 1955, quando con altri due colleghi aveva messo in piedi la Pharmek. La compagnia aveva quasi subito fatto bancarotta, nel panico seguito al Talidomide; ma lui non aveva gettato la spugna.
No, lui non avrebbe voltato le spalle a quell’ultima responsabilità. Toccava a lui dunque premere l’interruttore che avrebbe fatto saturare il laboratorio di gas sterilizzanti. E avrebbe istruito di persona gli uomini che sarebbero entrati a terminare l’opera di distruzione. Quella era una sconfitta ma almeno lui l’avrebbe affrontata sul posto, non rintanato in Spagna.
Non aveva idea di quel che avrebbero fatto i manifestanti una volta morto Bernard. Lentamente usci dalla camera d’osservazione, passò nel laboratorio e sedette davanti a un monitor su cui scorreva ancora il messaggio in registrazione.
Istruì il computer per rimandarglielo dall’inizio. Poteva leggere abbastanza in fretta da seguirlo, ma voleva rivedere ciò che l’amico aveva già scritto per capire meglio il senso dell’insieme.
Finale del diario elettronico di Bernard. Inizio ore 08.35.
Gogarty: Se ne andranno entro poche settimane.
Sì, comunicano fra loro. Parenti minori. Frammenti dell’epidemia di cui non sappiamo nulla - Europa, Asia, Australia - gente senza sintomi. Occhi e orecchi, radunandosi, imparando, mietendo l’irrilevante raccolto delle nostre vite e della nostra storia. Meravigliose spie.
Paul: memoria razziale. Stessi meccanismi biologici. Ci sono molte vite in ognuno di noi: nel sangue, nei tessuti.
Confini dello spazio-tempo locale. Sono in troppi. Gogarty: devono attraversare… non possono farci niente. Devono avvantaggiarsi. Noi (tu) naturalmente non possiamo, e forse non vogliamo, farci niente.
La grande impresa sono loro.
Loro amano. Loro collaborano. Sono disciplinati ma liberi; conoscono la morte ma sono immortali.
Ora mi conoscono, in lungo e in largo. Tutti i miei pensieri e i miei impulsi. Io sono un soggetto della loro arte, della loro meravigliosa fantascienza vivente. Mi hanno duplicato un milione di volte. Chi dei tanti me scrive questo? Non lo so. L’originale non esiste più.
Posso viaggiare in un milione di direzioni, vivere un milione di vite (e non solo nella Musica del Sangue, ma in un universo di Pensiero Immaginazione e Fantasia!) e poi riunire i miei doppioni, tenere conferenze con loro e ripartire ancora. Narcisismo oltre ogni orgoglio, comunanza molto superiore al semplice vivere insieme. (E lei: loro l’hanno trovata!)
Ognuno di loro può avere mille, diecimila, un milione di controparti a seconda della loro qualifica e funzione. Nessuno ha bisogno di morire, ma col tempo tutto o quasi tutto cambierà. E a un certo momento la maggior parte di questi me non avrà più somiglianza col presente me, perché siamo soggetti a cambiare. Le nostre menti lavorano sulle infinite varietà della vita.
Paul, vorrei che tu potessi unirti a noi.
(Interruzione nel testo. Dalle 08.47 alle 10.23)
Non più usando i pulsanti. Dentro la tastiera, dentro l’elettronica.
So che tu devi distruggere.
Aspetta. Aspetta fino 11,30. Dai questo tempo a vecchio amico.
Io non piace vecchio me stesso, Paul. Rinuncio a lui, a maggior parte di lui. Rivissute e riplasmate intere sezioni di miei 52 anni. Uno può diventare santo qui, o esplorare moltitudini di peccati. Quale santo può non conoscere il peccato?
(Interruzione nel testo. Dalle 10,35 alle 11,05)
Gogarty.
CGATCATTAG… (UCAGCUGCGAUCGAA)… Nome adesso.
Gogarty. Stupefacente Gogarty! Fin troppo acuto, fin troppo capace di teorizzare, fin troppo vivo. Loro sanno il Nord America. Giù nell’infinitamente piccolo hanno spiato in N.A. Dicendocelo, preparandoci. Andiamo tutti insieme. Paura mortale meravigliosamente spaventato la più bella paura, Paul, non sentita nelle budella ma stupita nei pensieri, mai niente di simile. Paura della libertà oltre le costrizioni adesso, e mi sembra già meravigliosamente libero. A tanta libertà noi dobbiamo cambiare per adattarci. Irriconoscibili.
Paul 11,30 tempo basta così.
11,30 11,30 11,30
Un tale flusso di sensazioni per il vecchio, bacio d’affetto all’uomo uovo, alla madre, studente alla scuola…
Divagazioni. Qualcun altro ha preso lo scrivere.
Incontrando i me stesso. Gruppi di comando coordinano. Festeggiamenti. Così tanti, così ricchi d’emozioni! Tre di me occupati a scrivere, già molto diversi. Amici di ritorno dalle vacanze. Ubriaco di esperienze libertà conoscenza…
Olivia, che aspetta…
E Paul questo è lago incantato noociti, non sobborghi come in N.A.
Riassumo. Sta arrivando. Gli anni nuovi!
NOVA
(Termine del testo. Ore 11,26 e 39 sec.)
Heinz Paulsen-Fuchs lesse le ultime parole sul VDT e inarcò le sopracciglia. Con le mani sui braccioli della poltroncina si volse a controllare l’orologio del laboratorio.
Le 11,26 e 46 secondi.
Gettò un’occhiata alla dottoressa Schatz e si alzò. — Apra la porta — le disse. Lei allungò una mano all’interruttore e fece aprire la porta che dava nella camera d’osservazione.
— No — disse l’uomo. — Quella del laboratorio.
Lei esitò.
Le 11,26 e 52 secondi.
Paulsen-Fuchs corse alla consolle, la fece spostare senza cerimonie e premette in rapida successione tre interruttori. Sull’ultimo il dito gli scivolò e ripeté la sequenza.
Le 11,27 e 56 secondi.
I tre portelli di sicurezza cominciarono a scivolare pesantemente di lato.
— Herr Paulsen-Fuchs…
Lui s’infilò nell’apertura appena fu larga un piede, oltrepassò il freddo interstizio dove c’era stato il vuoto e quello ad alta pressione, da cui sfuggiva l’aria, entrando nel laboratorio isolato.
Le 11,29 e 32 secondi.
Il piccolo locale era pieno di fuoco. Per un attimo Paulsen-Fuchs pensò che la Dr. Schatz avesse azionato qualche misterioso sterilizzatore d’emergenza scatenando la morte nel laboratorio.
Ma la donna non aveva fatto niente.
Le 11,29 e 56 secondi.
Le fiamme dileguarono e scomparvero, lasciando un odore d’ozono e un’immagine di forma lenticolare che balenò nell’aria un istante.
Il lettuccio era vuoto.
Le 11,30.
Suzy avvertì un senso di nausea e depose il piatto. — È adesso? — chiese all’aria che aveva attorno. Si strinse più forte nella coperta. — Kenny, Howard, è adesso? Cary?
Si trovava al centro di una liscia arena circolare, di fronte al cilindro grigio che le forniva il cibo. Il sole si stava muovendo in circoli irregolari e l’atmosfera sembrava pervasa da tremiti. La notte prima Cary le aveva parlato di quel che sarebbe accaduto, dicendole quel tanto che lei poteva comprendere. — Cary? Mamma?
La coperta s’irrigidì.
— Non andatevene! — gridò. L’aria si fece ancora più calda e il cielo parve screpolarsi come vernice vecchia. Le nuvole s’allungarono in filamenti untuosi e si levò il vento, soffiando fra il monticello coperto di pilastri su un lato dell’arena e il poliedro spinoso sull’altro. Le lunghe spine del poliedro lampeggiarono di luce azzurra e fremettero. Poi il poliedro stesso si sezionò in cunei triangolari; fra essi sgorgò un liquido bagliore rosso come lava fusa.
— È questo, non è vero? — chiese lei, piangendo. Nei suoi sogni dell’ultima settimana aveva visto tanto, e tanto era stato il tempo che aveva trascorso con loro, che s’era infine confusa al punto da non capire cosa fosse reale e cosa irreale. — Rispondetemi!
La coperta prese vita attorno a lei e le risalì sulla testa sagomandosi a cappuccio. Il copricapo le si affrancò sotto il mento, le ricoprì la faccia con una compatta visiera trasparente. Poi crebbe sulle sue dita e formò guanti, le scese lungo le gambe fino ai piedi e la avvolse in una tuta aderente ma larga abbastanza da consentirle ampia libertà di movimenti.
L’aria odorava dolcemente di frutta, fiori e misteriose vernici. Poi profumò di pane appena sfornato. Il cappuccio le aderì con forza alle guance e spaurita lei cercò di strapparlo via con le dita. Cadde e rotolò al suolo, agitandosi e scalciando contro quell’indumento finché una voce negli orecchi non le ordinò di fermarsi. Al’ora giacque supina in mezzo all’arena, fissando il cielo attraverso la visiera trasparente e un velo di lacrime.
Stai tranquilla. Non muoverti. Era la voce di sua madre, gentile ma ferma. Tu sei sempre stata una bambina molto testarda, disse la voce, e hai rifiutato tutto quello che ti abbiamo offerto. Be’, io avrei fatto lo stesso. Ora te lo chiederò un’altra volta, e decidi in fretta. Desideri venire con noi?
— Morirò se non vengo? — ansimò debolmente lei.
No. Ma resterai sola. Nessuno di noi sarà più qui.
— Vi stanno portando via?
Cary te ne ha parlato. Lo ascoltavi, Fiorellino? Questo era Kenneth. Lei si sforzò di strapparsi il cappuccio dalla testa.
— Non lasciatemi sola.
Allora vieni con noi.
— No! Non posso!
Il tempo stringe, Fiorellino. È la tua ultima possibilità.
Il cielo era di un caldo giallo arancio, elettrico, e le nuvole si stavano torcendo in trecce sfilacciate. — Mamma, sarà pericoloso? Avrò paura?
Non sarà pericoloso. Vieni con noi, Suzy.
Aveva la bocca paralizzata, ma qualcosa nella sua mente spezzò la morsa del panico che la bloccava. — No! — pensò.
Le voci tacquero. Per un po’ di tempo tutto ciò che i suoi occhi videro fu un folle intrecciarsi di linee rosse e verdi, poi la testa cominciò a dolerle e le parve d’essere sul punto di vomitare.
In alto l’atmosfera scintillava. Sotto di lei il suolo dell’arena si scosse, la superficie impazzì irretendosi di spaccature.
E in un istante di vertigine lei fu in due posti allo stesso tempo. Era con loro… loro l’avevano portata via, e anche in quel momento parlava con sua madre e con i suoi fratelli, con Cary e con le sue amiche…
Ed era nell’arena in disfacimento, circondata dalle rovine spezzate del monticello cosparso di pilastri e del poliedro spinoso. Le strutture crollavano in briciole, come castelli di sabbia ormai secchi che si sgretolassero al sole.
Poi quella sensazione cessò. La nausea allo stomaco scomparve. Il cielo era azzurro, benché qua e là certi suoi frammenti ferissero ancora lo sguardo.
L’indumento protettivo cadde a pezzi dalle sue membra e divenne polvere, indistinguibile dalla polvere dell’arena.
La ragazza si alzò in piedi e se la spazzolò via di dosso.
L’isola di Manhattan era piatta e livellata come la superficie di una patata fritta. A sud si stava radunando una nuvolaglia grigia e pesante. Lei si guardò attorno. Dove c’era stato il cilindro del cibo ora giacevano al suolo dozzine di cartoni, disordinatamente riempiti di scatolette. Sopra il cartone più vicino era deposto un apriscatole.
— Hanno pensato a tutto — mormorò Suzy McKenzie. Pochi minuti dopo cominciò a cadere una fitta pioggia.