L’alberanello di Victoria viveva una doppia vita. Nasceva come un virgulto che cresceva rapidamente, con le foglie rosse seghettate. Quando maturava, si copriva di una quantità di grandi fiori color miele. I cose e altri piccoli esseri volanti, attratti dai petali dolcissimi, li mangiavano, fecondando l’amaro cuore del fiore col polline impigliato nel pelo, nelle squame e nelle ali. Il cuore fecondato si racchiudeva in se stesso, formando un seme dal guscio duro. Su un albero potevano essercene anche centinaia, ma si seccavano e cadevano uno dopo l’altro lasciando alla fine un unico seme sull’alto ramo centrale. Quel seme, duro e dal sapore disgustoso, s’ingrossava sempre più mentre l’albero s’indeboliva e avvizziva e i rami spogli si piegavano mestamente sotto la grande e nera e pesante sfera del seme. Poi, un pomeriggio, quando il sole autunnale brillava tra gli squarci nelle nubi, il seme compiva il suo prodigio: maturato dal tempo e riscaldato dal sole, scoppiava. Esplodeva con un rombo che si udiva a chilometri di distanza. Una nuvola di polvere e di frammenti s’innalzava e aleggiava lentamente sulle colline. Per l’alberanello, in apparenza, era tutto finito.
Ma in cerchio, intorno al tronco centrale, centinaia di minuscoli semi scagliati dall’esplosione affondavano con energia nel suolo ricco e umido. Un anno dopo, i virgulti già si disputavano lo spazio per le radici: e quelli meno robusti morivano. Dieci anni dopo, e per un secolo o due, da venti a sessanta alberi dalle foglie color rame sorgevano in un cerchio perfetto intorno al tronco centrale ormai scomparso. Erano separati, rami e radici, e tuttavia si toccavano: quaranta alberanelli, un cerchio d’alberi. Ogni otto o dieci anni fiorivano e producevano piccoli frutti commestibili, i cui semi venivano secreti da cose, pipistrelli marsupiali, farfalloidi, conigli arboricoli e altri fruttivori. Se cadeva in un terreno adatto, il seme germogliava e produceva l’alberanello; e questo dava il seme unico, e il ciclo si ripeteva, dall’alberanello al cerchio degli alberi, eternamente.
Dove il terreno era più fertile, gli anelli s’intrecciavano; ma nel cerchio centrale non crescevano altre piante grandi: soltanto erbe, muschi e felci. I cerchi più vecchi esaurivano a tal punto il terreno centrale che sprofondava, formando una cavità che si riempiva di pioggia e dell’acqua delle vene sotterranee, e allora il cerchio dei vecchi e altissimi alberi rossoscuri si rispecchiava nell’immota acqua di uno stagno centrale. Il centro di un cerchio d’alberi era sempre tranquillo. I cerchi più vecchi, con uno stagno al centro, erano i più tranquilli e i più strani.
La Casa delle Riunioni di Shantih sorgeva fuori dal paese, in una valletta che conteneva uno di questi cerchi: quarantasei alberi che innalzavano il tronco simile a una colonna e la bronzea chioma intorno a uno stagno rotondo, agitato dalla pioggia o ingrigito dalle nubi o illuminato dal sole che balenava tra le rosse fronde da un cielo rasserenato per breve tempo. Le radici si stendevano nodose sul bordo dell’acqua, formando sedili per i contemplatori solitari. Nel cerchio della Casa delle Riunioni viveva una coppia di aironi. L’airone del pianeta Victoria non era un airone: non era neppure un uccello. Per descrivere il loro mondo nuovo, gli esuli avevano a disposizione soltanto le parole del vecchio mondo. Gli esseri che vivevano in riva agli stagni, una coppia per ciascuno, erano ittiofagi grigiopallidi, dalle zampe a trampolo: perciò erano aironi. La prima generazione sapeva che non erano veri aironi, che non erano né uccelli né rettili né mammiferi. Le generazioni successive non sapevano cosa non erano, ma in un certo senso sapevano cos’erano: erano aironi.
Sembrava che vivessero quanto gli alberi. Nessuno aveva mai visto un piccolo di airone o un uovo. A volte danzavano; ma se alla danza seguiva un accoppiamento, questo avveniva nel segreto della notte. Silenziosi, angolosi, eleganti, facevano il nido tra i mucchi di rosse foglie, tra le radici, e pescavano nell’acqua poco profonda, e fissavano gli esseri umani con i grandi occhi rotondi, incolori come l’acqua. Non avevano paura dell’uomo, ma non si lasciavano avvicinare.
I coloni di Victoria non si erano mai imbattuti in grossi animali terricoli. L’erbivoro più grande era il coniglio, un animale grasso e lento, abbastanza simile a un vero coniglio ma coperto di squame impermeabili; il predatore più grande era la larva, dagli occhi rossi e dai denti di squalo, lunga mezzo metro. In cattività, le larve mordevano e stridevano in preda a una frenesia demenziale finché morivano; i conigli rifiutavano di mangiare, si accucciavano tranquillamente, e morivano. Nel mare c’erano animali grossi: ogni estate le «balene» venivano nella baia di Songe e gli uomini le catturavano per mangiarle; al largo erano state avvistate bestie ancora più grandi delle balene, enormi, come isole guizzanti. Le balene non erano balene, ma nessuno sapeva cosa fossero quei mostri. Non si avvicinavano mai ai pescherecci. Anche le bestie delle pianure e delle foreste non si avvicinavano mai. Non fuggivano. Si tenevano a distanza. Stavano per un po’ a guardare, con occhi limpidi, e poi si allontanavano ignorando gl’intrusi.
Soltanto i farfalloidi dalle ali colorate, e i cose, accettavano di avvicinarsi. Se lo si chiudeva in gabbia, un farfalloide ripiegava le ali e moriva; ma se gli si offriva del miele, si stabiliva sul tetto e vi costruiva una specie di tazza dove si raccoglieva l’acqua piovana: e poiché era semiacquatico, dormiva lì. I cosè, evidentemente, confidavano nella loro straordinaria capacità di cambiare aspetto ogni pochi attimi. A volte mostravano il desiderio di volare intorno a un essere umano, o addirittura gli si posavano addosso. Le loro metamorfosi contenevano un elemento d’illusione ottica, forse d’ipnosi, e a volte Lev si chiedeva se i cosè amavano servirsi degli umani per esercitarsi nei loro trucchi. Ma se si metteva in gabbia un cosè, si mutava in un grumo scuro e informe come una zolla, e moriva dopo tre o quattro ore.
Nessun animale di Victoria si lasciava addomesticare o accettava di vivere con l’uomo. Nessuno l’avvicinava. Lo sfuggivano, guizzando via nelle foreste ombrose e profumate, o nel mare profondo, o nella morte. Non avevano nulla da spartire con l’uomo. L’uomo era un estraneo. Un intruso.
— Io avevo un gatto — aveva raccontato la nonna di Lev, molto tempo prima. — Un grosso gatto grigio col pelo più morbido della seta arborea. Aveva striature nere sulle zampe, e occhi verdi. Mi saltava sulle ginocchia e mi appoggiava il naso sotto l’orecchio, per farsi sentire, e faceva le fusa, così… — La vecchia emetteva un suono profondo, rombante, che il bambino ascoltava estatico.
— Cosa diceva quando aveva fame, nonna? — E Lev tratteneva il respiro.
— Mrrauu! Mrrauu!
La nonna rideva, e rideva anche Lev.
Erano soli. Le voci, i volti, le mani, le braccia affettuose. Gli altri erano gli altri, estranei.
Aldilà della porta, aldilà dei piccoli campi arati, c’era il territorio disabitato, l’interminabile mondo di colline e di fronde rosse e di nebbia, dove non risuonava mai una voce. Parlare, qualunque cosa si dicesse, era come annunciare «sono un estraneo».
— Un giorno — disse il bambino, — andrò a esplorare tutto il mondo.
Era una sua idea nuova, quella, e lui non pensava ad altro. Avrebbe disegnato le carte e tutto quanto. Ma la nonna non ascoltava. Aveva quell’espressione triste. Lui sapeva cosa fare. Si avvicinò, senza far rumore, e le appoggiò la faccia contro il collo, sotto l’orecchio.
— Prrrr…
— È il mio gatto Mino? Ciao, Mino! Oh — disse la nonna — Non è Mino, è Levuchka! Che sorpresa!
Lui le si sedette sulle ginocchia. Le vecchie braccia brune lo cinsero. Ai polsi la nonna portava due bracciali di steatite rossa. Glieli aveva intagliati suo figlio Alexander: Sasha, il padre di Lev. — Manette — aveva detto, quando glieli aveva regalati per il compleanno. — Manette di Victoria, mamma. — E tutti gli adulti avevano riso, ma la nonna aveva quell’espressione triste anche se rideva.
— Nonna, Mino si chiamava proprio Mino?
— Ma certo, scioccherello.
— Perché?
— Perché era il nome che gli avevo dato.
— Ma gli animali non hanno un nome.
— No. Qui no.
— Perché non l’hanno?
— Perché noi non li conosciamo — disse la nonna, guardando i piccoli campi arati.
— Nonna.
— Sì? — disse la morbida voce nel morbido seno contro il quale lui appoggiava l’orecchio.
— Perché non hai portato qui Mino?
— Non potevamo portare niente, sull’astronave. Niente di nostro. Non c’era posto. Del resto, Mino era già morto da molto tempo. Ero bambina quando lui era un micino, ed ero ancora bambina quando lui è diventato vecchio ed è morto. I gatti vivono soltanto pochi anni.
— Ma la gente vive a lungo.
— Oh, sì. Molto a lungo.
Lev le stava sulle ginocchia, tranquillo, fingendo di essere un gatto, col pelo grigio come la seta arborea, ma caldo. — Prrr — fece a bassa voce: e la vecchia, seduta sul gradino, lo tenne stretto e da sopra la sua testa guardò la terra dell’esilio.
E adesso, seduto sull’ampia e dura radice dell’alberanello in riva allo Stagno delle Riunioni, Lev pensò a sua nonna, al gatto, all’argentea acqua del lago Sereno, alle montagne che avrebbe voluto scalare per uscire dalla nebbia e dalla pioggia e giungere tra i ghiacci e gli splendori delle vette; pensò a molte cose, troppe. Stava immobile, ma la sua mente era irrequieta. Era venuto lì in cerca di pace, ma la sua mente turbinava dal passato al futuro e dal futuro al passato. Trovò la quiete solo per un momento. Uno degli aironi si avventurò silenzioso nell’acqua, dall’altra parte dello stagno. Alzò l’affusolata testa e guardò Lev. Lui ricambiò lo sguardo, e per un istante si lasciò prendere in quell’occhio rotondo e trasparente, privo di profondità come il cielo sgombro di nubi; e quel momento era trasparente e silenzioso, un momento al centro di tutti i momenti, l’eterno momento presente dell’animale silenzioso.
L’airone si voltò e piegò la testa, ispezionando la scura acqua in cerca di pesci.
Lev si alzò, cercando di muoversi silenziosamente e agilmente come l’airone; lasciò il cerchio d’alberi, passando tra due enormi tronchi rossi. Fu come varcare una porta ed entrare in un luogo completamente diverso. La valle poco profonda era illuminata dal sole, il cielo era ventoso e vivo; il sole indorava il rosso tetto della Casa delle Riunioni, che sorgeva sul declivio volto a sud. C’erano già molte persone, sui gradini o sotto il portico, e parlavano. Lev affrettò il passo. Avrebbe voluto correre, gridare. Non c’era tempo per il silenzio. Quella era la prima mattina della battaglia, l’inizio della vittoria.
Andre lo chiamò: — Vieni! Tutti aspettano Padrone Lev!
Lui rise, e corse; salì in due balzi i sei gradini. — Bene, bene, bene — disse. — Sam! Che razza di disciplina è questa? — Sam, un uomo bruno e robusto che portava soltanto un paio di calzoni bianchi, stava tranquillamente ritto sulla testa accanto alla ringhiera del portico.
Elia si assunse la direzione della riunione. Non entrarono. Si sedettero sotto il portico a parlare, perché la luce del sole era piacevole. Elia era serio, come sempre; ma l’arrivo di Lev aveva rallegrato gli altri, e la discussione fu vivace ma breve. Il senso della riunione divenne chiaro quasi subito. Elia voleva che un’altra delegazione andasse in città a parlare con i Padroni, ma nessuno era d’accordo: volevano un’assemblea generale degli abitanti di Shantih. Decisero che si svolgesse prima del tramonto, e i più giovani s’impegnarono ad avvertire le comunità e le fattorie più lontane. Mentre Lev stava per andarsene, Sam — che aveva continuato tranquillamente a starsene ritto sulla testa durante la discussione — si rimise in piedi con un movimento elegante e gli disse, sorridendo: — Arjuna, sarà una grande battaglia.
Lev, che pensava a cento altre cose, sorrise a Sam e se ne andò.
La campagna intrapresa dagli abitanti di Shantih era per loro una cosa nuova, e tuttavia familiare. Tutti, nella scuola del paese e nella Casa delle Riunioni, ne avevano imparato i principii e le tattiche: conoscevano le vite degli eroi-filosofi Gandhi e King, e la storia del Popolo della Pace, e le idee che avevano ispirato quelle vite e quella storia. In esilio, il Popolo della Pace aveva continuato a vivere secondo quelle idee: e finora c’era riuscito. Almeno si erano mantenuti indipendenti, addossandosi tutta l’attività agricola della comunità e dividendo gratuitamente con la città i prodotti. In cambio la città forniva loro attrezzi e macchinari delle ferriere governative, pesce pescato dalla flottiglia, e vari altri prodotti che la colonia primogenita poteva realizzare con maggior facilità. Era stata una soluzione soddisfacente per gli uni e per gli altri.
Ma a poco a poco le condizioni dell’accordo erano diventate troppo disuguali. Shantih coltivava le piante di lancotone e gli alberi della seta, e portava la materia prima alle filande della città. Ma le filande erano molto lente: se gli abitanti del paese avevano bisogno di abiti, era meglio che filassero e tessessero direttamente le stoffe. I pesci freschi e disseccati che si aspettavano non arrivavano mai. Pesca magra, spiegava il Consiglio. Gli attrezzi non venivano sostituiti. La città li aveva forniti ai contadini: se questi li rompevano spettava a loro rimpiazzarli, diceva il Consiglio. Era continuato così, abbastanza gradualmente perché non scoppiassero crisi. Gli abitanti di Shantih si adattavano e si arrangiavano. I figli e i nipoti degli esuli, ormai adulti, non avevano mai visto in azione la tecnica del conflitto e della resistenza, che era la forza unificatrice della loro comunità.
Ma l’avevano appresa: lo spirito, le ragioni e le regole. L’avevano appresa e messa in pratica nei piccoli conflitti che insorgevano nell’ambito della loro stessa comunità. Avevano visto i loro anziani pervenire alla soluzione dei problemi e dei dissidi, a volte con un dibattito appassionato e a volte per un consenso quasi tacito. Avevano imparato ad ascoltare il senso dell’assemblea, non la voce più alta. Avevano imparato che dovevano giudicare ogni volta se l’ubbidienza era necessaria e giusta o inopportuna e sbagliata. Avevano imparato che l’atto di violenza è un atto di debolezza, e che la forza dello spirito consiste nel sostenere con fermezza la verità.
O almeno credevano in tutto ciò, e credevano di averlo imparato aldilà di ogni ombra di dubbio. Nessuno di loro, nonostante le provocazioni, avrebbe fatto ricorso alla violenza. Erano sicuri, ed erano forti.
— Questa volta non sarà facile — aveva detto loro Vera prima di partire insieme agli altri per la città. — Lo sapete: non sarà facile.
Loro avevano annuito sorridendo, e l’avevano applaudita. Certo, non sarebbe stato facile. Le vittorie troppo facili non contano.
Passando da una fattoria all’altra, a sudovest di Shantih, Lev invitava la gente a recarsi alla grande assemblea, e rispondeva alle domande su Vera e gli altri ostaggi. Alcuni avevano paura di ciò che avrebbero potuto fare gli uomini della città, e Lev disse: — Sì, possono fare di peggio che prendere qualche ostaggio. Non possiamo aspettarci che siano d’accordo con noi, quando noi non siamo d’accordo con loro. Ci sarà una lotta.
— Ma loro, quando lottano, usano i coltelli… E c’è… c’è quel posto per le fustigazioni, lo sai — disse una donna, abbassando la voce. — Dove puniscono i ladri… — Non finì la frase. Tutti gli altri erano imbarazzati, vergognosi.
— Sono prigionieri nel cerchio della violenza che li ha portati qui — replicò Lev. — Noi non lo siamo. Se saremo incrollabili, tutti uniti, capiranno la nostra forza, capiranno che è più grande della loro. — La sua espressione e la sua voce erano così ottimistiche, mentre parlava, che i coltivatori capivano che stava dicendo la verità, e cominciavano ad attendere con ansia l’imminente confronto con la città anziché temerlo. Due fratelli che portavano nomi tratti dalla Lunga Marcia, Lione e Pamplona, erano più esaltati degli altri: Pamplona, che era un sempliciotto, seguì Lev da una fattoria all’altra, per il resto della mattinata, per ascoltare dieci volte i Piani della Resistenza.
Nel pomeriggio, Lev lavorò col padre e le altre tre famiglie che coltivavano il campo di riso palustre, perché l’ultimo raccolto era maturo e bisognava mietere, qualunque cosa accadesse. Suo padre andò a cena con una delle famiglie; Lev andò a mangiare con Southwind. Lei aveva lasciato la casa della madre e viveva sola nella casetta — a ovest del paese — che lei e Timmo avevano costruito quando si erano sposati. La casetta sorgeva isolata nei campi, ma in vista delle case alla periferia del paese. Spesso Lev, o Andre, o Italia (la moglie di Martin), o tutti e tre, venivano a cena, e portavano qualcosa da dividere con Southwind. La giovane donna e Lev mangiarono insieme, seduti sul gradino, perché era un mite e dorato pomeriggio autunnale; e poi andarono insieme alla Casa delle Riunioni, dove c’erano già due o trecento persone e altre arrivavano di continuo.
Sapevano tutti perché erano lì: per confermarsi a vicenda d’essere tutti uniti, e per decidere cosa si doveva fare. Lo spirito del raduno era festoso, un po’ eccitato. Molti salivano a parlare e tutti dicevano, in un modo o nell’altro: — Non cederemo, non deluderemo i nostri ostaggi! — Quando parlò Lev, fu applaudito: nipote del grande Shults che aveva guidato la Lunga Marcia, esploratore dei territori disabitati, e benvoluto da tutti. Gli applausi si interruppero e ci fu un movimento tra la folla, che ormai contava più di mille persone. Era venuta la notte: le luci elettriche sotto il portico della Casa delle Riunioni, alimentate dal generatore del paese, erano fioche, ed era difficile vedere cosa stava succedendo. Un oggetto nero, tozzo e massiccio, sembrava spingersi tra la gente. Quando fu più vicino al portico si vide che era una massa di uomini, una squadra di guardie della città, che si muoveva come un blocco compatto. Il blocco aveva una voce: — Riunioni… ordine… pena… — e non si coglieva altro, perché tutti facevano domande, indignati. Lev, che stava sotto la luce, gridò per chiedere silenzio, e quando la folla tacque si udì la voce:
— Le riunioni di massa sono proibite: disperdetevi. Le riunioni pubbliche sono proibite per ordine del Supremo Consiglio, sotto pena di arresto e punizione. Disperdetevi subito e tornate a casa!
— No — disse la gente. — Perché dovremmo farlo? Che diritto hanno? — Tornate a casa!
— Silenzio! — ruggì Andre, con una voce che nessuno gli conosceva. Quando la folla tacque di nuovo disse a Lev, mormorando come al solito: — Avanti, parla.
— La delegazione della città ha il diritto di parlare — disse Lev, con una voce alta e chiara. — E di essere ascoltata. E quando avremo ascoltato quello che hanno da dire, potremo non tenerne conto: ma ricordate che abbiamo deciso di non minacciare né con atti né con parole. Non intendiamo fare del male agli uomini che sono venuti tra noi. Offriamo loro amicizia e amore per la verità!
Guardò i soldati, e l’ufficiale ripeté in tono secco e concitato l’ordine di disperdersi. Quando ebbe finito, ci fu silenzio. Il silenzio si protrasse. Nessuno disse una parola. Nessuno si mosse.
— Avanti — gridò l’ufficiale, con voce forzata. — Muovetevi! Disperdetevi, tornate a casa.
Lev e Andre si guardarono, incrociarono le braccia e si sedettero. Holdfast, che era sotto il portico con loro, si sedette a sua volta; e poi Southwind, Elia, Sam, Jewel e gli altri. Anche la folla, sullo spiazzo, cominciò a sedersi. Era uno strano spettacolo, tra le ombre e la luce giallognola: le forme scure sembravano ridursi a metà della loro altezza, con un lieve fruscio e qualche mormorio. Alcuni bambini ridacchiavano. Dopo mezzo minuto erano seduti tutti. Restarono in piedi solo le guardie, venti uomini intruppati.
— Vi ho avvertiti — gridò l’ufficiale, e la sua voce era vendicativa e imbarazzata. Evidentemente non sapeva come comportarsi con quella gente che adesso era seduta per terra, in silenzio, e lo guardava con aria di pacifica curiosità, come se fosse stata un pubblico di bambini a uno spettacolo di marionette e la marionetta fosse lui. — Alzatevi e disperdetevi, o comincerò ad arrestarvi!
— Bene, arrestate i tren… i venti più vicini. Alzatevi. Voi alzatevi!
Le persone toccate dalle guardie si alzarono e rimasero in silenzio. — Può venire anche mia moglie? — chiese un uomo a un soldato, a voce bassa, non volendo spezzare il profondo silenzio della folla.
— Non ci saranno più riunioni di massa. Per ordine del Consiglio! — latrò l’ufficiale, e condusse via la sua squadra, con un gruppo di circa venticinque prigionieri. Scomparvero nell’oscurità.
Dietro di loro, la folla taceva.
Poi si levò una voce, cantando. Altre voci l’imitarono, dapprima sommessamente. Era un vecchio canto, e risaliva ai tempi della Lunga Marcia sulla Terra.
Oh, quando arriveremo,
Oh, quando arriveremo alla terra libera,
Allora costruiremo la città,
Oh quando arriveremo…
Mentre il gruppo delle guardie e dei prigionieri procedeva nell’oscurità, il canto divenne più fioco ma più forte e più chiaro, quando cento e cento voci si unirono facendo risuonare quella musica sulle terre buie e silenziose tra Shantih e Victoria.
I ventiquattro che erano stati arrestati dalle guardie o erano andati volontariamente ritornarono a Shantih il giorno dopo, verso sera. Erano stati messi in un magazzino, per la notte, forse perché la città non aveva posto abbastanza, e sedici erano donne e bambini. Nel pomeriggio c’era stato un processo, spiegarono, e alla fine era stato detto loro di tornare a casa. — Ma dobbiamo pagare una multa — aggiunse il vecchio Pamplona, in tono d’importanza.
Il fratello di Pamplona, Lione, era uno stimato frutticoitore; ma Pamplona, tardo e malaticcio, non aveva mai contato molto. Quello era il suo momento di gloria. Era stato in carcere, come Gandhi, come Shults, come sulla Terra. Si sentiva un eroe, ed era felice.
— Una multa? — chiese Andre, incredulo. — Denaro? Lo sanno che non usiamo le loro monete…
— Una multa — spiegò Pamplona, tollerante, di fronte all’ignoranza di Andre, — vuol dire che dobbiamo lavorare per venti giorni nella fattoria nuova.
— Quale fattoria nuova?
— Una specie di fattoria nuova che faranno i Padroni.
— I Padroni si danno all’agricoltura? — Tutti risero.
— Sarà bene che lo facciano, se vogliono mangiare — disse una donna.
— E se non andrete a lavorare nella fattoria nuova?
— Non lo so — rispose Pamplona, confuso. — Nessuno l’ha detto. Non ci lasciavano parlare. Era un tribunale, con un giudice. Parlava lui.
— Chi era il giudice?
— Macmilan.
— Il giovane Macmilan?
— No, il vecchio, il consigliere. Ma c’era anche il giovane. È grande e grosso! Come un albero! E sorride sempre.
Lev sopraggiunse di corsa: aveva saputo del ritorno dei prigionieri. Abbracciò i primi che incontrò, nel gruppo che si era radunato sulla strada per accoglierli. — Siete tornati, siete tornati… Tutti?
— Sì, sì, sono tornati tutti, adesso puoi andare a cena!
— Gli altri, Hari e Vera…
— No, loro no. Non li hanno visti.
— Ma voi… Non vi hanno fatto del male?
— Lev ha detto che non poteva mangiare fino a quando non foste tornati. Ha digiunato.
— Stiamo bene: va’ a mangiare. Che idea stupida!
— Vi hanno trattato bene?
— Come ospiti, come ospiti — affermò il vecchio Pamplona. — Siamo tutti fratelli. Non è vero? E ci hanno dato una colazione abbondante!
— Ci hanno dato il riso che abbiamo coltivato noi. Ci hanno chiusi in una stalla nera come la notte e fredda come una zuppa del giorno prima. Sono tutta indolenzita e voglio fare il bagno. Tutte le guardie erano piene di pidocchi: ne ho visto uno sul collo di quello che mi ha arrestata, un pidocchio grosso come l’unghia del tuo pollice, beh! Voglio fare il bagno! — Era Kira, una donna grassottella che parlava in tono bleso perché aveva perso i due incisivi: diceva che non ne sentiva la mancanza e che le avrebbero impedito di parlare come voleva. — Chi mi ospiterà, questa notte? Non voglio andare a casa fino al Villaggio Est, con tutte le ossa indolenzite e una decina di pidocchi che mi passeggiano sulla schiena! — Cinque o sei le offrirono un bagno, un letto, un pasto caldo. Tutti i prigionieri liberati furono festeggiati e circondati di premure. Lev e Andre si avviarono per la viuzza laterale che conduceva alla casa degli Shults. Per un po’ procedettero in silenzio.
— Grazie a Dio! — disse Lev.
— Sì, grazie a Dio. Sono tornati. Ha funzionato. Se almeno Vera e Jan e gli altri fossero tornati con loro…
— Loro sanno cosa devono fare. Ma questi… Nessuno era pronto, non ci avevano pensato, non si erano preparati. Temevo che gli avrebbero fatto del male, temevo che si spaventassero e si arrabbiassero. La responsabilità era nostra: siamo stati noi a guidare la protesta. Abbiamo causato il loro arresto. Non si sono spaventati, non hanno lottato, hanno resistito! — La voce di Lev tremava. — La responsabilità era mia!
— Nostra — disse Andre. — Non li abbiamo mandati noi, non li hai mandati tu. Sono andati. Hanno scelto di farlo. Sei sfinito, dovresti mangiare. Sasha! — Erano arrivati sulla porta di casa. — Fallo mangiare. Loro hanno sfamato i suoi prigionieri, e ora tu sfama lui.
Sasha, seduto accanto al focolare e intento a pulire una zappa, alzò la testa: i baffi erano irti, le sopracciglia irte sopra gli occhi incassati. — Chi riesce a far fare a mio figlio quello che non vuole? — chiese. — Se vuole mangiare, sa dov’è la ciotola della minestra.