Quando mi sarò tagliato corto il mio muso da scrofa
e avrò tracannato il mio gorgogliante barile,
in una locanda di quercia impegnerò la mia pelle
come un vestito dorato.
La luna è la mia costante padrona
e l’umile gufo la mia quintessenza;
l’anatra fiammeggiante e il corvo della notte
rallegrano con la musica il mio dolore.
Mentre io canto
«Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare,
da mangiare, da bere o da vestire.
Vieni, dama o fanciulla,
non aver timore,
il povero Tom non farà male a nessuno».
Per Elszabet era una sera tranquilla. Alle 19 circa fece una semplice cena alla mensa del personale all’estremità est dell’edificio del Quartier Generale: insalata, una qualche specie di pesce alla griglia, una piccola caraffa di vino bianco, frizzante, prodotto da una delle cantine dei dintorni. Divise il tavolo con Lew Arcidiacono, il quale si occupava della maggior parte dei lavori di manutenzione elettronici e meccanici al Centro, e la sua ragazza, Rhona, la quale era assistente di Dante Corelli nel reparto di terapia fisica, e Mug Watson, il capo dei giardinieri. Nessuno di loro pareva aver molta voglia di conversare quella sera, il che andava benissimo ad Elszabet. Dopo, andò al centro ricreativo del personale e ascoltò un concerto per clavicembalo di Bach con accompagnamento olovisivo per un’ora o giù di lì, e alle 21 e 30 si avviò lungo il sentiero che conduceva alla sua capanna, molto più in là, sull’altro lato del Centro. Una serata tranquilla, sì.
Alla sera le cose erano sempre tranquille per Elszabet. Di solito le sue ultime sedute con i pazienti avevano luogo all’incirca alle 17: consultazioni di fine giornata, periodica revisione dei progressi dei pazienti, interventi nel caso in cui si fossero manifestate delle crisi, cose del genere. Poi le piaceva incontrarsi brevemente con i singoli membri dello staff per verificare i problemi speciali, i loro o quelli dei loro pazienti. Di solito, alle 18 e 30 il lavoro era finito, e la parte sociale della giornata, per quella che era, cominciava. Per Elszabet quella parte non era mai granché. Prima una cena di buon’ora (non aveva compagni regolari per la cena, si sedeva a qualunque tavolo dove ci fosse un posto libero) seguita da un’ora o due al centro ricreativo dello staff per visionare un film o un cubo, o per fare un tuffo notturno in piscina, e poi tornava alla sua capanna. Sola, naturalmente. Sempre sola, per sua scelta. Poteva leggere un po’, oppure ascoltare un po’ di musica, ma le sue luci erano invariabilmente spente molto prima di mezzanotte.
A volte si chiedeva cosa tutti gli altri pensassero di lei, una donna attraente che si teneva tanto sulle sue. La ritenevano forse strana e riservata? Bene, avevano ragione. Pensavano forse che fosse asociale, snob o asessuata. Una donna arrogante e sprezzante? Bene. Si sbagliavano, lei si teneva sulle sue perché tenersi sulle sue era quello che voleva fare di questi tempi. Era quello che aveva bisogno di fare. Quelli che la conoscevano meglio lo capivano; Dan Robinson, per esempio. Lei non cercava di snobbare nessuno. Soltanto di dare al suo spirito eroso e affaticato il tempo di rimarginarsi. Lì, in un certo senso, era anche lei una paziente, tanto quanto Padre Christie, o Nick Doppio Arcobaleno, o April Cranshaw. Che qualcun altro ne fosse consapevole oppure no, Elszabet lo era. Viveva sul ciglio, c’era vissuta per anni, aveva accettato il posto al Centro Nepenthe per guarire, oltre agli altri, se stessa. La differenza era che, invece di affidarsi ogni giorno al mondatore, così che le stridenti dissonanze potessero venir raschiate via dalla sua anima, e una nuova, sana personalità potesse formarsi nei nuovi posti vuoti venuti così a crearsi, lei cercava di farlo da sola, vivendo con cautela, schiarendo le sue risorse interiori indebolite, lasciando che le sue forze le tornassero gradualmente. Per lei quel posto era un rifugio. La vita fuori del Centro la logorava, così come logorava chiunque: le incertezze, le tensioni, le paure. La consapevolezza che il mondo che veniva offerto ad ognuno di loro era quasi in frantumi e correva il rischio di frantumarsi del tutto. Aveva deciso che la sindrome di Gelbard era riconducibile soltanto a questo, in effetti: la consapevolezza che oggigiorno la vita veniva vissuta sull’orlo dell’abisso. Era stata questa la conseguenza sulla gente della Guerra della Polvere. Da cento anni tutti si preoccupano della guerra atomica, il lampo di quella luce terribile, le città infrante, la carne fusa, e poi la guerra atomica arriva, non con le bombe ma con un grande silenzio, con la sua letale polvere radioattiva, assai meno spettacolare ma assai più insidiosa, grandi tratti di terra resi invivibili nell’arco di una notte mentre la vita prosegue in maniera ostentatamente normale al di fuori dei luoghi impolverati. Molte nazioni si sfaldano quando fasce di polvere rovente vengono sparpagliate attraverso le loro zone centrali. Vi sono migrazioni. Vi sono sconvolgimenti politici. Vi sono interruzioni nelle comunicazioni, nei trasporti, mentre vien meno il comune vivere civile. Le comunità si disgregano, i popoli si disgregano. Quello era stato un periodo apocalittico, qualcosa di molto brutto era successo, e tutti erano convinti che sarebbe successo qualcosa di ancora peggiore. Ma nessuno sapeva cosa. Quei sogni bizzarri, erano forse gli araldi? Chi poteva saperlo. Erano la causa o l’effetto? Stavano forse impazzendo tutti? Oppure, forse, tutti erano già pazzi. Elszabet pensava di essere più in forma della maggior parte della gente, ed era per questo che si trovava là nella veste di guaritrice invece che di paziente. Ma non s’illudeva. Era sempre in pericolo in questo mondo mutilato e infranto. Poteva cadere nel pozzo proprio com’era accaduto a Padre Christie, ad April o a Nick. Finora se l’era cavata per grazia di Dio, ma non sapeva fino a quando la grazia di Dio sarebbe durata. Così oggi come oggi procedeva lungo la sua vita con cautela, come qualcuno che attraversasse un campo minato da gusci d’uovo esplosivi. Adesso, l’ultima cosa di cui avesse bisogno erano una turbolenza o un’avventura emotiva di qualsiasi tipo; che gli altri s’impegnassero pure in tempestose vicende d’amore, lei no, pensò. Che gli altri ne raccogliessero pure i benefici e le perdite. Non che lei non ne sentisse la mancanza. A volte la sentiva terribilmente. Sentiva la mancanza di quel meraviglioso, caldo abbraccio, le mani sul suo petto, il ventre contro il ventre, gli occhi che guardavano dentro i suoi occhi, la spinta dura e improvvisa, la calda marea dell’appagamento, di lui, di lei, di loro. Non aveva dimenticato nessuna di quelle sensazioni. O anche soltanto la presenza dell’altro, lasciando fuori il sesso, soltanto la confortevole consapevolezza che là c’era qualcun altro, che non si doveva badare al negozio da soli. Una volta l’aveva avuto, o pensava di averlo avuto; forse un giorno l’avrebbe avuto di nuovo. Ma non adesso, non qui, mentre il ciglio era così vicino. La cosa che temeva più di ogni altra era averlo di nuovo per perderlo di nuovo. Meglio non tentare. Non fino a quando non si fosse sentita forte di dentro. A volte si chiedeva: se non adesso, quando? E non aveva nessuna risposta.
Sgusciò fuori dai suoi indumenti e rimase un po’ sulla veranda al buio.
La notte era calda. I gufi dialogavano tra le cime degli alberi. La lunga e dorata estate della California Settentrionale aveva ancora qualche settimana di vita, forse perfino molte settimane. Era soltanto settembre. A volte le piogge non cominciavano fino alla metà di novembre. Che cambiamento era quello, quando l’interminabile processione di giornate soleggiate, durata mesi, cedeva d’un tratto il posto agli implacabili rovesci dell’inverno della Contea di Mendocino! Poteva piovere per settimane di seguito, dicembre, gennaio, febbraio. E poi sarebbe stata di nuovo primavera, con gli alberi che rinverdivano, la terra inzuppata che cominciava ad asciugarsi.
Sentì delle risate lontane: quelli dello staff, i quali si stavano divertendo da qualche parte sul davanti del complesso. Per alcuni di loro quel posto era soltanto un grande campeggio estivo per adulti che durava tutto l’anno. Fai il lavoro di giorno, divertiti di notte, un po’ di baldoria in questa o quella capanna, forse una corsa in macchina fino a Mendocino, per una capatina in un club o in un ristorante o qualcosa del genere. Mendocino era la cosa più prossima a una città che ci fosse da quelle parti. Cinquant’anni prima aveva perfino goduto d’un piccolo boom, cercando d’imporsi come rivale di San Francisco nel predominio della California Settentrionale, in un’epoca in cui San Francisco soffriva di molte ferite che si era autoinflitte, ma alla fine era risultato chiaro ciò che in effetti avevano sempre saputo, e cioè che San Francisco era stata disegnata dalla geografia per essere una città importante, e non Mendocino. Malgrado ciò, quest’ultima aveva più o meno l’aspetto di una città, e ci si poteva divertire laggiù per il fine settimana, o per lo meno era ciò che Elszabet aveva sentito dire. Perfino nelle attuali condizioni del mondo, si poteva riuscire a divertirsi, se si aveva la capacità di chiudere gli occhi davanti a quello che realmente succedeva.
Risate di nuovo. Acute, stavolta. Uno squittio o due. Elszabet sorrise, rientrò e andò a letto. Un po’ di musica, pensò, mentre si addormentava. Bach? No; aveva già ascoltato abbastanza Bach per quella sera. Schubert, il quintetto per archi? Certo. Una calda ragnatela di suoni, profonda, melodiosa, riflessiva. Spostò la levetta sull’automatico, cosicché il sistema si sarebbe spento da solo alla fine della musica, e accese il cubo. Giacque là, ascoltando solo con metà della propria mente, pensando più all’incontro di domani con lo staff che alla musica. Sogni spaziali da Vancouver, sogni spaziali da San Diego, sogni spaziali da Denver. Dappertutto. Paolucci sarebbe venuto da San Francisco per consegnare il suo rapporto. C’era perfino la possibilità che Leo Kresh ce la facesse a venire fin lì da San Diego. Correva voce che qualcosa di molto strano stesse accadendo a San Diego. Ma quello che accadeva dappertutto era strano. Quel pomeriggio, quand’erano discesi alla spiaggia, lei aveva riso all’idea di Dan Robinson che i sogni fossero messaggi che giungevano da una nave spaziale in avvicinamento alla Terra. Allora l’aveva giudicato un concetto remoto, assurdo, impensabile. Adesso non era più tanto sicura che fosse del tutto assurdo. Si chiese se Robinson non avesse fatto qualche altra ricerca in proposito, per controllare se una cosa del genere era possibile. Domani, all’incontro, gli chiederò se…
Ancora pensando all’incontro si smarrì nel sonno.
E a un certo punto, durante la notte, fece anche lei un sogno spaziale.
Il verde giunse per primo: piccole volute di densa nebbia impastata, che penetravano furtive nella sua mente. Era abbastanza vicina alla coscienza da sapere ciò che cominciava ad accadere. Ed era abbastanza addormentata che non gliene importava. Aveva tentato di respingere quella cosa fintanto che le era stato possibile. L’invasione del rifugio, una estraneità aliena che era filtrata fin là dentro Dio solo sapeva da dove. Adesso non era più capace di tenerla a bada. Il fatto di dover finalmente cedere le fece quasi provar sollievo. Vai avanti, disse al sogno. Procedi pure. Avvieni. Era ora, no? È il mio turno. D’accordo. È il mio turno, allora.
Verde.
Un cielo verde, un’aria verde, nuvole verdi. Il fianco della collina, il fiume molto più in basso, i prati che si perdevano fino all’orizzonte. Ogni cosa pareva morbida e amichevole, un dolce paesaggio tropicale. Eleganti alberi senza foglie, agili tronchi verdi, scagliosi rami verdi che si attorcigliavano verso l’esterno, reincurvandosi verso il suolo. Il sole visibile a stento dietro il velo della nebbia. Forse anche il sole era verde, pur se era difficile dirlo con sicurezza, visto il modo in cui la luce giungeva offuscata attraverso tutto quel turbinare di nebbia lanosa.
Qualcosa le stava facendo cenno.
Creature cristalline, agili, quasi delicate. I loro corpi dai lunghi arti luccicavano. I loro occhi scuri erano luminosi e scintillanti, una fila di tre su ciascuno dei quattro lati delle loro teste. Si stavano dirigendo verso un lucido padiglione sulla collina, appena oltre il punto dove lei si trovava, e la stavano invitando ad andare con loro, chiamandola per nome, Elszabet, Elszabet. Ma il modo in cui lo dicevano non era terrestre e suscitava un reverenziale timore, un silenzioso sussurro riverberante che risuonava su se stesso più e più volte, un bisbiglio in una camera piena d’echi che aveva come caratteristica un sibilo arcano e uno sfondo simile al rombo di venti lontani: Elszabet… Elszabet…
Sto arrivando, lei rispose. E mise la sua mano nelle loro mani fredde e cristalline e lasciò che la portassero via. Galleggiava appena sopra il terreno. Di tanto in tanto un filo di spessa erba carnosa le sfiorava le dita dei piedi: quando ciò accadeva, lei avvertiva un pizzicore acuto, ma non spiacevole, e sentiva un suono di campane.
Adesso stava entrando nel padiglione. Pareva fatto di vetro, ma di un vetro stranamente cedevole, caldo e gommoso al tocco, come lacrime coagulate. Tutt’intorno, si muovevano quei delicati esseri cristallini, chinandosi su di lei, sorridendole, accarezzandola. Dicendole i loro nomi: il principe di questo, la contessa di quello… Un gatto di cristallo camminava fra loro. Sfregò gli orecchi cristallini contro la sua gamba, e quando abbassò lo sguardo Elszabet vide che anche la sua gamba era di cristallo, che in effetti lei aveva un corpo come il loro, risplendente e meraviglioso. Qualcuno le mise in mano una bevanda. Aveva il sapore dei fiori: eruppe in mille brillanti colori mentre le ruscellava giù attraverso il corpo. Ti piace? le chiesero. Ne vorresti un altro? Elszabet, Elszabet. Là c’è il duca di qualcosa. Accanto a lui ci sono la duchessa e il duca di quest’altro; e questi è il marchese di qualche altra cosa ancora. Guarda, guarda: adesso la città sta comparendo alla vista più in basso! La vuoi? Se ti piace, daremo il tuo nome alla città. Ecco, è fatto: Elszabet, Elszabet. Tutti si congratularono con lei. Le si radunarono tutti intorno, e lei sentì il debole tintinnio delle loro braccia e delle loro gambe mentre si muovevano, un lieve sussurro argentino, come le decorazioni di un albero di Natale smosse dalla brezza. Ti piace questo posto, Elszabet? Noi ti piacciamo? Abbiamo scritto una poesia per te. Dov’è la poesia… dov’è il poeta? Ah, eccolo qua. Fate largo al poeta. Fate largo alla poesia.
Un cristallino che non aveva visto prima, più alto di tutti gli altri, si avvicinò a lei sorridendole timidamente. Vieni, le disse. Ho una poesia per te. Uscirono dal padiglione e il verde discese su di loro come una pioggia color smeraldo. Lui le mise qualcosa in mano, un piccolo oggetto intricato che pareva la scatola di un puzzle di vetro, strato dopo strato, trasparente fino al nucleo con un reticolo di abbaglianti componenti vitree che si stringevano in spire successive intorno al suo centro. Questa è la poesia, disse. L’ho chiamata Elszabet. Lei la toccò e una vampa di luce verde schizzò fuori da essa e balzò attraverso il cielo, e dal padiglione giunse un tintinnante suono di applausi. Elszabet, dicevano tutti. Elszabet, Elszabet.
La luce verde s’incupì e s’ispessì intorno a lei. Adesso l’aveva completamente avvolta. L’aria pareva quasi tangibile. Così calda… così lanosa. Così verde, verde, verde.
D’un tratto, agitata, si mosse, si girò, sospirò. Attraverso il verde riuscì a intravedere un lontano faro di aspra luce gialla, e quel vivido raggio destò in lei sgomento e una specie di vago timore. Una voce dentro di lei la sollecitò a tirarsi indietro, e un istante dopo riconobbe quella voce come la propria. Devi essere prudente, si disse. Sai dove stai andando? Sai cosa ti accadrà in quel posto? È tanto allettante. Tanto seducente. Ma tu sii prudente, Elszabet. Se vai troppo in là, potresti non uscirne mai più.
Oppure è già accaduto? Forse ci sei già dentro fin troppo. Forse non ci sarà più il modo di tornare. Elszabet toccò di nuovo la poesia, e di nuovo una luce verde sprizzò fuori da essa, e il poeta sorrise, e i cristallini applaudirono e sussurrarono il suo nome. Com’è verde ogni cosa, pensò Elszabet. Com’è bella. Com’è verde, verde, verde.
Così adesso avrebbero ucciso di nuovo.
Tom rimase calmo. Quando si viaggia con degli assassini, bisogna aspettarsi che uccidano. Comunque, la cosa non gli piaceva lo stesso. Tu non ucciderai, diceva la Bibbia, proprio a chiare lettere. Tu non assassinerai nessuno, aveva detto Gesù. Non si poteva venire a patti con comandamenti come quelli. Naturalmente in tempo di guerra quei comandamenti venivano sospesi. Si poteva benissimo sostenere molto correttamente, si disse Tom, che quello di quei giorni era una specie di tempo di guerra, la mano di ciascun uomo levata contro tutti gli altri. Forse.
Sedeva raggomitolato sul davanti del furgone, lo sguardo sul corpo di Rupe, sul sedile posteriore. Rupe pareva addormentato : i suoi occhi erano chiusi, il suo grosso volto carnoso pacifico. La sua testa dondolava un po’ in avanti. In pratica gli pareva quasi di sentirlo russare. Mujer e Charley l’avevano sistemato là dentro, cosicché apparisse seduto, e Stidge gli aveva coperto le ginocchia con una vecchia coperta per nascondere l’orrenda ustione del laser che gli trapassava la camicia e le budella e gli usciva da dietro la schiena. A guardarlo, si poteva credere che stesse dormendo. Be’, dopotutto Rupe non aveva mai avuto molto da dire, neppure quando era stato in vita.
E adesso erano partiti per andare a uccidere un’altra volta. Una vita per una vita. Due per una, in effetti. No, non era questo, pensò Tom. Non era soltanto questione di vendetta. Andavano a uccidere perché quello era il solo modo in cui si sarebbero sentiti al sicuro: quei due dovevano essere liquidati. In tempo di guerra bisognava eliminare i propri nemici.
Forse non sarebbero riusciti a trovarli, quei due ragazzi della fattoria, pensò Tom. La città ha un milione di vicoli, un milione di seminterrati. Quei due ragazzi avevano un’infinità di posti in cui nascondersi. Avevano cinque minuti di vantaggio su di loro, no? Be’, due o tre minuti, comunque. Così, forse, sarebbero riusciti a scappare. Era un peccato che rifossero ancora degli assassini adesso, quando gli Ultimi Giorni erano così vicini, quando la Traversata stava quasi per cominciare. Se si moriva adesso, si perdeva la possibilità di fare la Traversata. Che peccato sarebbe stato dover marcire là nel suolo della Terra assieme a tutti gli altri morti di prima, quando tutti gli altri si preparavano ad attraversare i cieli! Perdere la possibilità proprio all’ultimo minuto. Quei poveri ragazzi.
— Rupe? — disse Tom. — Ehi, tu, Rupe.
Un grande silenzio, là dentro. Tom tirò fuori il suo dita-piano, suonò alcune note a caso su e giù per la scala, cercando un motivo.
— Ti spiace se canto, Rupe?
A Rupe pareva non dispiacesse.
— D’accordo — disse Tom. E cominciò a cantare:
Su e giù per la montagna ariosa,
giù per la radura piena di giunchi,
non osiamo andare a cacciare
per paura dei nani.
— L’hai mai sentita questa, Rupe? Immagino che non ti sia mai capitato. Immagino che non ti capiterà mai più.
Gente minuscola, buona gente
intruppati tutti insieme,
giacca verde, berretto bianco,
e con le piume del gufo.
Sentì quello che pareva il rumore di qualcuno che batteva sul lato opposto del furgone. Non si preoccupò di guardare. Charley era tornato così presto? Tom scrollò le spalle e continuò a cantare:
In cima alla collina
sedeva il vecchio re.
Adesso è così vecchio e grigio
che ha quasi perso il senno.
Di nuovo quel bussare in fondo al furgone, più forte. Una voce, rabbiosa: — Apri quel dannato finestrino! Mi senti? Aprilo!
Corrugando la fronte, Tom si sporse in avanti e sbirciò fuori. Vide un estraneo, là fuori, un uomo basso dai capelli dorati, riccioluti, e una corta barba crespa, anch’essa dorata, e gelidi occhi azzurri. L’estraneo per qualche motivo pareva molto seccato. Tom si chiese cosa avrebbe dovuto fare. Tu rimani qui con il furgone, aveva detto Charley. Non aprire a nessuno.
Tom sorrise, annuì e si allontanò dal finestrino. Cominciava a sentire l’arrivo di una visione. Il solito rombo nel profondo della sua mente, il sibilo del vento. La luce di quegli strani soli venne attizzata nella sua mente, azzurra, bianca, arancione. Tuttavia, riusciva ancora a sentire quella voce rabbiosa: — O muovi questo furgone o lo spazzo via — stava dicendo l’uomo dai capelli dorati. Stava picchiando con forza sulla portiera metallica. — Chi diavolo ha detto che potevi parcheggiare qui? Dov’è il tuo dannato permesso? Ehi, non ha neppure una patente, questo furgone? Vuoi aprirlo questo fottuto affare?
— Adesso ecco che arriva il Magister dell’Imperium — disse Tom a bassa voce. — Quello splendore, quel bagliore sospeso laggiù. Non riesci a vederlo, vero? A vederli, in effetti. È un’entità incorporata, tre anime in una. Riesci ad avvertirne la potenza? Un Magister come quello ha il potere di sciogliere e di legare. Fra i guerrieri sorgaz si racconta che al tempo della ritirata dei theluvara, la Grande Abdicazione, un Magister dell’Imperium fosse tutto ciò che si frapponeva fra gli stessi sorgaz e la Fonte della Forza, e loro sarebbero stati inghiottiti se non fosse stato per… oh, guarda i colori: li vedi? Guarda!
— Non riesco a sentire quello che stai dicendo, idiota fottuto. Apri quel tuo stramaledetto finestrino, se vuoi parlarmi!
Tom sorrise. Tom non disse niente. Tom si stava spostando sempre più lontano dal finestrino ad ogni istante che passava. E quella voce rabbiosa continuava ininterrotta:
— … con i poteri che mi sono stati dati dalla città e dalla contea di San Francisco, i Poteri dei Vigilantes della strada, dichiaro questo furgone in violazione dell’articolo 117 del Codice Civile e perciò…
Poi un’altra voce, familiare.
— Va bene, amico. Stavamo giusto per andarcene. Al mio amico là dentro non è permesso guidare. Ragioni mediche. — Un attimo di silenzio.
— Tutto a posto — disse ancora Charley. — Puoi farci entrare, Tom.
Tom vide Mujer e Stidge accanto a Charley. Dall’altra parte della strada c’erano Nicholas, Choke, Tamale, Buffalo. C’erano altri due uomini con loro, giovani di aspetto, pallidi e spaventati. I ragazzi della fattoria. Peccato, pensò Tom. Davvero peccato.
Incerto, Tom spiegò: — Quest’uomo picchiava sul furgone. Non ero sicuro…
— Tutto a posto — l’interruppe Charley. — Basta che tu apra.
Tom si chiese come mai Charley non aprisse lui stesso la portiera. Aveva la chiave, no? Ma Charley cominciava ad apparire impaziente. Tom allungò la mano e tirò il chiavistello, e quando la portiera si aprì scorrendo sulle guide, Charley si spostò di lato con un balzo e Mujer e Stidge agguantarono in fretta sotto le ascelle l’uomo dai capelli dorati, e lo spinsero dentro a forza, scaraventandolo sul pavimento a faccia in giù. — Che diavolo! — esclamò l’uomo dai capelli dorati, cercando di reagire. — Sono un ufficiale dei vigilantes di San Franc…
Stidge lo colpi sulla nuca con qualcosa, e l’uomo tacque.
Poi anche gli altri si accalcarono dentro il furgone, Charley, Tamale, Nicholas, Buffalo e Choke, e i due ragazzi della fattoria. — Va bene. Su, metti in moto, Mujer! — sbottò Charley. — Non possiamo restare qui. — Mujer balzò dietro al volante e il furgone partì in fretta, fluttuando nel mezzo della strada.
— Cosa voleva? — disse Charley rivolto a Tom. — Cosa stava cercando di dirti?
— Non ne sono sicuro — rispose Tom. — Qualcosa sul fatto che eravamo parcheggiati qui. E che non c’era la patente. Si era messo a picchiare sulla portiera, ma tu avevi detto di non aprire a nessuno, poi siete tornati, e…
Charley borbottò: — Allora è davvero un poliziotto. Un dannato vigilante. — Allungò la mano dentro una tasca del poliziotto, trovò un piccolo congegno luccicante simile a un computer, se lo portò all’orecchio, l’ascoltò per qualche istante, poi annuì. Ci montò sopra con un piede e lo ridusse in pezzi. — Adesso ha perso il contatto — disse. — Ma dobbiamo sbarazzarci subito di lui… Sbarazzarci di un poliziotto, accidenti!
— Affidi il furgone al matto, ed ecco cosa ti capita — ringhiò Stidge.
— Va bene. Va bene.
— Da che parte devo andare? — chiese Mujer.
Charley disse: — Qui, gira a sinistra. Poi continua ad andare dritto. Quando vedi i cartelli del Golden Gate Bridge, infilalo, punta verso nord, esci dalla città. E non andare troppo in fretta. L’ultima cosa che ci serve adesso, è di venir fermati da una pattuglia della stradale. — Scosse la testa. — Maledizione, che pasticcio.
— Ce ne andiamo da San Francisco così in fretta? — domandò Tamale.
Charley si girò di scatto. — Te la senti di rimanere? Abbiamo un cadavere a bordo, abbiamo un poliziotto rapito, abbiamo due tizi di cui dobbiamo sbarazzarci, e vuoi rimanere? Vuoi andare ad alloggiare in albergo e dare una festa danzante per il sindaco? Gesù, Tamale, Gesù Cristo.
— Quello è il cartello del ponte, giusto? — disse Mujer.
— Cosa credi che dica? — lo rimbeccò Charley. — Golden Gate Bridge, che più in grande non si può!
— Non ero sicuro di quello che diceva — replicò Mujer.
— Mujer ha qualche problema con la lettura — disse Stidge. — Non ha imparato molto bene a farlo, uh, uh.
— Chinga tu madre - disse Mujer. — Pija! Hijo de puta!
— Cosa sta dicendo? — chiese Stidge.
— Ti sta dicendo quanto gli piacciono i tuoi bei capelli rossi — ghignò Choke.
Buffalo intervenne: — Non restiamo a San Francisco, ma allora dove andiamo, Charley?
— Ve lo dirò più tardi, va bene? — ribatté Charley. — Mujer, quando lasci il ponte, prendi il primo svincolo e poi prosegui fino a quando trovi una strada di campagna. Poi vai verso la spiaggia. — Scosse di nuovo la testa e si schiaffeggiò le guance. — Stupida, stupida, stupida, tutta questa faccenda. Avremmo potuto rimanere a San Francisco per tutta l’estate, e adesso guarda! Stupida. Non ricordo di aver mai fottuto qualcosa peggio di così.
— È questa la strada giusta? — chiese Mujer.
— Sì. Sì. Fermati qui.
Tom disse: — Gli ultimi giorni stanno quasi per arrivare. Presto sarà il Tempo della Traversata. Risparmiali, Charley. Non privarli della Traversata.
Guardandolo con tristezza, Charley rispose: — Vorrei poterlo fare, Tom. Ma non abbiamo scelta. — Fece un segno agli altri. — Bene. Portateli fuori dal furgone, sul lato della strada.
Il poliziotto di San Francisco era ancora lungo disteso, a faccia in giù, gemeva un po’. Stidge lo trascinò fuori. Nicholas e Buffalo spinsero fuori i due ragazzi dietro di lui. Si rannicchiarono l’uno accanto all’altro, tremanti. Uno dei due si era bagnato i calzoni. Tom valutò che avessero diciotto, diciannove anni.
Tom disse: — E Lui aveva nella sua mano destra sette stelle, e dalla sua bocca uscì una spada appuntita a doppio taglio e il Suo volto era come il sole quando splende con tutta la sua forza. E quando lo vidi, caddi ai Suoi piedi come morto. E Lui appoggiò la Sua mano destra su di me, dicendomi: Non Temere, Io sono il Primo e l’Ultimo. Io sono Colui che Vive, ed era morto; e al di là sono vivo per sempre, e ho le chiavi dell’inferno e della morte.
— È sufficiente per adesso, Tom — disse Charley. — Allineateli sull’orlo del precipizio. Così va bene. E adesso fatevi indietro. — Sollevò il suo braccialetto al laser e sparò tre rapide raffiche di luce, prima al poliziotto, poi al ragazzo più anziano, e quindi all’altro. Nessuno di loro produsse il minimo suono mentre morivano. — Figlio di puttana — mormorò Charley. — Che schifoso, inutile pasticcio. Va bene, adesso buttateli giù nel burrone. Bene in basso.
Choke e Buffalo buttarono giù il vigilante. Nicholas, Mujer, Tamale e Stidge si occuparono degli altri due.
— Adesso Rupe — ordinò Charley. — Portatelo un po’ più in fondo alla strada, e buttate giù anche lui.
Choke sollevò lo sguardo, sorpreso: — Per l’amor di Dio, Charley…
— Cosa vorresti fare? Portarlo con noi per conservarlo? Oppure per dargli cristiana sepoltura? Su. Buttàtelo di sotto. E poi squagliamocela da questo posto.
— Vuoi dirci dove stiamo andando? — domandò Buffalo.
— Sì. Si, adesso che non dobbiamo più preoccuparci che loro ci sentano, ve lo posso anche dire. Andiamo a nord, fino alla contea di Mendocino. Ci sono un sacco di boschi, lì intorno, un sacco di buoni posti dove nasconderci. Perché è questo che ci serve adesso. Abbiamo bisogno di nasconderci sul serio e bene. — Fece una pausa, fissando Nicholas, Tamale e Stidge che trascinavano il corpo pesante di Rupe fuori dal furgone, lo trasportavano fino all’orlo del burrone e lo mandavano a ruzzolare giù in mezzo al folto sottobosco sottostante. — Va bene — disse Charley. — Muoviamoci.
— Portiamo il matto, con noi? — chiese Stidge. — Non è un rischio, adesso che ha visto quello che ha visto?
— Lui viene con noi — disse Charley. — Dovunque andiamo. Giusto, Tom? Tu rimani con noi.
— Io sono l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine, disse il Signore — enunciò Tom, tremando un poco, anche se faceva molto più caldo su quel lato del ponte rispetto a San Francisco. — Che è, era e sarà, l’Onnipotente.
— Proprio così, Tom — annuì Charley con voce sommessa. — Proprio così. Vieni, adesso. Dentro il furgone. Tutti nel furgone.
— Gesù, che caldo — esclamò Jaspin, stupefatto, mentre la carovana dei tumbondé cominciava a scorrer giù dalle montagne dentro l’ampia distesa pianeggiante della valle del San Joaquin. Si trovò a soffocare nella grande e stagnante massa di sfrigolante aria apocalittica che era quasi troppo calda per riuscire a respirarla. La vecchia automobile martoriata di Jaspin era la terza di quella lunga processione, subito dietro ai due autobus scricchiolanti che ospitavano il Senhor e la Senhora e il Nucleo Interno. — Non riesco a crederci. Questo calore è incredibile. Dove diavolo stiamo andando, nel Sahara?
— Verso Bakersfield — disse Jill. — Siamo un po’ più a sud di Bakerfield.
— Lo so. Ma qui è proprio come il Sahara. Come due Sahara uno sopra l’altro. Cristo, se stiamo davvero andando al polo Nord, vorrei che adesso fossimo un po’ più vicini.
Pensò che il cielo stesse per prendere fuoco. Era come se il calore in tutta la valle si fosse spostato a sud come una palla da bowling arroventata e fosse andato a sbattere contro il muro dei monti Tehachapi, e adesso se ne stesse lì aspettando d’inghiottirli.
— Credo che ci fermeremo per la notte — disse Jill. — Vedi? Le bandiere sono state alzate.
— Ma sono soltanto le tre del pomeriggio — fece notare Jaspin.
— Comunque, guarda l’autobus del Senhor. Le bandiere sono state issate.
Aveva ragione. Jaspin sbirciò fuori dal finestrino e vide che un paio di tumbondé si stavano arrampicando sul tetto dell’autobus di testa, issando gli stendardi sgargianti che erano il segnale per fermarsi e piantare il campo per la notte. L’autobus girò a sinistra, uscendo dal nastro dell’autostrada ed entrando in un campo. Così fece anche il secondo. Con una scrollata di spalle, Jaspin fece la stessa cosa. E dietro di lui tutta quella strana carovana di autobus e di macchine, di carri e di camion, che era discesa dal passo come un gigantesco, bizzarro, variegato millepiedi girò anch’essa a sinistra, seguendo l’autobus del Senhor Papamacer in mezzo al campo.
Jaspin fermò la propria macchina vicino al secondo autobus, quello piccolo, arancione e nero, nel quale viaggiavano gli undici membri del Nucleo Interno e la maggior parte delle statue degli dèi, e discese. Si girò e si schermò gli occhi per proteggerli dal violento sole della metà del pomeriggio e guardò dietro di sé, verso il sottile nastro della strada che risaliva ripido fra le montagne dalle quali loro erano appena discesi. La fila dei veicoli si stendeva in lontananza verso la cima, fin dove arrivava il suo sguardo. Probabilmente si prolungava senza nessuna interruzione almeno fino a Gorman, e forse molto più oltre, al di là di passo Tejon, addirittura fino a Castaic. Incredibile. Sì, incredibile. Tutta questa faccenda è assolutamente incredibile, pensò. E per lui, uno degli aspetti più incredibili era costituito dalla sua stessa presenza, proprio lì, in testa alla processione, ad appena una tacca dietro il Nucleo Interno. Era qui come osservatore, certo: come antropologo. Ma questa era soltanto metà della storia, forse meno della metà. Lui sapeva di trovarsi lì anche come seguace del Senhor. Si era arreso; aveva accettato i tumbondé; stava andando a nord per aspettare l’apertura della via e la venuta di Chungirà-Lui-Verrà. La notte prima, disteso su un materasso ad aria, accanto all’auto, sul lato d’una strada desolata, abbandonata su quello che un tempo era stato Glendale o Eagle Rock, aveva avuto una visione di uno dei nuovi dèi che si muovevano sereni in un mondo dove il cielo ed ogni altra cosa erano verdi; e il dio, quella creatura splendente e fantastica, l’aveva salutato per nome e gli aveva promesso una grande felicità dopo la trasformazione del mondo. Com’è strano tutto questo, pensò Jaspin.
— Guarda — esclamò, rivolto a Jill. — È l’orda dei mongoli in marcia!
— Vorrei che tu non parlassi così, Barry.
— Ho detto qualcosa di sbagliato?
— L’orda dei mongoli. Non è niente del genere. I mongoli erano invasori, malvagi predoni. Questa è una santa processione.
Jaspin la fissò, stupito. Era talmente coperta di sudore che la pelle le luccicava. Attraverso la maglietta zuppa, quasi trasparente, si distinguevano i capezzoli. I suoi occhi luccicavano in maniera da far paura. Il bagliore del Vero Credente, pensò. Si chiese se anche i propri occhi mandassero mai un simile bagliore. Ne dubitava.
— Non è così? — lei insisté. — Santa?
— Sì. Certo che lo è.
— A volte sembri così irriverente.
— Davvero? — fece Jaspin. — È che non riesco a farne a meno, suppongo. È dovuto al mio addestramento antropologico. Non riesco mai a smettere di credere di essere un osservatore obbiettivo.
— Anche se credi?
— Anche così.
— Mi spiace per te — disse lei.
— Suvvia, calmati.
— Non mi piace, quando ti fai gioco di ciò che sta accadendo. L’orda mongola e tutto il resto.
— D’accordo — lui dichiarò. — Sono irriverente. E allora, sparami. È nei miei geni l’essere irriverente. Non posso farne a meno. Ho cinquemila anni d’irriverenza nel sangue. — Allungò la mano verso di lei, toccandole lievemente il braccio nudo, facendo scorrere la punta del dito sul sudore della sua pelle, lasciandovi così una striscia. Lei si tirò lontana da lui. Di recente aveva preso a farlo molto spesso. — Suvvia — le disse Jaspin. — Mi spiace d’essere stato irriverente.
— Se questa è l’ora dei mongoli — insisté Jill, — sei anche tu uno dei mongoli. Non scordartene.
Jaspin annuì. — Hai ragione. Non lo scorderò.
Jill gli voltò le spalle, mettendosi a frugare dentro la macchina, rovistando dentro il refrigeratore dell’acqua. Dopo un momento, tirò fuori una bottiglia d’acqua, ne trangugiò una lunga sorsata, e reinfilò dentro la bottiglia senza offirgliene. Poi si allontanò e si fermò poco più in là, mettendosi a fissare l’autobus del Senhor Papamacer.
Jaspin aveva notato che c’era stato un sottile cambiamento nel suo atteggiamento verso di lui da quando erano partiti da San Diego insieme alla carovana dei tumbondé. O forse non era poi così sottile. Jill era diventata più fredda; era diventata molto remota. Adesso era molto meno la ragazzina timida di un tempo, assai meno incerta e sottomessa, molto più sicura di sé. Non si mostrava più grata che il dottor Jaspin dell’UCLA, uomo di meravigliosa erudizione, le permettesse magnanimamente di stargli intorno. Adesso non spalancava più gli occhi per lo stupore; non rimaneva più a bocca aperta davanti alle sue parole, come se lui fosse il custode di tutta l’umana saggezza. E il rapporto sessuale fra loro, che era stato così libero e facile durante le due prime settimane, stava sbiadendo in fretta, si poteva difficilmente dire che ci fosse ancora. Be’, Jaspin aveva saputo che buona parte di questo sarebbe stato inevitabile: l’aveva visto accadere altre volte con altre donne. Dopotutto lui era un essere umano, piedi di argilla fino alle sopracciglia come chiunque altro, ed era inevitabile che presto o tardi lei lo scoprisse. Jill cominciava a vedere che lui era meno meraviglioso di quanto le sue fantasie l’avevano indotta a pensare, e aveva iniziato a vederlo, allora, più realisticamente. Okay. Lui l’aveva avvertita. Non sono la figura nobile, romantica e intellettuale che tu pensi io sia, le aveva detto fin dall’inizio. Avrebbe potuto anche dirle che non era quell’amante stupefacente che lei aveva immaginato, ma non ce n’era stato bisogno. Ormai aveva avuto tutto il tempo per scoprirlo da sola. Va bene. Va bene. Dopotutto, essere adorati non era poi una cosa così grandiosa, soprattutto quando non era basato su niente di reale. Ma qualcos’altro stava succedendo, qualcosa che gli faceva un po’ paura. Fondamentalmente Jill era ancora un’adoratrice, una personalità dipendente: ciò che aveva fatto era di trasferire la dipendenza da lui agli dèi dei tumbondé. Pareva che adesso il reverenziale timore che aveva avuto per lui si fosse trasferito sul Senhor Papamacer, come vicario sulla terra di Chungirà-Lui-Verrà. Sospettava che avrebbe fatto qualsiasi cosa i tumbondé le avessero chiesto. Qualsiasi cosa.
Alzò di nuovo lo sguardo verso sud, fissando l’alta muraglia della montagna. I veicoli stavano ancora scorrendo giù nella valle, una interminabile marea. Quello era il quinto giorno del viaggio, e giorno dopo giorno le dimensioni della processione erano cresciute. Avevano preso la strada dell’entroterra per evitare i problemi del traffico e le noie con le autorità delle grandi città costiere; erano saliti fino a posti quali Escondido e Vista e Corona, per poi aggirare il bordo orientale di Los Angeles. Era un viaggio lento, con fermate frequenti per i rituali e le preghiere e gli enormi pasti in comune. E ci voleva un’infinità di tempo a rimettere in moto le cose, quando veniva dato l’ordine di rimettersi in cammino. Probabilmente il grosso di quelli che si trovavano lì era gente che aveva fatto parte della carovana da San Diego, s’immaginò Jaspin (i tumbondé non erano molto conosciuti fuori della metà meridionale della contea di San Diego, dove si trovavano la maggior parte dei profughi), ma a mano a mano che quella processione avanzava, un gran numero di persone si era aggregato, forse moltissimi altri. Ormai potevano benissimo esserci cinquantamila persone. Perfino centomila. Era davvero l’orda dei mongoli in marcia.
— Jaspin?
Voltandosi, vide uno dei grandi capi dei tumbondé, quello chiamato Bacalhau. Adesso era arrivato a distinguerli con maggiore facilità. Malgrado l’intenso calore, Bacalhau indossava l’abbigliamento completo dei tumbondé, stivali, gambali e giacca, perfino il sombrero, o qualunque cosa fosse, quel cappello piatto, nero, dalle ampie tese.
— Il Senhor ti vuole — gli annunciò Bachalhau. Lanciò un’occhiata a Jill. — Anche tu.
— Io? — esclamò lei, sorpresa.
Anche Jaspin era sorpreso. Non che il Senhor Papamacer lo convocasse per un’udienza: l’aveva fatto la sera prima, e ancora due giorni prima, propinandogli tutte le volte un lungo, ripetitivo e incoerente monologo, descrivendogli com’era successo che le prime visioni di Manguali-ga e di Chungirà-Lui-Verrà fossero entrate nella sua anima due o tre anni prima e come lui avesse subito capito di essere il profeta prescelto dai nuovi dèi. Ma perché Jill? Fino a quel momento il Senhor non aveva mostrato neppure di sapere che Jill esisteva.
— Voi venite — disse ancora Bacalhau. — Tutti e due.
Li condusse fino all’autobus del Senhor. Era dipinto con i colori di Maguali-ga e issava le gigantesche immagini di cartapesta di Prete Noir il Negus e di Rei Ceupassear montate sul cofano, su entrambi i lati del parabrezza. Una mezza dozzina di altri membri del Nucleo Interno oziavano fuori del suo ingresso quando Jaspin e Jill si avvicinarono: Barbosa, Cotovela, Lagosta, Johnny Espingarda, Pereira, e uno che era o Carvalho o Rodrigues. Jaspin non era sicuro quale dei due fosse. Come Bacalhau, indossavano tutti il costume ufficiale dei tumbondé, anche se qualcuno si era sbottonato il colletto.
— Maguali-ga, Maguali-ga — disse Lagosta, con aria annoiata.
— Chungirà-Lui-Verrà — rispose Jill, prima che Jaspin riuscisse a dare la risposta rituale.
Lagosta la fissò con un guizzo d’interesse negli occhi gelidi, ma soltanto per un istante. Rivolse anche a Jaspin un’occhiata di ghiaccio, come per dire: Chi sei tu, misero branco, triste, vomitevole creatura, da meritarti anche soltanto l’attenzione del Senhor Papamacer? Jaspin gli rispose con un’occhiata feroce. Il tuo nome significa aragosta, pensò. E il tuo, Bacalhau, baccalà. Bei nomi. Aragosta, baccalà. I santi apostoli del profeta.
— Permesso — disse Jaspin.
Gli uomini del Nucleo Interno stravaccati sui gradini dell’autobus si spostarono, facendo spazio perché potessero entrare. Dentro l’autobus l’aria era spessa e viziata, e aveva l’odore di qualche esotico incenso. Avevano tirato via tutti i sedili e diviso l’autobus con delle tende di broccato in tre piccole stanze, un’anticamera, una cappella nel mezzo, e un alloggio per il Senhor Papamacer e la Senhora Aglaibahi in fondo.
— Tu aspetta — disse Bacalhau.
Scostò la pesante tenda ed entrò nella cappella. La tenda tornò a chiudersi dietro di lui. Jaspin sentì una sommessa conversazione in portoghese.
— Riesci a capire quello che stanno dicendo? — chiese Jill.
— No.
— Cosa credi stia succedendo?
Jaspin scosse la testa. — Non ne ho la più pallida idea — bisbigliò.
Qualche istante dopo Bacalhau ricomparve con un paio di membri del Nucleo Interno che si erano trovati dentro l’autobus. Non c’era mai un momento in cui non fossero in sette od otto nelle vicinanze del Senhor. Jaspin non sapeva dire se il vero ruolo del Nucleo Interno fosse quello degli apostoli o delle guardie del corpo, o un po’ tutte e due le cose. Il Nucleo Interno era costituito esclusivamente da giovani brasiliani dalla pelle scura, undici uomini magri, freddi, che non sorridevano mai e avrebbero potuto esser scambiati più facilmente per bandido che per santi apostoli. Jaspin sapeva che c’erano anche alcuni africani nei grandi consigli dei tumbondé, ma non sembrava che avessero l’identico diritto di accesso al Senhor. Jaspin dubitava che fosse una questione razziale, dato che i brasiliani erano neri almeno quanto gli africani; era più probabile che il Senhor Papamacer si sentisse molto più a suo agio con gente della sua stessa terra.
— Tu vieni — disse Bacalhau, facendogli cenno.
Lo seguirono dentro l’interno dell’autobus che sapeva di stantio. Jaspin dovette lottare un po’ per riuscire a respirare. La sera prima, quand’era stato là dentro, l’aria gli era parsa sgradevolmente calda e opprimente, ma adesso, in mezzo all’abbacinante calore pomeridiano della valle, era del tutto soffocante. Tutti i finestrini erano chiusi, il fumo di una dozzina di sputacchianti candele si levava nella cappella. Pareva non ci fosse la benché minima ventilazione. Jaspin si sentì quasi asfissiare. Rivolse un’occhiata disperata a Jill, ma lei non sembrava affatto infastidita da quell’atmosfera fetida. I suoi occhi avevano di nuovo quel bagliore. Jaspin era spaventato nel vedere quell’espressione nei suoi occhi.
Senhor Papamacer sedeva a gambe incrociate sul lato opposto dell’autobus. Alla sua sinistra, lungo la parete laterale, c’era la Senhora Aglaibahi, madre divina e dea vivente. Quel vano lungo e stretto era disposto in maniera molto simile alla stanza nella quale il Senhor aveva avuto il colloquio con Jaspin a Chula Vista: il buio, i pesanti tendaggi, le candele, il tappeto verde e rosso, le piccole immagini in legno di Maguali-ga e Chungirà-Lui-Verrà.
Il Senhor fece un minuscolo gesto di saluto con la mano sinistra. I suoi occhi si posarono su Jill. La studiò, senza parlare, per quella che parve un’eternità.
— La donna — disse il Senhor alla fine, rivolto a Jaspin. — È tua moglie?
Jaspin arrossì. — Ah… no. Un’amica.
— Pensavo una moglie. — Il Senhor parve scontento. — Ma viaggiate insieme?
— Come amici — rispose Jaspin inquieto, chiedendosi a cosa mai mirasse. Lanciò un’occhiata verso Jill. Lei pareva partita verso qualche altro mondo.
Il Senhor disse: — Sapete, ho il potere di farvi marito e moglie davanti a tutti gli dèi. Lo farò.
Jaspin si trovò colto di sorpresa. Le sue guance si arrossarono ancora di più. Cosa diavolo era questa storia? Sposarsi? Con Jill?
Rispose con cautela: — Uhm… credo sia meglio che lei ed io rimaniamo soltanto amici, Senhor Papamacer.
— Ah. Ah. — Jaspin percepì un torrente di gelida disapprovazione erompere da dietro i lineamenti senza tempo né espressione del Senhor Papamacer. Da un milione di miglia di distanza il Senhor replicò: — Come vuoi. Ma è bene essere marito e moglie.
Un altro gesto appena appena percettibile, questa volta verso la silenziosa Senhora Aglaibahi. Lo sguardo di Jaspin seguì la mano del Senhor. La Senhora Aglaibahi sedeva senza muoversi, dando l’impressione di respirare appena appena. Pareva una statua in un tempio, imponente, un enorme oggetto fatto di pietra nera lucidata, una di quelle dee indù, pensò Jaspin, tutte mammelle e occhi. Indossava un indumento bianco, qualcosa di vagamente mussulmano, simile a un sari, avvolto intorno al suo corpo in maniera tale da far vedere con chiarezza i globi ballonzolanti dei suoi seni, le pieghe morbide del ventre. La sua pelle nera luccicava al riflesso della candele come se fosse stata oliata. Anche dopo una settimana fra quella gente la Senhora rimaneva un mistero per Jaspin, una donna adorabile e voluttuosa che avrebbe potuto avere trent’anni o altrettanto facilmente cinquanta. La mitologia dei tumbondé la proclamava vergine, ma c’era qualcos’altro nei loro insegnamenti circa la capacità degli dèi e delle dee di ripristinare la propria verginità tutte le volte che lo desideravano, e Jaspin dubitava parecchio che il Senhor e la Senhora vivessero insieme nella castità. Mentre la fissava, la Senhora sorrise. Jaspin immaginò se stesso attirato d’un tratto verso quei seni dai capezzoli scuri, e che gli venisse dato il latte dalla Senhora Aglaibahi.
Inaspettatamente, da lasciare stupefatti, Jill dichiarò: — Sarò sua moglie se questo è il tuo desiderio, Senhor Papamacer.
— Ehi, aspetta un…
— È una buona cosa, sì, essere marito e moglie. Non lo vuoi, Jaspin?
Jaspin esitò e non rispose. Gli pareva di essere caduto sopra la pista d’un rullo compressore sfuggito al controllo del suo guidatore. Sposare Jill era l’ultima cosa che poteva aver avuto in mente quand’era entrato in quell’autobus cinque minuti prima.
— Se desideri ottenere ulteriori conoscenze, Jaspin, devi inoltrarti ancora di più nei misteri. E per questo devi far matrimonio.
Oh, ecco il punto, pensò Jaspin.
Allora, sia pur lentamente, cominciò a capire. Le cose stavano cominciando a diventare un po’ irreali, ma adesso avevano di nuovo senso. Questo è il paese del misticismo, pensò. Il Senhor sta parlando della sacralità del matrimonio, del hieros gamos, la vecchia, antica questione primordiale della fertilità. Vuoi conoscere i segreti interiori? Devi passare l’iniziazione. Qui non ci sono due modi per farlo. Jill doveva averlo afferrato intuitivamente. O forse è soltanto più ferrata di te in antropologia.
Era chiaro che il Senhor Papamacer stava aspettando una risposta, e che soltanto una risposta sarebbe stata accettabile. Il rullo compressore era passato e adesso lui era appiattito come una tenia.
Si sentiva impotente. E va bene, pensò. Va bene. Accetta. Concludi, si disse Jaspin. Gioisci; gioisci. Non hai scelta. Col tono di voce più umile che gli riusciva possibile, rispose: — Mi affido alle mani del Senhor.
— Prenderai in sposa questa donna?
Sì, sì, certo che lo farò, fece per dire. Qualunque cosa ti faccia piacere, Senhor Papamacer. Ma non riuscì a pronunciare le parole.
Jaspin si girò verso Jill. I suoi occhi ardevano di nuvo. Ma non per me, pensò: non per me.
Scosse la testa. Per l’amor di Dio, si disse, adesso sto davvero per sposarla. Questa sciocca d’una shiksa, questo ossario ambulante dai capelli stopposi, questa Vera Credente, questa gruppettara intellettualoide, questo ciuffo di pelo sul pube e senza tette. L’idea andava al di là del credibile. Tutto dentro di lui si rifiutava. Una voce dentro di lui urlava: Cosa cavolo stai facendo, uomo? Mi affido alle mani del Senhor. Cosa? Sposarsi? Con cinque secondi di preavviso? E con lei? S’immaginava la scena. Lui che la portava a casa dai suoi. Mamma, papà, questa è mia moglie. La signora Jaspin, già, proprio. Per tutto questo tempo ho aspettato che mi si presentasse la compagna ideale, ed eccola qua. So che l’amerai. Sì. Sì. E poi pensò: Piantala di fare il somaro. Qui non c’è niente di legale. Al di fuori di quest’autobus non significherà un tubo. Puoi lasciarla in qualunque momento. Sposala e falla finita, e considerala come parte della tua ricerca antropologica. Una cerimonia tribale alla quale devi sottoporti, in modo che il capo continui a permetterti di osservare i rituali tribali. E poi pensò: Diménticati tutto. Togliti dalla niente tutti questi pensieri egoistici e tutti questi intrighi per ricavare vantaggi. Se hai qualche genuina speranza di poterti affidare a Chungirà-Lui-Verrà nel momento dell’apertura del cancello, devi obbedire al Senhor Papamacer in tutte le cose. Jaspin sentì le ginocchia che cominciavano a tremargli. Finalmente era arrivato alla verità. Poteva non farlo per amore, ma non lo faceva neppure incrociando cinicamente le dita dietro la schiena pensando di agire per motivi di puro opportunismo. No, quella era soltanto la razionalizzazione che usava per nascondere a se stesso ciò che stava veramente accadendo. Ma adesso costrinse se stesso ad ammettere la vera storia. Lo faceva perché al di là di qualunque altra cosa ardeva dal desiderio di avere la mente e l’anima inondate e possedute da Chungirà-Lui-Verrà; a meno che non avesse obbedito al Senhor Papamacer in ogni cosa, ciò non gli sarebbe accaduto. Così, l’avrebbe fatto. Per amore di Dio.
— Sì, la prenderò — disse Jaspin.
Il guizzo d’un sorriso attraversò le labbra sottili del Senhor Papamacer. — Inginocchiatevi vicino alla Senhora — disse. — Tutti e due.
La sala delle conferenze ondeggiava, slittava via, cercava di diventar verde. Elszabet respirò profondamente, lottando per mantenere tutto a fuoco. Sapeva che si stava avvicinando all’orlo dell’isterismo. Forse dovrei dirglielo, pensò, che la notte scorsa ho fatto un sogno spaziale e per qualche motivo non riesco a liberarmene, e all’inferno tutti i tentativi che sto facendo per mostrarmi professionale!
No. No. Non farlo, si disse. Non puoi smerdarti proprio davanti a tutti…
Con uno sforzo rabbioso, riportò se stessa all’incontro. Le costò parecchio, ma ci riuscì.
Disse in tono spigliato, per dare inizio ai lavori: — Siamo tutti d’accordo, credo, che abbiamo a che fare con qualcosa che è molto difficile da capire. Ma credo che la prima cosa che dobbiamo riconoscere è che si tratta d’un fenomeno che può venir misurato, quantificato e descritto in termini puramente scientifici.
Questo suonava bene.
Naresh Patel sollevò lo sguardo dal fascio di stampati che stava studiando. — Pensi sia possibile? Vuoi dire dei tabulati come questi? La frequenza e la distribuzione geografica di fenomeni allucinatori, scale variabili di somiglianza, analisi dell’immaginario, vettori di consapevolezza filtrata, correlazione dell’allucinazione con la percentuale allucinatoria dell’indice stabilizzato di Gelbard-Louit? Ma se per caso questo dovesse essere un fenomeno del tutto inspiegabile con mezzi scientifici?
E se lo fosse? pensò Elszabet. E se non lo fosse? Adesso devo forse replicare qualcosa.
Dan Robinson la salvò. Sentì la sua voce provenire da quella che le parve un’immensa distanza:
— Se lo fosse — disse, — allora non saremmo in grado di spiegarlo, vero? Ma perché dovremmo, a questo punto, pensare che sia inspiegabile? Perdona il mio inguaribile pregiudizio occidental-materialistico, Naresh, ma si dà il caso che io creda che ogni cosa nell’universo abbia una propria soggiacente razionalità quantificabile, che potrebbe non necessariamente essere accessibile all’umana comprensione, a causa dei limiti delle nostre attuali tecniche d’indagine, ma che nondimeno si trova lì. Prima dell’invenzione dello spettroscopio, per esempio, sarebbe stata la più farneticante fantasticheria immaginabile sostenere che un giorno avremmo saputo di quali elementi sono composte le stelle. Ma per un moderno astronomo non rappresenta nessun problema osservare una stella che si trova a cinquanta anni-luce di distanza o, se è per questo, a cinque miliardi di anni-luce, e dire con la massima autorevolezza che è composta da idrogeno, elio, calcio, potassio…
— D’accordo — annuì Patel. — Eppure credo che un astronomo del diciassettesimo secolo avrebbe potuto accettare l’idea che un giorno sarebbe stato possibile scoprire i mezzi per arrivare a questa informazione. Tutto quello che gli mancava era lo spettroscopio: una questione di progresso tecnologico, un affinamento della tecnica, non un balzo stratosferico nell’elaborazione di nuovi concetti. E concordo con te anche sul fatto che tutti gli avvenimenti hanno un’intrinseca razionalità di fondo. Dire altrimenti, sarebbe come argomentare che l’universo permette la pura alcatorietà, e non credo che questo sia il caso.
Adesso la stanza stava ridiventando verde. Patel, Robinson, Waldstein e gli altri stavano assumendo uno scintillante aspetto cristallino. Elszabet riusciva ancora a sentire quello che stavano dicendo, ma non aveva nessuna idea del significato di quelle parole. Non era del tutto sicura di dove si trovava… e perché.
Patel stava dicendo ancora — … ma io dico soltanto che gli avvenimenti che abbiamo qui potrebbero non avere una razionalità che rientri nei dogmi del pensiero scientifico occidentale, e che perciò potremmo non arrivare neppure vicini alla comprensione del fenomeno, cercando di misurarlo e di contarlo.
— Cos’è che stai veramente dicendo, Naresh? — chiese Bill Waldstein.
Patel sorrise: — Per esempio, se queste allucinazioni multiple, condivise da così tante persone, non fossero affatto allucinazioni, ma piuttosto il primo segno dell’avvento nel nostro mondo di una vera forza soprannaturale, lo spirito divino, la Divinità in persona, se vogliamo?
— Adesso ti metti a fare l’indù con noi — commentò Waldstein.
In tono vivace, Patel replicò: — Non c’è niente di specificamente indù, credo, in ciò che ho suggerito, o orientale in una qualunque maniera. Credo che se consultassimo Padre Christie sul Secondo Avvento scopriremmo che il concetto contiene elementi messianici cristiani, oppure ebraici. Io dico soltanto che stiamo cercando di affrontare questa faccenda in maniera scientifica quando in realtà potrebbe essere del tutto fuori dalla sfera della tecnica scientifica.
Dante Corelli intervenne: — Suvvia, Naresh. Ci stai forse dicendo di scrollare le spalle e arrenderci e starcene qui ad aspettare, per vedere cosa accadrà? Ora, questo sì che è un concetto indù, se mai ne ho sentito uno…
— Sono d’accordo con Naresh su un punto — interloquì Dan Robinson. — Là dove lui dice che queste allucinazioni multiple condivise da molti non sono affatto allucinazioni.
Bill Waldstein si sporse in avanti: — Cosa pensi che siano, allora?
Robinson guardò a capo del tavolo delle conferenze. — Elszabet, posso rispondere a questo.
Lei sbatté le palpebre: — Cosa, Dan?
— Posso rispondere. Alla domanda di Bill. Pensi che sia giunto il momento che io spieghi cosa sono davvero questi sogni spaziali?
— Cosa sono davvero i sogni spaziali? — ripeté Elszabet. Aveva perso il filo. Si rese conto che doveva aver vagato in regni remoti. — Sì. Sì. Naturalmente, Dan — rispose, con voce quasi inaudibile.
Il Mondo Verde si stendeva là, appena fuori della finestra. Prati ondulati, alberi graziosissimi senza foglie, a forma di cappio.
— Elszabet. Elszabet.
— Procedi pure, Dan. Cosa c’è? Procedi pure.
Si guardò intorno. Dan, Bill, Dante, Naresh, Dave Paolucci, arrivato dal Centro di San Francisco all’altra estremità del tavolo. Leo Kresh, arrivato addirittura da San Diego. Un incontro importante. Devi prestarvi attenzione. Fissò la grana della superficie del grande tavolo di legno di sequoia. Dio aiutami, pensò. Cos’è che mi sta succedendo? Cosa mi sta succedendo?
Robinson stava dicendo: — … il Progetto Sonda Stellare, che è stato lanciato verso Proxima Centauri nell’anno 2057, credo, e che adesso potrebbe produrre una risposta sotto forma d’una trasmissione da parte degli abitanti di quel mondo, un segnale che aumenta d’intensità a mano a mano che si avvicina alla Terra. Intendo suggerire che una civiltà enormemente superiore alla nostra nel sistema di Alfa del Centauro (Proxima è una delle tre stelle del sistema, come sapete) ha molto probabilmente lanciato una sua Sonda Stellare verso di noi, usando una tecnologia attualmente a noi sconosciuta ma non implausibile in nessuna maniera seria, allo scopo di prendere un contatto diretto con le menti umane.
— Per l’amor di Cristo! — borbottò Waldstein.
— Ti spiace se finisco quello che sto dicendo, Bill? Diciamo che questo segnale è stato ricevuto a tutta prima soltanto da quelli che erano più sensibili a cose del genere, i quali per qualche ragione erano i pazienti che soffrono della sindrome di Gelbard, in questo sanatorio e altrove. Ma, a mano a mano che l’intensità del segnale è aumentata, l’incidenza della recettività è aumentata fino a comprendere un ampio segmento della popolazione umana, comprese, a quanto capisco, molte fra le persone presenti in questa stanza. Se ho ragione, allora quella che ci troviamo ad affrontare non è affatto una epidemia di qualche nuova malattia mentale, né è, perdonami Naresh, una qualche specie di rivelazione metafisica, ma in realtà un significativo sviluppo storico, l’inaugurazione delle comunicazioni con forme di vita extraterrestri intelligenti, e come tale un avvenimento che non è da temere, né da…
— C’è soltanto un problema, dottor Robinson. — Una nuova voce che interveniva dall’estremità del tavolo, calma, sicura. — Posso avere la parola per un momento, dottor Robinson, dottoressa Lewis?
Nell’udire il suo nome, Elszabet sollevò lo sguardo, rendendosi conto di essere andata di nuovo alla deriva con la mente. Tutti la stavano guardando.
— Posso esprimermi su questo punto, dottoressa Lewis. — Di nuovo la voce dal fondo della stanza. Elszabet si rese conto che apparteneva all’uomo di San Diego, la sua controparte, Leo Kresh, il capo del Centro Nepenthe di laggiù. Un uomo minuto, sulla quarantina, calvo, preciso nei movimenti e nel modo di parlare. Lei lo fissò, ma si era troppo estraniata dalla discussione per saper cosa dire.
Inserendosi nel suo silenzio, Dan Robinson disse in fretta: — Naturalmente, dottor Kresh. Proceda pure, prego.
Kresh annuì. — Anch’io ho pensato che queste immagini potessero in qualche modo essere collegate con il Progetto Sonda Stellare, dottor Robinson, e ho esaminato a fondo, in effetti, questa possibilità. Sfortunatamente non sembra funzionare. Come lei ha giustamente affermato, la Sonda Stellare automatica è stata lanciata nel 2057, pochi anni prima dello scoppio della Guerra della Polvere. Tuttavia sono stato in grado di precisare che perfino alle velocità del tutto straordinarie che la Sonda Stellare era in grado di raggiungere al culmine della sua accelerazione, non può aver raggiunto le vicinanze di Proxima Centauri, che si trova a 4.2 anni-luce dalla Terra, fino all’anno 2099. Così, potete vedere che non c’è stato ancora tempo a sufficienza neppure per permettere allo stesso segnale della Sonda Stellare, che naturalmente è un’onda radio a banda strettissima che viaggia alla velocità della luce, di far ritorno da Proxima alla Terra, per non parlare della possibilità che qualche ipotetico abitante di quel sistema ci abbia inviato un qualche tipo di proprio segnale. E naturalmente se i proximani, sempre che ce ne siano, avessero inviato un loro equivalente della Sonda Stellare nella nostra direzione, come lei suggerisce, non c’è assolutamente nessuna possibilità che arrivi fino a noi ancora per parecchi decenni. Perciò, credo che dobbiamo escludere l’ipotesi che i sogni spaziali abbiano un’origine extraterrestre, per quanto questo concetto possa mostrarsi allettante.
— Supponiamo — replicò Robinson, — che i proximani abbiano qualche modo per inviare qui una nave spaziale a una velocità maggiore di quella della luce.
In tono gentile, Kresh replicò: — Mi scusi, dottor Robinson, ma mi trovo costretto a definirla un’eccessiva moltiplicazione delle ipotesi. Non soltanto ci si chiede di postulare l’esistenza dei proximani, ma anche di presumere che sia possibile viaggiare più veloci della luce, il che, stando alle leggi della fisica come le comprendiamo attualmente, non è semplicemente…
— Un momento — intervenne Bill Waldstein. — Di cosa stiamo parlando adesso? Navi spaziali che vanno e vengono da una stella all’altra. Viaggi più veloci della luce. Elszabet: per l’amor di Dio, dichiara fuori luogo tutti questi discorsi. È già abbastanza brutto il fatto che la situazione con la quale abbiamo a che fare sia in sé fantastica (riuscite a immaginare centinaia di migliaia di persone che hanno identici sogni bizzarri lungo tutta la Costa Occidentale, e forse anche in altre parti?) senza tirar dentro per giunta anche tutte queste congetture immaginarie.
— Inoltre — aggiunse Naresh Patel, — sono passati due mesi da quando sono stati riferiti i primi sogni. Visto ciò che il dottor Kresh ci ha detto sul tempo di arrivo della Sonda Stellare su quest’altra stella e il tempo necessario che deve trascorrere prima che i suoi segnali radio possano tornare fino a noi, credo sia chiaro che non c’è nessun rapporto fra i sogni e qualunque dato la Sonda Stellare finisca per rinviarci.
— Per di più — intervenne Dante Corelli, — riceviamo immagini di almeno sette differenti sistemi solari, in questi sogni, giusto? La Sonda Stellare era diretta a un solo sistema, a quanto capisco. Così, anche considerando trascurabili questi problemi relativi ai tempi di trasmissione che il dottor Kresh ci ha fatto notare, com’è possibile che ci vengano ritrasmesse tante scene diverse? Io credo…
— Rimettiamoci in carreggiata! — urlò Bill Waldstein. — Elszabet, per favore, vuoi permettere che ci spostiamo su qualcosa di più razionale? Abbiamo qui dei rappresentanti di San Diego e di San Francisco che vogliono dirci cosa succede nei loro Centri, e… Elszabet? Elszabet? Non ti senti bene?
Lei lottò per capire cosa lui le stesse dicendo. La sua mente era piena di nebbia grigia. Figure cristalline si muovevano graziosamente avanti e indietro, presentandosi a lei, invitandola a incomprensibili avvenimenti sociali, lo splendore di quattro valli, una risintonizzazione sensoria… Ci saranno tutti, cara Elszabet. Il tuo poeta presenterà la sua ultimissima creazione, sai. E c’è la speranza di un’altra aurora verde, la seconda quest’anno, e poi non si ripeterà più per altri quindici cicli tonali, così…
— Elszabet. Elszabet.
— Credo che mi piacerebbe assistere allo splendore delle quattro valli — lei disse. — E forse alla sinfonia del cataclisma. Ma non alla risintonizzazione sensoria, credo. Non ci saranno problemi, se salto la risintonizzazione sensoria?
— Di cosa sta parlando?
Elszabet sorrise. Guardò dall’uno all’altro, Dan, Bill, Dante, Naresh, Dave Paolucci, Leo Kresh. Una luce verde si sprigionava avvampante dal centro del gigantesco tavolo di legno di sequoia. Va tutto bene, avrebbe voluto dire. Sono uscita di senno, è tutto. Ma non dovete preoccuparvi per me. Non è insolito, oggi, che la gente esca di senno.
— Non stai bene, Elszabet?
Dan Robinson. In piedi accanto a lei, che le teneva la mano leggermente appoggiata sulla spalla.
— No — rispose. — In effetti non sto affatto bene. È già tutta la mattina che non mi sento bene, credo. Volete scusarmi, tutti? Mi spiace moltissimo, ma credo che farei meglio a distendermi. Volete scusarmi? Sì? Grazie. Grazie. Mi spiace moltissimo. Per favore, non interrompete la seduta. Ma credo proprio che dovrei distendermi.
Ferguson disse: — Cosa ti hanno detto? Non c’è nessun problema. Te la squagli attraverso la foresta e continui verso oriente, e presto o tardi t’imbatti nella civiltà.
— Hai nessuna idea di dove ci troviamo? — gli chiese Alleluia.
— Sulla strada per Ukiah.
— Ukiah? Dove si trova?
— A est di Mendo, forse a trenta miglia dalla costa. Te lo sei dimenticata? Te l’hanno mondato?
— Non conosco questa parte della California — rispose lei. — Ci faremo trenta miglia a piedi, Ed?
Lui la guardò. — Tu sei una superdonna, non è vero? Cosa c’è mai di tanto difficile in trenta miglia a piedi? Un po’ meno di trenta, forse. Al massimo ce la faremo in due giorni. Non pensi di riuscirci?
— Non io. Tu… Sei in forma per un’escursione come questa?
Ferguson scoppiò a ridere e sfregò la mano sulla pelle immacolata dell’avambraccio di lei. — Non preoccuparti per me, bimba. Sono in forma fantastica, per un uomo della mia età. Comunque, se dovessi sentirmi stanco, potremo sempre fermarci per un paio d’ore. Nessuno c’inseguirà in questo posto.
— Ne sei sicuro?
— Certo che ne sono sicuro — ribadì lui. Sorrise. — Pensa — aggiunse poi, — niente mondata, domattina. Niente più strapazzate al cervello. Vivremo tutta una dannata giornata ricordandoci tutto quello che è accaduto il giorno prima.
— E anche quello che abbiamo sognato la notte prima?
— Quello che abbiamo sognato, già. — Il sorriso, che era sfumato lentamente sulle sue labbra, diventò un aggrottare di sopracciglia. — Tu, hai sognato stanotte? Un sogno spaziale?
— Credo di sì.
— Li fai praticamente ogni notte.
— Davvero? — lei disse.
— È quello che mi dici ogni mattina, prima della mondata. Mi sono segnato tutto, proprio qui, sul mio piccolo anello. Un pianeta diverso ogni notte, i nove soli, il mondo verde, quello dove tutto il cielo è pieno di stelle. Questa notte è stata la grande stella azzurra nel cielo e le bolle luccicanti che galleggiavano nell’aria.
— Non ricordo — dichiarò Alleluia.
— Be’, a volte te ne ricordi, a volte no.
— E tu? Tu non sogni mai, vero?
— Mai una volta — confermò, e cominciò a sentire l’amarezza che cresceva in lui. — Tutti li fanno, al di fuori di me. Non so. Vorrei poter vedere questi posti almeno una volta. Vorrei sapere cosa succede nella mente di tutti. Mi sono segnato sul mio anello che la prima cosa che devo chiedermi alla mattina è se ho fatto un sogno spaziale. E non l’ho mai fatto. Cristo, odio non provare quello che provano gli altri.
— Dovresti provare ad essere artificiale per un po’, allora. Capiresti cosa vuol dire essere davvero diversi.
— Già. Sicuro. Proprio quello che mi serve. — Ferguson sorrise di nuovo. — Oh, insomma: per lo meno domattina non sarò mondato. Non mi ficcheranno quei loro stramaledetti bisturi elettronici in testa. Forse, due o tre giorni lontano da quei bastardi, e comincerò a sognare anch’io, non credi? Cosa ne pensi, Allie?
— Il guaio, con te — lei rispose, — è che lo vuoi troppo. Devi smetterla di volerlo, se vuoi sperare di riuscire ad averlo. Lo capisci, Ed?
— Lo fai sembrare così semplice.
— Un mucchio di cose difficili sono semplici.
— Dimenticatene — lui la rimbrottò. — Posso vivere senza quei dannati sogni. Sono contento di essere lontano da quel posto, e basta.
— Anch’io — lei gli fece eco. E diede una strizzata al suo avambraccio che avrebbe dovuto essere gioiosa e affettuosa. Lui provò una fitta talmente dolorosa che per un istante si chiese se lei non gli avesse rotto il braccio.
Adesso, avevano lasciato il Centro da tre ore. Era pomeriggio avanzato e mancavano ancora un paio d’ore prima del tramonto. L’aria era ancora calda anche se già manifestava i primi segni dell’incombente fresco della sera. Erano nel folto della foresta di sequoie, sotto i loro piedi il terreno era umido e morbido perfino dopo i lunghi mesi di siccità estiva. Gli scoiattoli scorrevano dappertutto, e di tanto in tanto un cerbiatto timido e circospetto li sbirciava da dietro uno di quegli alberi giganteschi.
Scappare era stato facile, proprio come Ferguson si era aspettato. Dopo il pranzo, durante il tempo libero, si erano in tutta semplicità allontanati nei boschi sul lato del Centro rivolto all’entroterra. Niente d’insolito, in questo. Bastava continuare ad allontanarsi: quella era la parte insolita. Una sosta nella sua piccola radura favorita, quella che usava per fottere, dove aveva raccolto lo zaino di tela che vi aveva nascosto il giorno prima. Aveva riempito lo zaino di pane, mele, alcuni spremibarattoli di succo, e aveva registrato un appunto molto dettagliato in proposito nel suo anello, dicendo al se stesso del dopo mondata dove l’avrebbe esattamente trovato il giorno dopo. Cristo, se ci si sentiva bene ad esser liberi! Finalmente fuori dalla galera. Bene, il Centro non era proprio una prigione, era più simile a un collegio rigoroso, pensò Ferguson, ma lui non era mai stato molto portato neppure per i collegi. O per qualunque altro posto in cui la gente potesse dirgli quello che avrebbe dovuto fare per dodici, sedici ore al giorno.
Aveva una specie di piano. Prima di tutto raggiungere Ukiah: quella era una cittadina di discrete dimensioni, gli diceva il suo registratore, trenta, quarantamila persone. Una vera e propria metropoli, in quei giorni post Guerra della Polvere, dove i bambini erano pochi e molto sparpagliati e la popolazione era scesa di molto, dell’ottantacinque per cento rispetto ai culmini del ventesimo secolo. A volte Ferguson cercava d’immaginarsi il mondo con dentro tutta quella gente, cinque o sei milioni nella sola Los Angeles, e ancora di più a New York. Dicevano che Mexico City ne avesse avuto sedici milioni. Ci avreste mai creduto? Adesso non c’era nessuno a Mexico City, zero, nada, tutti erano scappati quando i «nica» avevano spolverato quel posto. E forse un milione a Los Angeles, se si considerava ogni cittadina da Santa Barbara fino a Newport Beach come parte di Los Angeles. Bene. Così, stiamo andando a Ukiah, pensò; ci troviamo un motel, ci diamo una ripulita, ci rimettiamo in sesto e ci riorganizziamo. Poi telefonerò a Lacy e mi farò mandare un po’ di quattrini da San Fran con un vaglia telegrafico. Sperava che Lacy avesse abbastanza liquido da fargli un prestito. Cristo sa, se non si è fatta un bel mucchio quando lavorava per me: devono essergliene rimasti abbastanza da darmene un po’. Lui non aveva neppure uno spicciolo, addosso, naturalmente. Al Centro non ce n’era affatto bisogno, e non v’incoraggiavano a tenerne a portata di mano; quando si godeva del permesso per un fine settimana esterno, aprivano semplicemente una linea di credito nel posto in cui si soggiornava e in quello in cui si andava a mangiare. Non volevano che i loro pazienti si spingessero fuori della loro portata.
Lui si sarebbe spinto fuori della loro portata, di sicuro. Un paio di giorni a Ukiah, per predisporre le cose, poi via in Idaho (non c’era bisogno del visto per andare in Idaho, giusto?) e da lì, press’a poco dopo sei settimane di residenza per rendere ufficiale la cosa, avrebbe fatto domanda per entrare nell’Oregon. Adesso nell’Oregon avevano una specie di repubblica, l’Oregon e circa una metà di quello che un tempo era lo stato di Washington, e una volta che lui avesse attraversato il confine, non ci sarebbe stato nessun modo per riportarlo in California. Era una questione di sovranità e d’indipendenza, e da quello che gli oregoniani provavano nei confronti dei californiani, si poteva star sicuro che non avrebbero mai estradato nessuno. Così, con l’Oregon come sua base operativa, avrebbe potuto cominciare a rendere redditizi i sogni spaziali. Non era ancora sicuro di come l’avrebbe fatto, probabilmente una variazione della truffa di Betelgeuse Cinque, garantendo la trasmissione sui nuovi mondi in via di sviluppo, i sette pianeti che venivano così ampiamente esibiti durante i vostri sogni notturni… Gli sarebbe stato di un certo aiuto se avesse potuto vedere anche lui quei sogni, ma questo non era essenziale fintanto che aveva Alleluia al suo fianco. E Alleluia accanto a lui anche durante la notte, quel formidabile corpo di pantera ogni notte…
— Ehi, cos’è tutta questa fretta? — le gridò. D’un tratto Alleluia si era messa a camminare a grandi e spedite falcate, lasciandolo molto indietro.
Lei si voltò e gli rivolse un sorriso malizioso. — Hai difficoltà a stare al passo, Ed?
— Vai a farti fottere — ribatté Ferguson, in tono amabile. — Sappiamo tutti che sei una forma di vita superiore. Non devi anche dimostrarlo, maledizione. Adesso rallenta un po’ e camminiamo insieme, d’accordo?
— In questo momento ho voglia di camminare in fretta — lei ribatté. — Faccio pompare un po’ il mio cuore.
— Se sparisci dalla mia vista, ti perderai del tutto. Potrai anche essere perfetta, ma non sai dove stai andando, vero? Continua pure. Corri pure in mezzo ai boschi. Forse ti rivedrò, forse no.
Gli ritornò la sua risata modulata. Sentendo crescere in sé la rabbia, Ferguson cominciò a camminare in fretta, tenendo gli occhi fissi su di lei. Cagna, pensò. Sfidarlo in quel modo. Una vera cagna. Ma bisognava ammettere che era una magnifica cagna…
Non aveva mai conosciuto una donna come lei, e di donne ne aveva conosciute un mucchio. Così alta e agile, praticamente alta come lui. E bella: tutti quei capelli neri come il giaietto, quel seno, quelle gambe. E forte: i lunghi muscoli affusolati che s’increspavano sotto la pelle satinata, quell’aura d’incredibile energia appena appena contenuta. E, cosa strana: non si poteva mai predire cosa avrebbe fatto. A volte, da come funzionava la sua mente, pareva una marziana. Una donna di Betelgeuse Cinque. Ferguson si chiese che razza di problema mai poteva averla fatta finire sotto il mondatore. La prima cosa che ti dicevano al Centro Nepenthe era che non si doveva discutere del proprio passato con gli altri pazienti; era nel passato che si celavano le ferite, dicevano, e si sarebbe dovuto lasciare che queste si squamassero sotto l’effetto del mondatore. Dicevano che quando ci si reintegrava nella fase finale del trattamento, la parte utile del proprio passato sarebbe riemersa, le ferite sarebbero scomparse per sempre; così, non era utile incidere più in profondità i solchi della memoria parlando del luogo da cui si proveniva. Ferguson aveva violato quella regola, naturalmente. Violava tutte le regole, soltanto per una questione di abitudine. Ma Alleluia non gli aveva detto niente del tutto sulle turbe mentali che l’avevano condotta al Centro Nepenthe. Forse aveva avuto degli attacchi di folle depressione, quella roba di Gelbard, e forse aveva perfino ammazzato della gente a mani nude per tirarsi un po’ su di morale, per quanto lui ne sapeva. Qualunque cosa fosse, lo teneva per sé. Forse neppure lo sapeva. Forse tutti i suoi ricordi si erano già squamati sotto il mondatore, pensò. Una strana donna. Ma favolosa, sì, favolosa.
Che fosse dannato se le avrebbe consentito di sopravanzarlo così tanto. Era quasi sparita alla sua vista, lì in fondo. Cambiò andatura, mettendosi quasi a correre, respirando affannosamente, cominciando leggermente a sudare, inciampando qua e là sul terreno molle, impastato e cedevole della foresta. Ferguson rimase sorpreso nel constatare quanto poco tempo gli ci volesse per restare senza fiato. Poi cominciò a sentire l’inizio d’un dolore dietro lo sterno, niente di troppo angoscioso, soltanto una piccola, acuta pressione. Niente di strano. Ma faceva lo stesso un po’ di paura.
Diavolo, pensò, soffiando e sbuffando, dovresti essere in grado di correre più forte di una ragazza, giusto?
Sbagliato, si disse. Non fare il somaro. Quella non è una ragazza, quello è un essere artificiale sovrumano, e ha cento metri di vantaggio su di te. E inoltre tu hai cinquant’anni. Non proprio un ragazzo, ormai. È da svitati mettersi a darle la caccia in quel modo attraverso il bosco.
Ma continuò lo stesso. Aveva la camicia zuppa e il cuore gli martellava nel petto e c’erano piccole e acute pressioni su tutto il suo torace, ma non poteva permettere che qualcuno lo battesse in quel modo. — Dannazione a te! — urlò. — Allie, aspettami! — E si mise a correre con energia ancora maggiore. Adesso non riusciva più neppure a vederla: una macchia fittissima di enormi sequoie si levò come una parete davanti a lui. Che andasse a farsi fottere. La lascerò scappare e che si perda pure, pensò. Tutte le provviste le ho io, giusto? Ma ugualmente non rallentò. E poi il suo piede s’impigliò in una buca nascosta del terreno e ruzzolò pesantemente a terra, mentre la caviglia si torceva sotto di lui mentre cadeva.
Una vampata di dolore gli afferrò tutta la gamba. Si rizzò a sedere toccandosi un po’ qua e un po’ là. La caviglia gli pulsava. Cercò di alzarsi facendo molta attenzione, ma scoprì che non poteva farlo; la gamba gli si piegava non appena vi gravava sopra anche con il minimo peso. Adesso, come avrebbe fatto ad arrivare a Ukiah? Fece conca con le mani, se le portò alla bocca e la chiamò: — Allie! Allie! Torna indietro, mi sono fatto male!
Cinque minuti, non il minimo segno di lei. Ferguson si massaggiò la caviglia, sperando che riacquistasse la giusta posizione da sola. Ma quando tentò un’altra volta di alzarsi, si sentì peggio di prima. Il suo piede cominciava a gonfiarsi.
— Alleluia, dannazione a te! Dove sei?
— Calma. Calma. Sono qui.
Sollevò lo sguardo e la vide arrivare verso di lui a grandi, splendidi, altissimi balzi, correndo come una gazzella. Quando gli si fermò accanto, non ansava neppure minimamente: il suo respiro era calmo come se avesse fatto soltanto quattro passi.
— Cosa ti è successo? — gli chiese.
— Sono inciampato. Me la sono slogata. Non riesco a camminare, Allie!
— Certo che puoi. Ti farò una stampella.
— Gesù, una stampella? Non so usare una stampella. E cosa dovrei fare? Zoppicare per trenta miglia? Perché diavolo dovevi scappar via così di corsa? Non sarei inciampato se non avessi dovuto mettermi a correre dietro di te. E…
— Prenditela con calma — lei l’interruppe. La fissò stupefatto mentre piegava un alberello fino al livello del suolo, spezzandone il terzo superiore del tronco, mettendosi poi a spogliarlo dei rami. — Non devi andare così lontano. C’è una strada proprio davanti a noi. Faremo l’autostop e chiederemo un passaggio fino a Ukiah. Se non volessero andare fino a Ukiah, ci penseremo noi a persuaderli.
— Una strada?
— Una piccola autostrada asfaltata, proprio sull’altro lato di questi grossi alberi, forse a cinque minuti da qui. Ero là quando ti ho sentito chiamare. Passavano perfino delle macchine. Non preoccuparti, va tutto bene. — Lo sollevò mettendolo in posizione eretta, come se lui fosse un sacco di piume, e gli ficcò l’improvvisata stampella sotto l’ascella. Era un po’ troppo lunga. Sorreggendolo con un braccio, sollevò la stampella di traverso al polpaccio e ne spezzò la punta. — Ecco fatto — annunciò. — Adesso dovrebbe essere della lunghezza giusta. — Se non gliel’avesse visto fare, non avrebbe mai creduto che Alleluia fosse in grado di spezzare un alberello verde grosso come il suo polso con un breve, rapidissimo gesto. Quanta difficoltà avrebbe avuto a spezzare il braccio o la gamba di qualcuno.
La stampella gli fu comunque di aiuto. Era rozza, ma gli permetteva di muoversi zoppicando, lasciando penzolare il piede ferito. Lei gli camminava accanto, tenendogli un braccio intorno alle spalle, offrendogli un sollevamento extra. Il terreno aveva cominciato a salire fino alla folta macchia di sequoie ma poi, sul lato opposto, prese di nuovo a scendere fino a diventar pianeggiante, e poco tempo dopo uscirono su uno spazio aperto e videro l’autostrada. Era una vecchia strada di campagna a due corsie, butterata e logora. Da nessuna parte erano visibili congegni di controllo del traffico, era il tipo di strada che c’era stata centocinquant’anni prima. Tese l’orecchio per sentire se c’era qualche rumore di macchine, ma non udì niente. Dietro di loro il sole stava scendendo, cominciava a calare verso il Pacifico.
— Sta arrivando qualcosa — disse Alleluia.
— Non sento niente.
— Neppure io. Ma posso vederlo in fondo alla strada. Sì, e adesso riesco anche a sentire il motore, più o meno. Probabilmente si tratta di una macchina a effetto suolo, poiché è così silenziosa.
Lui non ne vedeva nessun segno, neppure un puntolino in distanza. I sensi di Alleluia erano spaventosamente acuti. Passarono un paio di minuti, e poi cominciò a distinguerlo anche lui: un furgone scuro che veniva verso di loro da sud. — Va bene — disse lui. — Io torno un po’ indietro e mi nascondo in mezzo al bosco. Tu mettiti qui in bella mostra e fai l’autostop.
— Si fermeranno?
— Dovrebbero essere usciti di senno per non fermarsi davanti a una donna come te, sola, con la notte in arrivo. Si fermeranno. Quando l’avranno fatto, digli che tuo marito è là in mezzo con una gamba ferita, e se non gli spiace darci uno strappo fino a Ukiah. Io uscirò fuori. Non potranno far molto a questo punto, quando verrò fuori. Nel frattempo avvicinati al conducente. Se dovesse dar segno di voler ripartire, infila il braccio dentro al finestrino e mettigli una mano alla gola, va bene? Non fargli male, capisci. Devi soltanto convincerlo a collaborare.
— D’accordo — lei annuì. — Ora farai meglio a sparire.
— Già — disse Ferguson, e si allontanò zoppicando, scomparendo nel sottobosco. Si sistemò dietro un albero per seguire la scena. Un momento più tardi, il furgone comparve. Era proprio ad effetto suolo, una vera anticaglia, forse addirittura un modello anteguerra, con delle sgargianti saette dipinte in rosso e giallo lungo i suoi fianchi. Alleluia era in piedi in mezzo alla strada. Agitava le braccia e, come previsto, il furgone rallentò e si fermò a breve distanza davanti a lei. Vide un paio di uomini sul sedile anteriore. Probabilmente si stavano immaginando una notte di bagordi, una formidabile brunetta, una strada di campagna solitaria. Se avessero tentato qualcosa con Allie, però, si sarebbero accorti in fretta di quanto le cose fossero diverse. Sentì che parlavano con lei. Ferguson cominciò a uscire dal suo nascondiglio. Non ci daremo neppure la pena di chiedere un passaggio, pensò. Dirò ad Allie di buttarli in mezzo ai cespugli e guideremo noi stessi fino a Ukiah, e domattina punteremo a nord verso l’Oregon.
Poi guardò meglio e si rese conto che oltre a quelli sul sedile anteriore c’era una vera e propria folla di uomini sul retro del furgone… tre, quattro, forse cinque uomini. Grattatori, molto probabilmente. O perfino bandido, forse.
Dannazione, pensò. Neppure lei può farcela ad affrontare sette individui. Io non ne posso affrontare neppure uno, con una gamba ridotta così. D’un tratto, vide come la sua fuga dal Centro sarebbe finita: con lui disteso fra le erbacce, la gola tagliata, e Alleluia che scalciava e urlava per tutto il tempo, mentre la trascinavano via per una notte di stupro collettivo.
Stavano uscendo dal furgone. Quattro, cinque, sei, sette, sì. No, otto. Si avvicinarono ad Alleluia, si accalcarono intorno a lei, con sguardi di apprezzamento. Uno di loro, un gatto dall’espressione malvagia, col viso unto e un sacco di capelli in disordine, le stava fissando il seno come se non avesse toccato una donna da tre anni. Un altro con gli occhi di un azzurro slavato e un volto pieno di cicatrici dovute all’acne si stava addirittura leccando le labbra. Ferguson avrebbe voluto voltarsi e scappare, ma era troppo tardi, troppo tardi ormai, l’avevano visto. Con quel suo passo zoppicante, sarebbe stato preso in mezzo secondo.
— È tuo marito, quello laggiù? — chiese uno dei grattatori, uno grande e grosso e tarchiato, con una folta barba nera e l’aspetto del duro. Indicò Ferguson. Che maniera stupida di morire sarebbe stata quella, si disse Ferguson. Pregò che Alleluia entrasse in azione, ne afferrasse tre o quattro dal mucchio e spezzasse loro il collo come aveva spezzato quell’alberello, in fretta, prima che si rendessero conto di ciò che stava accadendo. Ma non pareva che stesse per farlo. Sembrava calma, allegra e rilassata. Dannata, stranissima donna. Si fermò sul lato della strada, appoggiato alla sua stampella, chiedendosi cosa mai sarebbe successo adesso.
Ciò che accadde dopo fu che un altro dei grattatori, uno alto e magro con delle lunghe braccia come quelle di una scimmia e occhi luccicanti e spiritati, gli si avvicinò e lo squadrò in una maniera curiosamente intensa, fissandolo in viso come se stesse cercando di leggere una mappa, e gli disse con grande calore: — Ti fa molto male? Non intendo parlare della tua gamba, ma della tua anima. Credo che la tua anima ti faccia un po’ male. Ricordati che questa non è altro che la casa di Dio e questo è il cancello del paradiso.
— Che diavolo… — fece Ferguson, la voce impastata di paura e di stupefazione.
— Non badargli — disse il grattatore dai capelli rossi. — Non è altro che un matto, quello. Quel matto bastardo di Tom.
— Matto, eh? — ripeté Ferguson. Si guardò lentamente intorno. Cominciava a pensare che forse, malgrado tutto, ne sarebbero usciti interi. Il punto era rimaner calmi, cominciare a parlare e parlare parecchio, dando l’impressione di potersi rendere utile a quegli uomini. — Se è un vero caso clinico — proseguì, — allora voi gente siete proprio nel posto giusto. Portatelo al Centro, sull’altro lato della foresta di sequoie, da quella parte, e si sentirà completamente a casa sua. Con tutti gli altri svitati che hanno là. Gli danno da mangiare, gli faranno un bagno, lo tratteranno bene e con gentilezza, ecco cosa faranno per lui, al vostro amico Tom il matto.
L’uomo dalla barba scura si avvicinò ancora di più a Ferguson: — Centro? Di che genere di Centro stai parlando?