Per quanto ci fosse poco tempo, bisognava radunare l’intera comunità per decidere il da farsi, per non mollare. La fretta tornava a loro favore perché forse, senza una pressione, i pavidi e i meno convinti si sarebbero staccati: davanti alla minaccia di un attacco imminente, invece, tutti erano ansiosi di trovare e mantenere un centro, la forza del gruppo.
Un centro c’era: e quel centro era lui, con Andre, Southwind, Martin, Italia, Santha e tutti gli altri, i giovani, i decisi. Vera non era presente eppure c’era, in tutte le loro decisioni, con la sua gentilezza e la sua incrollabile fermezza. Elia non c’era: lui e Jewel e molti altri, quasi tutti anziani, stavano in disparte: dovevano stare in disparte perché il loro volere non era quello della comunità. Elia non era mai stato del tutto favorevole al piano di emigrazione; e adesso sosteneva che si erano spinti troppo oltre e che la ragazza doveva essere rimandata subito dal padre, con una delegazione che si sarebbe «seduta intorno a un tavolo a parlare col Consiglio: se parleremo tra noi, non ci sarà motivo per questa sfiducia, per queste sfide…».
— Gli uomini armati non si siedono intorno a un tavolo a parlare, Elia — disse stancamente il vecchio Lione.
Non era a Elia che si rivolgevano i giovani ma a «quelli di Vera». Lev si sentiva sostenuto dalla forza dei suoi amici e dell’intera comunità. Gli sembrava di non essere un solo Lev ma mille: se stesso, sì, ma se stesso immensamente accresciuto, potenziato, un’individualità senza confini fusa con tutte le altre individualità, libera come un uomo solo non avrebbe mai potuto essere libero.
Non c’era quasi bisogno di consultarsi, di spiegare alla gente cosa si doveva fare, d’illustrare la massiccia e paziente resistenza che andava opposta alla violenza della città. Lo sapevano già tutti: pensavano per lui, e lui per loro: le sue parole enunciavano la loro volontà.
La giovane Luz, l’estranea, l’esule volontaria: la sua presenza a Shantih accresceva per contrasto quel senso di comunità perfetta e lo colorava di compassione. Sapevano perché era venuta e cercavano di essere gentili con lei. Era sola in mezzo a loro, spaventata e sospettosa, e ogni volta che non capiva si chiudeva nell’orgoglio e nell’arroganza di figlia di un Padrone. Ma capiva, pensò Lev, anche se la sua ragione la confondeva: capiva col cuore, perché era venuta tra loro, fiduciosamente.
Quando glielo disse, quando le disse che in spirito era ed era sempre stata una del Popolo della Pace, lei assunse quell’espressione sdegnosa. — Non so neppure quali siano le vostre idee — replicò. Ma in realtà aveva imparato molto da Vera; e durante quegli strani e inattivi giorni di tensione, nell’attesa di una notizia o di un attacco dalla città, mentre il lavoro normale era sospeso e «quelli di Vera» stavano molto insieme, Lev parlò con lei più spesso che poteva, desideroso di condurla completamente tra loro, nel centro dove c’erano tanta pace e tanta forza e dove nessuno era solo.
— È molto noioso, in verità — le spiegò. — Una specie di elenco di regole, come a scuola. Prima fai questo e poi fai quello. Prima cerchi il negoziato, un arbitrato per il problema, quale che sia, con i mezzi e le istituzioni esistenti. Cerchi di discuterne, come continua a insistere Elia. È stato quando il gruppo di Vera è andato a parlare col Consiglio, capisci? Non è servito a nulla. Allora passi alla seconda fase: non collaborazione. Ti metti lì e non fai niente, in modo da far capire che dicevi sul serio. Ora siamo a questo punto. Poi c’è la terza fase, che stiamo preparando adesso: un ultimatum. Un appello finale, l’offerta di una soluzione costruttiva, e una spiegazione chiara di ciò che verrà fatto se la soluzione non viene concordata subito.
— E cosa farete, se loro non accetteranno?
— Passeremo alla quarta fase. Disubbidienza civile.
— Cos’è?
— Il rifiuto di ubbidire a qualunque ordine o legge emanati dall’autorità contestata. Costituiamo una nostra autorità, parallela e indipendente, e seguiamo per la nostra strada.
— Così?
— Così — disse lui, sorridendo. — Sulla Terra, sai, ha funzionato molte volte. Contro ogni genere di minacce e di arresti, di torture e di attacchi. Puoi leggere la Storia della Mirovskaya…
— Non so leggere i libri — replicò Luz, con quella sua aria sdegnosa. — Una volta ho provato… Se funzionava tanto bene, perché vi hanno esiliati dalla Terra?
— Non eravamo abbastanza numerosi. I governi erano troppo potenti. Ma non ci avrebbero mandati in esilio, vero, se non avessero avuto paura di noi?
— È quello che dice mio padre dei suoi antenati — osservò Luz. Aveva le sopracciglia contratte sugli occhi scuri e pensosi. Lev la scrutò, ammutolito per un momento dal suo silenzio, affascinato dalla sua stranezza. Perché, sebbene lui insistesse nel dirle che era una di loro, Luz non lo era: non era come Southwind, come Vera, come tutte le altre donne che Lev conosceva. Era diversa, estranea. Come l’airone grigio dello Stagno delle Riunioni, in lei c’era un silenzio: un silenzio che lo attirava, lo attirava verso un centro diverso.
Era così intento a guardarla che, sebbene Southwind avesse detto qualcosa, non la udì: e quando Luz riprese a parlare, lui trasalì, e per un momento la stanza della casa di Southwind gli sembrò un luogo estraneo, alieno.
— Vorrei che potessimo dimenticare tutto — disse Luz. — La Terra… Cent’anni fa, un mondo diverso, un altro sole… Che importanza ha, qui, per noi? Ora siamo qui. Perché non possiamo fare le cose a modo nostro? Io non vengo dalla Terra. Tu non vieni dalla Terra. Questo è il nostro mondo… Dovrebbe avere un suo nome. «Victoria» è stupido, è una parola terrestre. Dovremmo dargli un nome tutto suo.
— Quale?
— Un nome che non significa nulla. Ubu, o Baba. Oppure Fango. È tutto fango… Se la Terra si chiama «terra», perché questo mondo non si può chiamare «fango»? — Luz sembrava incollerita, come avveniva spesso: ma quando Lev rise, rise anche lei. Southwind si limitò a sorridere, ma disse con quella sua voce sommessa : — Sì, è giusto. E allora potremmo farne un mondo nostro, invece d’imitare sempre quello che facevano sulla Terra. Se non ci fosse violenza non sarebbe necessario che esistesse la nonviolenza…
— Partire dal fango e costruire un mondo — osservò Lev. — Ma non capisci che è ciò che stiamo facendo?
— Torte di fango — disse Luz.
— No, costruiamo un nuovo mondo.
— Con i frammenti di quello vecchio.
— Se la gente dimentica ciò che è accaduto in passato, deve ricominciare da capo e non arriva mai al futuro. Per questo continuavano a fare le guerre, sulla Terra. Dimenticavano cos’era stata l’ultima. Noi stiamo cominciando. Perché ricordiamo i vecchi errori, e non li commetteremo.
— Qualche volta mi sembra, — aggiunse Andre, che era seduto sul focolare e riparava un sandalo di Southwind (la sua attività secondaria era quella di ciabattino), — se non ti dispiace che lo dica, Luz, mi sembra che in città ricordino tutti i vecchi errori per poterli commettere di nuovo.
— Non so — replicò lei, indifferente. Si alzò e andò alla finestra. Era chiusa, perché la pioggia non era cessata, faceva più freddo e soffiava un vento da est. Il fuocherello, nel camino, dava luce e calore alla stanza. Luz voltava le spalle a quel tepore, guardando attraverso i piccoli vetri annebbiati gli scuri campi e le nubi spinte dal vento.
La mattina dopo il suo arrivo a Shantih, dopo aver parlato con Lev e gli altri, aveva scritto una lettera a suo padre. Una lettera breve, sebbene avesse impiegato l’intera mattina per scriverla. L’aveva mostrata prima a Southwind e poi a Lev. Ora, mentre Lev guardava Luz, mentre guardava quella figura forte ed eretta, nera contro la luce, gli parve di rivedere la lettera, con i neri tratti rigidi. Luz aveva scritto:
Onorato signore!
Ho lasciato la nostra casa. Resterò a Shantih perché non approvo i suoi piani. Io ho deciso di andarmene ed io ho deciso di restare. Nessuno mi tiene prigioniera ,o in ostaggio. Questa gente mi ospita. Se Lei li maltratterà, io non sarò al suo fianco. Ho dovuto compiere questa scelta. Ha commesso un errore con H. Macmilan. La senhora Adelson non c’entra con la mia venuta qui. È stata una mia scelta.
Rispettosamente, sua figlia
Luz Marina Falco Cooper
Non una parola d’affetto, non una richiesta di perdono.
E niente risposta. La lettera era stata portata subito da un corriere, il giovane Welcome: l’aveva infilata sotto la porta di casa Falco e se n’era andato. Appena era ritornato a Shantih, Luz aveva incominciato ad attendere la risposta di suo padre, a temerla ma anche — visibilmente — ad aspettarla. Erano passati due giorni. La risposta non era arrivata; non c’erano stati attacchi, di notte: niente. Tutti avevano discusso i cambiamenti che la defezione di Luz poteva aver causato nei piani di Falco: ma non ne discutevano davanti a lei, a meno che fosse lei stessa a parlarne.
Ora Luz disse: — Non capisco le vostre idee, davvero. Tutte le fasi, tutte le regole, tutto quel parlare.
— Sono le nostre armi — spiegò Lev.
— Ma perché combattere?
— Non c’è altra scelta.
— Sì, c’è. Andarsene.
— Andarsene?
— Sì! Andare a nord, nella valle che avete scoperto. Andarsene. Come ho fatto io — aggiunse Luz, guardandolo imperiosamente perché lui non aveva risposto subito. — Io me ne sono andata.
— E verranno a cercarti — disse lui, gentilmente.
Luz scrollò le spalle. — Non l’hanno fatto. Non se ne curano.
Southwind fece udire un mormorio, di protesta, di simpatia: il mormorio diceva tutto ciò che era necessario dire, ma Lev lo tradusse: — Se ne curano, Luz, e verranno. Tuo padre…
— Se verrà a cercarmi, andrò ancora più lontano.
— Dove?
Luz si voltò di nuovo, senza dir nulla. Tutti avevano pensato la stessa cosa: il territorio disabitato. Fu come se quel territorio selvaggio entrasse nella casetta, come se le pareti cadessero senza lasciare un riparo. Lev c’era stato, Andre c’era stato, per quei mesi d’infinita solitudine senza voci: adesso era nelle loro anime e non potevano mai sottrarsene completamente. Southwind non era stata nei territori selvaggi, ma là giaceva sepolto il suo amore. Anche Luz, che non li aveva mai visti o conosciuti, figlia di coloro che da cent’ànni erigevano le loro mura contro quella solitudine, negandola, li conosceva e li temeva, sapeva che era assurdo parlare di andarsene da sola dalla colonia. Lev l’osservava in silenzio. Provava compassione per lei, come per una bambina sofferente e ostinata che rifiuta ogni conforto, se ne sta in disparte e non piange. Ma non era una bambina. Era una donna quella che lui vedeva: una donna sola, senza aiuto e senza rifugio, una donna nei territori selvaggi; e la pietà si smarrì tra ammirazione e paura. Aveva paura di lei. In Luz c’era una forza che non nasceva dall’amore o dalla fiducia o dalla comunità, non scaturiva da nessuna delle fonti che dovrebbero dare forza, da nessuna fonte che lui riconoscesse. Temeva quella forza, e l’agognava. In quei tre giorni da quando erano insieme aveva pensato a lei costantemente: come se tutta la loro lotta avesse un senso soltanto se lei avesse potuto comprenderla, come se la sua scelta fosse più importante dei loro piani e dei loro ideali… Luz era degna di pietà e di ammirazione, preziosa come lo è ogni anima umana, ma non doveva dominargli la mente. Doveva essere una di loro, agire con lui, sostenerlo, e non riempire e confondere così i suoi pensieri. In seguito ci sarebbe stato il tempo di pensare a lei e di comprenderla, quando il confronto fosse finito, quando avessero vinto e ottenuto la pace. In seguito ci sarebbe stato tutto il tempo del mondo.
— Non possiamo andare a nord, ora — disse con pazienza, un po’ freddamente. — Se un gruppo se ne andasse ora, indebolirebbe l’unità di quelli che devono rimanere. E la città lo inseguirebbe. Dobbiamo affermare la nostra libertà di andare: qui, ora. Poi andremo.
— Perché avete consegnato le carte, perché gli avete mostrato la strada? — ribatté Luz, spazientita. — È stato un gesto stupido. Avreste potuto andarvene, semplicemente.
— Siamo un’unica comunità — disse Lev, — la città e il paese. — Non aggiunse altro.
Andre rovinò un poco l’effetto di quelle parole aggiungendo: — Comunque non potremmo sgattaiolare via furtivamente. Un’enorme massa di gente che emigra lascia tracce molto facili da seguire.
— E anche se vi seguissero fino a nord, fino alle vostre montagne? Voi sarete già arrivati e potreste dire: «Ci dispiace tanto, questa è la nostra, trovatevi un’altra valle, lo spazio non manca!»
— E loro userebbero la forza. Prima è necessario stabilire il principio dell’uguaglianza e della libera scelta. Qui.
— Ma anche qui usano la forza! Vera è prigioniera, e gli altri sono in carcere, e il vecchio ha perso un occhio, e quelli verranno qui a picchiarvi o spararvi… Tutto per stabilire un «principio» mentre invece avreste potuto andarvene, liberi!
— La libertà si conquista col sacrificio — disse Southwind. Lev la guardò, poi guardò Luz: non era sicuro che Luz sapesse della morte di Timmo, durante il viaggio verso il nord. Probabilmente lo sapeva, dato che le ultime notti era rimasta sola con Southwind. Comunque, il tono quieto della voce di Southwind la calmò. — Lo so — disse Luz. — Dovete correre certi rischi. Ma il sacrificio… Io odio l’idea del sacrificio!
Lev sorrise, involontariamente. — E tu cos’hai fatto?
— Non mi sono sacrificata per un’idea! Sono fuggita, non capisci? È quello che dovreste fare anche voi! — Luz parlava in tono di sfida e di autodifesa, non con convinzione; ma le parole di Southwind sorpresero Lev. — Forse hai ragione — disse Southwind. — Finché restiamo e lottiamo, anche se con le nostre armi, combattiamo la loro guerra.
Luz era un’estranea, non sapeva in che modo pensava e sentiva il Popolo della Pace: ma udire Southwind che diceva quelle parole irresponsabili era sconvolgente, un affronto alla loro unità perfetta.
— Fuggire e nasconderci nella foresta: è una scelta? — disse Lev. — Per i conigli sì. Non per gli esseri umani. Avere due mani e stare eretti non ci rende umani. Ma resistere, avere idee e ideali, questo sì! E non abbandonare quegli ideali. Insieme. Non possiamo vivere soli. Se no moriremo soli, come animali.
Southwind annuì tristemente, ma Luz lo guardò accigliandosi. — La morte è la morte: cosa importa che venga in un letto o nella foresta? Noi siamo animali. È per questo che moriamo.
— Ma vivere e morire per… per lo spirito… è diverso, diverso dal fuggire e nascondersi, tutti separati, egoisti, arraffando il cibo, tremando, odiando, soli… — Lev balbettava e si sentiva il volto accaldato. Incontrò lo sguardo di Luz e balbettò ancora e poi tacque. Nello sguardo di lei c’era una lode, una lode quale lui non aveva mai meritato e non aveva mai sognato di meritare, lode e gioia: e Lev si sentì confermato, in quel momento di collera e di discussione, confermato totalmente, nelle sue parole, nella sua vita, nel suo essere.
"Questo è il vero centro", pensò. Le parole passarono rapide e chiare attraverso la sua mente. Non le ripensò più: ma nulla, dopo quelle parole, rimase uguale; nulla avrebbe potuto rimanere uguale. Lui era salito tra le montagne.
La sua mano destra era quasi protesa verso Luz in un gesto di supplica. Lev vide, come lo vide Luz, quel gesto incompiuto. Improvvisamente intimidito, lasciò ricadere la mano, e il gesto non si compì. Lei si mosse bruscamente, voltandosi, e disse con rabbia e disperazione: — Oh, io non capisco, è tutto così strano. Non capirò mai: tu sai tutto e io non ho mai pensato a niente… — Sembrava più piccola, mentre parlava: piccola, furiosa, arrendevole.
— Vorrei soltanto… — S’interruppe.
— Verrà il momento, Luz — disse lui. — Non devi precipitarti. Verrà il momento, verrà: te lo prometto.
Lei non chiese cosa le prometteva. E Lev non avrebbe saputo dirlo.
Quando Lev uscì dalla casa, il vento carico di pioggia gli colpì il volto togliendogli il respiro. Lev ansimò: le lacrime gli riempirono gli occhi, ma non a causa del vento. Pensò al mattino luminoso di tre giorni prima, all’alba argentea e alla sua grande felicità. Quel giorno invece era grigio, e non c’era il cielo, e c’erano poca luce e tanta pioggia e tanto fango. "Fango, il nome di questo mondo è Fango", pensò: e avrebbe voluto ridere, ma aveva ancora gli occhi pieni di lacrime. Lei aveva ribattezzato il mondo. "Quel mattino, sulla strada", pensò, "c’era la felicità, ma questo è…". Non sapeva come chiamarlo: c’era solo il nome di lei, Luz. Era tutto contenuto in quel nome: l’alba argentea e il grande tramonto fiammeggiante sulla città, anni prima, e tutto il passato, e tutto ciò che doveva ancora venire, anche il loro lavoro, le discussioni e i piani, e il confronto, e la sicura vittoria, la vittoria della luce. — Prometto, prometto — mormorò nel vento. — Tutta la mia vita, tutti gli anni della mia vita.
Avrebbe voluto rallentare il passo, fermarsi, prolungare quel momento. Ma il vento stesso che gli soffiava in faccia lo costringeva ad avanzare. C’era tanto da fare, e così poco tempo. In seguito, in seguito! Quella notte poteva arrivare la banda di Macmilan: chi poteva saperlo? Evidentemente, intuendo che Luz aveva rivelato il loro piano, l’avevano cambiato. Non c’era nulla da fare fino a quando i loro piani fossero stati completati, null’altro che attendere e tenersi pronti. Quello era l’importante. Non ci sarebbe stato panico. Indipendentemente dal fatto che fosse la città o il paese a compiere la prima mossa, il Popolo della Pace avrebbe saputo cosa fare, come agire. Lev proseguì quasi di corsa fino a Shantih. Il sapore della pioggia era dolce sulle sue labbra.
Era a casa, nel tardo pomeriggio buio, quando arrivò il messaggio. Lo portò suo padre, dalla Casa delle Riunioni. — Una guardia dalla faccia sfregiata — disse Sasha con la sua voce bassa e ironica, — è venuta e ha chiesto di Shults. Credo che cercasse te, non me.
Era un biglietto scritto sulla carta grossolana che fabbricavano in città. Per un momento Lev pensò che fosse stata Luz a scrivere quelle parole nere e angolose…
Shults: oggi al tramonto sarò al cerchio della fonderia.
Porta tutti quelli che vuoi. Io sarò solo.
Luis Burnier Falco
Una trappola, una trappola evidente. Troppo evidente? C’era appena il tempo di tornare a casa di Southwind e di mostrare il messaggio a Luz.
— Se dice che verrà solo, verrà solo — dichiarò lei.
— L’hai ben sentito mentre faceva i piani con Macmilan per raggirarci — osservò Andre.
Luz distolse lo sguardo, sprezzante. — Qui c’è il suo nome — disse. — Non firmerebbe una menzogna. Sarà solo.
— Perché?
Luz alzò le spalle.
— Ci vado — disse Lev. — Sì! Con te, Andre. E con tutti quelli che riterrai necessari. Ma dovrai radunarli molto in fretta. Resta soltanto un’ora, al tramonto.
— Sai che vogliono prenderti come ostaggio — replicò Andre. — E andrai a metterti nelle loro mani?
Lev annuì energicamente. — Come un cosè — disse, e rise. — Nelle loro mani… e via! Vieni, raduniamo gli altri. Luz… vuoi venire?
Lei era indecisa.
— No — rispose, con un brivido. — Non posso. Ho paura.
— Sei prudente.
— Dovrei venire. Per dirgli che non mi tenete qui con la forza, che ho scelto io. Lui non lo crede.
— Quello che tu hai scelto, e se lui lo crede o no, non ha importanza — dichiarò Andre. — Sei ancora un pretesto: una loro proprietà. È meglio che tu non venga: se verrai, probabilmente useranno la forza per riprenderti.
Lei annuì, ma esitava ancora. Alla fine disse: — Dovrei venire. — Lo disse con un tono così disperato che Lev l’interruppe: — No… — Ma Luz continuò: — Devo farlo. Non posso restare in disparte e lasciare che gli altri parlino per me, si battano per me, mi passino dall’uno all’altro.
— Non ti riconsegneremo — disse Lev. — Tu appartieni a te stessa. Vieni con noi, se vuoi.
Luz annuì.
Il cerchio della fonderia era un antico sito di alberanelli, a sud della strada, equidistante dal paese e dalla città, e molto più vecchio dell’uno e dell’altra. Gli alberi erano caduti da molto tempo, lasciando soltanto lo stagno centrale. Lì era stata costruita la prima fonderia della città. Anche quella era scomparsa, quarant’anni prima, quando era stato trovato del minerale più ricco nelle Colline Sud. Le ciminiere e i macchinari non c’erano più; i vecchi capannoni, dalle assi putride, ricoperti dall’erbaccia e dalle rose velenose, erano abbandonati sulla piatta riva dello stagno.
Andre e Lev avevano radunato un gruppo di venti persone. Andre lo guidò intorno ai vecchi capannoni, per assicurarsi che non ci fossero guardie nascoste. Erano deserti, e per parecchie centinaia di metri intorno non c’erano altri posti dove fosse possibile nascondersi: era una zona piatta, senz’alberi, desolata e tetra nell’imbrunire. Una pioggerella sottile cadeva nel rotondo stagno grigio, indifeso come un occhio aperto e cieco. Sull’altra riva li stava aspettando Falco. Lo videro allontanarsi da un gruppo d’alberi dove si era riparato dalla pioggia, e girare intorno alla riva per venir loro incontro, da solo.
Lev si staccò dal gruppo. Andre lo lasciò procedere ma lo seguì a un paio di metri di distanza con Sasha, Martin, Luz e altri. Il resto del gruppo restò sparso lungo il bordo del grigio stagno, sul pendio che conduceva alla strada.
Falco si fermò di fronte a Lev. Erano sull’orlo dello stagno, dove camminare era più facile. In mezzo a loro stava una minuscola insenatura di acqua fangosa, una baia non più larga della lunghezza di un braccio, con le rive di sabbia fine: un porto per una barchetta-giocattolo. Nell’intensa nitidezza delle sue percezioni, Lev era conscio di quell’angolo d’acqua e di sabbia, com’era conscio della figura eretta di Falco, del bel volto che era il volto di Luz eppure era completamente diverso, della giubba scurita dalla pioggia sulle spalle e sulle maniche.
Falco vide certamente la figlia nel gruppo dietro Lev, ma non la guardò e non le parlò: parlò a Lev, a voce bassa e asciutta, un po’ difficile da udire nel vasto mormorio della pioggia.
— Sono solo, come vedi, e disarmato. Parlo per me stesso, non come consigliere.
Lev annuì. Provò l’impulso di chiamarlo per nome: non senhor Falco ma col suo nome, Luis; non comprese quell’impulso e rimase in silenzio.
— Desidero che mia figlia venga a casa.
Con un gesto, Lev indicò che Luz era dietro di lui. — Può parlarle, senhor Falco — disse.
— Sono venuto per parlare con te. Se tu parli a nome dei ribelli.
— Ribelli? Contro cosa, senhor? Io, o qualunque altro, parliamo a nome di Shantih. Ma Luz Marina può parlare per se.
— Non sono venuto per discutere — disse Falco. I suoi modi erano cortesi e controllati, il volto era rigido. La calma e la rigidità erano quelle di un uomo che soffre. — Ascolta. Ci sarà un attacco contro il paese. Ormai lo sai. Non potrei impedirlo, anche se volessi, sebbene l’abbia procrastinato. Ma voglio che mia figlia non vi sia immischiata. Voglio che sia al sicuro. Se la rimanderai a casa con me, questa sera vi restituirò la senhora Adelson e gli altri ostaggi, sotto scorta. Verrò con loro, se vuoi: e allora lascerai che mia figlia torni con me. È una questione che riguarda noi soli. Quanto al resto, la lotta… l’avete iniziata voi, con la vostra disubbidienza. Non posso fermarla, e ormai non lo puoi neppure tu. Questo è tutto ciò che possiamo fare: scambiarci gli ostaggi e salvarli.
— Senhor, credo alla sua sincerità… ma non le ho portato via Luz Marina e non posso rendergliela.
In quel momento Luz lo raggiunse, avviluppata nello scialle nero. — Padre, — disse con voce chiara e dura, non sommessamente come avevano parlato Lev e Falco, — Lei può fermare i bravacci di Macmilan, se lo vuole.
L’espressione di Falco non cambiò: non poteva cambiare, forse, senza andare a pezzi. Ci fu un lungo silenzio, pieno dei suoni della pioggia. La luce era pesante, viva soltanto ad occidente, bassa e lontana.
— Non posso, Luz — disse lui, con quella voce bassa e dolente. — Herman è… deciso a riprenderti.
— E se tornassi, in modo che lui non avesse un pretesto, gli ordinerebbe di non attaccare Shantih?
Falco non rispose subito. Deglutì a fatica, come se avesse avuto la gola arida. Lev strinse i pugni: vedeva l’orgoglio di quell’uomo che non poteva sopportare le umiliazioni ed era umiliato, la forza che doveva riconoscersi impotente.
— Non posso. Ormai è troppo tardi. — Falco deglutì di nuovo, e ritentò: — Vieni a casa con me, Luz Marina — disse. — Rimanderò subito gli ostaggi. Ti do la mia parola. — Guardò Lev, e il suo volto sbiancato diceva ciò che lui non poteva dire: che gli chiedeva aiuto.
— Li rimandi! — disse Luz. — Non ha diritto di tenerli prigionieri.
— E tu verrai… — Non era una domanda.
Lei scrollò la testa. — Non ha diritto di tenere prigioniera me.
— Non sei prigioniera, Luz, sei mia figlia… — Falco avanzò di un passo, e lei indietreggiò.
— No! — disse. — Non vengo, se lei contratta per me. Non tornerò mai, se attacca e perseguita la gente! — Balbettò, cercando le parole. — Non sposerò mai Herman Macmilan, non voglio neppure vederlo. Lo de… lo detesto! Verrò quando sarò libera di fare ciò che voglio: e finché lui frequenterà casa Falco, io non tornerò!
— Macmilan? — chiese suo padre, in tono angosciato.
— Non devi sposare Macmilan… — S’interruppe, girando lo sguardo da Luz a Lev. — Vieni a casa. — Gli tremava la voce, ma si sforzava di dominarsi. — Impedirò l’attacco, se potrò. Noi… noi parleremo — disse a Lev. — Parleremo.
— Parleremo ora, più tardi, quando vorrà — replicò Lev. — Non abbiamo mai preteso altro, senhor. Ma non deve chiedere a sua figlia di barattare la sua libertà con quella di Vera, o con la sua benevolenza o la nostra salvezza. È ingiusto. Non può farlo: non l’accetteremmo.
Falco tacque di nuovo, ma era un silenzio diverso: la sconfitta o il rifiuto della sconfitta? Il volto, pallido e bagnato di pioggia o di sudore, era inespressivo.
— Allora non vuoi lasciarla andare — disse.
— Io non voglio venire — dichiarò Luz.
Falco annuì, si voltò e si allontanò a passo lento lungo la curva riva dello stagno. Passò accanto agli arbusti, indistinti e informi nel crepuscolo, e salì il pendio verso la strada che conduceva alla città. La sua figura, diritta e scura e piccola, scomparve rapidamente.