SEI

So più di Apollo

giacché spesso, quando lui giace dormendo,

contemplo le stelle in guerre mortali

e il cielo ferito che piange.

La luna abbraccia il pastore

e la regina dell’amore il suo guerriero,

mentre la prima incorna la stella del mattino

e l’altra il celeste maniscalco.

Mentre io canto

«Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare,

da mangiare, da bere o da vestire.

Vieni, dama o donzella,

non aver timore,

il povero Tom non farà male a nessuno».

Canto di Tom O’Bedlam

1

Elszabet sentì che un sogno stava per sopraffarla mentre era ancora sveglia. All’inizio, quando ciò accadeva, era stato terrorizzante, allorché i tentacoli dell’irrealtà cominciavano a invadere la sua mente conscia. Ma adesso non più. Troppe cose che un tempo l’avevano terrorizzata, adesso non la terrorizzavano più. Non era sicura se il fatto avrebbe dovuto preoccuparla.

Era distesa sull’amaca che era appesa da una parete all’altra in un angolo della sua cabina. Leggeva un po’, sonnecchiava un po’, non del tutto pronta a coricarsi. Mancava all’incirca un’ora alla mezzanotte d’una fresca serata di autunno, il vento che soffiava dal mare agitava le cime degli alberi. D’un tratto fu conscia che il sogno era là, sospeso subito al di fuori dei cancelli della sua consapevolezza. Giacque là, lasciando che accadesse, dandogli il benvenuto.

Di nuovo il Mondo Verde. Bene. Bene.

A quest’ora aveva fatto anche tutti gli altri sogni, la serie completa dei sette, talvolta due o tre la stessa notte. Era passata una settimana, ormai, da quando il vagabondo del mistero, Tom, era comparso al Centro, e durante tutta quella settimana i sogni le si erano manifestati veloci e fitti. C’era un rapporto? Pareva che dovesse esserci, anche se le era difficile capire in qual modo fosse possibile. Durante la settimana in cui Tom era stato là, Elszabet aveva visto i Nove Soli, aveva visto la Stella Doppia Uno, Due e Tre, aveva visto la Sfera di Luce e la Gigante Azzurra.

Ma fra tutti i sogni, il Mondo Verde era quello che amava di più. Negli altri strani mondi dei sogni lei era soltanto un osservatore incorporeo, un occhio invisibile che galleggiava sopra quel bizzarro paesaggio alieno; ma quando accedeva al Mondo Verde lei partecipava alla vita di quel pianeta, profondamente immersa nella sua ricca e sofisticata cultura. Cominciava a conoscere il luogo e la sua gente; e loro cominciavano a conoscere lei. E così, ogni notte, quando si smarriva nel sonno, Elszabet si trovava a sperare di poter andare ancora una volta in quel luogo adorabile dove sentiva… che Dio l’aiutasse!… dove cominciava a sentirsi così tanto a casa sua.

Ecco che sta arrivando… Mondo Verde, ciao, ciao.

Era come se non fosse mai andata via, come se non fosse mai andata a soggiornare per un po’ in quel luogo incolto e sgraziato chiamato Terra, là dove passava l’altra parte della sua vita. Era il giorno del Doppio Equinozio e le triadi si stavano radunando nella camera-panoramica. Lì c’erano i Misilyne a braccetto, e subito alle loro spalle stavano arrivando i Suminoor, deliziosi ed eleganti, e quelli… quelli non erano forse i Thilineeru? I Thilineeru si erano accoppiati con i Gaarinar, così dicevano le voci pettegole, ed era evidente che i pettegolezzi erano veri, poiché là, poco lontano, c’erano appunto i Gaarinar e la loro superficie luccicava d’una inequivocabile sfumatura thilineeru, un’iridescenza paragonabile al rintocco di tante campane.

E chi era quello? Quella figura scura e intensa con quel singolo occhio ardente che si levava come una gialla cupola fiammeggiante dalla sua ampia testa? Avanzava con passo sereno e tranquillo attraverso la stanza, accompagnato da un ampio seguito, e da ogni lato la gente convergeva verso di lui per presentargli i propri omaggi. Ad Elszabet parve di averlo già visto altre volte. O qualcuno come lui, comunque. Ma non ricordava dove.

Ah. Adesso lo stavano annunciando: un luccichio argentino, un suono vibrante che danzava nell’aria e diceva a tutti allo stesso tempo che quello era, nientepopodimeno, l’inviato dei Sapiil, Sua Eccellenza Horkanniman-zai, ministro plenipotenziario dell’Impero dei Nove Soli e gran rappresentante del signore Maguali-ga presso tutte le nazioni della sfera esterna. Quale maestosa serie di titoli! Quale personaggio imponente! Elszabet attese il proprio turno per salutarlo. Vieni, le disse Vuruun, il quale era stato lui stesso ambasciatore presso i Nove Soli all’epoca del Presidium Skorioptin di beneamata memoria, lascia che ti presenti. E la fece avanzare fino a quando Sua Eccellenza Horkanniman-zai non la notò. L’inviato dei Sapiil le porse un arto nero e spesso simile a una frusta in segno di saluto, e lei lo toccò con una delle proprie dita cristalline, come aveva visto fare agli altri, e si sentì inondare dalla luce abbacinante dei Nove Soli.

È un dono, disse con voce gentile l’inviato dei Sapiil.

E poi si voltò e si allontanò osservando allegramente, rivolto a uno dei Suminoor, che era la serata più bella da lui mai trascorsa dopo quella dell’anno scorso all’investitura del Gran Delegato kusereen su Vannannimolinan, quando i danzatori poro del cielo gli avevano dedicato d’impulso lo spettacolo d’una intera stagione, e…

Elszabet non sentì il seguito di quella storia. L’inviato dei Sapiil era ormai lontano: le volgeva l’ampia schiena, inquadrato dalla pulsante luce verde della sfaccettata finestra della camera-panoramica che dava a nord. Ma non aveva importanza: c’erano altre distrazioni. I visitatori erano giunti da tutta la Galassia per contemplare il doppio equinozio. Alcuni indossavano i corpi dei loro mondi nativi; altri, non altrettanto compatibili con le condizioni locali, avevano adottato corpi cristallini. La stanza vibrava tutta del cicaleccio di cinquanta imperi. Tre Lame dell’Impero e un Magister, stava dicendo qualcuno. Riuscite a immaginarlo? Tutti nella stessa stanza. E qualcun altro diceva: erano zygerone della Nona, ne sono sicuro. Aveva mai visto una Nona prima? E un sommesso sussurro: Lei è della Dodicesima Poliarchia, sotto la grande stella Ellullimiilu. Sono passati molti anni da quando uno di loro è stato qui. Be’, naturalmente è il Doppio Equinozio, ma anche così…

Da qualche parte in distanza un suono martellante, insistente, fastidioso. Rat-tat-tat, rat-tat-tat.

— Elszabet?

Lei si mosse, si guardò intorno, si rivolse a uno dei Gaarinar per chiedere qualcosa sulla Principessa della Poliarchia, l’essere venuto da Ellullimiilu.

Rat-tat-tat, rat-tat-tat.

— Sono io, Elszabet. Sono Dan. Devo parlarti.

Dan? Dan? Si rizzò a sedere, sbattendo le palpebre, confusa, ancora più che mezza invischiata nelle elaborate sarabande e minuetti della gente del Mondo Verde. Chi mai era Dan? Perché produceva quel rumore? Non sapeva forse che era la notte del Doppio Equinozio e…

Ancora quel bussare. — Stai bene? Senti, se non mi rispondi, entrerò dentro per vedere se non sei…

— Dan? — chiese lei, cercando di scuotersi di dosso la confusione. — Dan, cosa succede? Che ore sono?

— È quasi mezzanotte. Non avevo intenzione d’intromettermi, o niente del genere, ma…

— Va bene. Solo un secondo. — Si sfregò gli occhi. Quasi mezzanotte. Era sull’amaca, un libro in grembo voltato all’ingiù. Si vede che mi sono appisolata. Ho sognato. Il Mondo Verde… il Doppio Equinozio, vero? C’era un ambasciatore, dai Nove Soli, e qualcun altro dalla Gigante Azzurra, e un Nono degli zygerone, qualunque cosa fosse… oh, Dio, Dio.

Il finale sfilacciato di quella visione interrotta le raschiava e le strideva nel cervello. Si portò le mani alle tempie. Il dolore era quasi insopportabile. Essere stata strappata via da tutto ciò in maniera così improvvisa, così brutale…

— Elszabet?

— Sto arrivando — rispose. Ruotò le gambe fuori dall’amaca, per un attimo restò immobile, con i piedi che a stento sfioravano il pavimento, tirò tre profondi respiri, chiedendosi se sarebbe riuscita a mantenersi in equilibrio quando si fosse messa in piedi. Tremava. Essere stata attirata dentro talmente in profondità, trovarsi a tal punto irretita e, sì, dipendente… come una droga, pensò. Come un narcotico. — Aspetta un momento, Dan. Mi sto svegliando lentamente, credo…

— Mi spiace. La tua luce era accesa. Pensavo…

— Va bene. Solo un secondo. — Recuperò l’equilibrio. Gli ultimi fili di quella radiosità verde stavano sbiadendo nella sua mente. Andò infine alla porta. Dan si stagliò sulla soglia, una figura scura contro il buio, gli occhi stralunati, quasi, molto bianchi. Quando entrò, vide che luccicava di sudore, che il suo volto era assai arrossato: una chiara sfumatura rosa-carico sotto la carnagione cioccolata. Non aveva mai pensato che fosse possibile. Non lo aveva mai visto così agitato prima di allora, Dan, sempre gioviale e rilassato. Elszabet chiuse la porta alle sue spalle e cercò qualcosa da offrirgli, un tonico, un drink, qualunque cosa pur di calmarlo. Lui scosse la testa. — Ti spiace se io… — lei gli chiese, mentre la scatola delle fiale le spuntava in mano. Un altro scuotimento di testa. Lei tirò fuori una fiala, il vapore tranquillizzante passò dalle sue narici alla corteccia cerebrale in mezzo microsecondo. Ah… ah. Così andava molto meglio.

— Cos’è successo, Dan?

Dan si era seduto sull’orlo del suo letto. Pareva un uomo che avesse appena fatto una corsa di dieci chilometri e avesse grossi problemi a recuperare il fiato. — Mi sento un po’ sciocco, adesso, ad essermi eccitato tanto — disse. — Mi era parso di dover correre subito qui a dirtelo, è tutto.

Era esasperante, anche se con tutta probabilità non intendeva esserlo. Elszabet replicò comunque, irritata: — Dan, cos’è successo? Hai intenzione di dirmelo oppure no?

Impacciato, Dan replicò: — Finalmente ne ho fatto uno anch’io, proprio adesso. Un sogno spaziale. Il mio primo.

— Adesso capisco perché sei così agitato.

— Dopo che per tutti questi mesi ho cercato di analizzare i dati sull’immaginario degli altri senza avere in effetti la più pallida idea di cosa veramente provassero…

— Oh, Dan, Dan, sono così contenta che ti sia capitato, finalmente…

— Era la Stella Doppia Uno. Ho chiuso gli occhi e, bang! Ero là, sole rosso, sole azzurro, blocco di alabastro. E la grande creatura con le corna sopra di esso. E altre due o tre simili a poca distanza da lì, intente a far qualcosa, come se stessero scavando un pozzo. Ma la chiarezza dell’immagine, Elszabet! L’assoluta convinzione che quella fosse la realtà! Diavolo, non c’è bisogno che te lo dica. Ma non ho potuto fare a meno di sentirmi sopraffatto… tutto questo tempo a chiedermi se l’avrei mai sperimentato, a chiedermi cosa ci fosse di sbagliato in me, perché mai ero bloccato… — Sorrise. — Così, dovevo dirlo a qualcuno. A te. Sono venuto di corsa, e la tua luce era accesa, e… sei seccata, non è vero? Che ti abbia svegliato per qualcosa di tanto banale.

Con voce gentile, Elszabet gli rispose: — È soltanto che ero nel mezzo di un sogno anch’io, sai com’è quando qualcuno ti strappa da un sogno… qualunque sogno.

— Ed era un sogno spaziale?

— Il Mondo Verde. Più ricco e più complesso di quanto l’avessi mai visto prima.

— Mi spiace.

Lei scrollò le spalle. — Sono contenta per te. Sono contenta che tu sia venuto a dirmelo. E non definirlo banale. Qualunque cosa siano questi sogni, non sono banali.

— Perché pensi che finalmente anch’io ne abbia fatto uno stanotte, Elszabet?

— Immagino che fosse venuto finalmente il tuo turno.

— Un processo aleatorio, vuoi dire? No, no, non lo credo.

— Cosa vuoi dire?

Dan rimase silenzioso per qualche istante. — Sono sempre stato veloce a proporre teorie. Ma un mucchio di volte le mie teorie non reggono molto bene, vero?

— Io non faccio parte della Commissione d’Esame. Cosa pensi, Dan?

— Tom.

— Tom?

— Il fatto che sia qui. Un effetto di prossimità. Ascolta, hai esaminato le statistiche di questa settimana. La frequenza dei sogni spaziali si è triplicata da quando Tom è qui. L’hai sperimentato tu stessa, no?

— Si. Proprio così.

— E hai detto appena adesso che il sogno che stavi facendo, quello che ho interrotto, è stato il più ricco e il più complesso che hai avuto finora, giusto? Perciò, con che cosa ci troviamo? La frequenza dei sogni è aumentata tra i soggetti suscettibili. A quanto pare, inoltre, l’intensità dei sogni è aumentata. E adesso qualcuno che aveva dimostrato al cento per cento la sua non suscettibilità ai sogni da quando tutta la faccenda è cominciata, ne ha fatto finalmente uno anche lui. Sta succedendo qualcosa. E qual è il fattore variabile che è cambiato qua dentro, questa settimana? Tom. Un individuo molto strano, probabilmente schizofrenico, arriva da noi, qualcuno che, siamo tutti d’accordo, emana un’aura ben distinta, una vibrazione ben definita d’energia psichica… mi pare sia stata tu, non è vero, a fare per prima questa osservazione, ogni conversazione che hai avuto con lui non ti ha forse lasciato con la sensazione che avesse una qualche forma d’un particolare potere?

— Assolutamente — replicò Elszabet. — Ma dove stai cercando di arrivare? Che è Tom l’origine dei sogni spaziali?

— Ha più senso della mia penultima idea, che ci fosse una qualche forma di trasmissione da una nave spaziale extraterrestre in avvicinamento, non ti pare?

— Vuoi la mia onesta opinione?

— Di’ pure.

— Ho pensato anch’io la stessa cosa, devo ammetterlo. Che esista qualche collegamento tra la presenza di Tom al Centro e il modo con cui i sogni si sono manifestati più spesso. Ma ugualmente penso che preferirei credere alla teoria della nave spaziale.

— Ma Leo Kresh l’ha sgonfiata. La nostra Sonda Stellare non ha avuto il tempo di raggiungere la sua destinazione e generare una risposta da parte degli abitanti di…

— Perché mai Starprobe dovrebbe entrarci per qualche cosa, Dan? Supponi che le due cose non siano collegate. Che ci sia davvero una nave spaziale in arrivo da Dio sa dove, la quale ci trasmette film di altri sistemi solari. Non collegati in nessun modo con il fatto che abbiamo spedito fuori una sonda interstellare una generazione fa o giù di lì.

— Adesso sei tu che moltiplichi le ipotesi — obbiettò Dan Robinson. — Certo, è quello che potrebbe essere, ma non abbiamo nessuna ragione al mondo per pensare che sia proprio questo che sta accadendo. Mentre abbiamo qui Tom proprio in un momento in cui lo schema dei sogni sta decisamente cambiando.

— Una coincidenza — suggerì Elszabet. — Perché mai la vicinanza di Tom dovrebbe avere la sia pur minima rilevanza?

— Stai soltanto facendo la parte dell’avvocato del diavolo, oppure hai qualche ragione per non accettare l’ipotesi di Tom?

— Non so. C’è una parte di me che dice: sì, sì, dev’essere Tom, non è ovvio? E c’è un’altra parte la quale dice invece che la cosa non ha senso. Anche supponendo che sia possibile per qualcuno trasmettere immagini nella mente di qualcun altro… dov’è mai la prova concreta di questo? Non dimenticarti che i sogni si sono verificati dappertutto nell’Ovest, Dan. Tom non può trovarsi dappertutto allo stesso tempo, San Diego, Denver, San Francisco…

— Forse ci sono diverse origini. Diversi Tom che vagano là fuori.

— Dan, per l’amor del cielo…

— O forse no. Non so. Ciò che penso è che quest’uomo è nella morsa d’una psicosi così potente che in qualche modo è capace di trasmetterla agli altri. Una specie di Typhoid Mary psichica capace di spargere allucinazioni per migliaia di chilometri. E più ti avvicini a lui, Elszabet, più intense e più frequenti sono le allucinazioni, malgrado sia disposto ad ammettere che la prossimità può essere uno solo dei fattori determinanti, più significativo nel caso d’individui a bassa suscettibilità come me. Ma nel caso di qualcuno come April Cranshaw, la quale sembra avere una suscettibilità insolitamente alta? Si è trovata intrappolata in un sogno dopo l’altro per tutta la settimana, sia nel sonno che da sveglia.

— E Ed Ferguson? — chiese Elszabet. — Per quello che ne so, è l’unico qui dentro, escluso te, che non ha mai mostrato la più piccola suscettibilità. Sarei più disposta ad accettare la tua idea, se dovesse risultare che finalmente anche Ferguson sogna.

— Cosa vorresti fare? Andarlo a svegliare adesso, subito, e chiederglielo?

— Basterà farlo domattina, Dan.

— Certo, certo, questo ha senso. E dovremmo intervistare anche April. Fare in modo che si trovi nella stessa stanza con Tom e osservare ciò che accade. Se ci sono degli effetti d’ipersensibilità in prossimità diretta. Dovrebbe essere facile organizzarlo. — Si sporse in avanti, fissando intensamente lo spoglio pavimento di legno. Dopo un po’, riprese: — Sai, Elszabet, ho pensato che il sogno che ho fatto fosse la cosa più bella che abbia mai visto in vita mia. Quel bizzarro paesaggio, quei colori, il cielo, illuminato da quattro o cinque colori, come il più grande tramonto che sia mai esistito…

— Aspetta fino a quando non avrai visto anche gli altri — disse Elszabet. — La Sfera di Luce. I Nove Soli. Il Mondo Verde. Specialmente il Mondo Verde.

— Ancora più bello della Stella Doppia Uno?

— Spaventosamente bello — annui lei, con voce molto tranquilla.

— Spaventosamente?

— Sì — lei ribadì. — Il sogno che stavo facendo quando sei venuto a bussare alla porta… ero seccata con te, sì, per averlo interrotto. Allo stesso modo in cui Coleridge dev’essersi seccato quando stava sognando «Kublai Khan» e la persona arrivata da Porlock lo disturbò. Tu conosci quella storia, no? Ma in un certo senso, sono contenta che tu mi abbia interrotto. Questi sogni sono come le droghe. Adesso per una buona metà del tempo non sono più sicura se vivo qui e sogno di , o all’incontrano. Mi capisci, Dan? Mi fa paura il fatto di esserci talmente tirata dentro, qualunque tipo di fantasia ti attira così a fondo, che diventa così reale per te… non c’è certamente bisogno che lo dica, non è vero, Dan? Delle volte, quando emergo da uno di quei sogni, penso che sto perdendo gradualmente il senno, quel poco che — forse — mi è ancora rimasto. — Fu scossa da un brivido e incrociò le braccia sul petto. — Fa freddo qua dentro, e l’estate è quasi finita, immagino. Sai un’altra cosa, Dan? Adesso i sogni cominciano a sovrapporsi. Stanotte ho visto figure dei Nove Soli e della Gigante Azzurra mescolati in una festa sul Mondo Verde. Come se tutto stesse confluendo insieme in un unico, immenso e folle film. È una novità. E davvero sconcertante.

— È tutto molto sconcertante, Elszabet.

Lei annuì. — Vorrei avere anche soltanto la più pallida idea di quello che sta succedendo. Un’epidemia di sogni uguali che sta coinvolgendo centinaia di migliaia di persone. Come? Come? Trasmissioni da una nave spaziale aliena? Uno psicopatico itinerante che dissemina tutt’intorno, a caso, visioni stravaganti? Forse stiamo diventando tutti psicopatici. Le ultime grottesche convulsioni della società occidentale industrializzata: diventiamo tutti matti e scompariamo inghiottiti dai nostri stessi sogni.

— Elszabet…

— Non so. Non so più niente.

— È tardi. Dovremmo cercare di dormire un poco. Domattina cominceremo a fare qualche altro controllo su tutta questa faccenda, d’accordo?

Dan Robinson si alzò e si diresse verso la porta. Elszabet provò un’improvvisa ondata di paura, ma non era ben sicura di cosa fosse. Con una voce rauca che era poco più d’un sussurro, disse, inaspettatamente: — Non andar via, Dan. Per favore. Vuoi rimanere qui con me?

2

La donna, quella Elszabet, non aveva dormito bene quella notte, Tom lo vide subito. Era tutta stonata con se stessa, il pugno dentro il suo cuore era più serrato del solito. E c’erano dei cerchi scuri sotto i suoi occhi, e le sue guance erano tirate e scavate. Peccato, fu il pensiero di Tom. A lui non piaceva mai vedere qualcuno infelice, e specialmente Elszabet. Era troppo gentile, buona, saggia: perché mai doveva essere così turbata?

— Sai — le disse, — mi ricordi un po’ mia madre. Me ne sono appena reso conto.

— Volevi bene a tua madre, Tom?

— Tu mi fai sempre domande del genere, non è vero?

— Be’, se mi dici che te la ricordo, vorrei sapere quello che provavi per lei. Così saprò quello che pensi di me. È tutto.

Tom replicò: — Soltanto questo. Oh, quello che io penso di te è molto bello. Che tu mi ascolti, che mi presti attenzione, che ti piaccio. Non ricordo molto di mia madre, a dire il vero. I suoi capelli erano biondi, forse, come i tuoi. Quello che voglio dire è che sei il tipo di persona che avrei voluto fosse mia madre, se avessi saputo com’era mia madre. Capisci cosa voglio dire?

Elszabet pareva sapesse ciò che lui voleva dire. Sorrise, e quel sorriso ammorbidì parte della tensione che vibrava in lei. Elszabet avrebbe dovuto sorridere più spesso, pensò Tom.

— Dove sei vissuto da giovane? — lei gli chiese.

— In un sacco di posti. Nel Nevada, credo. E nell’Utah.

— Nel Deseret, vuoi dire.

— Deseret, sì, è così che lo chiamano adesso. E nel Wyoming, anche se, naturalmente, non puoi vivere nella maggior parte del Wyoming, a causa della polvere che il vento ha portato dal Nebraska, giusto? E in qualche altro posto ancora. Perché?

— Me lo stavo chiedendo. Mi pareva che tu non fossi della California.

— No, no. Però sono stato in California altre volte. Tre anni fa, credo. A San Diego. Ci sono rimasto cinque, sei mesi. Era bello e faceva caldo, a San Diego. Però laggiù c’era un mucchio di gente strana. Non parlavano neppure l’inglese, un sacco di loro. Stranieri. Gli africani. I sudamericani. Là ne conoscevo più di qualcuno.

— Cosa mai ti aveva condotto a San Diego? — gli chiese Elszabet.

— Ci sono arrivato a forza di viaggiare. Un giorno sono stato sorpreso dal vento caldo. Sai cosa voglio dire… il vento caldo, le radiazioni. Questo mi è accaduto quando vivevo nel Nevada. Lo sento, sai, quando ci sono le radiazioni soffiate dal vento, la polvere dura. Mi fa sentire un formicolio dentro la testa, proprio qui, sul lato sinistro. E l’ho sentito arrivare, ma dove puoi andare? Questo significa il vento d’oriente, quello che raccoglie la roba dalle parti del Kansas, forse, e la soffia e la soffia e la soffia dritto fino al Nevada. Non c’è nessun posto dove nascondersi quando questo succede. Qui non vi arriva quella roba, vero? Così lontano a occidente. Ma io me ne sono preso una dose e sono stato male per un po’, e ho perso i capelli, sai. E così ho pensato di riposarmi a San Diego fino a quando non avessi recuperato le forze. Poi mi sono rimesso in viaggio. Mi ero stancato di quegli stranieri. Non resto mai a lungo nello stesso posto. Non si sa mai. Qualcuno potrebbe farti del male.

— Qui nessuno ti farà del male, Tom.

— Oh, tu non mi farai del male. Ma questo non significa che nessuno lo farà. Povero Tom. Tom vaga sempre un po’ dappertutto. E il suo vagabondare non cesserà fino a quando non arriveranno gli Ultimi Giorni e faremo la Traversata. Ma gli Ultimi Giorni sono quasi arrivati, sai?

Lei si sporse in avanti. Tutto il suo corpo era in preda alla tensione. Succedeva sempre quando lui si metteva a parlare di quell’argomento. Era la terza o la quarta volta che parlava con lei quella settimana, qui nel suo piccolo ufficio col grande schermo verde sulla parete, e tutte le volte, nel momento in cui lui prendeva a parlare della Traversata o degli altri mondi o di altri argomenti del genere, Tom aveva visto l’improvviso cambiamento che avveniva in lei.

Elszabet disse: — Stamattina mi vuoi dire qualcosa sulla Traversata?

— Cosa vuoi sapere?

— Tutto. Qualunque cosa tu voglia dirmi.

— C’è così tanto… Non so da che parte cominciare.

Elszabet insisté: — Andremo tutti sulle stelle, si tratta di questo? Balzeremo in qualche modo attraverso lo spazio e ricominceremo a vivere su altri mondi.

— È proprio questo, sì. — Lei aveva una macchinetta davanti a sé, qualcosa per registrare le sue parole. Tom vide accendersi una luce rossa. Be’, non c’era niente di male. Si fidava di lei. Non si era mai fidato di molta gente, ma si fidava di lei. Lei non avrebbe fatto niente che potesse causargli del male. — Voglio dire, non ci andremo con i nostri corpi veri e propri. Abbandoneremo il nostro corpo, e soltanto la nostra essenza raggiungerà i nuovi mondi.

— E là ci daranno degli altri corpi. Se andremo sul Mondo Verde, diciamo, riceveremo dei corpi cristallini, con la pelle luccicante e tutte quelle file di occhi?

Tom la fissò: — Conosci il Mondo Verde?

— Li conosco tutti, Tom.

— E sai che sono veri?

Elszabet rispose con voce sommessa: — No, questo non lo so. Io so soltanto che li ho visti nella mia mente, e così è capitato a un mucchio di altra gente. Ho camminato sul Mondo Verde insieme ai suoi abitanti di cristallo, Tom. Nella mia mente. E ho anche visto il popolo degli altri mondi… il popolo dei Nove Soli, con quel singolo, grande occhio, e il popolo della Sfera di Luce con tutte quelle appendici penzolanti…

— La Sfera di Luce, sì, è un bel nome. È la Grande Nube Stellare, quella luce. Quelli che vivono là sono il Popolo dell’Occhio. Tutti quei luoghi sono veri, sai?

— Da quanto tempo li conosci?

— Da quando riesco a ricordare.

— E quanti anni hai detto che hai?

Lui scrollò le spalle. — Trentacinque, credo. Forse trentatré. Più o meno.

— Sei nato appena prima della Guerra della Polvere.

— No, subito dopo che era cominciata — la corresse Tom.

— Tua madre si trovava nella zona radioattiva quand’è scoppiata?

— Sull’orlo — disse Tom. — Sono sicuro che viveva nel Nevada orientale. O forse sull’altra parte del confine del Deseret, nell’Utah. So che si è anche presa un po’ di radiazioni, una punta soltanto, quand’era ancora incinta. Dopo è stata male parecchio. È morta quando ero ancora un bambino. È stato un pericolo schifoso.

— Mi spiace.

— Già. — Era davvero dispiaciuta. Lo sentiva. Quant’è simpatica, pensò. Spero che faccia una bella Traversata, questa Elszabet. Questa donna buona e gentile.

— E le visioni? Risalgono fino ai tempi della tua infanzia?

— Come ho già detto, fino a quando riesco a ricordare. Sulle prime, ho creduto che queste cose le vedessero tutti, ma poi ho scoperto che nessun altro le vedeva e ho pensato di essere pazzo. — Sorrise. — Sono pazzo, immagino, eh? Vivi per tanti anni con tutta questa roba nella testa, ed è sicuro che ti fa diventare un po’ matto. Ma adesso tutti vedono la roba che io vedo. Durante l’ultimo paio d’anni la gente intorno a me ha parlato, ha detto che facevano i sogni, che vedevano il Mondo Verde e il resto… Qualcuno. C’era quest’uomo dalla pelle nera a San Diego, uno straniero, un sudamericano, il quale guidava un tassì: sono rimasto nella sua casa per un po’, una cittadina chiamata Chula Vista, mi aveva affittato una stanza. Ha cominciato ad averle anche lui, le visioni. A sognarle, voglio dire. Ha cominciato a raccontarlo a tutti i suoi amici. A me pareva davvero matto. Me ne sono andato. E poi altra gente, i grattatori con cui viaggiavo… alcuni di loro le vedevano, e qui mi dici che anche tu le vedi, tutti cominciano a vederle, giusto? Ed io… io le vedo meglio, più chiare, più nitide. Adesso ricevo un mucchio di dettagli in più. Il potere si è andato intensificando dentro di me ogni giorno di più: lo sento cambiare. È per questo che so che il Tempo della Traversata si sta avvicinando. Hanno scelto me, i popoli dello spazio, chissà perché, ma hanno scelto me come una specie di battistrada, il primo a sapere di loro, mi segui? Ma adesso tutti lo sapranno. E poi, ad uno ad uno, cominceremo ad andare sui loro mondi. Fa tutto parte del piano dei kusereen, del disegno.

— Kusereen?

— Governano il Sacro Impero. Sono l’attuale grande razza. Sono al vertice da milioni di anni, tutti li riveriscono, perfino gli zygerone, i quali sono essi stessi estremamente grandi, specialmente gli zygerone del Quinto. Credo che gli zygerone del Quinto saranno la prossima grande razza. Cambia… ogni non so quanti milioni di anni. Prima dei kusereen c’erano stati i theluvara, tre miliardi di anni fa. Nel Libro dei Soli è detto che i theluvara potrebbero ancora esistere, da qualche parte, molto lontano, alla fine dell’universo, ma nessuno ha più avuto notizie di loro da lunghissimo tempo, e…

— Aspetta un attimo — l’interruppe Elszabet. — Mi sto smarrendo. I kusereen, gli zygerone, i theluvara…

— Ci vuole tempo per imparare tutto. Io sono rimasto confuso per dieci anni prima che mi diventasse tutto chiaro. Ci sono sterminati milioni di razze, sai, praticamente ogni sole ha dei pianeti, e i pianeti sono abitati, perfino quelli in cui penseresti che non possa esserci nessuna forma di vita perché il loro sole è troppo caldo o troppo freddo, ma c’è vita lo stesso, dappertutto. Come su Luiiliimeli dove vivono i thikkumuuru: è un pianeta di quella grande stella incandescente, Ellullimiilu, che è come una tremenda fornace: là, il suolo stesso si fonde. Ma ai thikkumuuru non importa poiché non hanno pelle, sono come spiriti, sai.

— La Gigante Azzurra — mormorò Elszabet, quasi fra sé.

— Sì.

— E i kusereen: stavamo parlando del loro piano. Vogliono in continuazione nuove razze. Vogliono che la vita si sposti da un mondo all’altro cosicché niente invecchi, niente diventi rancido, che ci siano sempre il cambiamento e la rinascita. È per questo che continuano a stabilire contatti con le razze più giovani… come la nostra. Noi siamo vecchi soltanto di un milione di anni, per loro questo non rappresenta nessun tempo. Ma adesso vogliono che andiamo da loro e viviamo in mezzo a loro, e che scambiamo idee con loro, e sanno che ciò deve accadere presto, poiché qui ci siamo trovati in guai seri, sempre sul punto di farci saltare in aria da soli o di spolverarci a morte o qualcos’altro di simile, e questa adesso è l’ultima possibilità che abbiamo. Cosi, faremo la Traversata, e…

— Ci sono guerre fra queste razze? — domandò Elszabet.

— Combattono fra loro per la supremazia.

— Oh, no — rispose Tom. — Non hanno guerre. Hanno superato di gran lunga quello stadio. Ogni razza che intendeva fare la guerra si è autodistrutta molto tempo fa, milioni, miliardi di anni fa. Ciò accade sempre alle razze bellicose. Quelle che sopravvivono capiscono quanto sia stupida la guerra. Comunque, è impossibile fare la guerra tra le stelle, poiché l’unico modo per viaggiare da stella a stella è quello di fare la Traversata, e non si può Traversare a meno che il mondo ospitale non sia disposto ad accoglierti e ad aprirti la strada, così, in qual modo mai potrebbe esserci un’invasione? C’è stata una volta, durante la Signoria dei veltish nel Settimo Potentato, quando…

— Aspetta — intervenne Elszabet. — Ancora una volta stai andando troppo in fretta. Tu sai cosa mi piacerebbe fare? Mi piacerebbe compilare una lista. Tutti questi mondi differenti, i loro nomi, la forma fisica della gente che vive su ciascun pianeta. La immetteremo nel computer, sì, la piazzeremo proprio qui sulla parete dove c’è il grande schermo. Così potrò mettere tutto in ordine. E dopo, voglio che tu mi racconti la storia di ognuno di questi mondi diversi, tutto quello che sai, le dinastie delle razze regnanti e tutto il resto, basterà che tu mi racconti tutto, ci penseremo dopo a organizzarlo. Vuoi farlo con me?

— Sì. Sì. Ci puoi scommettere che lo farò. È importante che tutti sappiano queste cose, cosicché, quando faremo la Traversata, non saremo tutti disorientati. Cosicché sappiamo del Disegno, sappiamo quali sono i Mondi Cardine, e tutto il resto. — Tom sentì crescere in sé con tanta forza la febbre della gioia che si trovò a pensare come, in quello stesso momento, avrebbe potuto evocare una visione. Quella donna, quella donna meravigliosa… non aveva mai conosciuto nessuno come lei. — Dove penso che sia cominciato — disse, — è con i theluvara, quando governavano l’Impero…

Elszabet sollevò una mano. — No, non adesso, Tom. Mi spiace moltissimo. Stamattina non c’è tempo. Devo andare a dare un’occhiata alla gente che ho in cura qui dentro, i malati… Supponi che io ti dia un giorno per pensarci su un po’, va bene? E poi c’incontreremo di nuovo qui domani, e alla stessa ora ogni mattina, fino a quando non mi avrai detto tutto quello che vuoi dirmi. Va bene?

— Sicuro. Come vuoi tu, Elszabet.

Qualcuno bussò. Sul piccolo schermo accanto alla porta Tom vide l’immagine della persona in piedi di fuori, una donna dal corpo morbido e rotondo, il volto sudato, che indossava un maglione rosa pallido. Tom l’aveva vista altre volte. — Vieni dentro, April — la chiamò Elszabet, e premette qualcosa che fece aprire automaticamente la porta. — Tom, questa è April Cranshaw. È una delle persone che ho in cura qua dentro. Ho pensato che voi due potevate volervi conoscere un po’ meglio, forse. Fai una passeggiata con lei, adesso, qui intorno al Centro. Credo che vi piacerà molto conoscervi.

Tom si voltò verso la grassona. Pareva molto giovane, quasi una sorta di gigantesca ragazzina, anche se poteva vedere che in realtà era vecchia quasi quanto lui ed erano soltanto le sue carni, come il grasso d’un bimbo, a levigare tutte le rughe del suo viso. Ed era spalancata, spalancata più di chiunque altro lui avesse mai conosciuto. Tanto quanto quell’uomo, Ed Ferguson, era chiuso, ecco com’era spalancata questa April. Tom aveva la sensazione che tutto quello che gli sarebbe bastato fare era toccare con la punta del dito il suo polso, ed ogni visione che lui finora aveva avuto si sarebbe riversata dentro di lei, ecco quant’era spalancata. Anche lei pareva saperlo: lo fissava in maniera timida, intimorita. Senti, avrebbe voluto dirle, io non ho intenzione di farti del male. Non sono Stidge, non sono Mujer. Non ti farò niente di male.

— Ti va bene April? — le chiese Elszabet. — Vuoi portare Tom a fare una passeggiata?

Con voce sommessa e tremolante, April rispose: — Se vuoi che lo faccia.

Elszabet corrugò la fronte. — Qualcosa non va, April?

La ragazza grassa stava diventando tutta rossa. — Devo? Davanti a…

— Va tutto bene. Dimmelo.

— Credo di essere un po’ scombussolata stamattina — disse infine la ragazza, con voce sommessa, il fiato mozzo, la bambina dentro il suo corpo enorme. — So che vuoi che io vada a fare una passeggiata con lui, ma mi sento scombussolata, in un certo senso.

— Per che cosa?

— Non lo so. — Un’occhiata guardinga in direzione di Tom. — I sogni spaziali. Le visioni. Si stanno manifestando così vicine l’una all’altra, dottoressa Lewis. A volte non so neppure dove in realtà mi trovo, tanto sono intense. Se mi trovo qui o su uno di quei mondi, intendo dire. E da quando sono entrata nel tuo ufficio, proprio adesso, voglio dire… è…

— Continua, April. — Elszabet si era sporta di nuovo in avanti, rivolgendo alla grassa ragazza tutta la sua attenzione, senza più guardare Tom.

— Voglio dire… sta… diventando… molto… molto… difficile… per… me… pensare… in modo chiaro…

— April? April?

— Sta per cadere — disse Tom. Si precipitò verso di lei mentre April barcollava e riuscì a passarle le braccia intorno al corpo appena in tempo, sotto il seno, e a sorreggerla. Era pesante. Era incredibilmente pesante. Doveva pesare due o tre volte più di lui, pensò, lottando per tenerla su. Elszabet si avvicinò sull’altro lato e lo aiutò. Insieme, l’abbassarono con cautela fino al pavimento. April giacque là sulla schiena, respirando affannosamente. Elszabet si voltò verso Tom con un sorriso nervoso e disse: — Vuoi uscire un momento, Tom? Vai in fondo al corridoio e chiedi al dottor Robinson di venire qui. Tu sai chi è… l’uomo alto dalla pelle scura. Vai e fallo venire qui, Tom. Vuoi farlo per favore?

— Sono stato io la causa? — chiese Tom.

— È difficile saperlo, non è vero? Ma starà bene fra un minuto o due.

— Immagino che dovrò fare con lei quella passeggiata un’altra volta — disse lui. — Va bene. Il dottor Robinson. Vado a chiamarti il dottor Robinson. Grazie per avermi parlato, signorina Elszabet. Significa molto per me, avere qualcuno con cui parlare.

Uscì dalla stanza e si allontanò lungo il corridoio.

— Dottor Robinson? Dottor Robinson?

Quella povera ragazza grassa, pensò Tom, perdere i sensi in quel modo. Sarà una benedizione, per qualcuno come lei, abbandonare il corpo. Quella povera ragazza grassa. Le auguro che faccia la Traversata non appena sarà possibile. Spero che possiamo andarcene… magari già la settimana prossima. O domani, anche. Domani.

3

Quando Ferguson tornò al dormitorio dopo la terapia del mattino, trovò due lettere che giacevano in mezzo al suo letto. Le prese su, le lasciò cadere sul pavimento vicino al letto, e si distese, con le ossa stanche. Poteva dare una passata alle lettere più tardi. Comunque, non c’era mai niente nelle lettere che valesse la pena. La dottoressa Lewis esaminava le lettere di tutti come prima cosa, e censurava tutto quello che poteva esser considerato inquietante.

Era stanco, Gesù sofferente. Prima un colloquio lungo un’ora con il dottor Patel, quel piccolo indù pedante dall’accento britannico, che veniva sempre a far domande da almeno sei differenti, inaspettate angolazioni. Lavorava ancora ai sogni spaziali; cosa provava lui, Ferguson, nei confronti di questi, il fatto che gli altri li facevano e lui no… Oppure adesso li faceva anche lui? — Non è, per caso, signor Ferguson, che anche lei adesso abbia cominciato ad avere delle percezioni di quel tipo, non è vero, signor Ferguson? — Vai a farti fottere, dottor Patel. No, non te lo direi neppure se le avessi. E poi per un’ora a saltare su e giù come un matto al centro ricreativo, la seduta di terapia fisica condotta da quella lesbica viriloide della Dante Corelli… santissimo Gesù, ti fanno ballare fino a quando non crolli, e neppure si scusano…

Se soltanto fossi riuscito a filarmela da questo posto quando ho tentato, pensò Ferguson. Ma no, no. Loro mi hanno piantato dentro quel loro dannato, piccolo chip. Gli basta mandar fuori il loro elicottero e mi tirano su come un pesce, ecco com’è stato, vero? Siamo davvero scappati, io e Allie, eravamo rimasti fuori per tre dannate ore, no? Cinque, forse. E poi mi hanno ripescato.

Si guardò intorno. Gli stessi vecchi, scialbi compagni di stanza. Nick Doppio Arcobaleno discese dal letto mezzo addormentato, borbottando qualcosa su Toro Seduto, Nuvola Rossa, Kit Carson, Buffalo Bill. Povero bastardo, doveva spazzar via dieci volte al giorno dalla sua testa il generale Custer. Gli deve far proprio bene. E laggiù l’altro caso triste, il messicano, Menendez. Che cantilenava fra sé per tutto il tempo, pregando gli dèi aztechi. Un tipo simpatico e pacifico. Probabilmente sognava di metterci tutti sull’altare e di tagliarci fuori il cuore con un coltello di pietra. Gesù, Gesù, che razza di mentecatto!

Ferguson prese su una delle sue lettere e infilò il piccolo cubo nella fessura dell’ascolto. Sullo schermo di tre per cinque comparve l’immagine d’una bionda di bell’aspetto. Sarebbe stata formidabile se non avesse avuto un aspetto così solenne.

— Ed — disse la bionda. — Sono Mariela. Tua moglie, nel caso in cui l’abbiano mondato dalla tua testa.

Be’, sì, l’avevano fatto. Come avrebbe dovuto affrontare quella situazione? Ferguson interruppe la lettera e toccò il proprio anello. — Informazioni moglie — disse.

In risposta gli arrivarono i dati che aveva immagazzinato: — Moglie: Mariela Johnston. Compleanno sette agosto. Ne avrà trentatré questa estate. L’hai sposata a Honolulu il quattro luglio 2098.

Ferguson lasciò che la registrazione arrivasse fino in fondo, chiedendosi come la gente che comandava in quel posto si aspettasse che lui riuscisse a tirar fuori un senso da qualunque cosa, dal momento che non sapevano che lui disponeva di quel piccolo anello registratore che lo informava della sua storia. Attivò nuovamente il cubo-lettera e Mariela tornò sullo schermo. — Voglio soltanto che tu sappia, Ed, che tornerò alle Hawaii. Ho prenotato un posto su un battello per martedì prossimo, il che sarà un giorno dopo che avrai ricevuto questa. Non che io non ti ami più, giacché non è così, ma dopo quella visita che ti ho fatto al Centro di mondatura mentale lo scorso luglio ho sentito che non c’era più niente fra noi, che forse neppure ti ricordavi chi io fossi, che certamente non t’importava più di me, e così voglio andarmene dalla California prima che ti lascino uscire. Per il bene di entrambi. Farò le carte necessarie a Honolulu, e…

E va bene, Mariela. E comunque, chi se ne frega?

Spense il primo cubo e infilò dentro il secondo. Questa lettera veniva da una splendida testarossa dall’aria ardente la quale diceva di chiamarsi Lacy. — Informazioni Lacy — disse Ferguson al suo anello, e scoprì che era una donna di San Francisco, evidentemente una sua ragazza, la sua partner nell’affare di Betelgeuse Cinque. Va bene, la fece ricomparire sullo schermo, pensando che forse gli avrebbe detto che aveva arrangiato le cose per venire a fargli visita in quel posto, e si chiese se ciò avrebbe potuto causargli qualche problema con Alleluia.

Ma non era affatto questo che lei aveva in mente.

— Ed, devo dirti qualcosa di meraviglioso, che ho trovato la felicità e un significato alla mia vita per la primissima volta — disse Lacy. — Ricordi quella volta d’estate, quando ti dissi di aver fatto uno strano sogno, con quel bizzarro pianeta e la creatura extraterrestre con le corna? Per me è stato l’inizio. È stata una rivelazione religiosa, anche se allora non l’avevo capito. Ma da allora ho scoperto il movimento dei tumbondé, che forse tu non conosci molto bene. È cominciato a San Diego, un grand’uomo, chiamato Senhor Papamacer, che ci sta conducendo a un’unione con gli dèi, ed io ci sono entrata anima e cuore. Mi sono unita alla marcia in direzione nord, centinaia di migliaia di noi che seguono la guida del Senhor, e mi sento completamente trasformata e perfino redenta. È come se fossi stata purificata da tutte le cose brutte e losche che facevo, perdonata, che mi sia stata data la possibilità di dare un taglio netto al passato. E tutto grazie alla visione che ho avuto, quella strana figura sotto quei due strani soli…

Gesù, pensò cupo Ferguson. Ascoltatela. Pare un’educanda. E questi pazzi sogni che cambiano la vita di tutti. Tutto il mondo dà i numeri. Tutti, salvo me.

— … e stiamo marciando verso il Settimo Posto dove ci sarà offerta la redenzione finale. Quello che voglio dire è che è probabile che passiamo vicino a Mendocino fra non molto, e penso che se tu riuscissi in qualche modo a uscir fuori da Nepenthe e unirti a noi, potresti consegnarti ai tumbondé e accettare la guida del Senhor Papamacer, anche tu ti troveresti trasformato, sentiresti tutta l’amarezza e l’infelicità che hanno contrassegnato la tua vita lasciarti in un attimo, come è successo a me, e…

Ma sicuro. Esci fuori da qui a passo di valzer e arruolati con il Senhor, chiunque sia. Bastava soltanto quello. La dottoressa Lewis ha già letto la lettera, Lacy, pupa. Se ci fosse una possibilità su un milione di andarmene di qui, pensi che adesso me ne starei qua dentro ad ascoltarti? Ma davvero?

— … e sono fiduciosa che la benedizione di Maguali-ga verrà concessa anche a te, che la luce splendente di Chungirà-Lui-Verrà entrerà nella tua anima… se soltanto tu ti unissi a noi, caro Ed, vieni da noi e insieme intraprenderemo il pellegrinaggio fino al Settimo Posto…

Ferguson corrugò la fronte e spense il cubo. Che merda demenziale. Partire per avere un’unione con gli dèi. E l’altra che se ne tornava dalla sua famiglia alle Hawaii, per lo meno qui c’era qualcosa di sensato. Ma questo, questa roba da matti…

Si era sbarazzato di tutte e due, così almeno pareva. E va bene. Va bene. C’era ancora Alleluia, che valeva loro due messe assieme. In qualche maniera c’era sempre una donna migliore dell’ultima, quando lui ne aveva bisogno. Ferguson scosse la testa cercando di schiarirsela. Si chiese cosa stesse facendo adesso Alleluia. Sarebbe uscito a vedere se poteva trovarla. Forse una passeggiatina nel bosco… il loro abituale folleggiare di mezzogiorno…

— Ed? — lo chiamò una voce da fuori. — Ed, sei là?

Ferguson aggrottò le sopracciglia. — Chi è?

— Sono io, Tom. Hai un po’ di tempo libero?

Un altro matto. Be’, perché no? — Ma sicuro — rispose. — Aspetta, ti faccio entrare.

Aprì la porta. Un groviglio di capelli arruffati, occhi strani, spiritati, che lo fissavano. C’era qualcosa di sorprendente, in quel tizio, non c’era dubbio. Decisamente non giocava con un mazzo intero. Ferguson rimase lì incerto, chiedendosi cosa mai Tom avesse in mente. Sempre che avesse in mente qualcosa.

— Oggi è il gran giorno per te — gli disse Tom.

— Sì? Davvero?

— Ricordi la settimana scorsa, la prima volta che abbiamo parlato? Quando ti dissi che ti avrei fatto vedere come fare i sogni spaziali?

— Hai detto questo?

— Nella sala mensa. Sì. Eravamo seduti con quel piccolo sacerdote, e tu mi hai dato un po’ di bourbon, e…

— Non mi ricordo una merda della settimana scorsa — ribatté Ferguson, in tono esausto. — Non lo sai? Ricordo che ci siamo incontrati da qualche parte, so che il tuo nome è Tom, tutto il resto è scomparso. Mondato. È quello che fanno in questo posto, piallano la tua mente. Lo sai, no?

Tom fece un piccolo, strano gesto come per liquidare ciò che Ferguson aveva detto, neanche fosse un pettegolezzo, poco più. — Bene, se tu non lo ricordi, io invece sì. Posso sentire la tua infelicità, amico. E intendo aiutarti a uscirne. Su, vieni, andiamo a fare una passeggiatina. In mezzo al bosco, dove c’è il silenzio, dove c’è la pace. Non hai ancora fatto un sogno spaziale, giusto?

— No — rispose Ferguson. — Da quello che riesco a ricordare, no, non l’ho mai fatto. Salvo… — Fece una pausa.

— Salvo cosa?

Ferguson corrugò la fronte. — Non ne sono sicuro, ma c’è stato qualcosa… Aspetta. Fammi controllare. — Andò alla toilette, perché Tom non potesse vedere quello che stava facendo, toccò il suo anello e chiese la sezione relativa agli avvenimenti insoliti, per la settimana dall’otto ottobre. La sua voce, bassa e tranquilla, sgorgò dal registratore, descrivendo ogni genere di cose, qualunque cosa gli fosse capitata negli ultimi giorni e che lui avesse giudicato degna di essere preservata dalla mondata. La maggior parte erano soltanto cianfrusaglie. Ma poi arrivò una registrazione che risaliva a due notti prima: — Qualcosa che assomiglia un po’ a un sogno spaziale, la notte scorsa, forse. Soltanto quello che potrebbe essere un guizzo esterno, comunque… la sensazione che il mondo fosse avvolto in una nebbia verde. Credo sia qualcosa di simile ai sogni che fanno loro, il sogno del Mondo Verde. È tutto quello che ho sognato, la nebbia. Non credo sia la cosa vera. Ma forse era un inizio.

Tom lo stava guardando in maniera strana, quando uscì.

— Hai parlato con te stesso, là dentro?

— Già — disse Ferguson. — Una piccola conferenza con me stesso. Ascolta, uno dei sogni spaziali ha a che fare con la nebbia verde, non è vero?

— È il Mondo Verde, un luogo meraviglioso.

— Non saprei. Ho visto soltanto la nebbia nel sonno, l’altra notte.

La nebbia verde.

— È tutto? Soltanto la nebbia?

— Soltanto la nebbia.

— Va bene — disse Tom. — I sogni stanno cercando d’irrompere, allora. È un inizio. Forse perché io sono qui, l’influenza è più forte. Ma hai visto. Puoi fare proprio come chiunque altro, Ed. E adesso vieni con me, fuori nel bosco.

— A far cosa?

— Te l’ho detto. Ti darò un sogno spaziale. Ma dovremmo andare dove nessuno ci può disturbare, perché tu devi concentrarti. D’accordo, Ed? Vieni. Vieni, adesso.

— Non funzionerà. Dimmi: come posso sognare quando sono completamente sveglio?

— Basterà che tu venga con me — disse Tom.

Ferguson scrollò le spalle. Non aveva niente da perdere, vero? Tanto valeva che ci provasse. Annuì, e uscirono insieme nel caldo mattino d’autunno, percorsero il lato della palestra e infilarono il sentiero che si perdeva nel bosco. Passarono accanto ad alcune persone, mentre camminavano: Dante Corelli, April Cranshaw, Mug Watson il giardiniere. Dante sorrise e li salutò con un cenno della mano, il giardiniere non prestò loro la minima attenzione, la grassa April rivolse loro una rapida occhiata spaventata e si voltò subito dall’altra parte come se avesse visto un paio di lupi mannari usciti a farsi una camminatina. Povera, matta grassona, pensò Ferguson. La sola cosa che l’avrebbe fatta star meglio era farsi fottere una o due volte. Ma chi avrebbe voluto farlo con lei? Non io, ci puoi scommettere. Gesù Santo, non io.

— Che ne dici se ci fermassimo qui? — disse, rivolto a Tom.

— Benissimo, questo posto va benissimo. Siediti su questa roccia, vicino a me. Così va bene. Adesso, la cosa che devi sapere — aggiunse Tom, — è che l’universo è pieno zeppo di essere benevoli. Va bene? Ci sono più soli di quanti chiunque possa contare, e tutti questi soli hanno pianeti, e su questi pianeti c’è della gente, non gente come noi, ma gente lo stesso. Sono tutti vivi e si trovano là fuori in questo stesso istante, intenti a vivere la loro vita. Va bene? E loro sanno che noi siamo qui. Ci stanno chiamando. Ci amano. Amano ognuno di noi e ci vogliono raccogliere nel loro seno. Mi segui, Ed? Devi crederci. Attraverso il veicolo dei sogni si sono messi in contatto con me, ed io sono l’emissario, io sono il battistrada che condurrà tutti alle stelle. — Adesso si era sporto ancora di più verso Ferguson. I suoi strani occhi scuri lo penetravano come due trapani. — Ti sembra tutto un mucchio di cose pazzesche, Ed. Devi provare a credere. Soltanto per il momento, deponi la tua rabbia, deponi tutto il tuo odio, tutta quella roba micidiale che si trova dentro di te come un grumo di ghiaccio. Di’ a te stesso che questo tizio, Tom, è pazzo, certo, ma fingi, soltanto per un minuto, che sappia di cosa sta parlando. Va bene. Va bene. Fingi. Nessuno saprà mai che Ed Ferguson ha creduto a qualcosa di bizzarro per una sessantina di secondi. Tom non lo dirà a nessuno. Credimi, Tom non lo dirà a nessuno. Tom ti ama. Tom vuole aiutarti, Ed, guidarti. Dammi le mani, adesso. Mettile nelle mie.

— Che cazzo? — esclamò Ferguson. — Ci teniamo anche per mano, adesso?

— Credi in me. Credi in loro. Vuoi continuare a sentirti come ti sei sentito durante tutta la tua vita? Soltanto per una volta, lascia andare ogni altra cosa. Lascia che tutto si spalanchi. Lascia che la grazia ti inondi. Dammi le mani. Cosa pensi? Che io sia una specie d’invertito? Uh. Uh. Sto soltanto cercando di aiutarti. Le mani, Ed.

A titolo di prova, incerto, Ferguson gli porse le mani.

— Adesso rilassati, lasciati andare. Sai come si fa a sorridere? Non credo di averti mai visto sorridere. Fallo adesso. Fingi, se è l’unico modo in cui sai farlo. Soltanto un sorriso sciocco, gli angoli della bocca piegati all’insù, non preoccuparti di quanto ti paia sciocca la cosa. Ecco. Ecco. Ecco… così. Voglio che tu continui a sorridere. Voglio che tu dica a te stesso che dentro di te c’è uno spirito immortale creato da Dio, il quale ti ha amato in ogni istante della tua vita. Sorridi, Ed. Sorridi! Pensa all’amore. Pensa ai mondi là fuori che ti aspettano. Pensa alla nuova vita che sarà tua quando abbandonerai il corpo e farai la Traversata. Lassù potrai essere chi vorrai, sai. Non dovrai essere tu. Potrai essere tenero, amorevole e gentile, e nessuno rìderà di te, se sarai così. È una nuova vita. Continua a sorridere, Ed. A sorridere. A sorridere. Ecco. Non sembri affatto sciocco, sai, hai un aspetto meraviglioso. Sembri trasformato. Adesso dammi le mani. Dammi… le… mani… le tue… mani…

Ferguson si sentiva impotente. Voleva resistere, voleva erigere un muro contro qualunque cosa tentasse di aprirsi la strada a colpi di ariete dentro la sua mente, e per un attimo riuscì effettivamente a sollevarlo. Ma poi crollò, e fu incapace di opporre resistenza in un qualunque modo. Le sue mani si sollevarono in alto come due palloni, e Tom le prese, le serrò saldamente nelle sue, e nell’istante del contatto qualcosa di simile ad una scintilla elettrica scoccò attraverso il cervello di Ferguson, facendolo sobbalzare. Volle sottrarsi, ma non poté farlo. Non gli rimaneva più nessuna energia. Rimase seduto immobile, avvertendo la forza delle galassie che si riversava dentro di lui, e lui non aveva nessun modo per resistere.

E vide.

Vide il Mondo Verde, la sua gente alta, snella e risplendente che si muoveva con delicata agilità dentro uno scintillante padiglione di vetro. Vide il sole azzurro, che rovesciava fuori un torrente pulsante di fuoco. Vide i pianeti dei Nove Soli. Vide… vide… vide…

… un torrente d’immagini. Che lo stordirono, lo abbagliarono. La sua mente turbinava a causa della loro moltitudine. Tutto, tutti i sogni insieme, un mondo sull’altro, sull’altro e sull’altro ancora. Paesaggi, città, strani esseri, gli imperi delle stelle. Tremò e rabbrividì. Niente voleva rimanere fermo. Una strana gioia lo sopraffece, un uragano di beatitudine. Gridò e barcollò, scivolando in avanti, cadendo praticamente ai piedi di Tom, e giacque là, disteso sul ventre, con la fronte premuta contro il suolo umido, mentre le prime lacrime che riuscisse a ricordare di aver mai versato gli sgorgavano dagli occhi riversandosi in caldi ruscelli giù per le sue guance.

4

La luna era una vivida falce là fuori sopra il Pacifico, e Venere le luccicava subito accanto, un gelido puntolino di luce bianca e pulita. Era una notte chiara e tranquilla, l’aria sgombra dalla nebbia ma tuttavia un po’ ammorbidita ai bordi, forse un accenno dell’imminente stagione delle piogge che tardava ancora ad arrivare, in agguato da qualche parte a nord di Vancouver. Jaspin chiese: — Com’era il nome di quella cittadina dove siamo passati ieri?

— Santa Rosa — disse Lacy. — Un tempo era una città di dimensioni piuttosto grosse.

— Era — mormorò Jaspin. — Questo è il tempo dell’era.

Sedevano sul fianco d’una collina bassa e rincagnata, arrotondata e curva quasi come una mammella, che si ergeva fuori dell’ampio declivio di un pascolo, un mare d’erba. Quel paesaggio intatto della California del Nord, lassù sopra San Francisco, era molto diverso da quello al quale si era abituato vivendo a Los Angeles, dove le cicatrici inflitte nell’anteguerra dall’immensa popolazione e dall’intensivo sviluppo si vedevano dovunque, senza che fosse possibile sradicarle.

Malgrado la luna fosse soltanto una falce, proiettava delle ombre ben stagliate: i solitari e nodosi alberi di quercia, le rocce affioranti, la superficie ruvida dell’erba bruna appassita: ogni cosa risaltava nitida. L’oceano si trovava ad un paio di chilometri davanti a loro. E davanti a loro si stendeva anche l’immane caos della carovana dei tumbondé, praticamente un oceano in sé, una innumerevole moltitudine di veicoli che si stendeva a una sconcertante distanza fino all’autostrada dell’entroterra e anche oltre. A San Francisco e a Oakland il Senhor aveva conquistato talmente tanti nuovi adepti che adesso le dimensioni di quella processione si erano press’a poco raddoppiate. Il pifferaio dello spazio, pensò Jaspin, che raccoglieva i bramosi seguaci con entrambe le mani mentre marciava allegro verso il Settimo Luogo.

Jaspin appoggiò delicatamente la mano sulle spalle di Lacy. Quella era la prima volta che era riuscito a trovarla da tre giorni a questa parte, da quando avevano tolto il campo da fuori Oakland. Aveva cominciato a chiedersi se non gli avesse voltato le spalle, facendo ritorno a San Francisco per qualche ragione, anche dopo che gli aveva detto quanto significassero per lei i tumbondé. Ma non l’aveva fatto, naturalmente. Era semplicemente finita da qualche parte, travolta dal maelstrom dei fedeli. Adesso la processione era così grande che era facile smarrircisi in mezzo. Finalmente, quella sera Jaspin l’aveva vista, che cercava di passare in mezzo alla folla frenetica raccolta intorno alla piattaforma dove il Senhor Papamacer avrebbe dovuto comparire.

— Dimenticatene — le aveva detto. — Il Senhor ha cambiato idea. Stasera sta avendo una comunione privata con Maguali-ga. Andiamo a fare una passeggiata? — Questo era successo due ore prima. Adesso si trovavano sul lato della collina rivolto alla costa e i rumori della carovana si udivano debolmente in distanza.

— Non mi ero mai reso conto che la California fosse così immensa — commentò Jaspin. — Voglio dire, che diavolo, l’ho vista sulle carte geografiche. Ma non puoi capirne davvero le dimensioni fino a quando non ti metti a percorrerla in tutta la sua lunghezza da cima a fondo.

— È più grande di un mucchio di altri paesi — replicò Lacy. — Più grande della Germania, dell’Inghilterra, e forse della Spagna. Più grande di un mucchio di posti importanti. È quello che mi ha detto Ed Ferguson una volta. Il mio ex partner. Tu, sei mai stato in un altro paese, Barry?

— Io. In Messico qualche volta. A fare ricerche sul posto.

— Il Messico è la porta accanto, per te. Voglio dire, davvero in un altro paese. In Europa, per esempio.

— E come ci sarei arrivato in Europa? — obbiettò lui. — Su un tappeto volante?

— La gente va in Europa dall’America, no?

— Dalla costa orientale, forse. Credo che ci siano ancora delle navi che fanno la spola. Ma non da qui. Come potresti mai farlo da qui, con tutta la zona spolverata che c’è in mezzo da attraversare? — Jaspin scosse la testa. — C’era un’epoca in cui la gente raggiungeva qualunque parte del mondo in un pomeriggio, sai. L’Australia, l’Europa, il Sudamerica, dovunque: bastava salire su un aereo e andarci.

— Hanno ancora gli aerei. Li ho visti.

— Sicuro, gli aerei. Forse qualche aereo attraversa ancora in volo gli oceani, non so. Ma adesso la politica è tutta sbagliata. Con le vecchie nazioni frammentate in tutte le maniere possibili, la Repubblica di Questo e il Libero Stato di Quello, cinquanta visti necessari per andare da qui a là… no, è tutto un gran casino, Lacy. Forse un casino al quale, a quest’ora, non è più possibile porre rimedio.

— Quando il cancello sarà aperto e Chungirà-Lui-Verrà sarà arrivato, ogni cosa andrà al proprio posto — dichiarò Lacy.

— Ci credi davvero?

Lei girò di scatto la testa verso di lui. — Tu no?

— Sì — disse lui. — Ci credo.

— Non ci credi del tutto, vero, Barry? C’è ancora qualcosa dentro di te che ti tiene indietro.

— Forse.

— So che c’è. Ma va bene. Ho conosciuto molte volte individui come te. Lo ero anch’io. Cinici, dubbiosi, incerti… perché no? Che altro potrebbe essere qualcuno che abbia anche soltanto una mezza briciola di buonsenso, vissuto in un mondo dove viaggi mezz’ora fuori delle città e ti ritrovi nel territorio dei bandido, e ogni cosa per mille chilometri sull’altro lato delle Montagne Rocciose è un casino radioattivo! Ma tutti questi dubbi, questi atteggiamenti da saccente, te li puoi lasciare alle spalle, se semplicemente permetterai che accada. Lo sai?

— Sì, lo so.

— E siamo alla fine di un lungo, brutto momento, Barry. Siamo arrivati sul fondo, dove non c’è più nessuna speranza, e ad un tratto la speranza ricompare. Il Senhor ce l’ha portata. Ci comunica la parola. Il cancello si aprirà: i grandi verranno fra noi e miglioreranno le cose per noi. Ecco cosa accadrà, e accadrà molto presto, e poi ogni cosa andrà bene, forse per la prima volta da quando esiste il mondo. Giusto? Giusto?

— Sei una donna meravigliosa, Lacy.

— E questo cosa c’entra?

— Non lo so. Ho soltanto pensato di dirtelo.

— Pensi che io lo sia, eh?

— Hai qualche dubbio?

Lei scoppiò a ridere. — L’ho sentito dire altre volte. Ma non ne sono mai sicura, in verità. Non c’è donna viva al mondo che non pensi di essere davvero bella, non importa quello che gli uomini le dicono. Penso che i miei capelli siano molto belli, i miei occhi, il mio naso. Ma non mi piace la mia bocca. Guasta tutto.

— Ti sbagli.

— D’altro canto, penso che il mio corpo sia del tutto soddisfacente.

— Davvero? — esclamò lui.

I suoi occhi erano molto luminosi. Jaspin vi vide riflessa la falce della luna, e credette di essere riuscito a distinguere anche il brillante punto bianco che era Venere. Con il braccio che aveva intorno alle sue spalle, l’attirò verso di sé; sollevò l’altro braccio e lasciò che la mano vagasse leggera sul suo seno, Lacy indossava un morbido maglione verde, un tessuto molto sottile, niente sotto. Sì, pensò: del tutto soddisfacente. Avrebbe voluto appoggiare la propria testa fra le sue mammelle e riposarsi in quella posizione. Vagamente si chiese dove si trovasse Jill, cosa stesse facendo in quel momento. Sua moglie. Quella era una farsa. Da due giorni neppure l’aveva vista. A quanto pareva, aveva perso ogni interesse per il Nucleo Interno, o molto più probabilmente erano stati loro a disinteressarsi a lei; ma ce n’erano moltissimi altri lì intorno pronti a divertirla. Aveva avuto ragione la prima volta che l’aveva giudicata: una vagabonda, una derelitta, trasandata e inutile. Lacy era una storia del tutto diversa: scaltra, saggia, una donna che aveva visto un mucchio di cose e che capiva ciò che aveva visto. Se, nella sua vita privata precedente, era stata un’artista della truffa, un’imbrogliona, che importanza poteva mai avere? Sì, che importanza? Sei un artista della truffa anche tu, si disse Jaspin, ricordando i suoi giorni alla UCLA quando aveva fatto una carriera che non era niente più d’una rabberciatura affrettata delle idee degli altri per tenere le proprie lezioni. Un erudito? No, un bidoniere. Sarebbe stato lo stesso se ti fossi messo a spacciare proprietà terriere su Betelgeuse Cinque. Ma niente di tutto questo aveva più nessuna importanza. Presto verremo tutti cambiati, pensò, in un attimo, in un batter d’occhio.

Cominciò a sollevarle il maglione. Sorridendo, Lacy allontanò le sue mani, si alzò in piedi e buttò via il maglione. Un momento più tardi fu la volta dei suoi jeans. Pareva quasi ardere alla luce della luna, la pelle molto pallida, i capelli rossi, riccioluti, che si stagliavano luminosi contro di essa.

— Su, vieni — bisbigliò con voce roca.

Si strinsero l’uno all’altra. La cosa gli parve strana, come in un sogno, molto bella e molto peculiare nello stesso tempo. Lui non era mai stato un grande romantico, specialmente quando si trattava di questo; ma per qualche motivo questa volta gli pareva diverso, unico, nuovo di zecca. Era forse dovuto all’imminente venuta degli dèi? Doveva trattarsi di questo. Qui, sul fianco di questa collina a nord di San Francisco sotto la luna e le stelle, con Venere che splendeva luminosa: sapeva che i tempi brutti stavano per finire, e poteva sentire tutti i punti ruvidi e pustolosi della sua anima che cominciavano a rimarginarsi. Sì. Sì. Chungirà-Lui-Verrà, lui verrà. E quando mi farò avanti per fronteggiarlo, non sarò solo.

Siamo tutti cambiati, davvero, pensò Jaspin. In un attimo. In un batter d’occhio.

— Sai una cosa? — le disse. — Ti amo.

— Il che significa che stai finalmente imparando ad amare te stesso — fu la risposta di Lacy. — È il primo passo per amare qualcun altro. — Sorrise. — E sai una cosa? Anch’io ti amo, Barry.

Quella fu l’ultima cosa che dissero entrambi per un bel po’. Qualche tempo dopo, Lacy fece: — Aspetta un momento, va bene? Lascia che ti monti sopra. Ti va bene? Ah, ecco, Barry. Così. Oh, sì, così sì che va bene.

5

— La prossimità sembra essere decisamente l’elemento-chiave — dichiarò Elszabet. — O per lo meno, uno degli elementi-chiave. — Era nel suo ufficio, nel primo pomeriggio, con lo sguardo sollevato su Dan Robinson, il quale se ne stava appoggiato, tutto rilassato, contro la parete accanto alla finestra. In quella posizione pareva tutto gambe e braccia.

Il cielo, quel poco che era visibile attraverso la minuscola finestra rivolta a nord, si stava ingrigendo. Grosse nuvole cominciavano ad occuparlo. Elszabet aggiunse: — Avevi ragione. Se ciò che è successo ad April era un’indicazione, la prossimità dev’essere un fattore significativo. Adesso sono pronta ad ammetterlo.

— Sei pronta? Bene, è già qualcosa.

— Come sta April?

— Si rimetterà — disse Robinson. Era appena arrivato dall’infermeria. — L’abbiamo calmata con il pax, cento milligrammi. Cielo, se quella ragazza è grossa! Ha avuto un piccolo incremento di adrenalina. Sostanzialmente, un afflusso di sangue alla testa. — Più come un lampo rovente, direi. Avresti dovuto vederla: rossa come una bietola. Come un pomodoro.

Fece una risatina. — E che pomodoro! Ma cos’è successo, comunque?

— Bene, mentre tu ed io discutevamo, ho congegnato le cose cosicché si presentasse a lei l’occasione di venire in ufficio mentre c’era Tom. Nel preciso istante in cui l’ha visto, ha avuto inizio l’iperventilazione.

— L’ippopotamo in calore.

— Dan…

— Soltanto un’immagine che mi è balenata in mente così… Scusami.

— Non è stata una cosa sessuale per lei, ne sono sicurissima. Anche se è arrossita come una ragazzina lusingata nell’accettare il primo appuntamento. Tom non sembra suscitare reazioni sessuali nella gente, l’hai notato?

— Non in me, comunque — disse Robinson.

— No, non credo proprio. In nessuno, a quanto pare. Sembra… insomma, sembra asessuato, per qualche ragione. È molto maschio, tuttavia è difficile immaginarlo con una donna, non ti sembra? Ci sono uomini così. Ma ha destato una qualche forma di eccitazione in April, veloce, il respiro è cambiato, delle chiazze sono comparse sulle sue guance, poi è diventata rossa come un pomodoro.

— Come una reazione allergica. Un improvviso aumento di adrenalina.

— Proprio così. Ha barcollato un attimo, e mi ha detto che si sentiva un po’ scombussolata. Per cosa? le ho chiesto. E lei mi ha detto che era a causa dei suoi sogni, delle sue visioni, che di recente le arrivavano molto più vicine l’una all’altra ed erano più vivide.

— L’effetto prossimità. Tom.

— Ha detto che incontrava difficoltà a pensare in maniera coerente. A volte le era difficile dire qual era il mondo reale e quale il mondo del sogno. Tu hai fatto un’osservazione analoga stanotte.

— Sì — annuì Elszabet. — Me ne ricordo. L’averlo sentito da April è stato… be’… inquietante. Ha cominciato a parlare in maniera confusa, biascicata, ha barcollato. Poi è svenuta. Tom ed io l’abbiamo afferrata appena in tempo e siamo riusciti a deporla sul pavimento. Il resto lo sai.

— D’accordo — disse Robinson. — Mi sembra del tutto conclusivo che la presenza di Tom qui da noi accentui il livello delle allucinazioni.

— Eppure i sogni sono stati fatti a distanze enormi gli uni dagli altri. La prossimità sembra intensificarli, ma non è essenziale.

— Suppongo che sia così.

— Abbiamo le mappe in cui è segnata la distribuzione. I sogni spaziali sono stati riferiti simultaneamente dappertutto. Se è lui l’origine, allora dev’essere un trasmettitore tremendamente potente.

— Trasmettitore di Sogni — scandì Robinson con voce sommessa, scuotendo la testa. — Non ti sembra completamente sballato, Elszabet?

— Lavoriamoci sopra — replicò Elszabet. — Come ipotesi. Tom ribolle d’immagini, fantasie, allucinazioni. Ne trabocca. Le trasmette dalle Montagne Rocciose al Pacifico, da San Diego a Vancouver, per quanto noi ne sappiamo. La suscettibilità varia praticamente da zero all’estremo. Forse c’è una correlazione con il livello di turbamento emotivo… le vittime della sindrome di Gelbard sembrano colpite assai più in fretta degli altri. Ma non è una correlazione completa, poiché individui come Naresh Patel e Dante Corelli non sono affatto disturbati, e fanno i sogni spaziali quasi da quanto hanno cominciato a farli alcuni dei pazienti, mentre qualcuno come Ed Ferguson, che è un paziente, si è mostrato completamente resistente a…

— Credi davvero che Ferguson abbia la sindrome di Gelbard, Elszabet?

— Direi che qualcosa ha.

— Ha un brutto caso di deficienza di scrupoli, è tutto. Più lo osservo, più mi sto convincendo che quel tizio è soltanto un artista della truffa che è riuscito a garantirsi un soggiorno in cura qui da noi con un raggiro, perché gli pareva meglio che venir buttato in prigione per la Riab Due. Adesso, se vuoi dirmi che qualcuno d’indifferente come Ed Ferguson alle questioni morali deve essere ipso facto emotivamente disturbato, potresti avere un caso, ma anche così penso che… — Robinson fece una pausa. — E questo mi ricorda… hai fatto controlli per vedere se Ferguson mostri qualche effetto di prossimità? Ha fatto colazione con Tom, la settimana scorsa, ed è stato visto che parlava con lui un paio di volte, da allora.

Elszabet disse: — Ho chiesto a Naresh di esaminare i rapporti delle mondature di Ferguson per controllare se ci fossero sintomi di sogni spaziali. È evidente che non ci sono stati sogni in sé, ma l’altra notte Ferguson ha mostrato tracce di qualcosa. I contorni appena abbozzati di un po’ dell’immagine del Mondo Verde. Ho cercato di chiamarlo per un colloquio questo pomeriggio, ma non c’era. Mi hanno detto che era uscito a fare una passeggiata nel bosco.

— Un altro tentativo di fuga, pensi?

— No. Anche se lo faccio controllare a tempo pieno. Ma è là fuori con Tom. Ed è là fuori da un bel po’.

Gli occhi di Dan Robinson si strinsero fino a diventare due fessure. — Una coppia molto strana quei due: il santo e il peccatore.

— Pensi che Tom sia un santo?

— Soltanto una frase buttata là.

— Perché sì, io lo credo. È un’idea che mi frulla in testa da un paio di giorni. È cosi strano. Così innocente… come un pazzo santo, come il prescelto da Dio, sai. Come il profeta del Vecchio Testamento. Santo non è neppure una cattiva etichetta per lui. Vaga nella desolazione e nel deserto… com’è la frase? «disprezzato e respinto dagli uomini…».

— «Un uomo di dolori che conosce la sofferenza».

— Ecco — annuì lei. — E per tutto il tempo porta dentro di sé questo formidabile dono, questo potere, questa benedizione. È come un ambasciatore di tutti i mondi dell’universo…

— Ehi — l’interruppe Robinson. — Fermati un momento. Un santo, hai detto? Un messia è quello che vuoi dire, in realtà. Ma adesso stai parlando come se la roba che lui emette, se è davvero lui ad emetterla, sia una visione autentica di altri mondi, veri alla lettera.

— Forse è proprio così, Dan. Non so.

— Parli seriamente?

Lei batté la mano sulla piccola capsula mnemonica sopra la scrivania. — Gli ho parlato. Mi ha dato tutte le informazioni sui luoghi dei sogni: i nomi dei mondi, delle razze che li abitano, degli imperi, le dinastie, frammenti storici, tutta l’immensa, intricata e aggrovigliata struttura della civiltà galattica, incredibilmente fitta di dettagli, ma internamente coerente entro i limiti di ciò che sono riuscita a seguire, i quali, devo confessarlo, non sono molto ampi. Ma tuttavia ciò che emerge è dannatamente convincente, Dan. Decisamente, non è uno che improvvisa. È vissuto con quella roba per moltissimo tempo.

— Così ha una copiosa vita immaginifica. Ha passato venticinque anni a sognarsi quei dettagli. Perché non dovrebbero essere intricati? Perché lui non dovrebbe essere convincente? Ma questo significa forse che quegli imperi e quelle dinastie esistono davvero?

— Tutto quello che lui dice coincide in ogni particolare con le cose che ho sperimentato io stessa mentre facevo quei sogni spaziali.

— No. Non è significativo, Elszabet. Se lui trasmette immagini e concetti e un mucchio di altra gente li riceve, questo ancora non vuol dire che Tom trasmetta qualcosa che non è di origine allucinatoria.

— Concesso — rispose Elszabet. — D’accordo. Qui abbiamo un fenomeno. Ma di che tipo? Se Tom è davvero la fonte, allora sembra che sia dotato d’una specie di potere extrasensorio che gli permette di trasmettere immagini ad altra gente per contatto mentale.

— Sembra un po’ tirato per i capelli, ma non inconcepibile.

— Posso tirarne fuori un caso concreto dall’angolazione dell’ESP. Questa mattina, Tom mi ha detto d’essere nato subito dopo lo scoppio della Guerra della Polvere e che sua madre si trovava nell’est del Nevada quand’era incinta. Proprio ai margini della zona radioattiva.

— Una mutazione telepatica… è questo che mi stai dicendo?

— È un’ipotesi ragionevole, no?

— Dovrebbe esser qui ad ascoltarti Bill Waldstein. Lui pensa che sia io quello incline a congegnare teorie stravaganti! — replicò Dan.

— Questa non mi pare poi tanto stravagante. Se esiste una spiegazione per le capacità di Tom, un leggero tocco di radiazioni al momento del concepimento non è certo l’idea più fantastica che si possa concepire.

— D’accordo. Un mutante telepatico, allora?

— Un fenomeno, comunque. Okay. Adesso, per quanto riguarda il contenuto del materiale che produce, forse è nella stretta di qualche potente fantasticheria inventata da lui stesso, che grazie alle sue capacità extrasensorie è in grado di disseminare tutt’intorno, verso qualsiasi mente suscettibile che si trovi alla sua portata. Oppure, d’altro canto, forse lui è l’unico ad essere sensibile ai messaggi irradiati nella nostra direzione per via telepatica da civiltà realmente esistenti intorno alle altre stelle.

— Tu vuoi credere questo con tutte le tue forze, non è vero, Elszabet?

— Credere cosa?

— Che tutto ciò che Tom trasmette è vero.

— Forse sì. La cosa ti preoccupa, Dan?

Lui la studiò per un lungo istante. — Un po’ — ammise, alla fine.

— Pensi che io stia ammattendo?

— Non ho detto questo. Credo che tu abbia un potente bisogno di scoprire che il Mondo Verde e il pianeta dei Nove Soli e tutto il resto sono luoghi che esistono davvero.

— E che perciò sto venendo attirata dentro la psicosi di Tom.

— E che perciò sei un po’ più pronta alle fantasie d’evasione di quanto nell’insieme potrebbe essere salutare — lui concluse.

— Bene, io la penso nell’identico modo, sei soddisfatto? — gli disse Elszabet. — Se sei preoccupato per me, allora lo siamo in due. Ma è un concetto così maledettamente attraente, non è vero, Dan? Questi meravigliosi altri mondi che ci chiamano!

— Seducente… pericoloso!

— Seducente, sì. Ma a volte è necessario lasciarsi sedurre. Quella che ci viene offerta dalla vita quotidiana è una tale merda, Dan, questa nostra povera civiltà ridotta a pezzi, vivere in questo modo fra i resti e le rovine del mondo dell’anteguerra. Tutti questi spregevoli piccoli paesi che erano pezzi degli Stati Uniti, e l’anarchia che domina fuori della California, e perfino dentro una buona parte di essa, e la sensazione, condivisa da tutti, che le cose continueranno cosi, peggiorando sempre di più, diventando sempre più brutte, più spregevoli, che il progresso, senza rimedio, è arrivato alla fine e noi, semplicemente, finiremo per riscivolare sempre più nella barbarie… C’è da meravigliarsi che, se comincio a sognare di vivere su un bellissimo mondo verde, dove ogni cosa è bella, elegante e supremamente civile, voglia anche scoprire se questo mondo esiste sul serio? E se presto saremo in grado di raggiungere quel mondo verde e viverci? È una fantasticheria così irresistibile, Dan. Certamente abbiamo bisogno di qualche fantasticheria del genere che ci sostenga.

Andarci? - fece lui, stupefatto. — Cosa vuoi dire?

— Non te l’ho detto? È il completamento dell’idea di Tom. Quando ti farò ascoltare questa capsula, lo sentirai. È un concetto apocalittico: gli ultimi giorni sono vicini, e noi abbandoneremo il nostro corpo, è una sua frase, abbandoneremo il nostro corpo e verremo traslati sui mondi dei sogni spaziali, e lì vivremo per sempre. Amen.

Robinson fischiò. — È questo che spaccia?

— Il Tempo della Traversata, è cosi che lo chiama. Sì.

— L’opposto di ciò che quell’altro branco, quei brasiliani del voodoo, dicono. Secondo loro, gli dèi spaziali stanno per arrivare da noi, non è questo che ha detto Leo Kresh? Mentre Tom…

Il telefono di Elszabet produsse un piccolo bip. — Scusami — disse lei, e guardò dietro di sé la dati-parete per vedere chi chiamava. Il dottor Kresh, diceva lo schermo a parete, chiama da San Diego.

Si scambiarono un’occhiata sorpresa. — Parla del diavolo… — mormorò Elszabet, e appoggiò il pollice sul telefono. Il volto di Kresh sbocciò sullo schermo. Era tornato nella California del Sud alla fine della settimana precedente, e in questo momento pareva che qualcosa fosse cambiato in lui, dalla sua visita a Nepenthe; aveva un aspetto insolitamente strapazzato, arrossato, ed ovviamente eccitato.

— Dottoressa Lewis — esplose, — sono contento di essere riuscito a raggiungerla. C’è stato uno sviluppo del tutto stupefacente…

— Il dottor Robinson è qui con me — l’informò Elszabet.

— Sì, va benissimo. Interesserà anche a lui, sa.

— Cos’è successo, dottor Kresh?

— La cosa più stupefacente. Soprattutto considerando alcune delle idee che ho sentito proporre dal dottor Robinson mentre ero da voi. In relazione al progetto Sonda Stellare, voglio dire. Siete al corrente, dottoressa Lewis, dottor Robinson, che esiste una stazione a terra a Pasadena che è rimasta sintonizzata tutti questi anni per ricevere i segnali della Sonda Stellare? Viene gestita dal Cal Tech, e in qualche modo l’hanno mantenuta sempre in funzione nell’eventualità che…

— C’è stato un segnale? — chiese Robinson.

— È cominciato ad arrivare stanotte. Come lei sa, dottor Robinson, ho formulato in maniera indipendente l’ipotesi della Sonda Stellare, e nel corso della mia indagine ho appreso dell’impianto del Cal Tech, e mi sono messo in contatto con loro. Così, quando i segnali hanno incominciato ad arrivare… si tratta d’una trasmissione radio su una banda ristrettissima intorno ai 1390 megacicli al secondo che arriva fino a noi dal sistema di Proxima Centauri, grazie a una catena di stazioni relé in precedenza lasciate a intervalli di…

— Per l’amor di Cristo — lo interruppe Robinson. — Vuol dirci o no cosa abbiamo ricevuto?

Kresh pareva sempre più agitato. — Scusatemi. Dovete capire che questa è stata un’esperienza che mi ha scombussolato moltissimo, che ha scombussolato tutti… — Riprese fiato. — Vi trasmetto le immagini sullo schermo. Sapete, credo, che la sonda era programmata per entrare nel sistema di Proxima Centauri, cercare pianeti che potessero essere abitabili, mettendosi poi in orbita intorno a quelli che avesse trovato, calandosi nell’atmosfera di qualunque pianeta mostrasse chiari segni di forme di vita? Le nove ore di trasmissione arrivate finora coprono in realtà un tempo reale di due mesi. Questa è Proxima Centauri vista da una distanza di zero virgola cinque unità astronomiche.

Kresh scomparve dallo schermo. Al suo posto comparve l’immagine d’una piccola e pallida stella rossa. Due altre stelle, assai più luminose, erano visibili in un angolo dello schermo.

— La nana rossa è Proxima — riprese a dire Kresh. — Quelle, sono le sue compagne, Alfa Centauri A e B, che sono simili al nostro sole come tipo di spettro. Quelli del Cal Tech mi dicono che tutte e tre le stelle sembrano possedere sistemi planetari. Comunque, la Sonda Stellare ha trovato che i pianeti di Proxima sono di maggiore interesse, e così…

Adesso sullo schermo comparve una sfera verde anonima.

— Mio Dio — mormorò Robinson.

Kresh proseguì: — Questo è il secondo pianeta del sistema di Proxima Centauri, situato a zero virgola ottantasette unità astronomiche dalla stella. Proxima Centauri, mi dicono, mostra spiccatissimi «flares», cioè è soggetta a improvvise fluttuazioni di luminosità che sarebbero pericolose per forme di vita che si trovassero più vicine. Ma la Sonda Stellare ha individuato segni di vita su Proxima Due e si è riprogrammata per un approccio planetario…

Sullo schermo, una turbinante nebbia spessa e impenetrabile, pesante, verde.

Verde?

— Oh, mio Dio — disse di nuovo Robinson. Elszabet sedeva, tesissima, le mani serrate a pugno, i denti affondati nel labbro inferiore.

Un’altra inquadratura, sotto la coltre delle nubi.

— Come potete vedere — disse ancora Kresh, — malgrado Proxima Centauri sia una stella rossa, la coltre delle nubi è così spessa che dalla superficie del secondo pianeta appare verde. Inoltre la coltre di nubi, così mi dicono quelli del Cal Tech, crea una specie di effetto-serra che mantiene la temperatura del pianeta entro una gamma di valori adatti al metabolismo delle creature viventi, malgrado la costante di emissione del primario del sistema, Proxima Centauri…

Un’altra inquadratura, adesso da un’orbita più bassa, praticamente sfiorando le nubi. Entrarono in gioco le telecamere ad alta definizione. Un cambiamento di lunghezza focale; poi, nuove immagini, fantasticamente ricche di particolari. Un delizioso paesaggio, verdi colline lussureggianti, verdi laghi splendenti. Più in basso, edifici: strutture misteriose d’un disegno inquietante e alieno, angoli inaspettati, disorientanti circonvoluzioni architettoniche. Un altro incremento nella capacità di risoluzione della telecamera. Figure che si muovevano su un prato, alte, affusolate, fragili nell’aspetto, con corpi cristallini luminosi come specchi, file di occhi sfaccettati situati su ognuno dei quattro lati delle loro teste a forma di losanga. — Mio Dio — mormorò Dan Robinson, più e più volte. Elszabet non si mosse, respirava appena, non lasciava neppure che i suoi occhi ammiccassero. Quella è la Triade dei Misilyne, pensò. E quelli devono essere i Suminoors, e quegli altri i Gaarinar. Oh. Oh. Oh. Era paralizzata dallo sgomento e dalla meraviglia. Voleva piangere; voleva lasciarsi cadere sulle ginocchia e mettersi a pregare; voleva correre fuori e gridare alleluia! Ma era incapace di muoversi. Rimase perfettamente immobile, pietrificata dallo stupore, mentre sullo schermo le immagini verdi si succedevano alle immagini verdi. Ogni cosa era insopportabilmente strana. Ogni cosa era bizzarramente aliena.

E allo stesso tempo ogni cosa le era così completamente, totalmente familiare, come se stesse guardando le fotografie della cittadina dov’era vissuta quand’era bambina.

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