Il senhor consigliere Falco offrì un pranzo. E durante la festa si pentì sinceramente di averla offerta.
Doveva essere una festa all’antica, nello stile del Vecchio Mondo, con cinque portate e begli abiti, e conversazione, e musica dopo il pranzo. I vecchi arrivarono puntuali, ognuno accompagnato dalla moglie e da una o due figlie nubili. Anche alcuni giovani, come il giovane Helder, arrivarono in orario, con le rispettive mogli. Le donne si radunarono intorno al camino in fondo alla sala di casa Falco, in veste lunga e gioielli, a chiacchierare; gli uomini si raccolsero intorno al camino dalla parte opposta, nei loro abiti neri, a parlare. Sembrava che tutto andasse bene, come ai tempi in cui il nonno del consigliere Falco, Don Ramon, offriva i suoi pranzi nello stile dei pranzi sulla Terra (come diceva spesso Don Ramon con soddisfatta convinzione, perché dopotutto suo padre, Don Luis, era nato sulla Terra ed era stato il più importante uomo di Rio de Janeiro).
Ma alcuni invitati non erano arrivati puntualmente. Il tempo passava, e quelli ancora non arrivavano. Il consigliere Falco fu chiamato in cucina dalla figlia: le cuoche avevano espressioni tragiche, il superbo pranzo si sarebbe rovinato. Al suo ordine, il lungo tavolo venne portato nella sala e apparecchiato, gli invitati si sedettero, la prima portata venne servita e consumata, fu servita la seconda… e allora, soltanto allora, arrivarono il giovane Macmilan, il giovane Marquez e il giovane Weiler, tranquilli e disinvolti, senza scusarsi e — peggio ancora — con una banda di loro amici che non erano stati invitati: sette o otto giovani grandi e grossi con la frusta alla cintura e il cappello a tesa larga (che non si tolsero) e gli stivali luridi, e un linguaggio sboccato. Fu necessario apparecchiare anche per loro, facendo scomodare gli altri ospiti. I giovani avevano bevuto parecchio, prima di presentarsi, e continuarono a tracannare la migliore birra di Falco. Pizzicavano le cameriere, ma ignoravano le signore. Gridavano e si soffiavano il naso nei tovaglioli ricamati. Quando arrivò il momento supremo del pranzo, la portata di carne (arrosto di coniglio: Falco aveva ingaggiato dieci uomini per una settimana, per concedersi quel lusso), gli ultimi arrivati si riempirono i piatti al punto che non ne rimase abbastanza per tutti gli altri, e quelli che erano seduti in fondo al tavolo restarono senza carne. Lo stesso accadde con il dessert, un dolce di fecola di radici, frutta cotta e nettare. Molti dei giovani lo mangiarono con le mani.
Falco fece un cenno alla figlia, seduta in fondo alla tavola, e Luz guidò le signore nel salotto che dava sul giardino. I giovanotti ne approfittarono per stravaccarsi, sputare, ruttare, imprecare, e bere ancora di più. Trangugiavano bicchierini della famosa acquavite di Falco come se fosse stata acqua, e gridavano agli sconcertati servitori di riempirli ancora. Alcuni degli altri giovani e alcuni degli anziani apprezzavano quel comportamento sgarbato, o forse pensavano che a un pranzo ci si doveva comportare così, e li imitavano. Il vecchio Helder si ubriacò e andò a dormire in un angolo, poi tornò a tavola e ricominciò a bere.
Falco e alcuni amici intimi — il vecchio Marquez, Burnier e il medico — si ritirarono accanto al camino e cercarono di conversare, ma il chiasso intorno al tavolo era assordante. Alcuni ballavano, altri litigavano; i musicanti ingaggiati per suonare dopo il pranzo si erano mescolati agli ospiti e bevevano senza ritegno; il giovane Marquez teneva sulle ginocchia una cameriera pallida e tremante che mormorava: — Oh, hesumeria! Oh, hesumeria!
— Una festa molto allegra, Luis — disse il vecchio Burnier, dopo un’esplosione particolarmente rumorosa di canti e di grida.
Falco era rimasto calmo, e con calma replicò: — Una prova della nostra degenerazione.
— I giovani non sono abituati a queste feste. Solo casa Falco sa dare un pranzo all’antica, nel vero stile della Terra.
— Sono degenerati — disse Falco.
Suo cognato Cooper, un uomo sulla sessantina, annuì: — Abbiamo perso lo stile della Terra.
— Non è vero — disse una voce dietro di loro. Si voltarono. Era Herman Macmilan, uno degli ultimi arrivati: aveva tracannato e gridato insieme agli altri ma adesso non mostrava la minima traccia di ubriachezza, tranne forse un più accentuato colore del volto. — A me sembra, signori, che stiamo riscoprendo lo stile della Terra. Dopotutto, chi erano i nostri antenati venuti dal Vecchio Mondo? Non erano uomini deboli e mansueti. Erano coraggiosi, forti, arditi, e sapevano vivere. Piani, leggi, regole, buone maniere: cosa c’entrano, con noi? Siamo schiavi? O donne? Di cosa abbiamo paura? Siamo uomini, uomini liberi, padroni di un intero mondo. È ora che rivendichiamo la nostra eredità : ecco come stanno le cose, signori. — Sorrise con aria deferente, ma sicuro di sé.
Falco ne fu colpito. Forse quel pranzo disastroso poteva servire a qualcosa, dopotutto. Il giovane Macmilan, che gli era sempre sembrato soltanto un bell’animale muscoloso, un possibile futuro marito per Luz Marina, dimostrava volontà e intelligenza, e aveva la stoffa di un uomo. — Sono d’accordo con te, don Herman — disse. — Ma posso essere d’accordo con te solo perché tu ed io siamo ancora in grado di parlare. Diversamente da molti dei nostri amici. Un uomo deve riuscire a bere e a pensare. Poiché tu solo, tra i giovani, sembri capace di fare l’uno e l’altro, dimmi: cosa pensi della mia idea di creare i latifondi?
— Cioè grandi fattorie?
— Sì. Grandi fattorie: grandi campi, piantati a una sola coltura, per una maggiore efficienza. La mia idea è di scegliere i dirigenti fra i nostri giovani migliori: assegnare a ciascuno una grande tenuta e un numero di contadini sufficiente per lavorarla, e lasciare che la gestisca come vuole. Così si produrrà una maggiore quantità di generi alimentari. La popolazione eccedente di Shantih verrà messa al lavoro e tenuta sotto controllo, per impedire che si continui a parlare d’indipendenza e di nuove colonie. E la prossima generazione degli uomini della città includerà un buon numero di grandi proprietari terrieri. Siamo rimasti vicini abbastanza a lungo da acquisire forza. È ora, come hai detto, di usare la nostra libertà, di diventare davvero padroni di questo nostro mondo così ricco.
Herman Macmilan ascoltò sorridendo. Le sue labbra ben disegnate sorridevano quasi sempre.
— Non è una cattiva idea — disse. — Non è per nulla una cattiva idea, senhor consigliere.
Falco sopportò quel tono di condiscendenza, perché pensava che avrebbe potuto servirsi di Herman Macmilan.
— Rifletti — disse. — Rifletti e considera. — Sapeva che il giovane Macmilan lo stava appunto facendo. — Ti piacerebbe essere proprietario di una di quelle tenute? Un piccolo… Qual è la parola esatta, la vecchia parola…
— Regno — suggerì l’anziano Burnier.
— Sì. Un piccolo regno tutto tuo. Cosa te ne sembra? Falco parlava in tono di adulazione, e Herman Macmilan si pavoneggiava. In un presuntuoso, pensò Falco, c’era sempre spazio per un altro po’ di presunzione.
— Niente male — disse Macmilan, annuendo con aria giudiziosa.
— Per realizzare il piano, avremo bisogno del vigore e dell’intelligenza di voi giovani. Rendere coltivabili nuove terre è sempre stata un’operazione lenta. L’unico modo per disboscare in fretta vasti terreni è di ricorrere ai lavori forzati. Se continueranno queste agitazioni a Shantih, avremo la possibilità di condannare ai lavori forzati parecchi contadini ribelli. Ma dato che quelli parlano parlano e non agiscono, sarà necessario pungolarli, far schioccare la frusta perché si battano, spingerli alla rivolta, capisci? Cosa ne pensi?
— Sarà un piacere, senhor. Qui ci si annoia. Vogliamo un po’ d’azione.
"Anch’io", pensò Falco. "Mi piacerebbe spaccare i denti a questo giovanotto condiscendente. Ma mi sarà utile: e quindi mi servirò di lui, sorridendo."
— È la risposta che volevo! Ascolta, don Herman. Tu hai influenza sui giovani: un dono naturale. Ora dimmi cosa pensi di quest’idea. Le nostre guardie sono abbastanza fedeli: ma sono plebee e stupide, e spesso si lasciano confondere dai trucchi di quelli di Shantih. Per guidarle abbiamo bisogno di un esercito selezionato, di giovani aristocratici coraggiosi, intelligenti e comandati a dovere. Uomini che amino battersi, come i nostri valorosi antenati terrestri. Ritieni possibile creare e addestrare un simile esercito? Come consiglieresti di fare?
— Basta un capo — disse Herman Macmilan, senza esitare. — Io potrei addestrare un piccolo esercito in un paio di settimane.
Dopo quella sera, il giovane Macmilan cominciò a frequentare spesso casa Falco. Veniva una volta al giorno per parlare col consigliere. Quando Luz si trovava nella parte anteriore della casa, spuntava anche Macmilan; e lei prese l’abitudine di restare sempre più a lungo nella propria camera, o in soffitta, o nel salotto affacciato sul giardino. Aveva sempre evitato Herman Macmilan: non perché lo detestasse — era impossibile detestare un giovane così bello — ma perché era umiliante sapere che tutti, vedendo lei e Herman scambiarsi una parola, pensavano: "Ah, presto si sposeranno". Lo volesse o no, Herman portava con sé l’idea del matrimonio, e costringeva anche lei a pensarci; e poiché lei non voleva pensarci, l’aveva sempre sfuggito. Adesso le cose non erano cambiate: ma vedendolo in casa tutti i giorni aveva concluso che — sebbene fosse un vero peccato — era possibile detestare anche un uomo bellissimo.
Herman entrò nel salotto senza bussare e si fermò sulla soglia, elegante e possente nella tunica stretta in vita dalla cintura. Girò gli occhi sulla stanza, affacciata sul grande giardino centrale. Le porte erano aperte, e il suono della pioggerella che cadeva sui vialetti e gli arbusti riempiva il salotto di una strana quiete. — Dunque è qui che ti nascondi — disse.
Luz si era alzata, vedendolo entrare. Indossava una gonna scura tessuta a mano e una camicetta bianca che luccicava nel fioco chiarore. Dietro di lei, nell’ombra, c’era un’altra donna, intenta a filare.
— Ti nascondi sempre qui, eh? — ripeté Herman. Non avanzò, forse attendendo di essere invitato, forse conscio della propria presenza teatrale, incorniciato com’era nel vano della porta.
— Buon pomeriggio, Don Herman. Stai cercando mio padre?
— Ho appena parlato con lui.
Luz annuì. Sebbene fosse curiosa di sapere di cos’avessero parlato tanto Herman e suo padre, in quegli ultimi tempi, non intendeva domandarlo. Il giovane entrò e si fermò davanti a lei, guardandola con quel suo sorriso gioviale. Le prese la mano, se la portò alle labbra e la baciò. Luz si ritrasse, irritata. — È un’usanza stupida — disse, scostandosi.
— Tutte le usanze sono stupide. Ma i vecchi non possono farne a meno, eh? Credono che altrimenti il mondo andrebbe a rotoli. Baciamani, inchini, senhor qui e senhora là, come si faceva nel Vecchio Mondo: storia, libri, sciocchezze!
Luz rise, controvoglia. Era piacevole sentire che Herman considerava sciocchezze le cose che le rendevano opprimente la vita.
— Le Guardie Nere stanno imparando benissimo — disse lui. — Dovresti venire a vedere l’addestramento. Vieni domattina.
— Quali Guardie Nere? — chiese sdegnosamente Luz. Si sedette e riprese il lavoro, un ricamo per il quarto figlio atteso da Eva. Era quello il guaio con Herman. Se per una volta gli si sorrideva o gli si diceva qualcosa di naturale o gli si manifestava ammirazione, lui insisteva sfruttando il proprio vantaggio, e si doveva subito tenerlo a freno.
— Il mio piccolo esercito — rispose Herman. — Cos’è quello? — Si sedette accanto a lei, sul divano di giunchi. Non c’era spazio a sufficienza per tutt’e due. Luz tirò la gonna, sulla quale Herman si era seduto. — Una cuffietta — disse, cercando di dominarsi. — Per il bimbo di Eva.
— Oh Dio, sì, quella non fa che metterne al mondo! Aldo ha la faretra piena. Non accettiamo uomini sposati, nelle Guardie. Sono straordinarie. Devi venire a vederle.
Luz eseguì un microscopico punto annodato e non replicò.
— Sono stato a vedere la mia tenuta. Per questo non sono venuto, ieri.
— Non l’avevo notato — disse Luz.
— Ho scelto la mia proprietà. Una valle lungo il Fiume del Mulino. Sarà un’ottima campagna, una volta disboscata. La mia casa sorgerà su una collina. Ho adocchiato subito il posto adatto. Una casa grande, come questa, ma a due piani, circondata da portici. E granai, e una fucina, e tutto il resto. Poi, giù nella valle in riva al fiume, le capanne dei contadini, così potrò guardarle dall’alto. Riso palustre negli acquitrini, dove il fiume dilaga nel fondovalle. Frutteti sulle colline… e alberi della seta. Abbatterò una parte delle foreste, e una parte la terrò per la caccia ai conigli. Sarà bellissimo, un regno. Vieni con me a vederlo, quando ci tornerò. Ti manderò la carrozza a pedali di casa Macmilan. È troppo lontano perché una ragazza ci arrivi a piedi. Devi vederlo.
— Perché?
— Ti piacerà — disse Herman, con assoluta sicurezza. — Non ti piacerebbe avere una tenuta così? Essere padrona di tutto quello che vedi intorno. Una grande casa, tanti servitori. Il tuo regno.
— Le donne non sono re — disse Luz. Chinò la testa per eseguire un punto. Ormai la luce era troppo debole per cucire, ma le dava un pretesto per non guardare Herman. Lui continuava a fissarla, intento e inespressivo: i suoi occhi erano più scuri del solito, e non sorrideva più. Ma all’improvviso aprì la bocca in una risata.
— Ah, ah! — Una piccola risata, per un uomo grande e grosso. — No. Comunque, le donne sanno come ottenere quello che vogliono: vero mia piccola Luz?
Lei continuò a ricamare e non rispose. Herman si chinò su di lei e bisbigliò: — Sbarazzati della vecchia.
— Cos’hai detto? — chiese Luz, in tono normale.
— Sbarazzati di lei — ripeté Herman, con un cenno.
Luz ripose meticolosamente l’ago nell’astuccio, piegò il lavoro e si alzò. — Scusami, don Herman. Devo andare a parlare con la cuoca — disse, e uscì. L’altra donna continuò a filare. Herman restò seduto per un po’, succhiandosi le labbra; sorrise, si alzò e uscì a passo baldanzoso, con i pollici nella cintura.
Dopo un quarto d’ora, Luz si affacciò sulla porta: vide che Herman Macmilan non c’era, e rientrò. — Che zotico — disse, e sputò sul pavimento.
— È molto bello — commentò Vera, avvolgendo l’ultimo filo di seta arborea sul fuso pieno e posandoselo in grembo.
— Molto — ripeté Luz. Riprese la cuffietta che aveva ricamato, la guardò, l’appallottolò e la gettò attraverso la stanza. — Cazzo! — esclamò.
— Ti sei infuriata per il modo in cui ti ha parlato — disse Vera, in tono quasi interrogativo.
— Il modo in cui parla, il modo in cui si comporta, il modo in cui si siede, il suo modo di essere… Beh! Il mio piccolo esercito, la mia grande casa, i miei servitori, i miei contadini, mia piccola Luz. Se fossi un uomo gli spaccherei la testa contro il muro.
Vera rise. Non rideva spesso: di solito, soltanto quando era sorpresa. — No, non lo faresti!
— Lo farei. Lo ucciderei.
— Oh, no. Non lo faresti. Perché se fossi un uomo saresti forte come lui, o più forte, e non dovresti dimostrare di esserlo. Il guaio è che essendo una donna qui, dove ripetono sempre che siamo deboli, si finisce col crederlo. Quando ha detto che le valli del sud sono troppo lontane perché una ragazza possa arrivarci a piedi! Dodici chilometri!
— Non ho mai camminato tanto. Neppure la metà di quella distanza, probabilmente.
— È appunto quello che volevo dire. Ti dicono che sei debole e fragile. E se lo credi, t’infurii e provi l’impulso di fare del male agli altri.
— Sì — replicò Luz, girandosi verso Vera. — Voglio fare del male agli altri. Voglio farlo, e probabilmente lo farò.
Vera restò immobile a guardarla. — Sì. — Ora aveva un tono più grave. — Se sposi un uomo come quello e vivi la sua vita, allora sono d’accordo. Tu non vuoi davvero fare del male agli altri, ma lo farai.
Luz la fissò. — È odioso — disse infine. — Odioso. Parlare così. Dire che non ho scelta, che devo fare del male agli altri, che quello che voglio non è importante.
— Invece è importante, quello che vuoi.
— Non lo è. È questo che intendo dire.
— Lo è. Ed è questo che intendo dire io. Tu scegli. Scegli di compiere o non compiere certe scelte.
Luz continuò a fissarla. Le guance le si arrossavano per la rabbia, ma le sopracciglia non erano abbassate: erano inarcate, come per la sorpresa o il timore, come se qualcosa di completamente inatteso si fosse parato davanti a lei.
Si mosse, indecisa, e uscì nel giardino, che era il cuore della casa.
Il tocco della pioggerella sul suo volto era gentile.
Le gocce che cadevano nella piccola vasca della fontana, al centro del giardino, creavano cerchi delicati e intrecciati, e ogni cerchio spariva dilatandosi: un incessante tremito di cerchi sfuggenti sulla superficie dell’acqua, nella vasca rotonda di pietra grigia.
Tutt’intorno stavano i muri e le finestre chiuse, silenziose. Il giardino era come una stanza interna della casa, recintata e protetta. Ma era una stanza senza tetto. Una stanza dove pioveva.
Luz si sentì le braccia bagnate e infreddolite. Rabbrividì. Ritornò alla porta, alla stanza semibuia dove stava Vera.
Si fermò tra Vera e la luce, e disse con voce bassa e ruvida: — Che tipo di uomo è, mio padre?
Ci fu un silenzio. — È giusto che tu me lo chieda? E che io ti risponda?… Sì, credo di sì. Cosa posso dire? È forte. È un re, un vero re.
— È soltanto una parola: non so cosa significa.
— Ci sono vecchie favole… Il figlio del re che cavalcava la tigre… Ecco, voglio dire che ha un’anima forte, una grandiosità nel cuore. Ma quando un uomo è chiuso tra muri che ha reso più forti e più alti per tutta la sua vita, forse la forza non basta. Non può uscirne.
Luz attraversò la stanza, si chinò a raccogliere la cuffietta che aveva scagliato sotto una sedia, e si rialzò senza guardare Vera, lisciando la stoffa parzialmente ricamata.
— Neppure io posso uscirne.
— Oh, no, no — disse energicamente Vera. — Tu non sei rinchiusa con lui! Non è lui a proteggere te: sei tu a proteggere lui. Quando soffia il vento, non soffia su di lui ma sui tetti e sui muri della città, che i suoi padri hanno costruito come una fortezza, una protezione contro l’ignoto. E tu sei parte della città, dei tetti e delle mura, della sua casa, casa Falco. Come il suo titolo: senhor, consigliere, Padrone. E come tutti i suoi servi e le sue guardie, tutti gli uomini e le donne cui dà ordini. Sono tutti parte della sua casa, sono i muri che lo riparano dal vento. Capisci cosa intendo? Lo dico in modo così sciocco: non so come dirlo. Ecco, credo che tuo padre potrebbe essere un grand’uomo, ma ha commesso un grave errore. Non è mai uscito sotto la pioggia.
Vera cominciò ad avvolgere il filo in matassa, scrutandolo nella fioca luce. — E quindi, siccome non vuole soffrire, fa torto a coloro che ama di più. Poi se ne rende conto, e dopotutto ne soffre.
— Ne soffre? — chiese di scatto la ragazza.
— Oh, è l’ultima cosa che scopriamo sul conto dei nostri genitori. È l’ultima cosa perché quando la scopriamo non sono più i nostri genitori: sono soltanto altre persone come noi…
Luz si sedette sul divano di giunchi e si appoggiò sul ginocchio la cuffietta, continuando a lisciarla delicatamente con due dita. Dopo un po’ disse: — Sono lieta che tu sia venuta qui.
Vera sorrise e continuò ad avvolgere il filo.
— Aspetta: ti aiuto.
Luz s’inginocchiò, svolgendo il filo dal fuso perché Vera potesse avvolgerlo regolarmente. — Sono stata stupida, a dire così. Vorrai tornare dalla tua famiglia: qui sei in carcere.
— Un carcere molto piacevole! E non ho famiglia. Certo, vorrei tornare. Per andare e venire come preferisco.
— Non ti sei mai sposata?
— C’erano tante altre cose da fare — disse Vera, sorridente e serena.
— Tante altre cose da fare! Non c’è altro da fare, per noi.
— No?
— Se una non si sposa, è una vecchia zitella. Ricama cuffiette per i bambini delle altre. Ordina alla cuoca di preparare la zuppa di pesce. E gli altri ridono di lei.
— È di questo, che hai paura? Che ridano di te?
— Sì. Moltissimo. — Luz impiegò qualche istante per districare il filo che le si era impigliato. — Non m’importa se ridono gli stupidi — disse, più calma. — Ma non mi piace essere disprezzata. E il disprezzo sarebbe meritato. Perché occorre coraggio per essere veramente una donna, tanto quanto ne occorre per essere un uomo. Ci vuole coraggio per sposarsi e mettere al mondo i figli e allevarli.
Vera la guardò in faccia. — Sì. È vero. Un grande coraggio. Ma non c’è altra scelta? Il matrimonio e la maternità oppure niente?
— E cos’altro c’è, per una donna? Cos’altro conta veramente?
Vera girò la testa e guardò il grigio giardino. Sospirò: un sospiro profondo, involontario.
— Desideravo moltissimo un figlio — disse. — Ma vedi, c’erano altre cose… che contavano. — Sorrise, vagamente. — Oh sì, è una scelta. Ma non è l’unica. Si può essere madre e anche molte altre cose. Si può fare tanto. Con la volontà e la fortuna… Io non ho avuto fortuna, o forse ho sbagliato, ho compiuto una scelta errata. Non amo i compromessi, capisci? Avevo dato il cuore a un uomo che… l’aveva dato a un’altra. Era Sasha… Alexander Shults, il padre di Lev. Oh, molto tempo fa, prima che tu nascessi. Così lui si è sposato, e io ho continuato il lavoro che sapevo fare, perché mi aveva sempre interessata, ma non c’erano altri uomini che m’interessassero. Ma anche se mi fossi sposata, avrei dovuto starmene rinchiusa in una stanza per tutta la vita? Vedi: se ce ne stiamo rinchiuse, con i bambini o senza i bambini, e lasciamo agli uomini il resto del mondo, allora naturalmente gli uomini fanno tutto e sono tutto. E perché dovrebbero? Sono soltanto la metà del genere umano. Non è giusto lasciare che facciano tutto il lavoro. Non è giusto né per loro né per noi. Inoltre… — Vera sorrise di nuovo — gli uomini mi sono simpatici, ma qualche volta… sono così stupidi, così imbottiti di teorie… Procedono solo in linea retta, e non vogliono fermarsi. E questo è pericoloso. È pericoloso lasciare tutto agli uomini, sai. È per questo che vorrei tornare a casa, almeno per una visita, per vedere cosa stanno combinando, Elia con le sue teorie e il mio caro giovane Lev con i suoi ideali. Temo che marcino troppo in fretta, troppo diritto, e che ci conducano in una trappola dalla quale non usciremo. Vedi, penso che talvolta gli uomini siano deboli e pericolosi a causa della loro vanità. Una donna ha un centro, è un centro. Ma un uomo non lo è: allunga le mani, afferra le cose e le ammucchia intorno a sé e dice: io sono questo, io sono quello, questo è me, quello è me, dimostrerò che io sono io! E può distruggere molte cose, cercando di dimostrarlo. È ciò che sto cercando di dire a proposito di tuo padre. Se fosse soltanto Luis Falco, questo basterebbe. Ma no, dev’essere il Padrone, il consigliere, il padre, e così via. Che spreco! E Lev: anche lui è terribilmente vanitoso, forse nello stesso modo. Un grande cuore, ma non sa dov’è il centro. Oh vorrei poter parlare con lui solo per dieci minuti e assicurarmi… — Vera aveva dimenticato di avvolgere il filo. Scosse tristemente la testa e abbassò sull’arcolaio uno sguardo lontano.
— Allora va’ — disse Luz, a bassa voce.
Vera la guardò, sconcertata.
— Torna al paese. Questa notte. Ti farò uscire. E domani lo dirò a mio padre, che sono stata io. Posso fare qualcosa… qualcosa, oltre a starmene qui a cucire e imprecare e ascoltare quello stupido Macmilan!
Agile, energica, imperiosa, Luz era balzata in piedi, ritta accanto a Vera che restava immobile, quasi rattrappita.
— Ho dato la mia parola, Luz Marina.
— Cosa importa?
— Se non dico la verità, non posso cercare la verità — rispose Vera, in tono duro.
Si fissarono, serie, decise.
— Io non ho figli — disse Vera. — E tu non hai madre. Se potessi aiutarti, piccola, lo farei. Ma non è così. Io mantengo le promesse.
— Io non faccio promesse — disse Luz.
Liberò un tratto di filo dal fuso. Vera l’avvolse in matassa.