II

Nembi carichi di pioggia si muovevano in lunghe file scure sopra la baia di Songe. La pioggia batteva e batteva sulle tegole della dimora di Falco. All’estremità della casa, nelle cucine, c’era un suono lontano di movimenti, di voci dei servitori. Nessun altro suono, nessun’altra voce: soltanto la pioggia.

Luz Marina Falco Cooper era seduta sul divano accanto alla finestra, con le ginocchia sollevate e appoggiate al mento. A volte guardava oltre lo spesso vetro verdognolo, guardava il mare e la pioggia e le nubi. A volte abbassava gli occhi sul libro aperto accanto a lei e leggeva qualche riga. Poi sospirava e guardava di nuovo dalla finestra. Il libro non l’interessava.

Peccato. Aveva tanto sperato. Non aveva mai letto un libro, prima.

Aveva imparato a leggere e scrivere, naturalmente, perché era la figlia di un Padrone. Oltre a imparare a memoria le lezioni aveva ricopiato i precetti morali, ed era in grado di scrivere una lettera per fare o declinare un invito, con un’elegante cornice a volute e i saluti e la firma tracciati a lettere più grandi e rigide. Ma a scuola usavano le lavagne e i quaderni scritti a mano dalle maestre. Lei non aveva mai toccato un libro. I libri erano troppo preziosi per usarli a scuola: in tutto il mondo erano soltanto poche decine. Ma quel pomeriggio, entrando nella sala, aveva visto su un tavolino una scatoletta marrone: aveva sollevato il coperchio per vedere cosa c’era dentro, era piena di parole. Parole minuscole, ben tracciate, con tutte le lettere simili le une alle altre, e chissà quanta pazienza era stata necessaria per farle tutte della stessa grandezza! Un libro…un libro vero, venuto dalla Terra. Suo padre doveva averlo lasciato lì. Luz l’aveva preso, l’aveva portato accanto alla finestra, aveva aperto di nuovo il coperchio, con cura, e aveva letto lentamente tutte le parole sul primo foglio.

PRONTO SOCCORSO
MANUALE D’EMERGENZA
PER INCIDENTI E MALATTIE
Dott. M. E Roy
Edizioni Ginevrine
Ginevra, Svizzera
2027 Aut. n. 83A38014

Sembrava che non avesse molto senso. «Pronto soccorso» era chiaro, ma la seconda riga era un rompicapo. Cominciava con un nome proprio, Manuela, e poi parlava d’incidenti. Quindi venivano tutte quelle lettere seguite da un puntino. E cos’erano una Ginevra, una edizione, una Svizzera?

Non meno sconcertanti erano le lettere rosse piazzate obliquamente sulla pagina, come se fossero state scritte sopra le altre: DONATO DALLA CROCE ROSSA MONDIALE ALLA COLONIA PENALE DI VICTORIA.

Luz girò il foglio, ammirandolo. Era liscio, sotto le dita, più della stoffa più fine, resistente ma morbido come una foglia-tetto fresca, e di un bianco purissimo.

Lesse parola per parola fino in fondo alla prima pagina, poi prese a girare parecchi fogli alla volta perché oltre metà delle parole non avevano senso. C’erano illustrazioni macabre che riaccesero il suo interesse, sconcertandola. Persone che ne sostenevano altre e respiravano loro in bocca; immagini delle ossa all’interno di una gamba, delle vene all’interno di un braccio; illustrazioni colorate, su carta meravigliosamente lucida come il vetro, di persone con piccole macchie rosse sulle spalle, grandi chiazze rosse sulle guance, orribili pustole su tutto il corpo e parole misteriose sotto le immagini: Eczema allergico. Morbillo. Varicella. Rosolio. No: era rosolia, non rosolio. Studiò tutte le immagini, e qualche volta diede una scorsa alle parole scritte sulla pagina di fronte. Capì che era un libro di medicina, e che era stato il medico — non suo padre — a dimenticarlo sul tavolino la sera prima. Il medico era un brav’uomo, ma suscettibile: si sarebbe irritato se avesse saputo che lei aveva guardato il suo libro? Dentro c’erano i suoi segreti. Lui non rispondeva mai alle domande: i segreti preferiva tenerli per sé.

Luz sospirò di nuovo e guardò le nubi lacere e piovose. Aveva già visto tutte le illustrazioni, e le parole non erano interessanti. Si alzò; stava posando il libro sul tavolino, esattamente dove l’aveva trovato, quando entrò suo padre. Aveva il passo energico, la schiena diritta, gli occhi chiari e severi. Sorrise nel vedere Luz. Un po’ sorpresa, sentendosi in colpa, lei gli fece una profonda riverenza, nascondendo con la gonna il tavolino e il libro.

Senhor! Mille saluti!

— Ecco la mia bella bambina. Michael! Acqua calda e un asciugamano! Mi sento lurido. — Lui si sedette in una delle poltrone di legno intagliato e allungò le gambe, ma tenne la schiena diritta, come sempre.

— Dove è stato, per sentirsi lurido?

— Dai parassiti.

— A Shantih?

— Tre specie di esseri sono venute dalla Terra a Victoria: uomini, pidocchi, e quelli di Shantih. Se avessi la possibilità di scegliere la specie da eliminare, sceglierei la terza. — Lui sorrise di nuovo, divertito della battuta, poi guardò la figlia e disse: — Uno di loro ha avuto la presunzione di rispondermi. Credo che tu lo conosca.

— Lo conosco?

— A scuola. I parassiti non dovrebbero essere autorizzati ad andare a scuola. Ho dimenticato il nome. I loro nomi sono tutti assurdi. Un ragazzetto con i capelli neri.

— Lev?

— Proprio lui. Un piantagrane.

— Cosa le ha detto?

— Mi ha detto di no.

Il servitore entrò in fretta, portando una bacinella di coccio e una brocca d’acqua fumante; dietro di lui veniva una cameriera con gli asciugamani. Falco si lavò mani e faccia, soffiando e sbuffando e parlando. — È appena ritornato insieme ad altri da una spedizione al nord, nei tenitori disabitati. Dice che hanno trovato una località adatta a una città. Vogliono trasferirsi in blocco.

— Lasciare Shantih? Tutti?

Falco sbuffò una conferma, e allungò i piedi perché Michael gli togliesse gli stivali. — Come se potessero sopravvivere un inverno, senza la città che si prenda cura di loro! La Terra li ha mandati qui cinquant’anni fa giudicandoli imbecilli irrimediabili, e infatti lo sono. È ora che imparino di nuovo la lezione.

— Ma non possono avventurarsi così, nei territori disabitati — disse Luz, che aveva ascoltato i propri pensieri e non soltanto le parole del padre. — Chi coltiverebbe i nostri campi?

Suo padre ripeté la domanda, così trasformando un’espressione emotiva femminile in una mascolina valutazione dei fatti. — Naturalmente non si può permettere che comincino a disperdersi così. Sono la manodopera necessaria.

— Ma perché sono quelli di Shantih a svolgere quasi tutti i lavori agricoli?

— Perché non sanno fare altro. Porta via quell’acqua sporca, Michael.

— Quasi nessuno dei nostri sa coltivare la terra — disse Luz. Stava riflettendo. Aveva le sopracciglia scure, fortemente arcuate come quelle del padre, e quando rifletteva si congiungevano in una linea retta sopra gli occhi. A suo padre, ciò non piaceva: non era un’espressione adatta al grazioso volto di una ventenne. Le dava un’aria dura, poco femminile. Gliel’aveva ripetuto spesso, ma lei non aveva mai perso quella brutta abitudine.

— Mia cara, noi siamo abitanti della città, non contadini.

— Ma chi coltivava i campi prima che arrivassero quelli di Shantih? La colonia esisteva già da sessant’anni, quando sono giunti loro.

— Gli operai svolgevano il lavoro manuale, naturalmente. Ma neanche i nostri operai sono mai stati contadini. Noi siamo gente di città.

— E soffrivamo la fame, vero? C’erano le carestie. — Luz parlò in tono sognante, come se ricordasse una vecchia lezione di storia, ma le sue sopracciglia erano ancora abbassate in quella linea nera. — Durante i primi dieci anni della colonia, e in altre occasioni, molta gente è morta di fame. Non sapevano coltivare il riso palustre o le radici zuccherine, prima dell’arrivo di quelli di Shantih.

Anche le nere sopracciglia di suo padre, adesso, formavano una linea diritta. Lui congedò Michael e la cameriera e cambiò argomento, con un gesto secco. — È un errore — disse in tono asciutto, — mandare a scuola i contadini e le donne. I contadini diventano insolenti, le donne noiose.

Due o tre anni prima, quel commento l’avrebbe fatta disperare. Avrebbe chinato la testa e si sarebbe rifugiata in camera sua a piangere, e si sarebbe sentita infelice fino a quando suo padre non le avesse detto una parola gentile. Ma adesso lui non poteva farla piangere. Luz non sapeva perché, e le sembrava molto strano. Lo temeva e l’ammirava come sempre; ma sapeva sempre quello che stava per dire. Non era mai niente di nuovo. Mai.

Si voltò a guardare ancora, attraverso il vetro spesso e irregolare, la baia di Songe, la lontana curva della riva velata dalla pioggia incessante. Era una figura vivida, eretta nella luce tetra, con la lunga gonna rossa tessuta a mano e la camicetta a volanti. Sembrava indifferente e sola, al centro di quella stanza alta e lunga: e si sentiva sola e indifferente. E sentiva anche lo sguardo del padre, fisso su di lei. Sapeva cosa stava per dirle.

— Sarebbe ora che ti sposassi, Luz Marina.

Lei attese l’altra frase, inevitabile.

— Da quando è morta tua madre… — E il sospiro.

Basta, basta, basta!


Si girò verso di lui. — Ho letto quel libro — disse.

— Quale libro?

— Deve averlo dimenticato il dottor Martin. Cosa significa «colonia penale»?

— Non avevi il diritto di toccarlo!

Suo padre era sorpreso. Questo, se non altro, era interessante.

— Credevo che fosse una scatola di frutta secca — disse lei, e rise. — Ma cosa significa «colonia penale»? Una colonia di criminali, una prigione?

— Questo non ti riguarda.

— I nostri antenati sono stati mandati qui come prigionieri, giusto? Lo dicevano quelli di Shantih a scuola. — Falco si stava sbiancando in volto, ma il pericolo esaltava Luz: la sua mente turbinava, e lei diceva ciò che le passava nella mente. — Dicono che quelli della prima generazione erano tutti delinquenti. Il governo della Terra si serviva di Victoria come di una prigione. Quelli di Shantih dicono che loro sono stati mandati qui perché credevano nella pace o in qualcosa di simile, ma noi siamo stati relegati su questo mondo perché eravamo tutti ladri e assassini. E quasi tutti quelli della prima generazione erano uomini, e le loro donne non potevano venire se non erano le mogli, e per questo all’inizio erano così poche. Mi è sempre sembrata una cosa stupida, non mandare abbastanza donne per una colonia. E spiega perché le navi erano fatte solo per il viaggio d’andata e non potevano tornare indietro, e perché quelli della Terra non vengono mai qui. Siamo chiusi fuori. È vero, no? La chiamiamo Colonia Victoria, ma è una prigione.

Falco si era alzato. Si mosse; Luz restò immobile.

— No — disse in tono leggero, quasi indifferente. — No padre.

La sua voce fermò l’uomo: anche lui restò immobile, e la guardò. Per un momento, la vide. Lei scorse nei suoi occhi che la vedeva e che aveva paura. Per un momento, solo per un momento.

Suo padre si voltò. Andò al tavolino e prese il libro dimenticato dal dottor Martin. — Che importanza ha, Luz Marina? — chiese, alla fine.

— Vorrei saperlo.

— È accaduto cent’anni fa. E la Terra è perduta. E noi siamo quello che siamo.

Luz annuì. Quando le parlava così, in tono asciutto e calmo, lei vedeva la forza che ammirava e amava.

— Ciò che mi esaspera — disse lui, ma senza collera, — è che tu abbia dato ascolto alle chiacchiere di quei vermi. Hanno spiegato tutto a modo loro. Cosa ne sanno? Hai lasciato che ti dicessero che Luis Firmin Falco, il mio bisnonno, il fondatore della nostra casata, era un ladro, un carcerato. Cosa ne sanno! Io so cos’erano i nostri antenati, e posso dirtelo. Erano uomini. Uomini troppo forti per la Terra. Il governo della Terra li ha mandati qui perché aveva paura di loro. I migliori, i più coraggiosi, i più forti: le migliaia e migliaia di deboli, sulla Terra, avevano paura di loro, e li hanno catturati e fatti partire con quelle navi senza ritorno, per poter fare sulla Terra quello che volevano, capisci? Bene: quando questo è avvenuto, quando i veri uomini erano partiti, i terrestri rimasti erano così deboli ed effemminati che hanno cominciato ad aver paura perfino di marmaglia come gli abitanti di Shantih. Perciò li hanno spediti qui, perché noi li tenessimo a bada. E noi l’abbiamo fatto. Capisci? È andata così.

Luz annuì. Accettava l’evidente intenzione di placarla, sebbene non sapesse come mai — per la prima volta — suo padre le parlava spiegandole qualcosa, da pari a pari. Qualunque fosse la ragione, la spiegazione suonava bene: e lei era abituata a sentire frasi che suonavano bene, e a cercare di capire in seguito cosa significavano davvero. Prima di conoscere Lev, a scuola, non aveva mai pensato che qualcuno preferisse dire una semplice verità anziché una menzogna che suonasse bene. La gente diceva quello che le tornava utile, quando parlava sul serio: altrimenti parlava così, tanto per parlare. Con le ragazze, poi, nessuno parlava quasi mai sul serio. Alle ragazze bisognava nascondere le verità spiacevoli, affinché le loro anime pure non s’involgarissero e non si contaminassero. Del resto, lei aveva chiesto della colonia penale soprattutto per distogliere il padre dai discorsi sul suo matrimonio: e il trucco era servito allo scopo.

"Ma il guaio", pensò quando fu sola nella sua stanza, "è che questi trucchi sono tranelli anche per me".

Aveva sbagliato a discutere con suo padre e ad avere la meglio nella discussione. Lui non gliel’avrebbe perdonato.

Tutte le ragazze della sua età e del suo rango, in città, ormai erano sposate da due o tre anni. Lei aveva evitato il matrimonio soltanto perché Falco, forse senza rendersene conto, non voleva lasciarla andare. Era abituato ad averla vicina. Erano molto simili: e ognuno di loro apprezzava la compagnia dell’altro forse più di ogni altra compagnia. Ma quella sera lui l’aveva guardata come se vedesse una persona diversa, una persona alla quale non era abituato. Se cominciava a notarla come una persona diversa da lui, se lei cominciava a vincere troppe battaglie, se non era più la sua ragazzina docile, suo padre si sarebbe chiesto cos’altro era… e a cosa serviva.

Già: a cosa serviva, lei? Alla continuità della casata di Falco, ovviamente. E poi? Herman Marquez o Herman Macmilan. E non c’era più niente da fare. Sarebbe diventata una moglie. Sarebbe diventata una nuora. Avrebbe portato i capelli raccolti in una crocchia, avrebbe rimproverato i servitori, avrebbe ascoltato gli uomini far baldoria nella sala, dopo cena, e avrebbe avuto figli. Uno all’anno. Piccoli Marquez Falco. Piccoli Macmilan Falco. Eva, la sua compagna di giochi, si era sposata a sedici anni, e adesso aveva tre figli e ne aspettava un quarto. Il marito di Eva, il figlio del consigliere Aldo Di Giulio Hertz, la picchiava, e lei ne era orgogliosa. Mostrava i lividi e mormorava:

— Aldito ha un tale caratteraccio! È scatenato come un bambino bizzoso.

Luz fece una smorfia e sputò. Sputò sulle piastrelle del pavimento della stanza. Fissò il piccolo grumo grigiastro di saliva e si augurò di potervi annegare Herman Marquez e poi Herman Macmilan. Si sentiva sudicia. La stanza era soffocante, sudicia: la cella di una prigione. Fuggì da quel pensiero, e dalla stanza. Si precipitò fuori in corridoio, raccogliendo la gonna, salì la scaletta e si rifugiò sotto il tetto, dove non andava mai nessuno. Si sedette sul polveroso pavimento — il tetto, martellato dalla pioggia, era troppo basso perché lei potesse stare in piedi — e lasciò la mente libera di vagare.

E la sua mente sfrecciò via, lontano da quella casa e da quell’ora, e tornò a un altro tempo, più spazioso.

Sul campo di gioco della scuola, un pomeriggio di primavera, due ragazzi giocavano a palla. Erano di Shantih, Lev e il suo amico Timmo. Lei stava sotto il portico della scuola e li guardava, meravigliandosi di ciò che vedeva: l’allungo e la tensione delle schiene e delle braccia, l’abile slancio, i balzi del pallone nella luce. Sembrava che suonassero una musica silenziosa, la musica del movimento. La luce veniva da sotto i nembi temporaleschi, da ovest, sopra la baia di Songe, orizzontale e dorata; la terra era più luminosa del cielo. L’argine di terra dietro il campo era dorato, l’erba che lo copriva era brunita. La terra bruciava. Lev attendeva di afferrare un lancio lungo, con la testa all’indietro, le mani tese: e lei stava a guardarlo, sorpresa da quella bellezza.

Un gruppo di ragazzi della città girò intorno alla scuola per giocare al calcio. Gridarono a Lev di consegnare la palla, proprio mentre lui scattava, col braccio levato, per afferrare il lancio alto di Timmo. La prese, e rise, e gettò la palla agli altri.

Quando i due passarono davanti al portico, lei scese di corsa i gradini. — Lev!

L’orizzonte sfolgorava dietro di lui, e lui spiccava nero tra lei e il sole.

— Perché gli hai dato il pallone?

Non poteva scorgere il volto, controluce. Timmo, un ragazzo alto e bello, era rimasto un po’ indietro e non la guardava in faccia.

— Perché ti lasci tiranneggiare così?

Finalmente Lev rispose. — Non è vero — disse. Quando Luz si avvicinò, vide che la stava guardando fissamente.

— Ti hanno detto «dà qua!» e tu gliel’hai dato…

— Loro vogliono fare una partita: noi stavamo solo passando il tempo. Il nostro turno l’avevamo fatto.

— Ma non te l’hanno chiesto: te l’hanno ordinato. Non hai orgoglio?

Gli occhi di Lev erano scuri, il volto era scuro e rozzo, incompiuto. Sorrise: un sorriso dolce, sorpreso.

— Orgoglio? Sicuro. Se non l’avessi, terrei il pallone quando è il loro turno.

— Perché hai sempre una risposta pronta?

— Perché la vita è piena d’interrogativi.

Lev rideva, ma continuava a guardarla come se anche lei fosse stata un interrogativo, un interrogativo improvviso, senza risposta. E aveva ragione: lei non sapeva perché lo sfidasse così.

Timmo stava un po’ in disparte, a disagio. Alcuni dei ragazzi sul campo di gioco li stavano già guardando: due di Shantih che parlavano con una senhorita.

Senza commenti, i tre si allontanarono dalla scuola, lungo la via, in modo che dal campo non li vedessero.

— Se uno di loro parlasse a un altro come hanno parlato a voi — disse Luz, — ci sarebbe stata una zuffa. Perché non avete lottato?

— Per un pallone?

— Per qualunque cosa!

— Lo facciamo.

— Quando? Come? Ve ne siete andati e basta.

— Veniamo tutti i giorni in città, a scuola — disse Lev. Non la guardava, ora, mentre camminavano fianco a fianco, e il suo volto era il solito: un comune volto di ragazzo, ostinato e imbronciato. In un primo momento Luz non capì cosa intendeva, e quando comprese non seppe cosa replicare.

— I pugni e i coltelli sono il meno — disse Lev; e forse sentì un tono pomposo nella propria voce, una specie di vanteria, perché si rivolse a Luz con una risata e una scrollata di spalle. — E neanche le parole sono un gran che!

Uscirono dall’ombra di una casa, nell’aurea luce orizzontale. Il sole era una chiazza liquida e indistinta fra il mare scuro e le nubi buie, e i tetti della città ardevano di un fuoco ultraterreno. I tre giovani si fermarono, guardando l’immane splendore e l’immane oscurità a occidente. Il vento del mare, odoroso di sale e di spazi e di fumo di legna, spirava freddo sui loro volti.

— Non vedi? — disse Lev. — Puoi vederla: puoi vedere ciò che dovrebbe essere, ciò che è.

Lei vide, con gli occhi di lui: vide lo splendore, la città che avrebbe dovuto essere, e che era.

Quel momento si spezzò. La luminosa foschia ardeva ancora tra il mare e la tempesta, la città si stagliava ancora dorata e minacciata sull’eterna riva; ma c’era gente che scendeva per la via dietro di loro, parlando e gridando. Erano ragazze di Shantih, che si erano trattenute a scuola per aiutare le maestre a pulire le aule. Si affiancarono a Timmo e Lev e salutarono Luz gentilmente ma — come aveva fatto Timmo — con aria guardinga. Per andare a casa lei doveva svoltare a sinistra, verso il centro della città; loro a destra, su per le alture, per la strada del paese.

Mentre scendeva per la via scoscesa, Luz si voltò indietro a guardarli. Le ragazze della città deridevano quelle di Shantih perché portavano i calzoni: ma si confezionavano gonne con la stoffa di Shantih, quando riuscivano a procurarsela, perché era più fine e tinta meglio di quella tessuta in città. I calzoni e le giacche dei ragazzi, con le maniche lunghe e il colletto alto, erano bianchi, del bianco-panna della fibra naturale di erbaseta. I folti e morbidi capelli di Lev spiccavano nerissimi sopra quel candore. Camminava un po’ indietro rispetto agli altri, al fianco di Southwind, una bella ragazza che parlava sempre a voce bassa. Dal modo in cui Lev teneva piegata la testa, Luz capì che ascoltava quella voce e sorrideva.

— Cazzo! — disse, e si avviò a grandi passi con la lunga gonna che le sventolava contro le caviglie. Era troppo beneducata per conoscere certe imprecazioni. Conosceva «diavolo!» perché lo diceva suo padre, anche di fronte alle donne, quando era irritato. Lei non diceva mai «diavolo!»: era una proprietà di suo padre. Ma tanti anni prima Eva le aveva detto che «cazzo» era una parolaccia terribile, e perciò quando era sola la usava.

E materializzandosi dal nulla come un cose, e al pari di questo gobba, con gli occhietti lucidi e vagamente piumosa, apparve la sua duenna, la cugina Lores: lei credeva che si fosse stancata e se ne fosse andata a casa mezz’ora prima. — Luz Marina! Luz Marina! Dov’eri? Ti ho aspettata tanto… Sono corsa a casa Falco e poi sono tornata a scuola… Dov’eri? Perché te ne vai in giro tutta sola? Rallenta, Luz Marina: mi sento morire, mi sento morire.

Ma Luz non rallentò per quella povera donna. Continuò a grandi passi, lottando con le lacrime che l’avevano assalita a tradimento: lacrime di rabbia perché non poteva mai andare in giro da sola, non poteva far mai niente da sola, mai. Perché comandavano gli uomini. La spuntavano sempre. E le donne più anziane erano tutte dalla loro parte. Una ragazza non poteva girare sola per le vie della città perché un operaio ubriaco avrebbe potuto insultarla, e cosa importava se dopo sarebbe finito in prigione o gli avrebbero tagliato le orecchie? Non sarebbe servito a nulla. La reputazione della ragazza era ciò che gli uomini pensavano di lei. Gli uomini pensavano tutto, facevano tutto, dirigevano tutto, facevano le leggi, infrangevano le leggi, punivano chi le infrangeva; e non restava spazio per le donne, la città non era per le donne. C’era spazio solo nelle loro stanze, quand’erano sole.

Perfino un abitante di Shantih era più libero di lei. Perfino Lev, che non voleva azzuffarsi per un pallone ma che sfidava la notte quando scendeva dall’orlo del mondo, e rideva delle leggi. Perfino Southwind, che era così mite e taciturna… Southwind poteva tornare a casa con chi voleva, mano nella mano, attraverso i campi, nel vento della sera, correndo per precedere la pioggia.

La pioggia tamburellava sulle tegole della soffitta, dove lei si era rifugiata quel giorno, tre anni prima, quando finalmente era arrivata a casa, con la cugina Lores che ansimava e sbuffava e protestava dietro di lei, per tutta la strada.

Tre anni da quella sera nella luce d’oro. E in cambio, niente. Adesso meno di allora. Tre anni prima, lei andava ancora a scuola: aveva creduto che quando la scuola fosse finita lei sarebbe stata magicamente libera.

Una prigione. Tutta Victoria era una prigione, un carcere. E non c’era una via d’uscita. Non c’era un posto dove andare.

Soltanto Lev se n’era andato, e aveva trovato un posto nuovo, lontano, a nord, nelle terre disabitate, un posto dove andare… Ed era tornato, e aveva detto «No» al Padrone Falco.

Ma Lev era libero, era sempre stato libero. E per questo non c’era stato un momento nella vita di lei, prima o dopo, come quello in cui era stata al suo fianco, sulle alture della città nella luce dorata prima della tempesta, e aveva visto con lui cos’era la libertà. Per un momento. Una raffica di vento marino, un incontro di sguardi.

Non lo vedeva da più di un anno. Lui era tornato a Shantih nel nuovo abitato, libero, dimenticandosi di lei. Perché doveva ricordarla? E lei, perché doveva ricordarlo? Aveva altre cose a cui pensare. Era una donna, ormai. Doveva affrontare la vita. Anche se la vita non aveva altro da mostrarle che una porta chiusa oltre la quale non c’era nulla.

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