DUE

In trenta nudi anni sono stato

due volte venti arrabbiato

e in quaranta sono stato tre volte quindici

in continuazione, tristemente, incarcerato.

Nelle signorili soffitte del Bedlam

con la barba ispida e deliziosamente incolta,

splendide robuste manette, soavi fruste, ding-dong,

e con tutta la fame gagliarda che volevo.

Mentre io canto

«Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare,

da mangiare, da bere o da vestire.

Vieni, dama o fanciulla,

non aver timore,

il povero Tom non farà male a nessuno».

Canto di Tom o’ Bedlam

1

C’era stato un problema inaspettato con Nick Doppio Arcobaleno quella mattina, qualcosa di assai prossimo a un collasso psichico a triplo allarme, sbucato da chissà dove e difficile da risolvere. Ed era questo il motivo per cui Elszabet era arrivata tardi all’incontro mensile dello staff. Tutti gli altri erano già lì, gli psichiatri Bill Waldstein e Dan Robinson; Dante Corelli, che dirigeva la terapia fisica, e Naresh Patel, l’uomo della neurolinguistica. Erano tutti seduti intorno al grande tavolo da conferenze in legno di sequoia, ognuno di loro intento a rilassarsi secondo la propria personale tecnica, quando, poco dopo le undici, lei finalmente entrò nella stanza.

Dante stava fissando i vortici di luce dorata generati da un piccolo Mastromodellatore che stringeva in mano. Bill Waldstein era appoggiato contro lo schienale della sedia, intento a contemplare la fiasca di vino che aveva davanti, Patel sembrava smarrito in qualche meditazione, Dan Robinson stava giocherellando con la sua tastiera tascabile, intasando di musica inaudibile i circuiti del registratore, per riascoltarla più tardi. Si raddrizzarono tutti mentre Elszabet prendeva posto a capotavola.

— Finalmente — esclamò Dante in tono melodrammatico, dando l’impressione che Elszabet fosse arrivata all’incontro con almeno due anni di ritardo.

— Elszabet ci sta giusto facendo vedere quello che sa sull’essere passivi e aggressivi allo stesso tempo — disse Bill Waldstein.

— Vai a farti fottere — ribatté Elszabet in tono quasi distratto. — Tredici interi minuti di ritardo.

— Venti — la corresse Patel, senza dar l’impressione d’interrompere la sua trance profonda.

— Venti. Fucilatemi pure, allora. Mi vuoi passare un po’ di quel vino, per favore, dottor Waldstein?

— Prima di pranzo, dottoressa Lewis?

— Non è stata un splendida mattinata — lei replicò. — Sarò grata a tutti voi se vorrete ricalibrarvi su un quoziente più basso di scempiaggini, d’accordo? Grazie. Vi amo tutti. — Prese il vino da Waldstein, ma ne inghiottì soltanto un piccolo sorso. Il vino aveva un sapore pungente, come di tanti piccoli aghi. La mascella le faceva male. Si chiese se il volto non le si sarebbe gonfiato. — Abbiamo calmato Arcobaleno con cinquanta milligrammi di pax — li inforò, con voce stanca. — Bill, vuoi dargli un’occhiata dopo il pranzo, e poi consultarti con me? Aveva deciso di essere Toro Seduto sul sentiero di guerra. Ha fracassato non so quante centinaia di dollari di macchinari, e ha tirato un pugno a Teddy Lansford che l’ha fatto volare per metà stanza, e credo che avrebbe causato parecchi guai in più se Alleluia non fosse miracolosamente entrata nella capanna, riuscendo ad agguantarlo. Ha una forza sorprendente, sapete. Grazie a Dio non è stata lei a diventare psicopatica.

Waldstein si curvò, piegandosi verso di lei. Era un uomo alto e magro, sulla quarantina, i cui capelli scuri cominciavano giusto ad andarsene. Elszabet sapeva che quando Waldstein incurvava così le spalle, il suo era un gesto di preoccupazione, di protezione a volte perfino eccessiva. Non gl’importava molto, comunque, quando veniva da lui. Calmo, Waldstein disse: — Quel nobile pellerossa ha colpito anche te, non è vero, Elszabet?

Lei scrollò le spalle. — Mi sono ritrovata con un gomito in bocca, più o meno incidentalmente. Niente di rotto, neppure storto. Non ho in mente di sporgere denuncia.

Waldstein disse ancora, corrugando la fronte: — Quel pazzo bastardo. Dev’essere uscito di senno, per aver colpito te. Tirare un pugno a Lansford, posso anche capirlo. Ma colpire tei Quando sei tu quella che sta su per metà notte ad ascoltarlo mentre racconta singhiozzando la storia dei suoi antenati martiri.

— Mi permetto di ricordare — intervenne Dante, — che tutti quelli che si trovano qui sono matti. È per questo che noi siamo qui. Non possiamo aspettarci che si comportino in maniera razionale, giusto? Comunque, Doppio Arcobaleno non può ricordarsi quanto Elszabet è carina con lui. Quella roba gli è stata mondata.

— Non è una giustificazione — ribatté Waldstein. — Noi abbiamo tutti degli antenati martiri. Che vada a farsi fottere lui e i suoi antenati martiri. Non credo neppure che sia il sioux che sostiene di essere. — Elszabet fissò Waldstein sconcertata. A lui, piaceva immaginare se stesso come una persona amabile e cordiale, perfino scherzosa; ma aveva una stupefacente capacità di indignarsi per questioni irrilevanti. E una volta che si era scaldato, poteva andare avanti per un bel po’. — Credo sia un simulatore — continuò Waldstein. — Un imbroglione come quello zuccheroso di Eddie Ferguson. Nick Doppio Arcobaleno! Scommetto che il suo vero nome è Joe Smith. Forse non è neppure pazzo. Questa è una bella casa di riposo, non è vero, qui in mezzo alle sequoie? Potrebbe soltanto…

— Bill — disse Elszabet.

— Ti ha colpito, non è vero?

— Va bene. Va bene. Stiamo facendo tardi, Bill. — Avrebbe voluto sfregarsi la mascella che le pulsava, ma temeva di suscitare un’altra raffica d’indignazione da parte di Waldstein. Sarebbe stato più semplice, pensò, se non avesse respinto Waldstein quando le aveva fatto quella proposta, non del tutto imprevedibile ma improvvisa, uno o due anni prima. Non gli aveva permesso di arrivare a nessun risultato. Se l’avesse fatto, per lo meno adesso non avrebbe dovuto sopportare la sua invadente cavalleria. Ma d’altronde, pensò ancora, no, non sarebbe affatto servito a semplificare le cose se l’avesse fatto. Allora o mai.

Accendendo il piccolo registratore davanti a sé, Elszabet disse: — Gente, cominciamo: d’accordo? Riunione mensile dello staff, giovedì 27 luglio 2103, presiede Elszabet Lewis, partecipano i dottori Waldstein, Robinson, Patel e Corelli, ore 11 e 21. Va bene? Invece di cominciare con i soliti rapporti di aggiornamento, vorrei aprire con una discussione sull’insolito problema che è insorto durante questi ultimi sei giorni. Mi riferisco ai sogni ricorrenti di… ehm… natura fantastica che i nostri pazienti sembrano avere, e che si sovrappongono gli uni agli altri. Ho chiesto al dottor Robinson di prepararci una relazione generale sull’argomento. Dan?

Robinson esibì uno smagliante sorriso, si sporse all’indietro, incrociò le gambe. Era lo psichiatra anziano del Centro, un uomo snello, dalle lunghe gambe, con una carnagione color caffelatte chiaro, molto in gamba, sempre magnificamente rilassato, davvero l’uomo amabile che Bill Waldstein immaginava di essere. Probabilmente era anche l’elemento più degno di fiducia dello staff di Elszabet.

Appoggiò la mano sulla capsula mnemonica davanti a sé, batté il bottoncino attivatore rosso e lustro, e aspettò un attimo per ricevere la raffica di dati. Poi spinse da parte il piccolo congegno, e disse: — D’accordo. Abbiamo cominciato a chiamarli «sogni spaziali». Ciò che scopriamo, quando ci riferiscono direttamente i pazienti, o quando esaminiamo i dati raccolti giornalmente dal mondatore per vedere cos’è che rastrelliamo dalla loro mente, è un modello di vividi sogni visionari, roba davvero spaziale. I primi li abbiamo avuti dalla donna sintetica Alleluia CX1133, la quale la notte del diciassette luglio ha intravisto un pianeta… identificato come tale nella sua consultazione del mattino dopo con me… con un cielo d’un verde denso, una spessa atmosfera verde, e abitanti di forma aliena, dalla pelle vetrosa e una struttura corporea estremamente allungata. Poi, la notte del diciannove luglio, Padre James Christie ha avuto una visione cosmologica diversa e assai più elaborata, di un gruppo di soli di vari colori visibili simultaneamente nel cielo, e una figura imponente, di apparente natura extraterrestre, visibile in primo piano. A causa delle sue basi conoscitive e ideologiche clericali, Padre Christie ha interpretato il sogno come la visione d’una divinità, riconoscendo in quell’alieno Dio, e a quanto ho capito ha subito come risultato un considerevole sconforto spirituale. La mattina successiva ha riferito questa sua esperienza alla dottoressa Lewis… con una certa riluttanza, se ho ben inteso. Ho definito il sogno di Padre Christie come il Sogno dei Nove Soli, e quello di Alleluia il Sogno del Mondo Verde.

Robinson fece una pausa guardandosi intorno. Nella stanza regnava il più assoluto silenzio.

— Va bene. Ora, la notte del diciannove luglio Alleluia ha avuto un secondo sogno spaziale. Questo aveva a che fare con un sistema a stella doppia, un grande sole rosso e uno azzurro più piccolo, il quale sembra essere quella che gli astronomi definiscono una stella variabile, poiché emette energia a un ritmo pulsante. Anche questo sogno era associato a una figura extraterrestre di grandi dimensioni: un essere cornuto sopra un monolite di pietra bianca. Ho chiamato questo il Sogno della Stella Doppia. È possibile che Alleluia abbia fatto questo sogno parecchie volte: è diventata un po’ evasiva su tutto l’argomento di questi sogni spaziali. — Robinson fece di nuovo una pausa. — Dove la cosa diventa interessante — proseguì, — è che la notte del venti luglio anche Tomás Menendez ha fatto il Sogno della Stella Doppia.

— Lo stesso sogno? — chiese Bill Waldstein.

— Ho controllato ogni singolo particolare. Ho i dati del mondatore per entrambi: naturalmente non c’è nessun video, ma abbiamo esattamente le stesse curve per l’emissione di adrenalima, le stesse fluttuazioni del REM, la stessa spinta alfa, isomorfa per tutto il tempo. Credo sia generalmente accettato che queste cose sono correlate molto dappresso con l’attività onirica, e vorrei postulare che sogni identici generano identiche curve di risposta.

Lanciò un’occhiata interrogativa a Waldstein.

— Sarei pronto ad accettare che curve identiche significano sogni identici — dichiarò Waldstein, — se fossi pronto ad accettare la possibilità di sogni identici. Ma chi ha mai sogni identici? Esiste nella casistica una qualunque documentazione d’una cosa del genere?

— Sì — annuì con voce sommessa Naresh Patel. — Nelle esperienze visionarie. Ci sono casi in cui la stessa visione è stata ricevuta da un esercito di…

— Non intendo attingere alle Upanishad o alle Rivelazioni — l’interruppe Waldstein. — Intendo casi documentati da osservatori occidentali, lavori clinici contemporanei, del ventesimo secolo e successivo.

Patel sospirò, poi sorrise, e sollevò il palmo delle mani all’insù.

— Aspettate — disse Dan Robinson. — C’è dell’altro. Abbiamo un quarto sogno che io chiamo della Sfera di Luce, nel quale il cielo è d’una radiosità totale e nessuna caratteristica astronomica risulta evidente a causa dell’altissima intensità d’illuminazione. Contro questo sfondo, sono visibili figure extraterrestri estremamente complesse, che sembrano essere forme di vita insolitamente intricate, con un gran numero di arti e di appendici, talmente complicate che i nostri pazienti hanno difficoltà a descriverle nei particolari. Finora, il Sogno della Sfera di Luce è stato fatto dai seguenti pazienti: Nick Doppio Arcobaleno il ventidue luglio, Tomás Menendez il ventitré luglio, April Cranshaw il ventiquattro luglio, Padre Christie ha fatto il Sogno della Stella Doppia il ventiquattro luglio: ancora una volta l’ha interpretato come una manifestazione divina. Dio sotto un ulteriore aspetto: l’essere cornuto, intendo dire. Ciò significa che, finora, tre dei nostri pazienti hanno fatto quel sogno. Il Sogno del Mondo Verde mi è stato riferito da Philippa Bruce il venticinque luglio. E questa notte ha raggiunto Martin Clare. Anche i Mondi Verdi sono adesso tre.

— Quattro — precisò Elszabet. — Questa notte, anche Nick Doppio Arcobaleno.

Robinson disse: — Non è la lista completa. C’è un’epidemia di sogni spaziali che si sovrappongono. Mi sono stati riferiti dappertutto, qui al Centro. Salvo, credo, da parte di Ed Ferguson. Credo sia il solo paziente che non ha detto una sola parola su di essi a nessun terapista.

— Non è forse l’uomo che è stato condannato per aver venduto terreni sugli altri pianeti? — chiese Dante.

— Pianeti di altre stelle, addirittura — precisò Bill Waldstein.

— Allora, è davvero ironico che sia il solo a non visitare altri pianeti quando dorme — commentò Dante.

— A meno che non nasconda i suoi sogni — suggerì Dan Robinson. — Con lui è sempre una possibilità. Ferguson pasticcia i suoi dati in maniera piuttosto intensa.

— Io sospetto anche che abbia un registratore di qualche tipo — aggiunse Waldstein. — Per qualche motivo dà l’impressione di non essere stato mondato a dovere, c’è sempre una continuità che non dovrebbe esserci…

— Per favore — l’interruppe Elszabet. — Qui stiamo uscendo un po’ dal binario. Dan, hai detto che ci sono altri sogni spaziali nella tua lista?

— Un paio. Al momento, i rapporti su questi sono soltanto frammentari, e per ora preferirei saltarli. Ma credo di aver definito il punto essenziale.

— D’accordo — annuì Elszabet. — Qui abbiamo un mistero. Un fenomeno. Come affrontarlo?

— È ovvio che si raccontano i sogni fra loro — dichiarò Bill Waldstein.

— Lo pensi davvero? — gli chiese Dan Robinson, sorpreso.

— È ovvio che è questo il caso. Stanno cercando di farci fessi. Comunque, considerano tutti noi degli avversari. Perciò sono in combutta, si scambiano i sogni fra loro, si istruiscono a vicenda…

— Noi li mondiamo — disse Naresh Patel. — A questo punto, i sogni sono scomparsi. Si radunano forse all’alba, prima della mondatura, per ripassare la lezione?

— Sembra che Alleluia non perda sempre tutti i suoi sogni dopo il mondatore — disse Dan Robinson.

Patel annuì: — Sappiamo che questo è un problema. La ritenzione dei sogni da parte della donna sintetica. Ma gli altri? Sospettiamo che Ferguson faccia delle registrazioni, ma non riferisce di aver avuto sogni. Certamente Padre Christie non è impegnato in qualche forma d’inganno, e…

— Naresh ha ragione su Padre Christie — dichiarò Elszabet. — I suoi sogni sono veri. Sono pronta a scommetterci qualsiasi cosa.

— Telepatia? — chiese Dante.

— Non c’è mai stato uno straccio di prova — replicò Bill Waldstein.

— Forse le prove le stiamo avendo adesso — disse Dan Robinson. — Una specie di comunione fra loro, forse potrebbe perfino essere un fenomeno dovuto al mondatore, un insospettato effetto secondario del processo…

— Balle, Dan. Che razza di congetture sballate stai facendo? — ribatté Waldstein.

— Una congettura puramente teorica — spiegò Robinson, in tono pacato. — Stiamo soltanto tastando il terreno, no? Chi può sapere quello che sta succedendo qui? Ma se azzardiamo ogni genere d’idea…

— Non sono ancora convinto che stia accadendo — insisté Waldstein. — Dobbiamo compiere dei controlli incrociati degni di fiducia, per eliminare la possibilità che si tratti di una collusione fra i pazienti. Dopo, potrai venirmi a parlare di sogni sovrapposti, d’accordo?

— Assolutamente — rispose Robinson. — Nessuna obiezione su questo punto.

— Abbiamo bisogno di altri dati — intervenne Patel. — Dobbiamo scoprire tutto il possibile su questa faccenda. Sì, dottor Waldstein?

Waldstein annuì incerto. — Se sta davvero accadendo, allora dobbiamo spiegarlo. Se è una frode, dobbiamo assumerne il controllo. Sì. Ci vogliono più dati. Sì.

— Molto bene — dichiarò Elszabet. — Qui si comincia ad arrivare a un accordo. C’è qualcun altro, adesso, che vuol dire qualcosa su questa faccenda dei sogni spaziali?

A quanto pareva, nessuno intendeva farlo. Elszabet fece passare due volte il suo sguardo tutt’intorno al tavolo, e incontrò il silenzio su ogni lato. Il colloquio si spostò su altre faccende molto più banali riguardanti il Centro. Ma più tardi, quando tutti si congedarono, Naresh Patel rimase seduto. L’azzimato esperto di neurolinguistica, piccolo e dalle ossa sottili, di solito sereno fino al limite dell’impassibilità, pareva stranamente turbato.

— Vuoi parlarmi, Naresh? — gli chiese Elszabet.

— Sì, per favore. Solo per un momento.

— Procedi pure. — Elszabet si sfregò la mascella. Cominciava decisamente a gonfiarsi, là dove Nick Doppio Arcobaleno l’aveva colpita.

Patel disse con la voce più morbida possibile: — È una cosa che non volevo dire durante la riunione generale, anche se, forse, sarebbe stata utile. Ma è una cosa che non sono pronto a condividere con tutti i miei colleghi, e specialmente con il dottor Waldstein nel suo attuale stato mentale. Ma con il tuo permesso, vorrei condividerla con te, soltanto con te.

Non l’aveva mai visto così turbato. Con voce gentile, disse: — Puoi contare sulla mia discrezione, Naresh.

L’ometto esibì un pallido sorriso. — Molto bene, si tratta soltanto di questo, dottoressa Lewis. Anch’io ho fatto quello che il dottor Robinson chiama il Sogno del Mondo Verde. Due notti orsono. Un cielo come un pesante sipario verde. Esseri cristallini d’ineffabile grazia e bellezza. — Le rivolse un’occhiata addolorata. — Io non faccio parte della cospirazione sulla quale insiste il dottor Waldstein. Possiamo accettare la verità di quella dichiarazione. Io non sono in lega con i pazienti per sconvolgere l’equilibrio del Centro. Per favore, credimi, dottoressa Lewis. E tuttavia, insisto a dirti questo, che ho fatto il Sogno del Mondo Verde. Davvero. Ho fatto il Sogno del Mondo Verde.

2

— Non è molto — disse Jaspin. — Non aspettarti molto. Non è affatto molto.

— D’accordo — replicò la ragazza bionda. — Non ti aspetti molto, vero, in momenti come questi?

Il suo nome era Jill, il suo cognome non gli era rimasto in mente, uno di quei blandi e simpatici cognomi americani, Clark, Walters, Hancock, qualcosa del genere. Avrebbe trovato il modo di farglielo ripetere. Per qualche motivo era rimasta con lui dopo la cerimonia dei tumbondé, tenendogli la testa premuta contro il proprio piccolo seno, mentre lui soffriva di quei bizzarri attacchi isterici, aiutandolo poi a discendere il fianco della collina quando le gambe gli tremavano troppo in quel calore bruciante. E adesso in qualche modo erano arrivati davanti al suo piccolo appartamento sulla University Heighs. A quanto pareva avrebbero passato la notte insieme, o per lo meno la sera. Che diavolo, dopotutto era passato un sacco di tempo. Ma una parte di lui avrebbe desiderato essersela scrollata di dosso laggiù, in campagna. Era la parte in cui risuonavano ancora i tamburi dei tumbondé; era la parte che vedeva ancora la forma titanica di Chungirà-Lui-Verrà, assolutamente e inequivocabilmente reale sul suo trono di alabastro sul pianeta di qualche stella lontana. Avere attorno quella ragazza era soltanto una distrazione, una specie di ronzio quando c’erano cose come quelle che gli pulsavano nell’anima. Comunque, lui non aveva fatto molto per liberarsi di lei, dopo la cerimonia. Che diavolo.

Appoggiò il pollice sulla piastra della porta, la porta gli chiese il suo nome e lui disse: — Il tuo signore e padrone. Per l’inferno, apri e in fretta!

La ragazza scoppiò a ridere: — Hai uno stile molto personale, dottor Jaspin.

— Barry, per favore. Barry: d’accordo? E non ho neppure un dottorato, per quanto possa essere difficile per te accettare questo fatto. — La porta, analizzato il suo profilo vocale e avendolo trovato accettabile, scivolò di lato. Lui fece un gesto maestoso: — Entrez-vous! — Entrarono.

Non l’aveva affatto ingannata: non era molto. Due stanze, cucinino rientrante, un terrazzino rivolto a sud. L’edificio era decente, in stile spagnolo, le pareti imbiancate, un tetto dalle tegole rosse, lussureggianti piante della California che si arrampicavano sopra ogni cosa: bougainvillee purpuree, ibisco rossi e bianchi, grandi mazzi spinosi di aloe, qua e là un’agave, palme sago, tutta la più rigogliosa produzione subtropicale. Era probabile che quel posto fosse stato un piacevole e perfino lussuoso condominio prima della guerra. Ma adesso era diviso in un milione di minuscoli appartamenti, e naturalmente non c’era più nessun servizio di manutenzione, così la proprietà stava decadendo molto in fretta. Ma che diavolo! Era casa sua. Ci era capitato per caso mentre stava girovagando qua e là, il primo giorno che si era trovato a San Diego, dopo aver deciso che doveva assolutamente andarsene da Los Angeles, e ormai cominciava quasi a sentirsi a suo agio là dentro, quattordici mesi più tardi.

— Vivi a San Diego? — le chiese.

La ragazza riuscì a non rispondere. Lui gliel’aveva già chiesto mentre stavano raggiungendo il parcheggio, e anche allora era riuscita a non dargli risposta. Adesso, stava girando per l’alloggio guardando con tanto d’occhi la sua biblioteca: una considerevole risorsa di dati, doveva ammetterlo, cubi e nastri e chip-coacervati e dischi e perfino libri, buoni vecchi libri antichi, ma non ancora obsoleti.

— Ma guarda! — esclamò la ragazza. — Hai qui Kroeber! E Margaret Mead! E Levi-Strauss, e Haverford, e Schapiro, e… tutti! Non avevo mai visto niente di simile, salvo in una biblioteca pubblica! Ti spiace? — Si era messa a tirar giù gli oggetti dagli scaffali, accarezzandoli, coccolandoli, i libri, i nastri, i cubi. Poi si voltò verso di lui. I suoi occhi erano luminosi e ardenti.

Jaspin aveva visto altre volte quell’espressione rapita, sul volto delle ragazze delle sue classi… nei giorni in cui ancora aveva le classi. Era amore puro, amore astratto. Non aveva niente a che fare con lui in particolare, il vero lui; lo adoravano perché lui era la fonte del sapere, perché ogni giorno passeggiava in compagnia di Aristotele e Platone. E anche perché era più vecchio di loro e poteva, se avesse voluto, aprire per loro i cancelli della saggezza con un semplice gesto del suo dito. Jaspin aveva usato il suo dito su un certo numero di loro, e non soltanto il suo dito, e sospettava che alcune se ne fossero venute via più sagge proprio grazie a questo, anche se, forse, non nella maniera che si erano aspettate. Aveva pensato di essersi ormai lasciato alle spalle quelle cose.

— Senti, Jill — avrebbe voluto dire, rivolgendosi a quel volto adorante, — è un vero errore romanticizzarmi in questo modo. Qualunque cosa pensi che io possa offrirti, semplicemente non esiste. Davvero. — Ma non riusciva a indursi a dirlo.

Invece andò verso di lei come se avesse l’intenzione di accoglierla fra le proprie braccia; ma all’ultimo momento si limitò a prenderle di mano il libro che la ragazza stringeva e a coccolarlo come aveva fatto lei. Una vera rarità, Cordry, sulle maschere messicane, centotrent’anni di età e le tavole avevano i colori ancora vividi. Stava un po’ per volta vendendo la sua biblioteca ad un professore del campus di La Jolla per pagarsi da mangiare e l’alloggio, allo stesso modo in cui si era procurato la maggior parte di quella collezione dai dieci ai quindici anni prima, quando era stato lui ad avere i soldi e qualcun altro si era trovato in una situazione d’indigenza.

— È uno dei miei più grandi tesori — dichiarò Jaspin. — Guarda queste maschere! — Girò le pagine. Diaboliche facce cornute, creature da incubo. Chungirà-Lui-Verrà, Maguali-ga. Senti i tamburi che ricominciavano a battergli in testa.

— E questo. E questo. E questo. — E stava per sprofondare nell’estasi. — Una tale, meravigliosa biblioteca! Che persona sorprendente devi essere, per aver raccolto tutte queste conoscenze, dottor Jaspin!

— Barry.

— Barry.

La ragazza usci fuori sul terrazzino e allungò la mano verso l’ibisco, ne staccò un fiore rosso-vivo e se l’infilò tra i capelli. Soltanto una senzatetto, lui pensò. Una randagia. Probabilmente un po’ più vecchia di quanto aveva immaginato all’inizio… forse ventisette. — Vivi in un bellissimo posto — lei gli disse. — In tempi come questi siamo fortunati, no, di trovarci sulla costa della California? Non è così buona la situazione nell’entroterra, non è vero?

— Dicono che la situazione sia piuttosto brutta da quelle parti. E più ti allontani dalla costa, peggio è. Naturalmente, peggio di tutto sono gli stati ai margini della zona impolverata. A quanto dicono, è una giungla totale: bandido dappertutto e nessuno a cui importi; comunque, muoiono tutti a causa delle radiazioni. — Scosse la testa. Provava la nausea a pensarci… lo sconvolgimento provocato dalla Guerra della Polvere. Niente bombe, no: non una sola bomba era stata sganciata. Non si potevano usare le bombe senza innescare l’olocausto finale che tutti ammettevano avrebbe significato il reciproco annichilimento, così avevano usato invece le nubi a radiazione controllata, colpendo gli stati agricoli, spazzando via l’intero cuore del paese, spezzandolo a metà, o addirittura in tre parti. Come avevamo fatto noi con loro, soltanto peggio. E adesso, trent’anni più tardi, strisciamo in mezzo ai resti della civiltà occidentale, potando le nostre bougainvillee e suonando i nostri cubi musicali e frequentando i corsi di antropologia e fingendo di aver ricostruito il mondo qui fuori al sole della California mentre, per tutto quello che ne sappiamo, la gente è diventata cannibale a sole cinquecento miglia a est di qui. E aggiunse, ad alta voce: — Ecco cosa avevo intenzione di scrivere. Il mondo moderno da un punto di vista antropologico: quasi sociologia, in un certo senso. Il mondo come giungla dell’alta tecnologia. Naturalmente adesso non lo farò più.

— No?

— Ne dubito. Non sono più all’università. Non ho nessuna sponsorizzazione. E la sponsorizzazione è importante.

— Potresti farlo da solo, Barry. So che potresti.

— È molto gentile da parte tua — replicò Jaspin. — Senti, hai fame? Ho un po’ di roba, qui. E le pere spinose che crescono su quel cactus in cortile sono commestibili, così potremmo…

— Ti spiace se faccio una doccia? Mi sento davvero appiccicosa, e ho addosso tutta questa pittura, i marchi di Maguali-ga…

— Ma certamente — lui annuì. — Che giorno è oggi? Venerdì? Sicuro, al venerdì abbiamo l’acqua per la doccia.

In un attimo, lei era uscita dai suoi indumenti. Nessuna vergogna. E neppure nessun seno decente, né fianchi, glutei piatti come quelli di un ragazzino. Che diavolo? Era femmina, comunque. Ne era sicuro, anche se non sapeva sempre dirlo per certo, visto il modo in cui facevano trapianti ed espianti e cose del genere, oggigiorno. Le mostrò il cubicolo della doccia e le trovò un asciugamano. Poi, che diavolo, si spogliò ed entrò con lei. — La quota d’acqua che abbiamo per persona non è molta — spiegò. — Faremo meglio a sfruttarla tutti e due.

Quando furono sotto il getto, lei si voltò verso di lui e gli avvolse le gambe intorno al corpo, e lui la spinse contro la parete piastrellata tenendole le mani sotto il sedere. Tenne gli occhi chiusi per la maggior parte del tempo, ma a un certo punto li aprì e vide che gli occhi di lei erano spalancati e che lei aveva sempre quell’espressione rapita e adorante. Come se lui le mettesse dentro cinquanta enciclopedie ad ogni spinta.

Fu tutto molto rapido, anche se molto soddisfacente. Non c’era modo di evitarla. La soddisfazione per la cosa. Ma poi vennero la tristezza, il senso di colpa, la vergogna. Molto tempo fa, qualcuno l’aveva definito fare all’amore. Quale amore? Dove? Due patetici estranei, che pigiavano insieme alcune parti dei propri corpi per qualche minuto: amore.

Jaspin pensò: devo cercare di essere onesto con questa ragazza. Sarebbe stato più simpatico che avessi cercato d’essere onesto prima che lo facessimo, ma forse, allora, non l’avremmo fatto, e immagino che io volessi farlo davvero troppo. Anche questa è onestà, no? No.

Avvilito, appoggiato, fiacco, sul bordo del lavello, disse, fissando i muscolosi seni sormontati di rosa, i suoi fianchi da ragazzino, i suoi capelli umidi e filacciosi: — Devo dirtelo con schiettezza. Tu sei convinta che io sia una specie di figura nobile e romantica, vero? Bene, non lo sono affatto, d’accordo? Non sono nessuno. Sono un fasullo. Sono un fallito, Jill.

— Anch’io — disse lei.

Lui la guardò, sorpreso. Era la prima cosa autentica che aveva sentito uscire dalla sua bocca da quando l’aveva incontrata. Poi spiegò: — Una volta ero qualcuno. Un ragazzo intelligente, di una famiglia ricca di Los Angeles, un mucchio di prospettive. Sarei diventato uno dei grandi antropologi, ma in qualche punto della strada sono diventato un farblondjet. - Lei lo fissò sconcertata. — Non conosci la parola? È yiddish. Significa confuso, disorientato, completamente sbalestrato. Il cafard dell’anima, la grande malattia spuntata agli albori del ventiduesimo secolo, quella che adesso chiamano, credo, la sindrome di Gelbard. Andai in pezzi, ecco quello che mi successe. E non ne sapevo neppure il perché. Mi divenne troppo seccante alzarmi la mattina. Mi divenne troppo seccante andare a far lezione. Non ero esattamente depresso, capisci… La sindrome di Gelbard è qualcosa di un po’ diverso dalla depressione clinica. Mi dicono che è una cosa più profonda, è una reazione a tutto il casino fatto dall’umanità, una specie di esaurimento culturale, un fenomeno di estinzione, come se ti venisse a mancare il combustibile… ma ero farblondjet. E lo sono ancora. Non ho carriera, non ho futuro. Non sono l’eroico semidio della cultura che probabilmente tu immagini.

— Ho assistito ad uno dei tuoi corsi. Eri molto profondo.

— Ripetevo la roba che ho trovato in questi libri. Cosa c’è di profondo in una lingua sciolta? Cosa mai c’è di profondo in una buona memoria? Ti sono parso profondo perché non conoscevi niente di meglio. Comunque, che specializzazione hai conseguito alla UCLA?

— Nessuna.

— Nessun diploma.

Una scrollata di spalle. — Volevo imparare tutto, ma c’erano tante di quelle cose che non sapevo da dove cominciare. Così, credo di non aver mai cominciato. Ma adesso avrò una seconda possibilità, no?

— Cosa vuoi dire?

La sua voce aveva assunto una strana punta di vivacità, qualcosa come dei sottili fili di rame sfregati insieme. — D’imparare. Da te. Farò le pulizie, la spesa, qualunque cosa, tutti i lavori. E studieremo insieme. Va bene, no? Ti aiuterò a scrivere il tuo libro. Non ho un posto vero e proprio in cui vivere, in questo momento, sai. Ma non occupo troppo spazio, e sono molto ordinata, e…

Fu sorpreso di non essersi accorto che stava per accadere. Cominciò ad avvertire una pulsazione alla fronte. Immaginò che Chungirà-Lui-Verrà avesse allungato un’enorme zampa e l’avesse rinchiusa tutt’intorno alla sua testa, e stesse stringendo, stringendo, stringendo…

— Non ho intenzione di scrivere il libro — dichiarò Jaspin. — E non ho intenzione di rimanere qui a San Diego.

— No?

— No. Non rimarrò qui ancora per molto.

Rimase sorpreso oltremisura da ciò che gli era appena uscito di bocca. La cosa gli giungeva nuova, che lui stesse per lasciare San Diego.

— Dove andrai? — gli chiese lei.

Jaspin aspettò per un po’ che la sua bocca gli fornisse la risposta, e poi si sentì dire: — Andrò dovunque andrà il Senhor Papamacer. Al Settimo Posto, immagino. Seguirò i tumbondé fino al Polo Nord, se sarà necessario.

— Parli sul serio?

— Suppongo di sì — disse Jaspin. — Devo farlo.

— Per studiarli?

— No, per aspettare Chungirà-Lui-Verrà.

— Ma allora… tu credi in Lui? — Poté sentire la L maiuscola.

— Adesso sì. Da oggi, sul fianco di quella collina. Ho visto qualcosa, Jill, e mi ha cambiato. Mi sono sentito letteralmente sbattere per terra, in ginocchio, l’autentica esperienza della conversione, ma… — Tutto questo è assurdo, pensò. Un paio di persone nude, che neppure si conoscono, sedute in un minuscolo bagno a dire sciocchezze del genere. — Non sono mai stato una persona religiosa — proseguì. — Ebreo, per lo meno lo erano i miei genitori, ma quella è stata soltanto una cosa culturale, nessuno andava veramente in sinagoga, capisci. Ma questa è una cosa diversa. Quello che ho provato oggi, voglio provarlo di nuovo. Voglio andare dovunque ho la possibilità di sentirlo di nuovo. Sono i tempi, Jill, l’epoca, lo Zeitgeist, sai. Nei momenti di disperazione totale, le religioni rivelate hanno sempre fornito la risposta. E adesso è capitato anche a me, il cittadino Barry Jaspin, cinico e qualunque altra cosa tu voglia aggiungere. Seguirò il Senhor Papamacer e aspetterò che Muguali-ga apra il cancello a Chungirà-Lui-Verrà.

Sentiva il fuoco scorrergli attraverso le vene. Ma sto parlando sul serio? si chiese. Sì. Sì. Sto parlando sul serio. Stupefacente, pensò ancora. Intendo sul serio quello che sto dicendo.

— Posso venire con te? — gli chiese lei timidamente, con reverenza.

3

Charley disse: — Adesso parlami di quello che hai visto ieri, quello dove la luce delle stelle illumina il cielo come di giorno.

— Il mondo del Popolo dell’Occhio, sì. Della Grande Nube Stellare.

— Dimmelo — insisté Charley. — Mi piace ascoltarti quando vedi quella roba. Penso che tu sia un vero profeta, uomo. Sei come qualcuno uscito dalla Bibbia.

— Tu pensi che io sia pazzo, non è vero? — disse Tom.

Con voce sommessa, Charley rispose: — Vorrei che tu smettessi di dirlo. Ti ho forse detto che sei pazzo?

Sono pazzo, Charley. Il povero Tom. Il povero pazzo Tom. Sono scappato da un manicomio per entrare dritto in un altro.

— Un manicomio? Davvero? Un vero e onesto ospizio per gli svitati?

— Pocatello — annuì Tom. — Tu sai dove si trova? Mi ci hanno rinchiuso per un anno e mezzo.

Charley sorrise. — Un bel po’ di uomini sani di mente sono stati rinchiusi in questo modo, e un sacco di matti sono rimasti fuori. Non significa niente. Sto cercando di dirti che ti rispetto, che ti ammiro. Penso che tu te ne stai seduto qui a dirmi che sei pazzo. Suvvia, parlami del Popolo dell’Occhio, uomo!

Charley pareva sincero. Non mi sta prendendo in giro, pensò Tom. È perché ha visto lui stesso il mondo verde. Spero che riesca a vedere un po’ anche gli altri. Lui vuole davvero vederli. Vuole davvero saper tutto su quei mondi. È un grattatore, forse un tempo era perfino un bandido, scommetto che ha ucciso una ventina di persone, eppure vuol sapere, è curioso, è quasi gentile, a modo suo. Sono fortunato a viaggiare insieme a lui, si disse Tom.

— Il Popolo dell’Occhio non esiste ancora — disse. — Si trovano a un milione, forse a due milioni di anni da adesso, o forse è un miliardo d’anni, è molto difficile saperlo di preciso. Mi ritrovo confuso quando mi si manifestano queste cose del passato e del futuro. Capisci, tutti gli impulsi del pensiero galleggiano per l’universo, avanti e indietro, e la velocità del pensiero è assai più grande di quella della luce, così le visioni sopravanzano la luce, le passano dritte accanto, puoi ricevere una visione da un luogo che non esiste ancora, e forse fra un milione o un miliardo d’anni da adesso, la luce di quel sole arriverà finalmente sulla Terra. Segui quello che sto dicendo?

— Sicuro — disse Charley, dubbioso.

— Il Popolo dell’Occhio vive, o vivrà, su un pianeta che ha forse diecimila stelle tutte intorno ad esso e molto vicine, oppure centomila, chei può anche soltanto pensare di contarle, una accanto all’altra, tutte accalcate insieme cosicché da questo pianeta sembrano una singola parete di luce che riempie tutto il cielo? Esci fuori in un qualunque momento del giorno o della notte, quello che vedi è questa tremenda luce che avvampa su ogni lato. Non vedi nessuna singola stella, soltanto un’immensità di luce. Tutta bianca, così come il cielo… bianco incandescente.

Mujer si avvicinò. — Charley.

— Sarò da te fra dieci minuti.

— Puoi parlarmi adesso, Charley?

Charley sollevò lo sguardo su di lui, infastidito. — Va bene. Di’ pure.

I grattatori erano accampati un po’ a est di Sacramento, verso il lato costiero della valle. C’erano ancora delle fattorie operanti là intorno, e per la maggior parte erano ben difese. Qui, grattare era arduo. Charley ed i suoi uomini cominciavano ad avere fame; quel pomeriggio Charley aveva mandato un gruppetto dei suoi a esplorare.

Mujer disse: — Stidge e Tamale sono appena tornati. Dicono di aver trovato una fattoria in fondo alla biforcazione del fiume che pensano si possa prendere, e vogliono agire non appena si farà buio.

— E perché sei tu a dirmelo, allora, e non Stidge?

— Buffalo ha detto che te n’eri andato con Tom e non volevi essere disturbato, e Stidge ha deciso allora di non disturbarti.

— Ma tu l’hai fatto.

Mujer disse: — Volevo parlarti prima che lo facessero Stidge e Tamale. Sai, Tamale si sbaglia sempre su tutto. E Stidge è un selvaggio. Io non mi fido molto di loro.

— Pensi che io mi fidi?

— Quando Stidge dice che un posto può esser preso, e lo dice anche Tamale, allora non sono sicuro. Charley, penso che forse faremo meglio a tenerci lontani. È tutto, volevo dirtelo prima che ti parlasse Stidge.

— D’accordo, uomo. Capisco quello che vuoi dire.

— Altrimenti non ti avrei certo infastidito — aggiunse Mujer.

— Sicuro. Ma abbiamo bisogno di mangiare, Mujer. Ecco quello che farò, credo. Andrò io a dare un’occhiata a questo posto di Stidge e di Tamale. Forse una volta tanto hanno ragione, e potremo occupare il posto, e se penserò che sia possibile, lo faremo. E se penserò che non sia possibile, non lo faremo. Va bene, Mujer?

— Va bene. Mi spiace averti infastidito.

— Niente, uomo. — Charley fece cenno a Mujer di allontanarsi. Voltandosi un’altra volta verso Tom, disse: — Dunque… il Popolo dell’Occhio?

Charley non ha molti problemi, pensò Tom, a cambiare marcia in questo modo. Un minuto prima parla di razziare la fattoria di qualcuno, il minuto successivo vuole che gli si racconti dei mondi fra le stelle. Non dava l’impressione di essere un assassino. I suoi occhi erano profondi e cupi, e c’era qualcosa di prossimo alla gentilezza, quasi alla poesia, in lui… talvolta. E altre volte no. In realtà era un assassino, e Tom lo sapeva. Al di sotto della gentilezza, al di sotto della poesia. Ma cosa c’era al di sotto di queste?

Tom annuì. — Vivono in un mondo di luce che non diventa mai buio, una luce talmente spessa e densa che non è possibile vedere il resto dell’universo. In effetti, non possono vedere assolutamente niente, poiché la luce della Grande Nube Stellare è talmente luminosa che non c’è nessun contrasto, non c’è nessun modo di distinguere una cosa dall’altra. Ti acceca, ce n’è così tanta! Ci si sovraddosa di luce. Invece di vedere, loro percepiscono, e ogni parte dei loro corpi recepisce immagini. Ogni punto della loro pelle. È per questo che vengono chiamati il Popolo dell’Occhio, perché sono come un unico, gigantesco occhio su tutto il corpo. Capisci però che non esistono ancora? Ma esisteranno. Sono una delle razze venture. Ci sono millequattrocento razze venture elencate nel Libro delle Lune, ma naturalmente sono soltanto quelle che si trovano nel Libro delle Lune. In effetti ci sono miliardi e miliardi di razze venture, ma l’universo è così grande che perfino gli zygerone e i kusereen non ne conoscono neppure la millesima parte. Ma loro sono là, il Popolo dell’Occhio, e la loro mente è tanto sensibile che possono protenderla verso l’esterno e percepire il resto dell’universo. Sanno dei soli, dei pianeti, delle stelle e delle galassie e tutto il resto, ma tramite le congetture, le sensazioni e l’intuizione, alla stessa maniera con cui un cieco sa del rosso e dell’azzurro e del verde. La loro mente è in contatto con gli altri mondi del Sacro Impero, passato e futuro. Apprendono a conoscere l’universo esterno, e in cambio fanno vedere agli altri la Grande Nube Stellare, che è santa poiché la sua luce è così potente, così completa. È come la luce del Buddha, sai. Riempie tutto il vuoto. E così il Popolo dell’Occhio…

— Charley? Mi hanno detto che avevi finito di parlare con lui.

Stidge.

— Non proprio — disse Charley. Poi si alzò in piedi. — Merda. Va bene. Finiremo un’altra volta. Cosa c’è, Stidge?

— Una fattoria. Settecento metri più giù, alla biforcazione. Uomo, donna, tre figli. Hanno gli schermi alzati, ma l’elettronica fa schifo. Possiamo andare dritti dentro.

— Ne sei sicuro?

— Assolutamente. L’ha visto anche Tamale.

— Già — commentò Charley. — Tamale ha una capacità di giudizio formidabile.

— Charley, ti sto dicendo che…

— Va bene. Va bene, Stidge. Andiamo giù a dare un’occhiata a quel posto, tu ed io. D’accordo?

— Sicuro — disse Stidge.

Tom rimase dove si trovava sotto un grande albero sul lato di un piccolo ruscello per la maggior parte asciutto, che probabilmente scorreva soltanto durante l’inverno. Seguì con lo sguardo Charley e Stidge che si allontanavano fra le ombre del tardo pomeriggio e poi, dopo un po’, tornarono e si misero a confabulare con gli altri, quindi tutti e otto partirono assieme. Tom si chiese cosa sarebbe successo giù alla fattoria, vicino alla biforcazione del fiume. Dopo un po’, si trovò a camminare in quella direzione per scoprirlo.

Nel giro di pochi minuti la fattoria comparve alla vista. Era un piccolo edificio di legno bianco che pareva vecchio di centocinquant’anni, con le assicelle del tetto tinte di verde scuro e un’alta palma, dal tronco straordinariamente rigonfio, sul davanti, che oscurava con la sua ombra la veranda. Il bagliore rosso dello schermo protettivo circondava la casa. Proprio quando Tom arrivò là, lo schermo si spense, e poi udì grida e tonfi, e un urlo acutissimo sopra ogni altro frastuono. Dopo, vi fu silenzio per un momento; poi ci furono di nuovo delle grida, grida rabbiose. Tom andò alla porta, pensando: sii forte e fatti coraggio, non aver paura, non lasciarti sgomentare, giacché il Signore tuo Dio è con te, dovunque tu vada.

Guardò dentro. Due persone, un uomo e una donna, erano allungati sul pavimento in quella peculiare posizione contorta da cui si capiva che erano stati uccisi da una lancia. Una terza persona… un ragazzo piuttosto, forse sui sedici, diciassette anni, era appiattito contro la parete, bianco in volto, gli occhi fuori dalle orbite, e Stidge gli aveva appoggiato la lancia contro la gola.

— Stidge! — urlò Charley, proprio nell’istante in cui Tom entrava. — Stidge, figlio di puttana ammattito che non sei altro!

— L’ho preso — disse Mujer, arrivando alle spalle di Stidge, afferrando col gesto sciolto di una mano il polso dell’uomo dai capelli rossi e serrandogli l’altro suo braccio intorno alla gola. Stidge diede in un grugnito di sorpresa. Mujer, che pareva incredibilmente forte, viste le sue dimensioni minute, piegò verso l’esterno il braccio di Stidge fino a quando la lancia nella sua mano non arrivò a sfiorare l’orecchio destro di Stidge stesso. — Lascia che lo ammazzi, stavolta — pregò Mujer. — Non va bene, Charley: è un selvaggio. Guarda quello che ha appena fatto, al fattore e a sua moglie.

— Ehi, no, Charley — gridò Stidge, con voce strozzata e impastata di terrore. — Ehi, digli di lasciarmi andare!

— Non c’era bisogno che tu lo facessi, Stidge — disse Charley. La sua espressione era cupa e tempestosa. — Adesso abbiamo due morti tra le mani e due dei figli sono scappati, e per cosa? Per cosa?

— Lo faccio fuori, Charley? — chiese Mujer, con bramosia.

Charley parve prendere in considerazione la possibilità. Tom fece un passo avanti. Nessuno l’aveva notato, al suo ingresso; adesso tutti lo fissarono con stupore, tutti tranne Stidge, il quale aveva il viso rivolto verso la parete. Tom toccò il braccio di Mujer. Provava una strana sensazione agli occhi. Aveva difficoltà a veder dritto. Ogni cosa gli appariva vitrea e offuscata, come se fosse rivestita di ghiaccio.

— No — disse Tom. — Lascialo stare. La vendetta è mia, ha detto il Signore. Non tua, Mujer. Non vendicarti, ma piuttosto lascia posto alla collera. Lascialo stare. — Tom afferrò saldamente il braccio di Mujer e lo tirò indietro fino a quando la lancia non fu ben scostata dal viso di Stidge.

— Cosa…? — Mujer era stupefatto. — Il pazzo? — Si girò di scatto, strappando la lancia dalle mani di Stidge e ruotandola verso Tom, come se avesse avuto l’intenzione di conficcargliela nel petto.

— Il Signore mio Dio è con me dovunque io vada — proseguì Tom con voce pacata. La sua vista era ancora sfocata. Vedeva due Mujer e soltanto una macchia rossa al posto di Stidge.

— Gesù — disse Mujer. — Gesù, cosa abbiamo qui?

— E va bene — esclamò Charley, irritato. — Basta con questa dannata faccenda, Mujer. Ridà a Stidge la sua lancia.

— Ma…

Ridagliela. - Rivolto a Stidge, Charley aggiunse: — Sei fortunato che Tom sia entrato qui al momento giusto. Avevo mezzo in mente di lasciare che Mujer ti facesse fuori. Sei una passività per noi, Stidge.

— Sono stato io a interrompere lo schermo, no? — ribatté Stidge con veemenza. — Sono io che vi ho fatto entrare qui!

— Già — disse Charley. — Ma avremmo potuto entrare e uscire senza uccidere. Adesso, abbiamo due morti qui per terra, e due dispersi. Stidge, devi mantenere il controllo di quelle tue armi. Non devi lasciarti andare di nuovo, mi hai capito? La prossima volta che succede, ti liquidiamo, hai capito? — Quindi agitò la mano verso gli altri. — E va bene. Cominciate a impacchettare tutto quello che ci può servire. Cibo, armi, qualunque cosa. Non possiamo rimanercene qui.

— Non ci credo — bofonchiò Mujer, fissando Tom. — Ti odia, sai? Stidge. Sto per farlo fuori, e tu arrivi e mi agguanti il braccio. Non ci credo.

— Vieni fuori, vieni fuori, tu, uomo dannato, tu, figlio di Belial — disse Tom.

— Di nuovo la Bibbia — esclamò Mujer, disgustato. — Oh, maledetto pazzo!

Tom sorrise. Tutti lo stavano fissando. Sì, che lo fissassero pure. Non avrebbe potuto sopportare un’uccisione a sangue freddo. Perfino Stidge. Tom guardò verso di lui. C’era un’espressione furibonda, gelida, velenosa sul volto di Stidge. Adesso mi odia ancora di più, si rese conto Tom. Adesso sa di dovermi la vita. Ma io non ho paura. Amate i vostri nemici, è quello che Lui ci ha insegnato; fai del bene a coloro che ti odiano, benedici quelli che ti maledicono. Si rese conto che ora stava vedendo di nuovo nitido, poiché si era calmato un po’. — Grazie — disse, rivolto a Charley, — per averlo risparmiato.

— Già — grugnì Charley. — Gesù, Tom. Tu non c’entravi per niente. È stata una pazzia quella che hai fatto. Entrare così. Mujer avrebbe potuto piantarti addosso la lancia, a te e a Stidge assieme, lo sai.

— Non potevo permettere che venisse spenta un’altra vita. Il Signore è il solo giudice.

— Non avevi nessun diritto d’immischiarti. Non era un tuo compito quello di decidere le cose, qui. È stata una pazzia, Tom. Fare quello che hai fatto. D’accordo. Ecco come la chiamo io: una pazzia. No, non era affatto un tuo compito. Adesso, vattene via da qui fino a quando non avremo finito. Su, vai via.

— D’accordo — annuì Tom. Uscì fuori. Ma si voltò a guardare indietro, dalla finestra, quel tanto che bastò a vedere Charley che sollevava il braccialetto al laser che aveva al polso e dirigeva un raggio di quella luce fiammeggiante contro il ragazzo addossato alla parete. Il ragazzo crollò giù, molto probabilmente morto ancora prima che toccasse terra. Tom sussultò e borbottò una preghiera. Un po’ più tardi Charley uscì dalla casa. — L’ho visto — disse Tom. — Come hai potuto farlo? Non riesco a trovare nessun senso. Ti sei arrabbiato quando Stidge ha ucciso l’uomo e la donna. E poi anche tu…

Charley sputò per terra. — Una volta che si è ucciso — ribatté, — bisogna uccidere ancora. Uccisi i genitori, sarà assai meglio per te uccidere anche il figlio, altrimenti ti braccherà, non importa dove andrai a nasconderti. Gli altri due ragazzi sono scappati e, per l’inferno, spero proprio che non abbiano visto le nostre facce. — Poi, scuotendo la testa, aggiunse: — Cosa c’è? Ti avevo detto di non restare tra i piedi. Dovevi proprio guardare, non è vero? Bene, così hai visto. Credi che io sia un maledetto santo, Tom? — Scoppiò in un’aspra risata. — Questo non è il momento di essere santi. Vieni, adesso. Vieni. Dimmi qualcos’altro sul Popolo dell’Occhio. La vedi davvero tutta quella merda, eh? Come se per te fosse vera sul serio. Sei sorprendente, matto figlio di puttana che non sei altro. Raccontami. Raccontami quello che vedi.

4

Ferguson disse ad April Cranshaw: — Mi giuri su Dio che non ti stai inventando tutto? Il cielo pieno di luce. Le meduse volanti. Ehi, ehi: fammi un favore e ammettilo. È tutto un grosso scherzo, non è vero? Giusto?

— Ed — lei gli disse in tono di rimprovero, come se lui le avesse appena pisciato sul vestito delle feste, — smettila di farmi questo. Finirò per andarmene via da te, se continuerai a pasticciarmi la testa. Sii carino, Ed.

— Sì — disse lui. — Sarò carino.

I bastardi erano tutti affannati per quella faccenda. Non parlavano quasi d’altro. Alla mattina, quando ci si presentava per la mondata, la prima cosa che chiedevano era come fossero andati i sogni. Poi per tutto il pomeriggio rimanevano in riunione. Gente che veniva convocata per essere sottoposta a test speciali, e chissà che altro.

Non lui. Lui, mai. Lui non faceva i sogni. Mai. Questo li lasciava perplessi. Lasciava perplesso anche lui, in verità. Lo induceva a chiedersi come mai fosse stato scelto proprio lui. Lo induceva a chiedersi se fosse poi vera, la storia di quei sogni. Bastardi!… Erano tutti un branco di bastardi. Cercare di tagliarlo fuori. Cercare d’ingannarlo in continuazione.

— Dammi una risposta schietta — insisté. — Non te lo stai inventando? Fai davvero sogni del genere?

— Ogni notte — rispose lei. — Te lo giuro.

Lui studiò la sua faccia come se fosse il prospetto d’un piano di sviluppo della fascia costiera: pareva un budino, blando e sussultante. A guardarla, sembrava sincera come non so che cosa. Un ampio, dolce sorriso, dolci occhi verde-azzurri. Ferguson non vedeva come avrebbe potuto essere capace di mentire. Non lei. Gli altri di sicuro, ma non lei.

— A volte perfino durante il giorno — proseguì April. — Chiudo gli occhi per un minuto quando sono ancora sveglia, e ricevo immagini sotto le palpebre.

— Davvero? Durante il giorno?

— Anche oggi. Il Popolo delle Meduse, verso metà mattina.

— Dopo essere stata mondata, allora?

— Proprio così. È ancora fresco nella mia mente.

— Vai avanti. Dimmi cos’hai visto.

— Sai che non dovremmo raccontarcelo…

— Dimmelo — insistette lui.

Si chiese se aveva mai dormito con lei. Probabilmente no: era sugli ottanta di peso, trenta chili di troppo, niente affatto il suo tipo. Il suo registratore non aveva nessuna informazione sull’argomento, ma questo non significava che non fosse successo, soltanto che non si era preoccupato d’immettere i dati nel registratore, e adesso era troppo tardi per saperlo. Avrebbe potuto fotterla dieci volte durante lo scorso mese, e adesso nessuno di loro due avrebbe avuto alcun modo per saperlo. Le cose andavano e venivano. Quella volta, lo scorso mese, quando Mariela era venuta a fargli visita, era stata come un’estranea per lui, era stato come se non l’avesse mai conosciuta. O non avesse mai voluto conoscerla. Sua moglie. Se non avesse immesso il dato nel registratore, non avrebbe neppure saputo che era venuta.

A disagio, April disse ancora: — La dottoressa Lewis mi ha detto che non devo assolutamente rivelare il contenuto dei miei sogni salvo durante le sedute inquisitorie, perché altrimenti avrei contaminato i dati.

— Fai sempre quello che ti viene detto?

— Sono qui per guarire, Ed.

— Mi fai star male, April. Tu e quel vento marino che soffia tutto il tempo!

— Passeggiamo un po’ — disse lei.

Erano ai margini del bosco, stavano percorrendo il sentiero che attraversava la foresta delle sequoie subito a est del Centro. Era la parte del pomeriggio che avevano libera. Il vento, fresco e forte, soffiava dall’oceano con la veemenza d’un pugno, come faceva sempre a quell’ora del giorno. Ogni pomeriggio avevano un’ora o due di tempo libero. Non c’era nessuna terapia, al pomeriggio; volevano che uscissero a passeggiare nella foresta, oppure che facessero giochi di abilità in sala ricreazione, oppure semplicemente che copulassero tra pazienti.

In quel momento Ferguson avrebbe preferito trovarsi con Alleluia. Ma non sapeva dove si trovasse, e in qualche modo April l’aveva trovato. Ci riusciva sempre, in qualche modo, durante il tempo libero.

— Sei davvero ossessionato dai sogni spaziali, non è vero? — lei gli disse.

— Non lo sono tutti?

— Ma tu continui sempre a chiedere come sono… come sono fatti?

— È perché io questi sogni non li faccio.

— Li farai — lei replicò con voce sommessa. — È soltanto che non è ancora arrivato il tuo turno. Ma arriverà.

Già, pensò lui. Quando? Da quanto tempo dura questa storia, due settimane? Tre? È difficile star dietro al tempo in un posto come questo. Dopo una piccola mondata, ogni giorno cominciava a scorrere senza che fosse possibile accorgersene, come se facesse parte di quello precedente e di quello successivo. Ma i sogni… i sogni li facevano tutti, i pazienti e almeno uno dei tecnici del personale, quel curioso tipo di Lansford, e forse perfino qualcuno tra i dottori. Tutti, tranne lui. Questo era il punto: tutti tranne lui. Era quasi come se tutti si fossero trovati d’accordo per mettere insieme quella montagna di merda, quei sogni spaziali: per prenderlo per i fondelli.

— So che arriverà anche il tuo turno — esclamò lei. — Oh, Ed, i sogni sono così belli!

— Non saprei — lui replicò. — Andiamo da questa parte, in mezzo al bosco.

Lei ridacchiò nervosamente. Quasi un nitrito.

Ferguson era convinto di non aver mai dormito con lei. Finora, stando a quello che indicava il suo anello registratore, Alleluia era l’unica, da quando era arrivato lì… Donne delle dimensioni di April non erano mai state di suo gusto, anche se poteva capire quanta grazia potenziale potesse esserci giù, nelle profondità di tutta quella carne, gli zigomi sepolti, il naso e le labbra dall’aspetto così simpatico. Aveva all’incirca trentacinque anni, veniva da Los Angeles come lui, parecchio svitata, come tutti là dentro. Ciò che lo preoccupava di più non era tanto il grasso, ma il modo in cui funzionava la sua testa, così pronta a credere a un sacco di cose fantastiche. Che tutti, ad esempio, avessero vissuto parecchie vite e potessero mettersi in contatto con quelle precedenti, e che c’era davvero gente capace di leggere il pensiero, e che gli dèi e gli spiriti, e forse perfino le streghe e i folletti, erano veri, ed esistevano tutt’intorno a noi, e così via. Tutte quelle sue sciocche convinzioni per lui non avevano nessun senso. Il mondo reale non l’aveva trattata molto bene, così lei viveva in un mucchio di mondi immaginari. Gli aveva mostrato fotografie di lei stessa vestita con costumi medioevali, ce n’era perfino una in cui indossava una corazza, una grassa signora che, proprio come un cavaliere, era pronta a partire per le crociate. Gesù, non c’era da meravigliarsi che le piacessero i sogni spaziali!

Ma lui, doveva sapere se quella merda succedeva davvero.

C’era tranquillità, lì nel folto della foresta. Le cime degli alberi erano mosse dal vento, ma nient’altro. Un buon odore pulito di foresta di sequoie. Quel posto cominciava un po’ a piacergli, sì.

— Perché non credi che noi facciamo davvero questi sogni? — lei gli chiese.

Ferguson la fissò. — Due cose — cominciò a spiegare. — Una, perché durante tutta la mia vita ho avuto a che fare con gente la quale provava cose che io non provo. Quelli che vanno in chiesa, quelli che appendono festoni dorati al loro albero di Natale, quelli che credono che le preghiere ricevano risposta. Quella gente ha certezze. Sai cosa voglio dire. Io non ho mai avuto nessuna dannata certezza su niente, salvo sul fatto che la fortuna dovevo crearmela da me, poiché non c’era nessuno là fuori che lo facesse al posto mio. Mi segui? A volte piacerebbe anche a me mettermi a pregare, proprio come chiunque altro, soltanto che io so che non serve a niente. Così, mi trovo al di fuori di ciò che un sacco di gente sa di sicuro. E quando questo genere di sogni bizzarri si manifesta, e tutti dicono: ma che belli, che meravigliosi, e io non li ricevo… sai come mi sento? Su, avanti, dimmi che sono paranoico. Ma forse lo sono davvero, altrimenti non mi troverei in un posto come questo. Ma non sono mai riuscito a credere in niente che non potessi toccare con le mie proprie mani, e io non tocco questi sogni.

— Hai detto che c’erano due cose, Ed.

— L’altra è… Sai che avrei dovuto andare in prigione? — Si chiese come mai le stesse raccontando tante cose di se stesso. Lei avrebbe anche potuto, in qualche modo, usare quella roba per fargli del male. No, pensò. Non lei. La dolce April. — Condannato per frode. Ecco cos’è stato. Vendevo viaggi fino a un pianeta di Betelgeuse, ecco quello che facevo. Promettevamo di mandare la gente a… non ricordo quanti, quindici, cinquanta anni-luce, non in carne e ossa, ma soltanto con la mente, grazie al procedimento della metem… metem…

— Metempsicosi? — chiese April.

— Ecco. Sì. La gente correva ad accettare. Mi sorprende che tu non fossi nella nostra lista. Cristo, forse lo eri. Tutti volevano andare. Ma naturalmente erano soltanto sciocchezze. Più tardi avremmo avuto guai con il processo e il dover rifondere tutti i depositi, ma intanto guadagnavamo gli interessi sul contante, capisci? In abbondanza: milioni. E poi ci hanno preso. Hanno preso me. Io ci sono rimasto dentro, alcuni degli altri l’hanno scapolata. Ma quello che mi rode, April, è che adesso l’imbroglio sta diventando vero, all’incontrano, maledizione a Betelgeuse Cinque… si sta metempsicosizzando verso la Terra. È così incredibile per me, che d’un tratto la mente della gente sia in sintonia con le altre stelle, proprio quello che spacciavo io. Io sapevo di essere un imbroglione. Ma questo…

— No, Ed. Questo è vero.

— E come faccio a saperlo? Come? A volte penso che quei bastardi mi stiano prendendo in giro. Che s’inventino tutto per confondermi. — Adesso si trovavano nel profondo della foresta. Loro due, soli. È davvero quello che credo? si chiese. Che si tratti di una congiura? Perfino Lacy, a San Francisco, ha visto la grande creatura dorata con le corna; Alleluia ha visto la stessa cosa. Possibile che anche Lacy facesse parte del complotto? No. Come avrebbe potuto Lacy riuscire a raccontare il suo sogno ad Alleluia? Non sapeva neppure che Alleluia esisteva. Perfino lui doveva ammettere che era una follia dubitare dei sogni. Ma ne dubitava lo stesso. — Dimmi cos’hai visto stamattina — la sollecitò. — Il Popolo delle Meduse.

— Non dovrei discutere…

— Gesù — lui esclamò. Erano completamente soli, non c’era nessuno lì intorno, salvo le tamie. Sorrise e si avvicinò di più a lei. Per un istante lei gli rivolse un’occhiata preoccupata e spaventata. — Potresti essere molto attraente, sai? — le disse Ferguson, e la attirò contro di sé. Lei indossava un pullover di cashmere azzurro, lanuginoso, morbido. Ferguson infilò la mano sotto di esso e le toccò una mammella, nuda, talmente grossa che non riuscì a coprirla tutta con le dita allargate. Lei chiuse gli occhi e cominciò a sospirare. Lui trovò il capezzolo e sfregò il pollice lentamente contro di esso, e in un istante divenne duro come un sassolino. Lei spinse la metà più bassa del suo corpo contro di lui e più volte produsse dei piccoli sospiri.

Poi lui tolse la mano.

— Non fermarti — disse lei.

— Voglio sapere. Ho bisogno di sapere. Dimmi cos’hai visto.

— Ed…

Lui sorrise. Le mise la bocca sulla bocca e le infilò la lingua tra le labbra, e le toccò di nuovo la mammella, da fuori del maglione. — Dimmelo.

Con un sospiro, lei disse: — D’accordo. Non fermarti e te lo dirò. Il cielo di questo mondo che ho sognato è tutto illuminato, ci sono un milione, un miliardo di stelle tutt’intorno al pianeta, così c’è la luce del giorno per tutto il tempo, un giorno sempre brillante, e questi esseri galleggiano nell’atmosfera. Sono enormi, assomigliano un po’ a gigantesche meduse, trasparenti, con appendici penzolanti, molto intricate. Oh, Ed, non dovrei raccontartelo! — Lui le massaggiò il capezzolo irrigidito. — Stai andando benissimo. Continua.

— Ogni entità è come una colonia di esseri. Nel mezzo c’è il cervello, scuro, e poi ci sono quelle cose arrotolate e penzolanti che danno la caccia al cibo, e quelle con le piccole gambe a remo che fanno da propulsori alla colonia, e quelle che… quelle che fanno cose riproduttive, e… oh, non so, devono essercene di altri cinquanta tipi, almeno, tutte unite insieme, in grappoli aggrovigliati, ognuna con una specie di cervello proprio, ma tutte collegate alla mente principale. E all’esterno di tutto il grappolo ci sono i percettori che funzionano in mezzo a tutta quella luce abbagliante come occhi, ma non sono veri occhi, poiché si trovano sopra ogni singola parte della superficie esterna.

Lui chiese: — E l’altra volta che l’hai visto, era uguale?

— Non lo so, Ed. Mi hanno mondato, non ricordi? E allora, ne ho perso la memoria. Ma credo debba essere stato uguale, poiché è la vera proiezione di un mondo reale, e allora, come potrebbe essere diverso ogni volta?

Lui non sapeva niente di vere proiezioni di mondi reali. Ma la sua descrizione era certamente la stessa. Stava ripetendo alcune delle frasi esatte che aveva già usato il giorno prima, due, tre, quattro giorni prima, quando gli aveva parlato la prima volta del popolo delle meduse e del cielo pieno di luce. Non riusciva a ricordare cosa avesse detto quel giorno più di quanto non potesse lei, ma aveva immesso tutto nel suo registratore, ed era questo che lei aveva detto, e lui aveva trascritto, grappoli e grovigli che si contorcevano e un cervello scuro all’interno di un corpo trasparente.

— Non devi dire che te l’ho detto, Ed.

— No, naturalmente no.

— Stringimi di nuovo, ti dispiace?

Lui annuì. Il volto di lei salì verso il suo, gli occhi luminosi e annebbiati, le labbra dischiuse, la punta della lingua visibile. Povera grassona. Probabilmente desiderava di potersi lasciare quel corpo alle spalle e balzare l’indomani su quell’altro mondo e vivere come una medusa con addosso quei grappoli penzolanti. Felice e contenta per sempre.

— Oh, Ed… Ed…

Dannazione, lui pensò. Non c’è modo di negarlo. Sì, fanno davvero tutti questi sogni. Tutti, tranne me, fanno gli stessi sogni, Cristo soltanto sa come. I bastardi. I bastardi. Tutti tranne me. Si chiese come avrebbe potuto utilizzare tutta quella faccenda. Doveva esserci un uso possibile. Durante tutta la sua vita aveva volto a proprio uso il fatto che gli venissero a mancare un sacco di cose che gli altri provavano. Va bene. Anche questo. Forse hanno un uso speciale per qualcuno che è immune ai sogni, ed io potrei scambiare questo per metter fine alla maledetta mondata giornaliera, o qualcosa del genere, forse.

April schiacciò ancora di più il proprio corpo contro il suo.

— Già — disse lui, con voce sommessa. Un patto era un patto. Lei gli aveva detto quello che voleva sapere; adesso lui doveva fare la sua parte con lei… Infilò di nuovo la mano sotto il suo maglione.

5

Elszabet disse: — Lista dei sogni in output. — E la parete dei dati nel suo ufficio si accese, come il tabellone della Borsa.


1) Mondo Verde Sei rapporti.

Singolo sole verde, atmosfera verde e densa.

Abitanti cristallini umanoidi.

2) Nove soli Tre rapporti.

Nove soli di vari colori simultaneamente nel cielo; grande figura extraterrestre visibile di frequente.

3) Stella doppia Uno Sette rapporti.

Grande sole rosso, più uno azzurro variabile; essere extraterrestre cornuto, associato con blocco di pietra bianca.

4) Stella doppia Due Due rapporti.

Una stella gialla, una bianca, entrambe molto più grandi del nostro sole. La materia sgorga da entrambe le stelle, formando un velo intorno all’intero sistema che emette un’intensa aura nel cielo del pianeta.

5) Sfera di luce Sei rapporti.

Pianeta situato all’interno di un ammasso stellare globulare così popoloso che una costante, vivida luminosità lo racchiude da ogni lato. Abitato da colonie di creature complesse, simili a meduse, che vivono nell’atmosfera.

6) Gigante azzurra Due rapporti.

Enorme stella azzurra che emette con violenza una grande quantità d’energia.

Paesaggio planetario fuso, ribollente. Abitanti eterei non chiaramente visualizzati.


— Immissione dati — disse Elszabet.

Cominciò a impostare il carico mattutino di rapporti sui sogni.

April Cranshaw. Gigante Azzurra.

Tomás Menendez. Mondo Verde.

Padre Christie. Stella Doppia.

Povero Padre Christie: aveva preso i sogni peggio di chiunque altro, interpretando sempre ciascuno di essi come un messaggio personale di Dio per lui. Odiava ancora l’idea di rinunciarvi. Ogni mattina doveva fare la stessa lotta con lui, costretta quasi sempre a mondarlo due volte per ripulirlo a dovere. Forse, se non l’avesse mondato — pensò — i sogni avrebbero perduto parte del loro potere trascendentale, e sarebbe stato più facile trattare con lui. D’altro canto, se non fosse stato mondato, avrebbe dovuto cimentarsi con il concetto che Dio gli si era manifestato in una mezza dozzina di guise diverse durante le ultime settimane. Ed era molto probabile che a quest’ora si sarebbe trovato in un profondo stato schizofrènico, al di là di ogni possibilità di recupero, se avesse avuto accesso a più d’un sogno per volta. Meglio che fosse sempre convinto che ogni sogno era il primo.

Elszabet continuò l’immissione giornaliera dei dati:

Philippa Bruce. Sfera di Luce.

Alleluia CX1133. Nove Soli.

Sentì che qualcosa di simile al fantasma di un mal di testa cominciava a invaderla, un lieve pizzicore pulsante intorno alle tempie. Strano. Non aveva mai mal di testa. Praticamente mai. Il periodo mensile, forse? No, pensò. I postumi del pugno che aveva ricevuto da Nick Doppio Arcobaleno? Ma era passata più di una settimana. Tensione generalizzata e stress, allora? Tutto l’interrogarsi su quei sogni bizzarri? Qualunque cosa fosse, la sensazione stava peggiorando. La pressione dietro gli occhi era insolita e assai sgradevole. Toccò il nodulo neutralizzatore sul suo orologio e si diede una buona irrorata di suono alfa. Era la prima volta che lo faceva dopo moltissimo tempo. La pressione si alleviò un poco.

Proseguì. Teddy Lansford. Nove Soli.

Qualcuno bussò alla porta. Elszabet corrugò la fronte e gettò un’occhiata allo schermo. Fuori della porta vide Dan Robinson appoggiato amabilmente contro lo stipite.

— Hai un minuto? — le chiese lui. — Ho qualcosa di nuovo per te.

Lo lasciò entrare. Robinson dovette chinarsi per attraversare la soglia. Era un uomo d’alta statura: aveva un fisico da giocatore di pallacanestro, tutto braccia e gambe. In pratica, riempì la stanzetta. L’ufficio di Elszabet non era altro che un piccolo e spoglio cubicolo funzionale, un pavimento di ruvide tavole grigie, una minuscola finestra, la luce arancione diffusa che scendeva dall’alto. Neppure un tavolo o il terminale di un computer, soltanto un paio di sedie davanti a una dati-parete che andava dal pavimento al soffitto. A lei piaceva così.

Robinson sbirciò la dati-parete. L’immissione relativa a Teddy Lansford era ancora visibile. La fissò, annuendo.

— È il suo quarto, vero?

— Terzo — precisò Elszabet.

— Terzo… ma anche così, come mai lui fa i sogni, e il resto di noi no? Non quadra, che un membro del personale faccia i sogni.

— Forse Teddy è l’unico disposto ad ammetterlo — replicò lei. Non scese nei particolari. Il solitario sogno del Mondo Verde fatto da Naresh Patel era ancora una faccenda confidenziale con lei, e sarebbe rimasto tale fino a quando lo stesso Patel avrebbe voluto che tale rimanesse.

— Sospetti che altri membri del personale li stiano nascondendo? — chiese Robinson. D’un tratto i suoi occhi divennero molto grandi, molto bianchi sul suo volto dalla tonalità cioccolato. — Pensi forse che anch’io lo faccia?

— Lo fai?

— Parli sul serio?

— Allora, lo fai? — insisté lei, un po’ troppo seccamente. Si chiese come mai fosse così secca con Robinson. Era ovvio che anche lui se lo stava chiedendo.

— Ehi, smettila, Elszabet.

Il mal di testa era tornato. Sentì di nuovo la pressione, più forte di prima, un pesante pulsare delle tempie. Scosse la testa cercando di schiarirsela.

— Mi spiace — disse. — Non volevo sottintendere…

— Tu sai che muoio dalla voglia di fare uno di quei sogni. Ma finora pare che Lansford sia il solo fortunato.

— Finora, sì.

Salvo Naresh Patel, lei pensò. E nel suo caso era successo una sola volta.

— Perché pensi che sia così? — chiese Robinson.

— Non ne ho la più pallida idea. — Elszabet esitò, e disse ancora, una pugnalata nel buio: — È possibile che la capacità di sognare, o la sua assenza, sia una funzione dell’elasticità emotiva. I pazienti sono estremamente incerti nell’area della psiche, altrimenti non si troverebbero qui, dopotutto. Ciò deve esporli ad ogni tipo di turbe alle quali i membri dello staff non dovrebbero essere vulnerabili. Questi sogni, per esempio…

— E Teddy Lansford è incerto nell’area della psiche?

— Be’, è omosessuale.

— E allora?

Elszabet si sfregò leggermente la fronte. Qualcosa le martellava là dentro. L’imbarazzava premere l’orologio per una irrorazione alfa davanti a Dan Robinson,

— Allora niente, immagino — rispose. — Un’ipotesi sciocca. — E neppure Naresh Patel è particolarmente incerto nell’area della psiche, si disse Elszabet. O gay, se è per questo. — In effetti, Lansford è piuttosto solido emotivamente, non credi?

— Direi di sì.

Elszabet disse: — Non so cosa dirti, allora. Forse, quando avremo più dati riusciremo a capirlo meglio. In questo momento non saprei proprio. — E aggiunse, bruscamente: — Avevi detto che c’era qualcosa di nuovo di cui volevi parlarmi.

Lui la fissò: — Ti senti bene, Elszabet?

— Sicuro. No, no davvero. Ho l’inizio d’un mal di testa. — Qualcosa di molto al di là di un inizio, ormai. Erano degli autentici colpi di maglio. — Perché? Si vede così tanto?

— Sembri un po’ suscettibile, tutto qui. Impaziente. Secca. Perentoria. Non assomigli molto al tuo solito.

Elszabet scrollò le spalle. — È uno di quei giorni, immagino. Una di quelle settimane. Senti, ti ho detto che mi è dispiaciuto essere stata brusca con te, no? — Poi aggiunse, con voce più morbida: — Ricominciamo da capo, va bene? Volevi vedermi. Cosa bolle in pentola, Dan?

— C’è un nuovo sogno. Il numero sette, Stella Doppia Tre.

— Come mai? Credevo che avessimo ricevuto tutti i rapporti, per oggi.

— Be’… adesso ce n’è uno in più. È stata una cortesia di April Cranshaw, mezz’ora fa.

Elszabet replicò: — Abbiamo già ricevuto i dati di April. Ha riferito del sogno di stanotte, la Gigante Azzurra.

— Non è di stanotte — disse Robinson. — È di questa mattina, dopo la mondata.

Una notizia stupefacente. — Cosa? Un sogno ad occhi aperti?

— Così pare. April era un po’ ritrosa a volerlo ammettere. Credo che avesse paura che la mandassimo a farsi una seconda mondata subito stamattina. Ma ce l’aveva sulla coscienza e ha finito per dirlo. Questo potrebbe non essere il primo sogno ad occhi aperti che fa.

— Adesso April ha fatto più sogni di chiunque altro — constatò Elszabet.

— Proprio in cima alla curva della sensibilità, certo. Credo che lo sappia anche lei. E la cosa la turba un po’.

— Che tipo di sogno era?

— Ecco cosa ho buttato giù in fretta — disse Robinson.

Le porse un foglietto. Elszabet lo esaminò e disse, rivolta alla parete: — Immissione Lista dei Sogni. — Lo schermo assunse la configurazione voluta, e lei v’inserì vocalmente la descrizione del nuovo sogno, leggendola dal foglietto:

7) Stella Doppia Tre Un rapporto.

Un sole molto simile al nostro per dimensioni e colore, più un secondo sole che irradia una luce rossa/arancione. È di dimensioni più grandi, ma più debole. Sistema complicato di lune. Non è stata riferita nessuna forma di vita.

— È comodo avere questa lista — commentò Robinson.

— Lo è, infatti — rispose Elszabet. E aggiunse, rivolto alla dati-parete: — Stampa Lista-Sogni. Distribuzione Canale Uno.

— Cosa fai, la stampi per farne il punto generale di riferimento, qui al Centro?

— È una buona idea. È la prossima cosa che farò.

— Cos’è, allora, la Distribuzione Canale Uno?

— La mando agli altri centri di mondatura della California del Nord — spiegò Elszabet.

Dan Robinson sgranò di nuovo gli occhi.

— Hai fatto questo?

— San Francisco, Monterey, Eureka. Li ho chiamati stamattina per dirgli quello che sta succedendo qui, e Paolucci a San Francisco mi ha detto che anche da loro sta succedendo qualcosa lungo le stesse linee, e che aveva saputo l’identica cosa da Monterey. Così, stiamo stabilendo un collegamento dati. Descrizione dei sogni, concordanza dell’incidenza. Dobbiamo sapere cosa, in nome di Dio, sta accadendo. Un’epidemia di sogni identici? È una cosa del tutto nuova nell’intera casistica delle turbe mentali. Se è davvero una turba mentale quella con cui abbiamo a che fare.

— Me lo sto appunto chiedendo — dichiarò Robinson. — Ci sarà un po’ di maretta, tu che comunichi questo agli altri centri, senza prima sollevare la questione durante una riunione dello staff.

— Lo credi? — Adesso i colpi dentro il suo cranio avevano raggiunto un livello impossibile di rimbombo. C’era qualcosa dentro che cercava di uscire? Così sembrava. — Scusami — disse Elszabet, e si diede un’irrorazione di alfa. Sentì le guance che le si arrossavano perché stava eseguendo quel tipo di modifica davanti a lui. Il dolore si alleviò soltanto un po’. Cercando di non sembrare irritata quanto in effetti era, disse rivolta a Robinson: — Non mi sembrava che fosse materia riservata. Volevo soltanto sapere se anche gli altri centri avevano a che fare con questo fenomeno, così ho cominciato a chiamarli, e loro hanno detto, sì, anche noi, mandateci i vostri dati e noi vi manderemo i nostri in cambio, e… Elszabet chiuse per un attimo gli occhi e strinse i denti con forza, esalando un profondo sospiro. — Ascolta, possiamo parlare di queste cose in un altro momento? Ho bisogno di un po’ d’aria fresca. Credo che andrò a fare una corsa giù alla spiaggia. Questo schifoso mal di testa!

— Buona idea — replicò Robinson, con gentilezza. — Anche a me farebbe bene un po’ d’esercizio. Ti spiace se vengo a correre con te?

Sì, mi spiace, lei pensò. E molto. La spiaggia era il suo posto tutto speciale, il suo secondo ufficio, in effetti. Cercava di scappare laggiù un paio di volte alla settimana, quando sentiva di aver bisogno di pensare seriamente, oppure voleva soltanto sfuggire alla pressione alla quale la sottoponevano i suoi doveri al Centro. La stupiva il fatto che Robinson, di solito molto sensibile, non riuscisse a capire che in quel momento lei non voleva nessuna compagnia, neppure la sua. Ma non riuscì a indursi a dirglielo. Un uomo così dolce, così bravo. Elszabet non voleva apparire di nuovo brusca con lui. È stato stupido da parte mia, si disse. Tutto quello che devi fare è dirgli che hai bisogno di restare sola: non si offenderà. Ma non poteva farlo. Riuscì a sorridere. — Certo. Perché no? — rispose, odiando se stessa per aver ceduto in quel modo. Gli fece un cenno. — Su, vieni. Andiamo.

La spiaggia non era gran cosa: una piccola insenatura rocciosa chiusa tra scogliere dalla cima piatta ricoperte da mesembriantemi. Si trovava soltanto a quattro chilometri dalla sezione principale del Centro, una simpatica e facile camminata giù per una stretta strada non pavimentata, fiancheggiata su ambo i lati da vistosi alberi di madronia dalla rossa corteccia, e da bassi arbusti di manzanita. Correvano fianco a fianco, muovendosi con scioltezza. La pulsazione nella testa di Elszabet cominciò a diminuire man mano che il ritmo del jogging prese il sopravvento. Elszabet non aveva nessun problema a tenersi al passo con lui, anche se le gambe di Robinson erano molto più lunghe. Al college, a Berkeley, lei era stata un’atleta, una velocista della squadra su pista, campionessa dello stato su ogni gara delle medie distanze, gli 800, i 1500, il miglio, e anche più. Le sue gambe scattanti, la resistenza, la determinazione. — Dovresti prendere in considerazione una carriera da velocista — le aveva detto qualcuno. Allora aveva avuto diciannove anni, quindici anni prima. Ma che significato aveva una carriera da velocista? Era uno sprecare la vita, pensò. Concedersi a qualcosa di ermeticamente chiuso, di privato, come l’attività di velocista. Era come dire: dovresti pensare a una carriera come cascata; dovresti pensare a una carriera come idrante. Era una cosa inutile da farsi con se stessi, andava bene per un po’ di disciplina personale o per un’attività extracurricolare all’università, ma non se ne faceva una carriera. Intraprendere una carriera, pensò, significava fare un uso vero della propria vita, il che voleva dire entrare nella corsa umana, non in quella dei 1500 metri. Bisognava giustificare la propria presenza sul pianeta offrendo qualcosa agli altri che si trovavano qui nello spazio e nel tempo, condividendoli con te, e il fatto di essere la ragazza più veloce della sua classe non significava neppure esser prossimi alla sufficienza. Lavorare al Centro per rimettere in sesto quei poveri individui scombussolati e spenti dalla sindrome di Gelbard, per poi diventarne alla fine responsabile: questa era una cosa assai più consona, pensò Elszabet.

Continuò a correre senza dire niente, quasi inconsapevole dell’uomo dalla pelle scura e dai movimenti sciolti che correva al suo fianco. C’era un sentiero ripido e accidentato che dalla cima del dirupo scendeva fino alla spiaggia. In sé, la spiaggia aveva sì e no abbastanza sabbia da poterci stendere sopra tre coperte, fianco a fianco. Durante l’inverno, all’alta marea, non c’era praticamente spiaggia, e se ci si andava, bisognava rannicchiarsi in una caverna scavata dall’oceano, con le onde gelide che finivano per lambirvi le dita dei piedi. Ma quello era un caldo pomeriggio d’estate. Nessuna nebbia. La marea era bassa. Lanciò oltre il dirupo la coperta da spiaggia che aveva portato con sé, e seguendola discese a sua volta, aiutandosi con le mani. Robinson la seguì dappresso, affrontando il sentiero con grandi balzi sicuri.

Quand’ebbero raggiunto la spiaggia, lei annunciò: — Adesso mi toglierò i vestiti. Qui di solito lo faccio sempre. — Lo fissò negli occhi… Un’occhiata che diceva: «Niente equivoci, non sto cercando di provocarti». E diceva anche: tu sei qui, d’accordo, ma in realtà vorrei che tu non ci fossi, e mi comporterò come se fossi qui da sola.

Lui parve capire. — Sicuro — replicò. — Per me va benissimo. — Si sfilò la camicia buttandola da parte, tenne addosso i jeans, si accovacciò accanto alle pozze create dalla marea all’estremità più alta della spiaggia. — Ci sono un paio di stelle marine qui — annunciò.

Elszabet annuì vagamente. Slacciò il reggipetto, lasciò cadere i calzoncini e s’incamminò, nuda, verso il bordo dell’acqua, senza guardare verso di lui. Piccole onde gelide turbinarono intorno alle dita dei suoi piedi.

— Hai intenzione di entrare? — le chiese Robinson.

Elszabet scoppiò a ridere. — Tu pensi che sia matta?

Lei non andava mai a nuotare in quel posto. Non lo faceva nessuno, inverno o estate che fosse. L’acqua, lì, era gelida come la morte per tutto il tempo dell’anno, come lo era lungo tutta la costa del Pacifico a nord di Santa Cruz, e una scura barriera corallina appena al largo rendeva la risacca turbolenta e invalicabile. Ciò andava benissimo a Elszabet. Se avesse avuto voglia di nuotare, c’era una piscina al Centro. La spiaggia significava altre cose per lei.

Dopo un po’ diede un’occhiata dietro di sé in direzione di Robinson e vide che lui la stava guardando. Sorrise e non distolse lo sguardo in fretta da lei, come se il farlo fosse stata un’ammissione di colpevolezza. Invece, tenne lo sguardo fisso su di lei per uno o due istanti ancora, poi riportò la sua attenzione, in maniera deliberata, sulle stelle marine. Forse non è poi tanto una buona idea, pensò Elszabet. Il nudismo non era una gran cosa al Centro, ma qui c’erano soltanto loro due. E lei sapeva che Robinson aveva dell’interesse nei suoi confronti, anche se non si era mai espresso apertamente. Dopotutto lei era una donna attraente, e lui un uomo sano ed estroverso, e c’erano legami intellettuali e professionali. Erano una coppia plausibile; al Centro lo pensavano tutti. A volte lo pensava anche lei. Ma non voleva nessuna complicazione romantica, né con D. n Robinson, né con nessun altro. Per lei, quello non era il momento per quel genere di cose. Si chiese se non avesse voluto per davvero essere provocante. Oppure stuzzichevolmente crudele. Sperava di no.

Decise di non preoccuparsene. Cautamente prese ad avanzare finché l’acqua non le arrivò alle caviglie. Il gelo la spinse a emettere un sibilo, ma parve purgarla dal palpito che avvertiva alle tempie.

Robinson riprese, sempre frugando nelle pozze d’acqua lasciate dalla marea: — Ho pensato ai sogni. Ad una spiegazione possibile. Che potrebbe sembrarti bizzarra, forse, ma lo sembra assai meno a me, piuttosto che arzigogolare sul fatto che un sacco di gente sta avendo gli stessi identici sogni bizzarri per pura coincidenza.

In quel momento, Elszabet non aveva molta voglia di discutere il problema dei sogni, o qualunque altra cosa. Ma disse ugualmente, con sufficiente cortesia: — Qual è la tua teoria?

— Che stiamo ricevendo una specie di trasmissione da un vascello spaziale in avvicinamento.

Cosa?

— Ti sembra pazzesco?

— Un po’ tirato per i capelli, diciamo.

— Lo direi anch’io. Ma io ho una logica da proporre a sostegno. Sai cos’era il Progetto Sonda Stellare?

Elszabet cominciava a sentirsi impacciata, là in piedi, nuda, mezza voltata verso di lui con i piedi nell’aria gelida. Risalì un poco verso la spiaggia, non fino alla sua coperta, e si sedette sulla sabbia con la schiena appoggiata a una sporgenza rocciosa e le ginocchia tirate su contro il petto. Il sole caldo sulla pelle le faceva provare una sensazione piacevole. Non si reinfilò gli indumenti ma, seduta lì, si sentiva un po’ esposta. Le pareva che il mal di testa fosse sul punto di tornarle. Soltanto un piccolissimo pizzicore attraverso la fronte. — Il Progetto Sonda Stellare? — disse. — Aspetta un secondo. Quella era una specie di spedizione spaziale automatica, non è vero?

— Diretta a Proxima Centauri, si. Il sistema stellare più vicino alla Terra. È stata lanciata poco prima della Guerra della Polvere… oh, attorno al 2050, 2060. Potrei controllare. L’idea era quella di arrivare nelle vicinanze di Proxima Centauri, in venti, trenta, quarant’anni, per porsi in orbita di sorveglianza, cercare dei pianeti, scattare delle fotografie e ritrasmetterle…

Di nuovo il mal di testa. Sì, decisamente.

— Non vedo come questo abbia a che fare con…

— Rifletti un po’ — l’interruppe Robinson. — Non ho controllato, ma immagino che la Sonda Stellare abbia raggiunto Proxima Centauri dieci o quindici anni fa. Si trova a circa quattro anni-luce di distanza da noi, e credo che la nave dovesse raggiungere una accelerazione piuttosto forte dopo un po’, la sua massima velocità pari a un quarto circa di quella della luce, e… comunque, diciamo che la Sonda è arrivata a destinazione. E che Proxima Centauri abbia delle forme di vita intelligenti che vivono su uno dei suoi pianeti. Questi se ne escono a bordo delle loro piccole navi spaziali e ispezionano la sonda, stabiliscono che proviene dalla Terra ed è piena di apparecchiature per lo spionaggio, e questo in qualche modo li innervosisce. Così, smontano la sonda, potrebbe esser questo il motivo per cui non abbiamo ricevuto indietro nessun messaggio, e poi mandano fuori una loro spedizione per scoprire com’è questo posto, la Terra, se è pericoloso per loro e così via.

— E questa missione di controspionaggio annuncia il suo arrivo bombardando la Terra con allucinazioni aleatorie di altri mondi? — chiese Elszabet. Dan era un uomo molto dolce, ma desiderò che la lasciasse sola per un po’. — Non mi sembra molto plausibile. — Chiuse gli occhi e alzò il viso in direzione del sole, e pregò che lui lasciasse cadere quella discussione.

Ma lui parve non aver afferrato l’allusione. Insisté: — Be’, forse non vengono per spiarci, o per invaderci. Diciamo che vengono soltanto come ambasciatori.

Per favore, pensò lei. Fa’ che la smetta… che la smetta.

— E in qualche modo, emettono emanazioni telepatiche (sono alieni, ricordi, non possiamo affatto sapere come funzionano i loro processi mentali), emanazioni telepatiche che destano immagini di lontani sistemi stellari nella mente di chi è più suscettibile a recepirle. — Non c’era modo di fermarlo, vero? Elszabet aprì gli occhi e lo fissò, ancora troppo cortese per intimargli di andarsene. Il tambureggiare nella sua testa stava aumentando. Prima le aveva dato l’impressione di qualcosa che cercasse di uscire. Adesso le dava l’impressione di qualcosa che cercasse di entrare. — O forse l’invio delle immagini è la loro maniera per ammorbidirci, spargendo confusione, paura, panico, per poi conquistarci — proseguì Robinson. — Sì. No: non ti piace ancora, vero? Be’, d’accordo, sono soltanto ipotesi, non faccio niente di più. Anche a me sembra una sciocchezza, ma non è al di fuori di ogni possibilità. Prosegui pure. Dimmi cosa ne pensi.

Robinson le sorrideva come un sedicenne imbarazzato. Era chiaro che voleva una qualche forma di assicurazione da parte di lei, voleva sentirsi dire che la sua ipotesi non era del tutto inverosimile. Ma non poteva rassicurarlo come lui avrebbe voluto. D’un tratto non le importava più delle sue idee, di lui, di qualsiasi cosa, di nient’altro se non di quella stilettata d’incredibile dolore che era eruttata fuori tra i suoi occhi.

— Elszabet?

Lei si alzò in piedi barcollando, ondeggiò, quasi ruzzolò in avanti. Ogni cosa le pareva verde e confusa. Le pareva che una spessa benda di lana verde le fosse stata stretta intorno alla fronte. E la lana stava tentando d’introdursi nella sua mente, lanosi viticci verdi simili ad una fitta nebbia, che invadevano la sua coscienza…

— Dan! Cosa mai sta succedendo? Io… io non so, Dan!

Ma lo sapeva. È il Mondo Verde, disse a se stessa. Che sta cercando d’irrompere nella mia mente. Un sogno ad occhi aperti, una folle allucinazione. Poteva trattarsi di questo? Del Mondo Verde?

Sto impazzendo? pensò.

Rantolando, singhiozzando, avanzò incespicando giù per l’angusta spiaggetta ed entrò nell’acqua. Questa s’innalzò intorno a lei come ghiaccio, come fiamma, fino alle sue cosce, fino al petto. Cercò di spinger via la cosa che le stava strisciando dentro la mente. Si raschiò con le unghie la capigliatura e la pelle del cranio, come se potesse grattarla via. Poi andò a sbattere contro una roccia sommersa, scivolò, cadde sulle ginocchia. Un’onda le schiaffeggiò il viso. Stava gelando. Stava affogando. Stava impazzendo.

E poi, cessò con la stessa rapidità con cui era cominciato.

Era in piedi, con l’acqua che le arrivava ai polpacci, tremante. Dan Robinson era accanto a lei. Le aveva passato il braccio intorno alla spalla e la stava guidando verso la spiaggia, sospingendola su per la striscia di sabbia, avvolgendole la coperta intorno al corpo. Aveva la pelle d’oca dalla testa ai piedi, e il freddo intenso le aveva sollevato e gonfiato i capezzoli, facendoli diventare così duri che le guance le si infiammarono quando li vide. Voltò le spalle a Dan. — Porgimi i vestiti — gli disse, cercando a tastoni il suo reggipetto.

— Cos’è stato? Cos’è successo?

— Non lo so — mormorò lei. — Qualcosa mi ha colpito tutt’a un tratto, una sorta di allucinazione. Non so. Qualcosa di bizzarro per un secondo o due, e sono svenuta, credo. — Non voleva dirgli della verde nebbia lanosa. Già l’idea che si fosse trattato di un’immagine del Mondo Verde che aveva cercato di penetrare nella sua coscienza le sembrava assurda, una sciocca fantasticheria orrorifica. E anche se era accaduto, non osava confessarlo a Dan Robinson. Certo, lui si sarebbe mostrato comprensivo. Sarebbe stato perfino invidioso. Ripensò a come, soltanto mezz’ora prima, aveva dichiarato quanto gli dispiacesse di non essere mai stato tanto fortunato da fare uno dei sogni spaziali. Ma la sua prospettiva su questa faccenda era del tutto diversa. Per la prima volta i sogni la spaventavano. Che li facesse pure Padre Christie; che li facesse pure April Cranshaw; che li facesse pure Nick Doppio Arcobaleno. Si trattava d’individui emotivamente instabili: per loro, le allucinazioni erano all’ordine del giorno. Che li facesse pure anche Dan, se lo desiderava. Ma non io. Per favore, Dio, non io.

Adesso si era rivestita. Ma era ancora gelata fino alle ossa da quel tuffo nel Pacifico. Robinson si trovava a cinque o sei metri di distanza. La fissava, e faceva del suo meglio per non mostrarsi troppo preoccupato per lei. Elszabet si costrinse a sorridere. — Forse ho bisogno di una vacanza — disse. — Mi spiace di averti scombussolato.

— Ti senti bene, adesso?

— Sto bene. È stata soltanto una cosa molto rapida. Non so. Càspita, se è fredda quell’acqua!

— Possiamo tornare al Centro?

— Sì. Per favore, sì.

Dan le offrì una mano per aiutarla ad arrampicarsi su per il dirupo. Elszabet lo respinse con rabbia e salì il sentiero come una capra di montagna. Giunta in cima si fermò solo per un istante per risistemarsi la coperta intorno alla cintura, poi si allontanò senza aspettarlo, mettendosi a correre a una velocità da sprint lungo la strada in direzione del Centro.

— Ehi, arrivo! — gridò lui, ma lei rifiutò di rallentare e senza nessuna misericordia verso se stessa continuò a correre spingendosi al limite delle proprie forze. Non avrebbe permesso che lui la raggiungesse. Quando arrivò al Centro si sentiva stordita e col fiato mozzo, ma era arrivata con cento metri di vantaggio su di lui.

Non rallentò finché non ebbe raggiunto il suo ufficio. Una volta dentro, sbatté la porta alle proprie spalle, cadde sulle ginocchia e rimase lì rannicchiata sul pavimento, tremando, fino a quando non fu sicura che non avrebbe vomitato. Gradualmente il cuore smise di martellarle e il respiro tornò normale. Cose terribili stavano accadendo ai muscoli delle sue cosce. Sollevò lo sguardo sulla sua dati-parete. Diceva che c’era un messaggio per lei. Lo chiamò: Grazie per le informazioni. La nostra lista di sogni è esattamente la stessa; seguirà un’analisi dettagliata. Voci di sogni analoghi sono giunte dal sud, da zone lontane come San Diego. Sto controllando. Ulteriori informazioni più avanti. Cosa sta succedendo, in nome di Dio? Era firmato: Paolucci, San Francisco.

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