Robert Silverberg L’ora del passaggio

Questo è per Dog


Considerare la Terra come il solo pianeta popolato nello spazio infinito è assurdo almeno quanto asserire che in un intero campo seminato a miglio crescerà una sola spiga.

Metrodoro l’Epicureo, circa 300 A.C.

UNO

Dall’orrido folletto famelico

che a brandelli ti ridurrebbe,

e dallo spirito che si erge accanto all’uomo nudo

nel libro delle lune, difendetevi.

Che i vostri cinque sensi

non vi abbandonino mai

né vaghino via da voi con Tom

a mendicare lontano il vostro pane.

Mentre io canto

«Un po’ di cibo, qualcosa da mangiare,

da mangiare, da bere o da vestire.

Vieni, dama o fanciulla,

non aver timore,

il povero Tom non farà male a nessuno».

Canto di Tom o’Bedlam

1

Stavolta, qualcosa aveva detto a Tom di provare ad andare verso occidente. L’occidente era una buona direzione, pensò. Punta verso il tramonto, forse potrai scender dritto giù dall’orlo e camminare fra le stelle.

Sul tardi d’un pomeriggio di luglio arrivò, arrampicandosi su per il pendio del letto asciutto d’un ripido torrente, ad un campo inaridito dove si fermò per riprender fiato e guardarsi intorno. Si trovava all’incirca cento, centocinquanta miglia ad est di Sacramento, sul lato assetato della montagna, nel terzo anno del nuovo secolo. Dicevano che quello era il secolo in cui tutte le infelicità avrebbero dovuto finalmente scomparire. Forse era vero, forse, pensò Tom, non ci sarebbero state più…

Ma non ci si poteva contare.

Proprio lì, davanti a lui, vide sette od otto uomini cenciosi, raccolti intorno a un vecchio furgone a effetto-suolo, con delle frastagliate saette rosse e gialle dipinte sui fianchi arrugginiti. Era difficile dire se stessero riparando il furgone, oppure rubandolo, o entrambe le cose assieme. Due di loro erano distesi sotto di esso, con la testa e le spalle infilate dentro la scatola del cambio del propulsore, e uno di loro stava armeggiando col filtro della presa d’aria. Gli altri se ne stavano appoggiati alla portiera posteriore del furgone, comodi comodi, come se i proprietari fossero loro. Erano tutti armati. Nessuno prestò la minima attenzione a Tom.

— Povero Tom — disse, nel tentativo di saggiare la situazione. — Tom è affamato. — Pareva non ci fosse nessun pericolo, anche se là fuori, in quella terra desolata e selvaggia, non si poteva esser mai sicuri. Si dondolò avanti e indietro sui calcagni, sperando che uno di loro lo notasse. Era un uomo alto, magro, nerboruto, i capelli scuri e aggrovigliati, sui trentatré-trentacinque anni; quando glielo chiedevano, il che non avveniva spesso, dava differenti risposte. — Niente per Tom? — azzardò. — Tom ha fame.

Ma nessuno lo degnò di uno sguardo. Se fosse stato invisibile, sarebbe stato lo stesso. Scrollò le spalle e tirò fuori la tastiera portatile dallo zaino e cominciò a strimpellare sui piccoli tasti metallici. Si mise a cantare, con voce nasale:

Il tempo e la campana hanno sepolto il giorno.

La nuvola nera porta via il sole…

Continuarono a ignorarlo. A Tom questo andava benissimo. Era assai meglio che essere picchiati. Potevano vedere che era innocuo, ed era probabile che presto o tardi l’avrebbero aiutato, se non fosse altro per sbarazzarsi di lui. Di solito la gente lo faceva, perfino quelli davvero selvaggi. Neanche i banditi, gli assassini da strada, avrebbero mai voluto far del male a un povero mezzo pazzo sempliciotto. Pensò che presto o tardi gli avrebbero dato un pezzetto di pane, lasciandogli trangugiare uno o due sorsi di birra, e lui li avrebbe ringraziati e se ne sarebbe andato per la sua strada verso occidente, verso San Francisco o Mendocino o un altro di quei posti, laggiù. Ma passarono altri cinque minuti, e continuarono a fingere di non essersi accorti di lui. Era come se stessero giocando… con lui.

Proprio allora, all’improvviso, un vento gelido cominciò a soffiare da oriente. A questo prestarono attenzione: — Ecco che arriva la brezza che porta brutte notizie — borbottò un uomo dai capelli rossi e i lineamenti rozzi, e tutti annuirono e imprecarono a una voce. — Porco Dio, proprio quello che ci mancava, un vento pieno di spazzatura solida — proseguì l’uomo dai capelli rossi. Corrugando la fronte con espressione inferocita, s’incurvò, incassando la testa fra le spalle come se questo potesse servire a proteggerlo da qualunque radioattività il vento potesse portare.

— Metti in funzione le eliche, Charley — disse uno dagli occhi azzurri e la pelle ruvida e butterata. — Risoffiamola verso il Nevada da dove è venuta, quella roba, eh?

— Sì, sicuro — aggiunse uno degli altri, un piccolo latino dall’espressione acida. — È quello che dovremmo fare. Sicuro, Cristo, risoffiagliela addosso.

Tom rabbrividì. Il vento era cattivo. Quello dell’est lo era sempre. Ma a lui dava una sensazione di pulito. Di solito, lui sapeva sempre dire quando le radiazioni arrivavano col vento che soffiava dai posti impolverati. Gli provocava un pizzicore dentro il cranio, da un punto appena sopra il suo orecchio sinistro fino al bordo dell’arcata sopracciliare. Adesso non lo sentiva…

Sentì qualcos’altro, però, qualcosa che cominciava ad essergli molto familiare. Era un suono nelle profondità del suo cervello, quell’irruente fragore che l’avvertiva che una delle sue visioni cominciava ad agitarsi dentro di lui.

E poi, cascate di luce verde cominciarono a spazzare la sua mente.

Non lo sorprese il fatto che stesse accadendo qui, adesso, in quel posto, a quell’ora, fra quegli uomini. A volte un vento da est poteva fargli quell’effetto. Oppure un particolare tipo di luce verso la fine del giorno, oppure l’arrivo di un’aria più fredda e limpida dopo un temporale. O quand’era con degli estranei che davano l’impressione di non gradirlo. Non ci voleva molto. Un grande numero di volte non ci voleva proprio niente. La sua mente era sempre sull’orlo di qualche visione. Erano in ebollizione dentro di lui, le visioni, sempre pronte a prendere il controllo quando fosse giunto il momento. Strutture e immagini stranissime si agitavano perennemente nella sua testa. Ormai non lottava più contro di esse. Sulle prime l’aveva fatto, poiché pensava che ciò significasse che lui stava impazzendo. Ma ormai non gl’importava più, se fosse o no pazzo, e sapeva che combattere contro quelle visioni gli avrebbe causato, nel migliore dei casi, un solenne mal di testa, oppure, se avesse cercato di opporvisi davvero con la massima energia, avrebbe finito per trovarsi costretto ginocchioni per terra… ma in ogni caso non c’era proprio nulla che potesse fare per impedire alle visioni di continuare a manifestarsi. Era impossibile tenerle indietro, si poteva soltanto cercare di sbatacchiarle e frastornarle un po’, e quando ci provava era lui che finiva per essere ancora più sbatacchiato e frastornato. Per giunta, le visioni erano la cosa migliore che gli fosse mai capitata. Ormai, lui amava le sue visioni.

Una gli si stava manifestando proprio adesso, non c’erano dubbi. Già. Già. Sì, di sicuro gli stava arrivando proprio adesso. Di nuovo quel mondo verde. Tom sorrise. Si rilassò e vi si abbandonò.

Ciao, mondo verde! Sei venuto per portarmi a casa?

Una luce solare verde-oro risplendeva su colline aliene. Udì un lontano mare turchese che si gonfiava e si schiantava con fragore sulla costa. L’aria greve era spessa come il velluto, dolce come vino. Lucide ed eleganti forme cristalline, ancora indistinte ma che si stavano rapidamente mettendo a fuoco in maniera ben nitida, cominciavano a planare attraverso lo schermo dell’anima di Tom: alte figure fragili che parevano formate da un vetro iridescente, multicolore. Si muovevano con grazia stupefacente. I loro corpi erano lunghi e snelli, con arti splendenti come specchi e aguzzi come lance. I loro occhi sfaccettati, luccicanti di saggezza, erano disposti in file di tre su ciascuno dei quattro lati delle loro teste affusolate a forma di diamante. Non era la prima volta che Tom li vedeva. Sapeva chi erano: gli aristocratici, i principi e i duchi e le contesse e altri ancora, di quell’adorabile luogo verde.

Attraverso la visione riusciva ancora a distinguere in modo molto vago i sette od otto uomini raccolti intorno al furgone a effetto-suolo. Doveva dir loro ciò che vedeva. Lo faceva sempre, tutte le volte che era con qualcuno quando veniva colto da una visione. — È il mondo verde — diceva. — Vedete la luce? Ci riuscite? Ci riuscite? È come una marea di smeraldo che sgorga giù dal cielo. — Se ne stava lì con le gambe ben divaricate e saldamente piantate al suolo, la testa spinta indietro, le spalle incurvate in basso come se stessero cercando d’incontrarsi dietro di lui. Delle parole gli uscivano dalle labbra: — Guardate! Ci sono sette cristallini che si stanno avviando verso il Palazzo d’Estate, tre femmine, due maschi, due dell’altro genere. Gesù, come sono belli! Come diamanti lungo tutta la loro pelle, dall’alto al basso. E i loro occhi… i loro occhi! Oh, Dio, avete mai visto niente di più bello?

— Ehi, che razza di svitato ci è capitato tra i piedi? — chiese qualcuno.

Tom lo sentì appena. Quegli stranieri cenciosi adesso non gli sembravano neppure veri. Quelli che erano veri, erano i signori e le signore del mondo verde, i quali passeggiavano immersi nello splendore tra le radure e le brume. Li indicò con un gesto: — Quella è la Triade di Misilyne, la vedete? Quei tre al centro, i più alti. E quello è Vuruun, il quale era ambasciatore presso i Nove Soli sotto l’Antica Dinastia. E quello… oh, guardate là, verso oriente! È l’aurora verde che sta spuntando! Gesù, è come se il cielo in fiamme ardesse di verde, non è vero? La vedono anche loro, la stanno indicando, fissando… vedete quanto sono eccitati? Non li ho mai visti eccitati prima d’ora. Ma qualcosa del genere è…

— Uno svitato di sicuro. Un matto. Un caso clinico. Lo si capisce subito… è la prima cosa, quando si avvicinano.

— Alcuni di questi matti possono diventare maledettamente cattivi quando sono presi dai loro attacchi. Ho sentito delle storie. Si liberano… non si riesce neppure a legarli, tanto sono forti!

— Pensi che sia così brutta anche con questo?

— Ehi, matto! Ehi, mi senti?

— Lascialo stare, Stidge.

— Ehi, matto! Ehi, sballato!

Voci. Deboli, remote, confuse. Voci-fantasma, ronzii e fruscii intorno a lui. Ciò che dicevano non aveva importanza. Gli occhi di Tom ardevano. L’aurora verde avvampava, turbinando, nel cielo orientale. Il venerando signore Vuruun distese le sue quattro braccia translucide. La Triade si stava abbracciando. Adesso una musica stava arrivando da chissà dove, una musica paradisiaca che risuonava da un mondo all’altro. Le voci erano soltanto un minuscolo suono raschiante, smarrito da qualche parte dentro quell’immenso mantello di musica.

Poi qualcuno lo colpì con forza nello stomaco, e lui si piegò in due, rantolando e tossendo, sentendosi mancare d’un tratto il respiro. Il mondo verde vorticò come impazzito intorno a lui e l’immagine cominciò a frantumarsi. Stordito, Tom oscillò avanti e indietro, non sapendo più dove si trovava.

— Stidge! Lascialo stare!

Un altro pugno, ancora più forte. Rintronato, Tom cadde sulle ginocchia e fissò con occhi sfocati i fili bruni dell’erba appassita. Un getto sottile eruppe da lui. Gli parve che le budella gli venissero strappate dal ventre e gli si riversassero fuori dalla bocca. Sapeva che era stato un errore lasciarsi cadere al suolo. Adesso avrebbero cominciato a prenderlo a calci. Qualcosa del genere gli era capitato l’anno scorso nell’Idaho, e le sue costole avevano impiegato sei settimane per guarire.

— Stupido… matto… svitato…

Tre calci. Adesso Tom si rannicchiò, lottando contro il dolore. In qualche angolo della sua mente rimaneva un ultimo frammento della sua visione, una forma cristallina snella e luccicante, irriconoscibile, che svaniva. Poi sentì grida, imprecazioni, minacce. Era consapevole che intorno a lui era scoppiata una rissa. Tenne gli occhi chiusi e respirò con grande cautela, cercando il raschiare dell’osso contro l’osso nel proprio corpo. Ma parve che non ci fosse niente di rotto.

— Ce la fai ad alzarti? — gli chiese una voce calma, pochi istanti dopo. — Su. Adesso nessuno ti farà più del male. Guardami. Ehi, amico, guardami.

Esitando, Tom aprì gli occhi. Un uomo del quale non conosceva la faccia, un uomo con una folta barba nera e profondi anelli scuri sotto gli occhi (molto probabilmente uno di quelli che poco prima stavano lavorando alla scatola del cambio, distesi sotto il furgone) era accucciato accanto a lui. Pareva quasi altrettanto cattivo e rozzo degli altri, ma per qualche motivo era più gentile con lui. Tom annuì, e l’uomo infilò le mani sotto i suoi gomiti, sollevandolo con delicatezza.

— Ti senti bene?

— Penso di sì. Mi sento sbattuto, un po’… Anzi, più di un po’.

Tom si guardò intorno. L’uomo dai capelli rossi era accasciato accanto al fianco del furgone. Sputava sangue e lo fissava furioso. Gli altri si tenevano indietro, disposti più o meno in semicerchio, corrugando la fronte, incerti.

— Chi sei? — gli domandò l’uomo dalla barba nera.

— È soltanto un fottuto svitato! — proruppe l’uomo dai capelli rossi.

— Chiudi il becco, Stidge. — Rivolto a Tom, l’altro uomo disse di nuovo: — Qual è il tuo nome?

— Tom.

— Soltanto Tom?

Tom scrollò le spalle. — Già, soltanto Tom.

— Tom da dove?

— Idaho, l’ultima volta. Diretto in California.

— Ma tu sei in California — disse l’uomo dalla barba nera. — Vai verso San Francisco.

— Forse. Non ne sono sicuro. Non ha molta importanza, vero?

— Fallo sloggiare da qui — si fece nuovamente sentire Stidge. Si era rimesso in piedi. — Che Dio ti maledica, Charley, caccia via quello svitato da ’sto posto, prima che io…

L’uomo dalla barba nera si girò. — Cristo, Stidge, ti stai cercando un sacco di guai. — Sollevò il braccio destro davanti al petto e lo drizzò. Al polso aveva un braccialetto al laser, con la luce gialla di «pronto» che ardeva. Stidge lo fissò stupefatto.

— Gesù, Charley!

— Rimani là seduto dove ti trovi, uomo.

— Gesù, è soltanto un matto!

— Bene, adesso è il mio svitato. Chiunque gli faccia del male si beccherà un po’ di luce solida attraverso lo stomaco. Chiaro, Stidge?

L’uomo dai capelli rossi rimase silenzioso.

Charley chiese, rivolto a Tom: — Hai fame?

— Ci puoi scommettere.

— Ti daremo qualcosa. Puoi restare con noi qualche giorno, se vuoi. Andremo verso Frisco, se mai riusciremo a far muovere questo furgone. — I suoi occhi cerchiati di nero scrutarono Tom con attenzione. — Hai niente addosso?

Tom batté incerto una mano sullo zaino. — Addosso?

— Armi. Coltello, pistola, lancia, braccialetto, qualunque cosa.

— No. Niente.

— E te ne vai disarmato in giro qua fuori? Stidge ha ragione, devi essere matto. — Charley puntò il dito verso l’uomo dal viso butterato e gli occhi azzurri. — Ehi, Buffalo, presta a Tom una lancia o qualcos’altro, mi hai sentito? Deve pur avere qualcosa.

Buffalo gli porse una sottile striscia di metallo lucido, con un manico a un’estremità, e una punta a forma di goccia dall’altra. — Sai come usare una lancia? — gli chiese. Tom si limitò a fissare l’oggetto. — Su, avanti — gli disse Buffalo. — Prendila.

— Non la voglio — rispose Tom. — Se qualcuno vuole farmi del male, penso che quello sia il suo problema, non il mio. Il povero Tom non fa del male alla gente. Il povero Tom non vuole nessuna lancia. Ma, grazie… grazie lo stesso.

Charley lo studiò in silenzio per un lungo istante. — Ne sei sicuro?

— Ne sono sicuro.

— D’accordo — replicò Charley, scuotendo la testa. — D’accordo, qualunque cosa tu dica.

— Mai visto uno più matto di lui, non è vero? — commentò il piccolo latino. — Noi gli diamo una lancia, lui sorride e dice no, grazie. È matto da legare. Proprio matto da legare.

— C’è matto e matto — ribatté Charley. — Forse lui sa quello che sta facendo. Giri con una lancia, ed è probabile che tu dia fastidio a qualcuno che ha una lancia più grossa della tua. Vai in giro senza, e forse ti lasceranno passare. Capito? — Charley sogghignò. Batté la mano sulla spalla ossuta di Tom, con forza, e strinse. — Sei il mio tipo d’uomo, Tom. Tu ed io, impareremo molto l’uno dall’altro, ci scommetto. Se a qualcuno qui salta in mente di toccarti, fammelo sapere, e io lo farò pentire.

Buffalo intervenne: — Vuoi finire con il furgone, adesso, Charley?

— Al diavolo il furgone. Fa troppo buio, ormai, per lavorare un altro paio d’ore. Facciamoci un po’ di mulo per cena, e al furgone potremo pensarci domattina. Sai come accendere un fuoco, Tom?

— Sicuro.

— Bene, allora. Accendine uno. Niente scoppi, però. Non vogliamo attirare l’attenzione su di noi.

Charley cominciò a indicare con le mani, mandando i suoi uomini in diverse direzioni. Era chiaro che si trattava dei suoi uomini. Stidge fu l’ultimo ad andare. Zoppicava tutto imbronciato. Si fermò un attimo a fissare Tom con aria feroce, come per dirgli che l’unica cosa che lo teneva in vita era la protezione di Charley, ma che Charley non sarebbe sempre stato là a proteggerlo. Tom non gli badò. Il mondo era pieno di uomini come Stidge. Finora Tom era riuscito a cavarsela abbastanza bene quando se li era trovati davanti.

Trovò un tratto spoglio in mezzo all’erba secca che pareva adatto ad accendere un fuoco e cominciò a sistemare i ramoscelli e altri pezzetti di legno. Lavorava già da dieci minuti e il fuoco stava prendendo bene, quando si rese conto che Charley era tornato ed era in piedi dietro di lui, intento ad osservarlo.

— Tom.

— Sì, Charley?

L’uomo dalla barba nera si accovacciò accanto a lui e buttò un paio di stecchi sul fuoco. — Buon lavoro — commentò. — Mi piace un fuoco ordinato, tutto ben allineato, così. — Si avvicinò un po’ di più a Tom e sbirciò a destra e a sinistra come per accertarsi che nessun altro fosse nelle vicinanze. — Ho sentito quello che hai detto quando hai avuto quell’attacco — proseguì Charley. La sua voce era bassa, poco più d’un bisbiglio. — A proposito del mondo verde. Del popolo di cristallo. Della loro pelle risplendente. I loro occhi come diamanti. Come hai detto che erano disposti, gli occhi?

— A file di tre, su ciascun lato della testa.

— Teste con quattro lati?

— Sì, quattro.

Charley rimase zitto per un po’, mettendosi ad attizzare il fuoco. Poi riprese, con voce ancora più bassa: — Ho sognato di un posto proprio come quello, all’incirca sei notti orsono. E poi di nuovo, la notte prima dell’ultima. Cielo verde, gente di cristallo, occhi come diamanti, in quattro file di tre sui lati della testa. L’ho visto come se fossi andato a uno spettacolo. E adesso arrivi tu e ti metti a parlare dello stesso posto, urlando come se fossi posseduto, ed è proprio lo stesso posto che ho visto io. Come diavolo è possibile, che noi due si sia avuto l’identico folle sogno? Su, dimmelo: come diavolo è possibile?

2

Il sole si trovava ancora a mezz’ora di distanza, sul lato opposto della Sierra Nevada, quando Elszabet si svegliò e uscì fuori sulla veranda della sua capanna, nuda, proprio come aveva dormito. La frescura di quel mattino d’estate l’avviluppò tutta. Una soffice coltre di nebbia si attardava ancora dalla notte precedente, avvolgendo fitta le cime delle sequoie e scendendo più rada fino all’altezza del suolo.

Bello, pensò Elszabet. Da ogni lato giungeva lo sgocciolio della condensazione, stille limpide e fresche che cadevano dagli altissimi rami colpendo con tonfi smorzati lo spesso, morbido ed elastico tappeto marrone che ricopriva il terreno. Le felci che a centinaia avvolgevano il fianco della collina davanti alla sua capanna, simili a tante spade, luccicavano come se qualcuno le avesse lucidate. Bello. Bello. Perfino le azzure ghiandaie, che lanciavano urla stridenti mentre cominciavano il loro giornaliero lavoro, parevano belle.

Una mattina assolutamente splendida. Qui non ce n’erano mai di altro genere, inverno o estate che fosse. Qui al centro di Nepenthe bisognava per forza che a qualcuno piacesse svegliarsi presto, la mattina, poiché tutto il lavoro richiesto per un proficuo utilizzo del mondamente veniva fatto prima di colazione. Ma questo andava benissimo. Elszabet non riusciva neppure a concepire di non svegliarsi all’alba, quando l’alba era un’alba come questa. E non c’era nessun motivo per non andare a coricarsi presto. Cosa c’era mai da fare alla sera, qua fuori, in questo luogo sperduto, centinaia di miglia a nord di San Francisco?

Toccò lo schermo del suo orologio, e il suo programma mattutino cominciò a scorrere in chiare, vivide lettere:


0600 Padre Christie. Capanna A

Ed Ferguson. Capanna B

Alleluia. Capanna C

0630 Nick Double Rainbow. Capanna C

Tomás Menendez. Capanna C

0700 …


Per prima cosa una doccia rapida e deliziosa, usando l’impianto esterno dietro la capanna. Poi s’infilò un paio di calzoncini corti e un reggipetto e si preparò una veloce colazione a base di sidro e formaggio. Non aveva senso perder tempo per andare fino alla mensa del personale di così buon mattino. Alle sei meno cinque Elszabet stava già salendo i gradini della Capanna A, facendoli a due per volta. Padre Christie era già là, stravaccato sulla seggiola del mondamente mentre Teddy Lansford si dava da fare intorno a lui per preparare l’apparecchio.

Padre Christie non aveva un bell’aspetto. L’aveva di rado a quell’ora del mattino. Questa mattina pareva ancora più scentrato del solito: pallido, con la mascella sudata, giallastro intorno ai bulbi oculari, e con un’aria un po’ intontita. Era un uomo basso e grassoccio, sui quarantacinque o giù di lì, con una grande massa di capelli grigiastri, riccioluti, e un volto floscio e implorante. Quest’oggi indossava il suo clergyman, che non riusciva mai a dare l’impressione di essere della sua misura. Il colletto era sudicio e la giacca nera tutta storta, come se l’avesse abbottonata male.

Ma quando lei entrò, prese a muoversi, ad agitarsi: una vivacità fasulla, un’allegria da palcoscenico. — Buongiorno, Elszabet. Sei uno spettacolo adorabile!

— Davvero? — Lei sorrise. Lui era sempre pieno di piccoli complimenti. Inoltre, cercava sempre di dare qualche sbirciatina alle sue cosce e al seno tutte le volte che pensava che lei non se ne accorgesse. — Hai dormito bene, Padre?

— Ho avuto delle notti migliori.

— Ma anche peggiori, vero?

— Anche peggiori, suppongo. — Le mani gli tremavano. Se non avesse saputo che era impossibile, Elszabet avrebbe pensato che aveva bevuto. Ma naturalmente non c’era la più piccola possibilità che questo accadesse. Non si beveva più, neppure di nascosto, quando si aveva un chip della coscienza piantato nell’esofago.

Lansford la chiamò dal quadro di comando: — Lo zucchero nel sangue è a posto, la respirazione, l’assimilazione dello iodio, tutto quadra. Le onde delta sono presenti, e stabilizzate. Tutto sembra a posto. Adesso infilo il modulo mondamente del Padre nella fessura, Elszabet.

— Aspetta un secondo. Che dati hai sull’umore?

— La solita leggera depressione, e… ehi, no, non è depressione, in realtà si tratta di agitazione. Che diavolo, Padre, lei dovrebbe essere depresso a quest’ora del mattino!

— Mi spiace — disse Padre Christie, mansueto. Gli angoli delle sue labbra si stavano contraendo. — Questo scombussola il programma che avete impostato per me?

Il tecnico scoppiò a ridere: — Questa macchina può compensare qualunque cosa. L’ha già fatto, anzi. Noi siamo pronti, se lo è anche lei. È pronto per la mondata, Padre?

— In qualunque momento — rispose lui, ma dal tono di voce non pareva affatto che fosse così.

— Elszabet? D’accordo.

— No, aspetta! — esclamò Elszabet, fermando Lansford. — Guarda quelle linee. Sul secondo schermo. Ha superato la soglia dell’ansietà. Prima voglio parlargli.

— Devo rimanere? — chiese il tecnico, senza mostrare troppa preoccupazione.

— Vai alla B e prepara il signor Ferguson, va bene? Dammi un paio di minuti da sola con il Padre.

— Certo — disse Lansford, e uscì.

Il sacerdote scrutò Elszabet, sollevando lo sguardo come uno scolaretto a disagio sul punto di venir redarguito da un insegnante dopo aver marinato la scuola. — Sto bene — dichiarò. — Sto bene, sul serio.

— Non credo che sia proprio così.

— No. No. None vero.

Con voce più dolce, lei chiese: — Cosa c’è, dunque, Padre?

— È difficile da spiegare.

— Ha paura del mondamente?

— No. Perché dovrei averne? Sono andato sotto il mondatore già molte volte prima d’oggi, no? — La guardò con improvvisa incertezza. — Non è così?

— Più di venti volte. Lei è qui da quattro mesi.

— È quello che pensavo. Aprile, maggio, giugno, luglio. Il mondatore non è niente di nuovo, per me. Perché dovrei averne paura?

— Per nessuna ragione. Il mondatore è uno strumento di guarigione. Lo sa?

— Sì.

— Ma le sue linee coprono tutto lo schermo. C’è qualcosa che l’ha fatta svegliare con la testa in subbuglio, stamattina, e deve trattarsi di qualcosa che è successo durante la notte, giusto? Poiché ieri i suoi dati andavano benissimo… cos’è stato, Padre? Un sogno?

Lui giocherellò nervosamente con le dita. Ogni momento che passava pareva peggiorare.

— Possiamo uscir fuori, Elszabet? Credo che un po’ d’aria fresca mi farebbe bene.

— Naturalmente. Stavo pensando la stessa cosa.

Elszabet lo condusse fuori sulla veranda posteriore del piccolo edificio di legno e lo fece rimanere immobile accanto a lei sollecitandolo a inspirare profondamente. La donna torreggiava sopra di lui, di almeno una testa e mezza più alta; ma d’altro canto torreggiava sopra moltissimi uomini. Tuttavia, quella differenza di altezza lo faceva sembrare ancor più un ragazzino confuso, anche se aveva dieci anni più di lei. Poteva percepire in lui il bisogno fisico, l’impulso inarticolato a toccarla, e la fortissima paura di farlo. Qualche istante dopo gli prese la mano nella propria. Rientrava nelle regole del Centro offrire al paziente qualche forma di conforto fisico.

— Elszabet — disse lui. — Che bellissimo nome. E strano, per di più. Quasi Elizabeth… ma non del tutto.

— Quasi ungherese — disse lei, — ma non del tutto. C’era un’attrice, un’ungherese, molto famosa ai laser verso la metà del ventunesimo secolo, Erzsebet Szabo. Mia madre era la sua più grande ammiratrice. Mi ha dato il suo nome… ma l’ha compitato sbagliato. — Elzsabet ridacchiò. — Mia madre non è mai stata un granché, quando si trattava di compitare i nomi. — Aveva raccontato la storia del suo nome a Padre Christie almeno una trentina di volte. Ma naturalmente, ogni mattina lui dimenticava tutto, quando il mondamente lo ripuliva dai ricordi a breve termine e da una quantità imprevedibile di quelli a lungo termine. Dopo un po’, aggiunse: — Cos’è che l’ha spaventata stanotte, Padre?

— Niente.

— Ma quest’oggi mi sembra un po’ ambivalente nei confronti del mondamente… incerto se sottoporvisi o no.

— Sì.

— Perché mai?

— Mi prometti che non lo aggiungerai ai miei dati?

— Non lo so — lei rispose. — Non sono sicura di poterlo promettere.

— Allora potrei non dirtelo.

— È tanto imbarazzante?

— Potrebbe esserlo, se venissero a saperlo all’arcidiocesi.

— Questioni di chiesa? Be’, posso essere discreta in proposito. Il suo vescovo non ha accesso ai dati del Centro, sa.

— È vero?

— Lei sa che lo è.

Lui annuì. Il suo volto riprese un po’ di colore. — Ecco, Elszabet. Il fatto è che questa notte ho avuto una visione, e non sono certo di volerla cedere al mondamente.

— Una visione?

— Una visione molto potente. Una visione meravigliosa e sorprendente.

— Il mondamente potrebbe portargliela via — annuì la donna. — È molto probabile che lo faccia.

— Sì.

— Ma se lei vuole guarire, Padre, deve affidarsi completamente al mondatore. Cedendo la roba buona insieme a quella cattiva. Più tardi lei potrà integrare il suo spirito ed essere libero dal mondatore. Ma per ora…

— Capisco. Ma anche così…

— Vuole parlarmi della visione?

Lui arrossì e si contorse.

— Non è obbligato a farlo. Ma se me la raccontasse, potrebbe essere di aiuto.

— D’accordo. D’accordo.

Rimase silenzioso. Ci stava pensando. Poi, con impeto disperato, farfugliò: — Elszabet, è che ho… ho visto Dio in paradiso!

Lei sorrise, cercando di mostrarsi sincera e non condiscendente. Con voce dolce, replicò: — Dev’essere stato meraviglioso, non è vero, Padre?

— Più di quanto non immagini. Più di quanto chiunque possa immaginare. — Aveva ripreso a tremare. Cominciò a piangere, e lunghe scie umide luccicarono sul suo viso. — Non capisci, Elszabet: io non ho fede. Non ho nessuna fede. Se mai l’ho avuta, mi ha lasciato molto tempo fa. Non è patetico? Non è una barzelletta? Il classico pagliaccio. Il prete che non crede. La chiesa è soltanto il mio lavoro, capisci? E non sono neppure molto bravo a farlo, ma adempio ai doveri della mia diocesi, faccio le mie visite, pratico la mia professione così come farebbe un avvocato o un contabile, io… — s’interruppe. — Comunque, che Dio sia venuto da me… non dal Papa, non dal cardinale, ma da me, da me che non ho fede…

— Com’era la visione? Me la può descrivere?

— Oh, sì. Posso raccontartela. È stata la cosa più vivida che si possa immaginare. C’era una luce purpurea nel cielo, come un velo… un velo luminoso appeso attraverso il cielo, e nove soli splendevano allo stesso tempo, come gioielli. Uno arancione, uno azzurro, uno giallo come il nostro, ogni genere di colore che s’intersecava e si mischiava. Le ombre erano fantastiche. Nove soli! E poi Lui è comparso. L’ho visto sul suo trono, Elszabet. Immenso. Maestoso. Il Signore dei Signori, chi altro avrebbe potuto essere, con nove soli che gli facevano da poggiapiedi! La Sua fronte… la Sua fronte… la luce, la grazia, l’amore sgorgavano a fiotti da essa. Più ancora: la santità, la forza divina. Ecco che cosa emanava: la sensazione di vedere un essere dalla saggezza e dalla potenza più eccelse che si potessero immaginare, un dio possente e terribile. Ti dico che era sopraffacente: sudavo a fiotti. Singhiozzavo, gemevo, pensavo che mi sarebbe venuto un colpo al cuore, era una cosa talmente mirabile…

Il sacerdote fece una pausa e le lanciò una rapida occhiata in tralice, furtiva, preoccupata. Poi, senza guardarla, aggiunse con voce bassa, angosciata e piena di vergogna: — C’è una cosa, però. Tu sai che dicono che siamo fatti a Sua immagine. Non è così. Non assomiglia per niente a noi. So che quello che ho visto era Dio: ne sono convinto, come sono convinto che Gesù è il mio Salvatore. Ma non assomiglia per niente a noi.

— A cosa assomiglia, allora?

— Non so neppure da che parte cominciare. È la parte che non oso condividere, neppure con te. Ma sembrava… non… umano. Splendido, magnifico, ma… non… umano.

Elszabet non aveva la minima idea di come avrebbe dovuto rispondere. Ancora una volta gli rivolse il suo sorriso professionale, caldo, incoraggiante.

Lui riprese: — Ho bisogno di conservare quella visione, Elszabet. È la cosa per la quale ho pregato tutta la mia vita. La presenza del divino che illumini il mio spirito. Come posso rinunciarci, adesso che l’ho provato?

— Lei ha bisogno di affidarsi al mondatore, Padre. Il mondatore la guarirà. Lei lo sa.

— Io lo so, sì. Ma la visione… quei nove soli…

— Forse rimarrà con lei anche dopo la mondata.

— E se così non fosse? — Si aggrondò. — Credo di volermi ritirare dalla cura.

— Sa che non è possibile.

— La visione…

— Se dovesse perderla, allora le sarà certamente concessa di nuovo. Se Dio si è rivelato a lei stanotte, crede davvero che dopo l’abbandonerà? Davvero lo crede? Tornerà. Ciò che si è aperto davanti a lei questa notte appena trascorsa, si aprirà di nuovo per lei. Quei nove soli… il Padre sul Suo Trono…

— Oh, lo pensi davvero, Elszabet?

— Ne sono sicura.

— Spero che tu abbia ragione.

— Si fidi di me — lei disse. — Si fidi di Dio, Padre.

— Sì.

— Su, adesso. Possiamo rientrare?

Il prete pareva trasfigurato. — Si, certo.

— Posso mandarle Lansford?

— Naturalmente. — Le lacrime gli colavano a rivoli lungo le guance. Non l’aveva mai visto animato in quel modo, cosi vivo e vigoroso.

Nella capanna B Lansford aveva predisposto il mondamente per Ed Ferguson, il quale pareva seccato per il ritardo. — Tu vai dal Padre — disse Elszabet a Lansford. — Mi occuperò io del signor Ferguson. — Il tecnico annuì. Ferguson, un uomo sui cinquant’anni dal volto gelido, il quale era stato condannato a causa d’una truffa enorme e assurda in campo immobiliare prima di venir mandato al Centro di Nepenthe, cominciò a parlarle d’un salto che voleva fare fino a Mendocino quel fine settimana per incontrare una donna che aveva sbaccellato fin lì da San Francisco per vederlo, ma Elszabet l’ascoltò soltanto con mezzo orecchio. La sua mente era piena della visione di Padre Christie. Com’era diventato radioso quel povero prete incapace e incompetente mentre le raccontava quella storia! Non c’era da meravigliarsi che stamattina temesse di mettersi sotto il mondamente, di perdere quel singolo frammento di grazia divina, per quanto bizzarro e ingarbugliato potesse essere, che gli era stato accordato.

Quando Elszabet ebbe terminato con Ferguson ed ebbe dato un’occhiata dentro la terza capanna, dove Alleluia, la donna sintetica, veniva curata, tornò in tutta fretta alla capanna A. Padre Christie era seduto ritto sul letto. Sorrideva in quella maniera amabile e confusa caratteristica di qualcuno la cui mente era stata appena svuotata di un esercito di ricordi. Donna, l’infermiera al recupero, incaricata del turno del mattino, era con lui, intenta a sottoporlo alle solite routine fondamentali di richiamo: accertarsi che conoscesse ancora il suo nome, l’anno, dove si trovava e perché. Il mondatore avrebbe dovuto eliminare soltanto i ricordi a breve termine, ma poteva raschiare più in profondità, a volte molto più in profondità. Elszabet annuì rivolta alla donna più giovane. — Va bene — disse. — Adesso me ne occupo io, grazie. — Era sorpresa dalla forza con cui le batteva il cuore. Quando Donna se ne fu andata, Elszabet si sedette accanto al prete e gli tastò quasi distrattamente il polso con la mano. — Bene, come va adesso, Padre? — gli chiese. — Ha un bell’aspetto rilassato.

— Oh, sì, Elizabeth. Molto rilassato.

— Elszabet — gli ricordò lei con dolcezza.

— Ah. Certo.

Elszabet si sporse di più verso di lui, che cercava di sbirciarle il davanti del reggipetto. Buon per lui, lei pensò. — Mi dica — azzardò. — Ha mai fatto un sogno nel quale ha visto nove soli nel cielo, tutti allo stesso tempo?

— Nove soli? — chiese lui, senza espressione. — Nove soli tutti insieme?

3

Quella mattina Jaspin lasciò in ritardo il suo appartamento a San Diego. Non era insolito per lui. Quando finalmente ebbe messo in moto, si lanciò lungo la superstrada fino allo svincolo di Chula Vista, girò verso l’entroterra, prese la deviazione della Otay Valley in direzione delle strade incontrollate della contea. Venti minuti più tardi, mentre attraversava un altopiano arido e arroventato, arrivò al blocco stradale messo su dai tumbondé.

Avevano sbarrato completamente la strada, il che era assolutamente illegale, ma era assai improbabile che qualcuno della contea di San Diego andasse a dire ai tumbondé cosa dovevano fare. Una barriera energetica attraversava l’autostrada da un lato all’altro, e sei o sette uomini dalla pelle color bronzo e l’aspetto cupo, i volti dagli ampi zigomi, erano in piedi dietro ad essa a braccia conserte. Indossavano costumi tumbondé, giacche d’argento, gambali neri, attillati, con fregi rossi, ampi sombrero neri, ciondoli a forma di mezzaluna appesi all’altezza del petto. Sembrava anche che portassero delle maschere, ma non era così: quelle erano semplicemente le loro facce, remote, impassibili. Nessuno di loro pareva minimamente interessato al gringo dalla pelle pallida a bordo di quella vecchia auto malandata. Ma Jaspin conosceva la routine. Si sporse fuori e disse: — Chungirà-Lui-Verrà, Lui-Verrà.

— Maguali-ga, Maguali-ga — rispose uno dei tumbondé.

— Senhor Papamacer insegna, Senhora Aglaibahi è nostra madre, Rei Ceupassear regna.

— Maguali-ga, Maguali-ga.

Finora se la stava cavando bene. — Chungirà-Lui-Verrà, Lui-Verrà — disse Jaspin una seconda volta.

— Il parcheggio è a due chilometri — disse in tono indifferente uno dei tumbondé. — Poi cammina cinquecento metri. Meglio che tu corra: la processione sta già per cominciare.

— Maguali-ga, Maguali-ga — disse Jaspin, mentre la barriera si spegneva. Passò davanti alle guardie impassibili e infilò la strada butterata e polverosa fino a quando non vide dei ragazzini che gl’indicavano il parcheggio con grandi sventolii di braccia. Lì c’erano almeno un migliaio di auto, per la maggior parte ancora più vecchie della sua. Trovò un cantuccio sotto una gigantesca quercia, lasciò là la macchina e si avviò di corsa lungo la strada. Malgrado non fosse ancora mezzogiorno, il calore era intenso. Pareva il calore dell’Arizona, senza la minima umidità, una vera e propria fornace. Cercò d’immaginare cosa si provasse a starsene lì fermi in calzoni neri e sombrero con quel calore sotto il sole di mezzogiorno.

Pochi minuti dopo vide la gente radunata in un caotico vorticare sopra un’altura appena fuori della strada. Erano migliaia, alcuni completamente vestiti da tumbondé, ma per la maggior parte, come lui, rivestiti da comuni abiti borghesi. Innalzavano stendardi, cartelli, piccole immagini di grandi personaggi. Da altoparlanti invisibili arrivava un tambureggiare sordo, lento e incessante. Il suolo tremava. Probabilmente l’avevano collegato, pensò Jaspin: noduli elettrostatici dappertutto, e chip pulsanti sincronizzati. I tumbondé potevano essere primitivi e primordiali, ma non sembravano sdegnare la tecnologia.

Jaspin trovò un posto ai margini della folla. Molto più avanti, verso la metà del fianco della collina, vide le colossali statue di cartapesta delle divinità che venivano trasportate su lunghe aste da uomini nerboruti coperti di sudore. Jaspin riconobbe ognuna di esse: quello era Prete Noir il Negus, l’altro era il serpente del tuono Narbail, l’altro ancora O Minotauro il Toro, quello era Rei Ceupassear. E quei due, i più grandi di tutti, erano davvero i più importanti: Chungirà-Lui-Verrà e Maguali-ga, gli dèi dello spazio profondo. Jaspin rabbrividì malgrado la vampa del calore. Per quanto sembrasse pazzesco, tutto quell’insieme irradiava un innegabile potere.

Una giovane esile, premuta contro le sue spalle dal resto della folla, si girò di scatto a fissarlo, e disse: — Mi scusi, lei è il dottor Jaspin, vero? Dell’UCLA?

Lui la guardò come se gli avesse morso il braccio. Era sui ventitré, ventiquattro anni, con i capelli biondi, stopposi, una camicetta bianca aperta fino alla cintura. I suoi occhi parevano leggermente vitrei. I marchi di Maguali-ga erano dipinti sui suoi piccoli seni in porpora e arancione. Jaspin non la riconobbe, ma ciò non significava nulla. Si era dimenticato di un mucchio di gente, negli ultimi anni.

Burbero, replicò: — Mi spiace. Persona sbagliata.

— Ero sicura che fosse lei. Ho seguito il suo corso nel novantanove. Mi era parso davvero profondo.

— Non so di cosa stia parlando — lui insisté, con un vacuo sorriso, e si allontanò, aprendosi la strada a gomitate tra la folla. Lei gli fece il segno di Rei Ceupassear, come una specie di benedizione. Il perdono. Vai a farti fottere tu e il tuo perdono, pensò Jaspin. Subito se ne dispiacque, ma continuò a farsi strada, scavando nella folla.

Quello era un brutto periodo nella vita di Jaspin. Per qualche ragione le cose avevano cominciato a sfasciarglisi intorno all’incirca lo stesso anno in cui la ragazza gli aveva detto di aver seguito i suoi corsi, e non era riuscito a capire il perché. Lui aveva trentaquattro anni. C’erano giorni in cui si sentiva tre volte più vecchio: giorni pesanti, che si trascinavano via a fatica, a volte per un mese di fila. L’università l’aveva messo alla porta, a ragione, agli inizi dello ’02. A quell’epoca non era ancora riuscito a cominciare la sua dissertazione: il dottorato che la ragazza bionda gli aveva attribuito esisteva solo nella sua immaginazione. Lui era stato soltanto un professore supplente alla facoltà di antropologia, e non si era reso conto di quale raro privilegio fosse stato a quell’epoca il fatto di avere un lavoro di tutto riposo in una delle poche università ancora rimaste. Se ne rendeva conto adesso, si. Ma adesso lui non era più niente.

— Maguali-ga! Maguali-ga! — stavano gridando da tutti i lati. Jaspin riprese il grido: — Maguali-ga! — Cominciò a muoversi, lasciandosi trascinare in avanti dalla folla, su, verso le enormi statue ondeggianti che sembravano tremolare, luccicanti, al calore. Erano ormai sei mesi che veniva alla processione dei tumbondé; quella era l’ottava alla quale partecipava. Non era interamente sicuro del perché veniva. Sapeva che in parte era dovuto alla curiosità professionale. Ad un certo livello considerava ancora se stesso un antropologo, e qui c’era l’antropologia allo stato crudo e selvaggio, dal vivo, questo apocalittico culto messianico di adoratori degli dèi stellari che era sorto nelle terre spoglie e desolate a est di San Diego. La specialità di Jaspin era stata l’irrazionalità contemporanea: aveva sperato di poter scrivere un libro ponderoso che avrebbe spiegato il mondo moderno a coloro che l’abitavano e dato un po’ di senso al manicomio che la brava gente dello scorso ventesimo secolo aveva lasciato in eredità ai propri discendenti. Tumbondé era la cosa più folle che ci fosse in giro al momento. Jaspin se ne era sentito irresistibilmente attratto, come se, infiltrandosi fra loro, analizzandone il comportamento e riferendo in proposito, avesse potuto in qualche modo riabilitare la sua infranta carriera accademica. Ma c’era molto di più nel fatto che si trovasse lì. Confessava a se stesso di provare una specie di fame, di vuoto spirituale, che sognava di poter placare in quel luogo.

Tuttavia, Dio solo sapeva come.

— Chungirà-Lui-Verrà! — urlò Jaspin, e si aprì a forza la strada tra la folla.

L’eccitazione tutt’intorno a lui era contagiosa. Poteva sentire il battito del polso che accelerava e la gola che gli diventava arida. La gente danzava dove si trovava, con i piedi radicati al suolo, le spalle che si torcevano, le braccia buttate di qua e di là. Vide di nuovo la ragazza bionda a una dozzina di metri di distanza, smarrita in una specie di trance. Maguali-ga, il dio del cancello, era venuto a raccogliere il suo spirito.

C’erano pochi anglo tra la folla. I tumbondé erano sorti dai rifugiati della comunità latino-africana che erano arrivati a frotte nell’area di San Diego dopo la Guerra della Polvere, e la maggior parte di quella gente aveva la pelle scura o completamente nera. Il culto era una sorta di stufato internazionale, un miscuglio di brasiliano e guineano con un sottofondo di haitiano, e naturalmente aveva assunto anche una colorazione messicana. Non era possibile avere un qualunque tipo di culto apocalittico in attività così vicino al confine senza che acquisisse in fretta e furia una sottile colorazione azteca. Ma era di natura più estatica, rispetto alla solita varietà messicana… meno morte e più trasfigurazione.

— Maguali-ga! — rombò una voce tremenda. — Prendimi, Maguali-ga!

Con suo vivissimo stupore, Jaspin si rese conto che la voce era la sua.

D’accordo. D’accordo. Lasciati andare, si disse. D’un tratto provò un gran freddo, nonostante il terrificante calore. Lasciati andare. Sicuro, un bravo ragazzo ebreo di Brentwood, che si mette a saltellare insieme ai pagani shvartzers sul fianco ribollente d’una collina nel mezzo del mese di luglio… be’, perché no, poi? Lasciati andare, ragazzo.

Era abbastanza vicino, adesso, da vedere i capi della processione che si elevavano in maniera impressionante sopra il resto della folla, sulle loro massicce calzature simili a trampoli: c’erano Senhor Papamacer, con la Senhora Aglaibahi al suo fianco, e tutt’intorno a loro c’erano gli undici membri del Nucleo Interno. Una specie di alone di luce solare dorata tremolava tutt’intorno a questi tredici. Jaspin si chiese come realizzassero quel trucco, poiché di un trucco doveva sicuramente trattarsi. Loro dicevano di essere semplicemente dei magneti capaci di attirare l’energia cosmica.

— La forza proviene dalle sette galassie — aveva dichiarato all’inviato del Times il Senhor Papamacer. — È la grande luce che porta l’energia della salvezza. Un tempo ha brillato sull’Egitto e poi sul Tibet, e poi sul luogo degli dèi nello Yucatan. Ed è stata a Gerusalemme e nei sacri templi delle Ande, e adesso si trova qui, il sesto dei Sette Luoghi. Ben presto si trasferirà al Settimo Luogo che è il Polo Nord, quando Maguali-ga aprirà il cancello e Chungirà-Lui-Verrà irromperà nel nostro mondo, portando la ricchezza delle stelle a coloro che lo amano. E quello sarà il momento della fine che sarà il nuovo inizio. — Quel tempo, aveva aggiunto il Senhor Papamacer, non è molto lontano.

Jaspin sentì il belato delle capre impastoiate sopra ogni altro suono. Sentì il muggito basso e lamentoso del bianco toro sacrificale che, come lui sapeva, si trovava nella baracca in cima alla collina.

Adesso vide i danzatori mascherati che si aprivano la strada in mezzo alla folla. Erano sette e rappresentavano le sette galassie benevole. I loro volti erano nascosti da luccicanti scudi metallici e i loro corpi, nudi, erano coperti di ornamenti a forma di soli, lune e pianeti. Sulle loro teste c’erano rosse cupole metalliche lucide come specchi, dalle quali accecanti raggi di luce solare riflessa rimbalzavano come lance. Impugnavano sonagli di zucca e castagnette, e cantavano con furia veemente:

Venha Maguali-ga

Maguali-ga: venha!

Una invocazione. Si accodò a loro cantando, agitando le braccia tutt’intorno. Alla sua sinistra una donna grassoccia vestita di verde ripeteva ininterrottamente in spagnolo: — Perdona i nostri peccati, perdona i nostri peccati — e sul lato opposto un negro dall’aspetto coriaceo, nudo fino alla cintola, stava borbottando in un francese dal forte accento: — Il sole si alza ad est, il sole cala in Guinea, il sole si alza ad est, il sole cala in Guinea. — Adesso i tamburi battevano più forte e con maggior velocità. Su per la collina. Su. Da qualche parte gli animali stavano strillando per il terrore e il dolore: i sacrifici cominciavano.

Jaspin si trovò in piedi sul ciglio di un’immensa fossa. Era piena fino all’orlo d’uno stupefacente assortimento di oggetti: gioielli, monete, bambole, cubi-passatempo, fotografie di famiglie, indumenti, giocattoli, componenti elettroniche, armi, utensili, pacchi di cibarie. Lui sapeva cosa doveva fare: quello era il Pozzo dei Sacrifici, bisognava sbarazzarsi di qualcosa che ci fosse prezioso, riconoscendo cosi che non ci sarebbe più stato bisogno di quegli oggetti, una volta che gli dèi fossero giunti dalle stelle portando incalcolabili ricchezze a tutti i popoli sofferenti della Terra. Bisognava fare un dono alla Terra, diceva il Senhor Papamacer, se si desiderava che la Terra attirasse i doni dalle stelle. Non aveva importanza, se quello che si gettava nella fossa non era generalmente considerato prezioso: doveva essere prezioso per noi. Jaspin aveva un’offerta pronta: il suo orologio da polso, probabilmente l’ultima cosa di valore, salvo i suoi libri, che non aveva ancora impegnato, un IBM ultrapiatto, con nove differenti funzioni.

Questa è vera pazzia, pensò.

— Per Chungirà-Lui-Verrà — disse, e scagliò l’orologio luccicante lontano, in mezzo alla fossa piena zeppa.

Poi venne spinto oltre, in alto, verso il luogo della comunione. Lassù scorreva il sangue delle capre e delle pecore; non avevano ancora sacrificato il toro. Jaspin, tremante e scosso da brividi, si trovò faccia a faccia con la Senhora Aglaibahi, la vergine madre, la dea della Terra. Pareva alta all’incirca tre metri; i suoi capelli neri erano spolverati di porporina argentea, i suoi occhi si stagliavano contro un fiammeggiante sfondo scarlatto, le sue pesanti mammelle nude dai capezzoli scuri luccicavano dei marchi di Maguali-ga. Gli toccò il braccio con la punta del dito e lui avvertì una piccola puntura, come se gli avesse conficcato un ago nella pelle o l’avesse toccato con un traumatizzatore. Jaspin passò oltre, barcollando, scivolando davanti alla figura ancora più gigantesca del Senhor Papamacer, davanti alle figure di cartapesta degli dèi Narbail e Prete Noir e O Minotauro e il vagabondo delle stelle Rei Ceupassear, e più oltre ancora intorno a un luogo spoglio e carbonizzato che era sacro a Chungirà-Lui-Verrà e a Maguali-ga.

Giunto sul lato opposto, cominciò a provare una crescente sensazione di vertigine e a perdere conoscenza. Il calore, pensò, l’eccitazione, la folla, l’isterismo. Barcollò, quasi cadde, lottò per tenersi in piedi, temendo che sarebbe stato calpestato se si fosse lasciato cader giù. Trovò un albero alla sommità della collina e vi si tenne aggrappato a mano a mano che a ondate successive quella stupefacente sensazione di vertigine lo sopraffaceva. Gli parve di staccarsi dal terreno… come se una colossale forza centrifuga lo stesse scagliando verso le più remote distese dell’universo.

Mentre s’innalzava nello spazio vide Chungirà-Lui-Verrà.

Il dio del cancello era una grande e bizzarra figura dorata con grandi corna ricurve di ariete, l’essere più strano che Jaspin avesse mai visto. Emergeva da un blocco di puro, lucido alabastro che lo rivestiva fino alla cintura. Sopra la sua spalla sinistra c’era un immenso sole rosso cupo che riempiva una buona metà del cielo purpureo. Pareva inturgidirsi e pulsare, gonfiandosi come un enorme pallone. C’era un secondo sole sopra la spalla destra del dio, un sole azzurro, che fluttuava con improvvise, violente esplosioni di luce. Fra i due soli scorreva un ponte di vivida materia ardente, come un arco fiammeggiante nel cielo.

— Il mio tempo arriverà presto — disse Chungirà-Lui-Verrà. — Tu accederai al mio abbraccio, figlio. E tutto andrà bene.

Poi la figura svanì. La stella rossa e quella azzurra non erano più visibili. Jaspin strinse l’aria ma fu incapace di riportare indietro ciò che aveva appena contemplato. Quel mirabile momento si era concluso.

Cominciò a tremare. Mai prima di allora aveva provato, neppure lontanamente, qualcosa di simile. Si sentiva stordito: era devastante, non riusciva a muoversi, non riusciva a respirare. Per un attimo, era stato toccato da un dio. Non c’era nessuna spiegazione, e non ne avrebbe cercata una. Sì, stavolta era penetrato dentro qualcosa che superava ogni sua comprensione, qualcosa che era così enormemente più grande di Barry Jaspin, che lui avrebbe potuto smarrirsi completamente là dentro.

Cristo buono, pensò, possibile che ci siano davvero degli esseri spaziali titanici, là fuori… possibile che i tumbondé abbiano un canale di comunicazione attraverso metà dell’universo fino a dio sa dove, e che queste creature sorveglino il nostro mondo da un fantastilione di anni-luce di distanza… che intendano venire da noi per governarci e cambiare la nostra vita? Deve trattarsi soltanto di un’allucinazione, vero? Il calore, la folla, e forse una droga che la Senhora mi ha iniettato…

Aprì gli occhi. Giaceva sotto un albero, e l’esile ragazza bionda era china su di lui. La sua camicetta era ancora aperta, ma i marchi di Maguali-ga sui suoi seni erano imbrattati e confusi, e la sua pelle luccicava per il sudore.

— L’ho vista svenire — disse la ragazza. — Temevo che si facesse male. Posso aiutarla ad alzarsi? Ha un aspetto così strano, dottor Jaspin!

Non si preoccupò più di negare d’essere Jaspin. Con una voce soffocata dal timore reverenziale, disse: — Non riesco a crederci. Non riesco assolutamente a crederci. Ma l’ho visto. Avrei potuto allungare la mano e toccarlo. Non che avrei mai osato farlo.

— Visto chi, dottor Jaspin?

— Lei non l’ha visto. Non ha visto lui?

— Vuole dire il Senhor Papamacer?

— Voglio dire Chungirà-Lui-Verrà — ribatté Jaspin. — Il quale mi guardava da un pianeta di qualche altra galassia. Cristo onnipotente: era proprio vero! Non ne ho mai dubitato. — Si sentiva avvolto da un’aura sovrannaturale, si sentiva esaltare da quel tocco divino. Sapeva che una parte di lui era Chungirà-Lui-Verrà, e lo sarebbe stata per sempre. Ma dopo un altro istante tutto cominciò a sfuggirgli e a sfumare; un altro istante ancora, e lui non era nient’altro che il solito Barry Jaspin, disgraziato e fallito, il quale giaceva sudato ed esausto sul torrido fianco di una collina con migliaia di altre persone che urlavano e cantavano e svenivano tutt’intorno a lui, e animali spaventati che belavano, e i tamburi che scuotevano il suolo come se si fosse ai nove virgola cinque gradi Richter. Si rizzò a sedere, guardò la ragazza bionda e vide la meraviglia e il timore riflessi sulla sua faccia. Era come se anch’essa avesse visto Chungirà-Lui-Verrà nei suoi occhi, durante quel brevissimo istante prima che la sua estasi sfumasse. E senza nessun preavviso, la più terribile tristezza che avesse mai conosciuto lo sopraffece, e cominciò a piangere: lacrime aride e laceranti e singhiozzi incontrollabili.

4

Quand’ebbero finito di lavorare su di lui, laggiù nella capanna B, Ferguson s’incamminò lentamente su per la collina verso il dormitorio, provando una sensazione di mal di mare e una grande leggerezza in testa. Era la stessa sensazione del dopo che provava ogni mattina a quell’ora. Sapeva che era la stessa ogni mattina poiché il registratore muscolare che portava illegalmente sotto il sigillo del suo anello glielo diceva. Ricordava le cose per lui. Batté due volte l’anello, e il registratore gli disse: — Ti senti merdoso e disorientato in questo momento perché hanno appena mondato la tua mente. Non preoccuparti. Queste merdate non possono buttarti giù, ragazzo. — Aveva programmato quel messaggio proprio all’inizio: il registratore glielo comunicava tutte le mattine come prima cosa dopo la mondata.

Brandelli di nebbia andavano alla deriva in mezzo agli alberi. Ogni cosa sembrava umida e luccicante. Santo Gesù, se questo è luglio… pensò. Pare di essere in febbraio. Non sarebbe mai riuscito ad abituarsi alla California settentrionale. Sentiva la mancanza del calore di Los Angeles, del suo clima secco, della sua nebbia, perfino. Los Angeles era stata così quando l’avevano abitata soltanto gli indiani, forse perfino quando ci avevano scorrazzato i dinosauri. Sarebbe stata così per sempre.

Ferguson toccò di nuovo l’anello, e la voce del registratore disse: — Lacy verrà su da San Francisco questo fine settimana. Alloggerà a Mendo e spera che tu riesca a ottenere il permesso di visitarla il sabato e la domenica. Telefonale subito dopo colazione. Il numero è…

Corrugò la fronte e batté altre due volte sull’anello, attingendo da una memoria più profonda: — Informami su Lacy — disse.

Il registratore disse: — Lacy Meyers vive a San Francisco, capelli rossi, zigomi alti, trentun anni, nubile, l’hai incontrata nel gennaio dello zerodue, ha lavorato con te nell’affare di Betelgeuse Cinque. Può venire soltanto se la situazione è favorevole. Compleanno il dieci marzo. Indirizzo di casa e telefono…

— Grazie — lui disse. Vivere con il mondatore era come scrivere la propria autobiografia sull’acqua. Ma non aveva in progetto di vivere in quel modo per sempre.

Raggiunse il dormitorio in fondo al lungo corridoio vivamente illuminato, la terza stanza sulla sinistra che, stando a quanto gli aveva detto l’attendente che oggi l’aveva assistito nella routine, condivideva con due compagni, un indiano che sì faceva chiamare Nick Doppio Arcobaleno, e un messicano di nome Tomás Menendez. Nessuno dei due pareva trovarsi lì in quel momento. Probabilmente erano fuori a farsi mondare, nel secondo turno. Su un letto c’era un mucchio di cubi; ne raccolse uno, lo premette, e questo gli disse qualcosa in spagnolo. Okay. Quello era facile. Sul letto opposto era distesa una coperta d’un rosso vivace con un disegno a linee intrecciate. Roba indiana, arguì. Per eliminazione, rimane il letto laggiù: dev’essere il mio.

Dio, quanto odio questa merda, pensò. Ricominciare ogni giorno come un neonato.

La cosa che non aveva dimenticato era il motivo per cui si trovava là. O là o al Riab Due, e al Riab Due erano parecchio più drastici. Quando si usciva da lì, si era qualcun altro, mite e pacifico, adatto soltanto a potare le rose. Avevano appunto avuto l’intenzione di mandarlo là, dopo la sua condanna per quella truffa spaziale, ma lui era impazzito (o aveva finto di farlo: non ne era più tanto sicuro) e così il suo avvocato era riuscito a fargli avere un anno al Nepenthe. — Quest’uomo non è un criminale — aveva sostenuto il suo avvocato. — È una vittima come chiunque altro. — Era vero. Ferguson non lo sapeva più. Forse era davvero a causa di quella faccenda mentale, quella… sindrome di Gelbard. Oppure si era trattato soltanto di una truffa? Qualunque cosa fosse stata, qui lo stavano curando per fargliela passare. Sicuro.

Si spinse fuori dal letto e schiacciò col pollice la piastra ad impronta digitale del telefono. — Linea esterna — disse.

La voce del computer rispose: — Ho un messaggio per lei. Lo vuole, signor Ferguson?

— Sì. Certo.

— È di sua moglie. A proposito della sua visita, in programma per martedì prossimo. Arriverà invece stamattina alle dieci e trenta.

— San Gesù in croce! — esclamò Ferguson. — Stai scherzando… Oggi? Che giorno è oggi?

— Venerdì 21 luglio 2103.

— E quanto tempo ha in mente di rimanere?

— Fino alle 15,00 di domenica.

Ecco che se ne andava di sicuro in fumo il fine settimana con Lacy. Figlia di puttana. Perfino lì, in quel posto, dove lui lavorava sodo per mantenere tutto il più possibile nel giusto modo… e Dio sapeva quant’era difficile, dannatamente impossibile, quando non si riusciva a ricordare niente da un giorno all’altro e sembrava che niente conservasse mai lo stesso posto. Figlia di puttana. Veniva per il suo incontro coniugale con quattro giorni di anticipo! Furibondo, replicò: — Ne sei sicuro? La dottoressa Lewis ha autorizzato il cambio della data? Dev’esserci un equivoco.

— Il numero dell’autorizzazione è…

— Lascia perdere. Qui c’è un grosso equivoco. Ho un permesso di libera uscita per sabato. Hai i dati della mia richiesta di un permesso di libera uscita per questo fine settimana, no?

— Mi spiace, signor Ferguson: non c’è niente del genere…

— Controlla di nuovo.

— Non c’è nessuna registrazione relativa ad una richiesta di permesso di libera uscita.

— Dev’esserci. C’è stato senz’altro un errore. — Prova un po’ a metterti a discutere con un computer… pensò Ferguson, scoraggiato. — So di aver fatto la domanda. Continua a cercare. E, ascolta, passami subito Elszabet Lewis. Anche lei sa che ho fatto la domanda.

— La dottoressa Lewis è con un cliente, signor Ferguson.

— Allora dille che voglio parlare con lei, subito, non appena avrà finito. — Batté sullo sconnettore, poi si portò entrambe le mani al viso premendole con forza. Riuscì a tirare due o tre profondi respiri. Poi il telefono fece blip. Il computer gli stava parlando di nuovo.

— Vuole ancora quella linea esterna, signor Ferguson?

— No. Sì. Sì, sì, certo. — Quando sentì il segnale della centrale, batté i tasti per formare il numero di Lacy a San Francisco. Le sette e quindici del mattino: l’avrebbe già trovata alzata? Quattro squilli. Hai dormito da qualche altra parte stanotte, ragazzina? Non ne sarebbe rimasto sorpreso. Poi si chiese perché mai lo sospettasse. Da quello che riusciva a ricordare, lei viveva come una monaca. Forse il mondatore non è così capillare come pensi, si disse.

Al quinto squillo, gli rispose. Aveva una voce vaga e impastata.

— Sì?

— Sono Ed, bimba.

— Ed? Ed. - Si ridestò in un lampo. — Oh, dolcezza, come stai? Ti ho pensato tanto…

— Ascolta, c’è un guaio.

— Un guaio?

— Su questo fine settimana.

— Sì? — D’un tratto molto gelida, molto remota.

— Non mi daranno il permesso. Dicono che ho avuto una ricaduta, che devo entrare nel serbatoio per un’altra risciacquata.

— Ho già prenotato, tesoro. È tutto pronto!

— Il prossimo fine settimana?

Lei rimase silenziosa per un po’. — Non sono sicura di poterlo fare… il prossimo fine settimana.

— Oh.

— Anche se non puoi uscire, non potrei venire io da te? Hai detto che c’è una casa per le visite coniugali, no? E…

— Tu non sei coniugale, Lacy.

Aveva detto la cosa sbagliata. Poté sentire il gelo da sottozero uscire dal ricevitore del telefono.

Si affrettò ad aggiungere: — Comunque, non è questo il punto. Resterò nel serbatoio durante tutto il fine settimana. Quando avranno finito con me, non saprò distinguere il gomito dal culo. E non posso avere visitatori.

— Mi spiace, Ed.

— Anche a me. Non sai quanto mi spiace.

Un altro silenzio. Poi: — Come te la cavi, comunque?

— Sto bene. Non permetterò che questi bastardi mi mettano i piedi sul collo.

— Ti ricordi ancora di me?

— Lo sai, bambina. Vedo splendere quei tuoi capelli rossi. Ti vedo seduta là, sopra di me, che stai per farmi alla grande.

— Oh, tesoro…

— Ti amo, Lacy.

— Ti amo anch’io. Senti la mia mancanza, Ed? Davvero?

— Tu lo sai quanto.

— È davvero una merda questo fine settimana che se ne va in fumo. Tu ed io che passeggiamo lungo la spiaggia, a Mendo…

— Non rendermelo più difficile — l’interruppe lui. — Sai che lo farei, se potessi.

— Avevo anch’io tante cose da dirti.

— Per esempio?

— C’è una cosa curiosa sul nostro progetto spaziale… te lo ricordi?

— Certo che lo ricordo — disse lui.

Ma doveva esserci stato un percettibile sussulto nella sua voce, poiché lei proseguì: — Voglio dire, quello… quando abbiamo cercato di vendere viaggi mentali fino a Betelgeuse Cinque. Sì, quello. L’altro giorno mi sono sognata di averne fatto uno. Un viaggio mentale. Di essere davvero andata fino a un’altra stella, sai.

Lui ribatté: — Non puoi cominciare a credere alle tue stesse truffe, bambina.

— Era la cosa più vera che si potesse immaginare. C’era un sole rosso nel cielo, e uno azzurro. E ho visto una grande creatura dorata con le corna su un blocco di pietra bianca, una specie di mostro spaziale, e si sporgeva verso di me, pareva chiamarmi. Era come un gigante. Era quasi come un dio. E nel cielo…

— Ascolta, bambina. Questa telefonata mi sta costando una fortuna.

— Lascia soltanto che ti racconti. Non era un sogno comune. Sì, era come… vero, Ed. Ho visto gli alberi di quel pianeta, ho visto perfino gli insetti, e non erano come i nostri alberi e i nostri insetti, e… ma la cosa più divertente era che… insomma, era proprio il genere di frottola che noi cercavamo di vendere alla gente, quella per cui ti hanno messo dentro, e…

— Lacy, ehi! Mi stanno chiamando perché vada alla seduta terapeutica.

— Sì? Va bene.

— Ti vedrò il prossimo fine settimana? Allora potrò ascoltare tutto il resto della storia.

— Non sono sicura di farcela, il prossimo fine settimana. Ti ho detto, non sembra molto favorevole.

— Tenta, Lacy. Sento maledettamente troppo la tua mancanza.

— Già, Ed. Anch’io.

Non sembrava molto convincente quanto lei sentisse la sua mancanza. La puttana, pensò. Sentì crescere la rabbia dentro di sé. Se fosse stata a portata di mano, l’avrebbe schiaffeggiata. E poi si rese conto che niente di tutto questo era colpa sua, che il suo arrivo era in realtà previsto per l’indomani, che era stata sua moglie a scombussolare le cose. Non poteva aspettarsi che Lacy rimanesse in frigorifero indefinitamente, settimana dopo settimana. In fretta fece uno degli esercizi contro la rabbia che la dottoressa Lewis gli aveva insegnato.

Disse con tutta la tenerezza di cui era capace: — Ti amo, Lacy. Vorrei tanto poterti vedere domani. Lo sai.

Staccò. Poi toccò il proprio anello. — Informazioni su mia moglie — disse.

La voce registrata: — Moglie: Mariela Johnston. Compleanno sette agosto. Avrà trentatré anni questa estate. L’hai sposata a Honolulu il quattro luglio 2098. È roba bollente ma non riesci più a sopportarla. Il tuo avvocato sta controllando per vedere se ci sono motivi per un annullamento.

Bene, pensò. Ma era ovvio che non era ancora successo niente in proposito. Ed ecco che lei stava arrivando per il suo incontro coniugale, spazzando via il fine settimana di Lacy, Merda. Merda. Fa la scena per avere la sua fetta di proprietà in comune, ci scommetterei la testa. La brava mogliettina che viene per un incontro coniugale.

Qualcuno bussò alla porta.

— Chi è? — esclamò Ferguson.

— Alleluia — rispose la voce femminile più musicale che avesse mai udito.

Qualcosa si agitò nei suoi banchi di memoria confusi e mutilati, ma non riuscì ad afferrarlo. Toccò il suo anello e chiese: — Informazioni su Alleluia.

— Paziente anche lei del Centro di Nepenthe. Donna sintetica, corpo formidabile, soffre di forti turbe mentali. Te la sei fottuta per tutta l’estate, di tanto in tanto.

Ferguson fissò l’anello, incredulo. Fottere una sintetica? Devi esserti trovato terribilmente a secco, ragazzo mio… Ma se il registratore diceva questo, doveva essere stato proprio così.

— Entra pure — disse.

Quando la vide, cominciò a credere a ciò che l’anello gli aveva detto. Sintetica o no, poteva facilmente immaginare di poter andare a letto con lei. Aveva presenza. Poteva passare per vera. Per giunta, era bella al di là di ogni plausibilità, come lo erano di solito i sintetici. Petto da stella del laser, gambe lunghissime, pelle color crema, capelli che le ricadevano all’indietro, volto perfetto. Indossava qualcosa di sottile e luccicante, con i capezzoli che si vedevano in trasparenza. Con la luce del corridoio che l’illuminava da dietro, vide con uguale chiarezza il nero triangolo del pube. Non aveva mai veramente capito perché si dessero tanto da fare per mettere il pelo pubico nelle imitazioni delle persone, a meno che non fosse per impedire che venissero riconosciuti troppo facilmente per ciò che erano; ma li si riconosceva lo stesso, siccome avevano un aspetto migliore di quello che qualunque persona naturale avrebbe mai potuto sperare di avere.

Planò dentro la stanza e chiese: — Ti senti bene?

— Perché? Ho l’aria di qualcuno che non sta bene?

— Estremamente teso. Irrequieto, nervoso, irritato. Forse questo è il tuo aspetto di sempre, ma non sembri affatto rilassato.

— Irritato? Merda, si, sono irritato. Ci sono state complicazioni — spiegò lui. — La persona sbagliata nel posto sbagliato nel momento sbagliato, e la cosa non mi piace affatto. Mi ha scombussolato parecchio, anzi. — Scosse la testa. — Diavolo, non è questo il modo di cominciare una conversazione, vero? Ora ci riprovo. Ciao, eccoti qua, Alleluia. Allie.

Alleluia sorrise. — Be’, mi dispiace. Ciao. Sei Ed Ferguson, non è vero?

— Ci puoi scommettere il tuo bel culetto che lo sono.

— Ho trovato un biglietto sotto il mio cuscino. Diceva che dovevo presentarmi da te per prima cosa dopo la mondata. Credo di farlo tutte le mattine, non è così?

— Sì — disse lui, anche se non lo ricordava più di quanto lo ricordasse lei. Si alzò, si avvicinò ad Alleluia e l’attirò a sé. Si baciarono, e lui le fece scivolare la mano sopra il seno. Al tatto sembrava il seno che, lui immaginava, avrebbe dovuto avere una quattordicenne, duro come plastica ma più caldo. — Sì, lo facciamo ogni mattina. Impariamo di nuovo a conoscerci. Alleluia, Ed. Ed, Alleluia. Molto compiaciuto di fare la tua conoscenza. Capito? È il sistema.

— Vale quasi la pena di dover subire il mondatore — disse lei. — Imparare di nuovo a conoscerci. Ogni volta è come la prima volta, non è vero? — Scoppiò a ridere e si accoccolò contro il suo petto. — Andiamo a fare una passeggiata nel bosco questo pomeriggio, vuoi? I tuoi compagni di stanza saranno di ritorno tra poco.

— Questo pomeriggio non posso venire, Allie.

— Non puoi?

— L’irritante complicazione di cui ti ho parlato poco fa. Ho una visita alle dieci e trenta. Mia moglie. Viene per una visita coniugale.

Lei si staccò da lui e arretrò. Aveva un’espressione addolorata. — Non sapevo che tu avessi una moglie, Ed.

— Neppure io, finché il computer alle comunicazioni non me l’ha ricordato. Avrebbe dovuto arrivare martedì, ma invece, per qualche ragione, arriverà quest’oggi. Perciò, niente bosco, cuor mio.

— Abbiamo ancora tre ore.

— Si presume che una visita coniugale sia coniugale — ribadì Ferguson. — Capisci? Se potessi, lo farei, lo sai, ma oggi non sono proprio libero. Va bene. Se ne andrà domenica pomeriggio, e poi potremo giocare. D’accordo?

Vide la rabbia nei suoi occhi, ed ebbe paura. La rabbia delle donne gli faceva sempre paura; ma la rabbia di Alleluia era speciale perfino fra quelle donne, perché lei era speciale. Lui sapeva che, se avesse voluto, Alleluia avrebbe potuto strappargli le braccia e le gambe come si faceva con le ali di una mosca. I sintetici erano sorprendentemente forti. E quella era una persona sintetica che soffriva di turbe emotive, e si parava fra lui e la porta. Lanciò un’occhiata al telefono, chiedendosi se sarebbe riuscito a schiacciare il pollice sulla piastra abbastanza in fretta da riuscire a chiamare aiuto prima che lei gli saltasse addosso.

Ma Alleluia non gli saltò addosso. Eseguì qualche esercizio interiore (vide muoversi i muscoli delle sue guance) e si calmò. — E va bene — disse infine. — Dopo che se ne sarà andata. Tua moglie.

— Sai che preferirei giocare con te.

La donna artificiale annuì in modo astratto. Parve andare alla deriva verso qualche remota contrada visibile soltanto ai suoi occhi.

Stai bene? — lui le chiese.

Con calma, lei rispose: — Non ne sono sicura. C’è qualcosa che mi sta turbando, ed è successo di nuovo stanotte.

— Raccontami.

— Non ridere. Ho avuto degli strani sogni, Ed.

— Sogni?

Lei esitò. — Credo di vedere altri mondi. Un tutto verde, con un cielo verde e nuvole verdi, e la gente dà l’impressione di essere fatta di vetro. Tu… hai mai fatto sogni del genere?

— Non ricordo nessuno dei miei sogni — rispose Ferguson, con calma. — Me li mondano come prima cosa tutte le mattine. Hai sognato di un altro mondo, non è vero? Come mai te ne ricordi, se sei stata mondata questa mattina?

— Ne ricordo un paio… Il mondo verde è uno dei due. I miei sogni sembrano rimanere con me, sai. Suppongo che sia dovuto al fatto che sono sintetica. Forse il mondatore non funziona bene con me. E c’è un altro mondo che ho visto una o due volte, con due soli in cielo.

Ferguson trattenne di colpo il fiato.

Lei proseguì: — Uno è rosso, e l’altro…

— … è azzurro.

— Azzurro, sì! — esclamò Alleluia. — L’hai visto anche tu?

Ferguson sentì dei brividi freddi che cominciavano a corrergli giù per la schiena. È pazzesco, pensò. — E c’era una grande creatura dorata con le corna, sopra un blocco di pietra bianca.

— L’hai visto! L’hai visto!

— Gesù Cristo in croce! — disse Ferguson.

5

Era il terzo giorno da quando Charley era riuscito a rimettere in moto il furgone ad effetto-suolo. Adesso erano scesi dalle colline e si erano inoltrati sull’opprimente lato orientale della valle di San Joaquin. Finora tutto bene, pensò Tom. Forse gli avrebbero permesso di viaggiare con loro per tutta la strada fino a San Francisco.

— Guarda questo posto merdoso abbandonato da Dio — disse Charley. — Mio nonno era di queste parti. Era un uomo dannatamente ricco, mio nonno. Cotone, mais, frumento e non so che altro. Aveva ottanta uomini che lavoravano per lui, sai.

Era difficile credere che quello fosse stato un paese agricolo soltanto trenta o quarant’anni prima. Certamente nessuno coltivava più molto, da quelle parti. Il terreno cominciava a ridiventare desertico, come lo era stato quattrocento anni prima, quando ancora i canali d’irrigazione non erano stati scavati. Sotto il calore dell’estate tutto imbruniva, si contorceva e moriva.

— Cos’è quella città laggiù? — chiese Buffalo.

— Non credo proprio che qualcuno se lo ricordi — rispose Charley.

— È Fresno — disse l’uomo chiamato Tamale, che traboccava d’informazioni, tutte sbagliate.

— Merda — ribatté Charley. — Fresno è molto più a sud, non lo sai? E non dirmi neppure che è Sacramento… Sacramento è giù di là. Comunque, quelle sono città. E quello invece è soltanto un grosso centro, e nessuno se ne ricorda il nome, ci scommetto.

Buffalo disse: — In Egitto hanno città vecchie di migliaia di anni, e tutti se ne ricordano i nomi. Questo posto, lo abbandoni per trent’anni, e chi diavolo ne sa più niente.

— Andiamoci — disse Charley. — Forse c’è ancora qualcosa di utile in giro. Andiamo a darci una grattatina.

— Gratta gratta — disse il piccolo latino che chiamavano Mujer, e tutti scoppiarono a ridere.

Tom aveva viaggiato altre volte insieme a dei grattatori. Lo preferiva a viaggiare con i bandido. Sotto molti aspetti c’erano assai meno rischi. Presto o tardi i bandido facevano qualcosa di così stupido da farsi spazzar via. I grattatori erano più bravi a badare alla propria pelle. In media non erano selvaggi quanto i bandido, forse un pochino più furbi. I grattatori si barcamenavano un po’ fra le ruberie e il banditismo, qualunque delle due andasse meglio, qualunque cosà fosse più necessaria per sopravvivere mentre si spostavano ai margini delle città. A volte uccidevano, ma solo quando dovevano, mai soltanto per il gusto di farlo. Tom si trovava a suo agio con quel branco. Sperava di poter rimanere con loro per lo meno fino a San Francisco. Ma se così non fosse stato, be’, sarebbe andato bene lo stesso. Qualunque cosa succedesse andava bene. Non c’era nessun altro modo di vivere, proprio nessuno, se non quello di accettare ciò che accadeva. Ma lui avrebbe preferito continuare a viaggiare con Charley e i suoi grattatori. Loro si sarebbero occupati di lui. Era un territorio brutto quello lì intorno. Era brutto dappertutto, ma quello era più brutto della maggior parte.

Era convinto, si, che con loro sarebbe stato al sicuro. Era diventato una specie di mascotte per loro, un portafortuna.

Non era la prima volta che recitava quel ruolo. Tom sapeva che, per un certo tipo di persone, avere qualcuno come lui intorno era desiderabile. Lo consideravano pazzo, ma non particolarmente pericoloso o sgradevole… piacevolmente pazzo, insomma, e un tipo così aveva una certa attrattiva per uomini come quelli. C’era bisogno di tutta la fortuna che si poteva trovare, e un pazzo come Tom doveva essere fortunato, poiché era riuscito a sopravvivere così a lungo, vagando ai margini del mondo. Così, adesso, era diventato il loro tesoruccio. Tutti gli volevano bene, Buffalo e Tamale e Mujer, Rupe e Choke e Nicholas, e specialmente Charley, ovviamente. Tutti meno Stidge. Stidge l’odiava ancora, probabilmente l’avrebbe odiato sempre, perché era stato picchiato per colpa di Tom. Ma Stidge non osava mettergli le mani addosso, per paura di Charley, o forse soltanto perché pensava che ciò avrebbe portato sfortuna. Qualunque ne fosse il motivo, a Tom non importava, fintanto che Stidge si teneva lontano da lui.

— Guardate quel posto — continuò a dire Charley. — Guardatelo!

Era desolato, non c’era dubbio. Strade a pezzi, lastre d’asfalto che si alzavano dappertutto, fino alle più ripide inclinazioni, case ridotte a gusci vuoti, l’erba secca che spuntava dalle crepe dei marciapiedi. La sabbia che arrivava strisciante dai campi. Un paio di macchine defunte che giacevano rovesciate sul fianco, spogliate di tutto.

— Devono aver avuto una brutta guerra, quaggiù — disse Mujer.

— Non qui! — esclamò Choke, quello dall’aspetto scheletrico con le cicatrici che gli attraversavano la fronte a zig-zag. — Non c’è stata nessuna guerra da queste parti. La guerra l’hanno avuta a est di qui, tonto! Kansas, Nebraska, Iowa, dove hanno sganciato la polvere.

— Comunque — replicò Buffalo, — la polvere non riduce in questo stato una cittadina. La polvere si limita a ridurre tutto a spazzatura con la roba forte, così quando tocchi una qualunque cosa, bruci.

— Ma allora, cos’è stato a far questo? — volle sapere Mujer.

— La gente se n’è andata, ecco cos’è stato — spiegò Charley con voce molto calma. — Tu pensi che queste cittadine si riparino da sole. La gente se n’è andata perché qui non c’era più niente da coltivare, forse c’era troppa polvere nell’aria che portava la roba forte dagli stati morti, o forse il canale si è interrotto da qualche parte su a nord e nessuno sapeva come ripararlo. Non lo so. Ma sono andati altrove, a Frisco o giù verso sud, e poi i tubi arrugginiscono, e arriva un terremoto o due, e qui non c’è nessuno a fare le riparazioni, e tutto peggiora sempre di più, e poi i grattatori arrivano per arraffare quello che è rimasto. Non c’è bisogno di nessuna bomba per distruggere un posto. Non c’è bisogno di niente. Lascialo là e si sfascerà da solo. Non hanno costruito questi posti perché durassero come invece hanno costruito l’Egitto, ehi, Buffalo? Li hanno costruiti per trenta, quarant’anni, e i trenta, quarant’anni li hanno già consumati.

— Merda — esclamò Mujer. — In che razza di mondo ci ritroviamo!

— Andremo a San Francisco — riprese Charley. — Non è tanto brutta laggiù. Ci passeremo l’estate. Per lo meno là fa fresco. La nebbia, la brezza…

— Che mondo fottuto — esclamò Mujer.

Tom, un po’ in disparte, disse: — Giacché l’indignazione del Signore pesa su tutte le nazioni, e la Sua furia su tutti i loro eserciti. Egli li ha completamente distrutti. Egli li ha consegnati al macello.

— Cosa sta dicendo adesso, ’sto matto? — chiese Stidge.

— È la Bibbia — spiegò Buffalo. — Non conosci la Bibbia?

— E le spine spunteranno nei loro palazzi, ortiche e rovi nelle fortezze, e diverranno dimora di draghi e corte per i gufi.

Charley domandò: — La sai tutta a memoria?

— In gran parte — rispose Tom. — Sono stato predicatore, per un po’.

— Dove?

— Lassù — disse Tom, puntando il dito oltre la sua spalla destra. — Idaho. E anche un po’ nello stato di Washington.

— Sei stato in giro?

— Un po’.

— Sei mai stato davvero a est?

Tom lo guardò. — Vuoi dire a New York, Chicago… posti come quelli?

— Sì, come quelli.

— E come? — chiese Tom. — In volo?

— Già — esclamò Mujer, scoppiando a ridere. — Volando! Su un manico di scopa!

— Una volta lo facevano — dichiarò Tamale. — Da costa a costa. Sali su un aereo a San Francisco, ti porta a New York in tre ore. Me l’ha detto mio padre.

— Tre ore — disse Stidge. — Merda. È soltanto merda.

— Tre ore — ripeté Tamale. — A chi dici merda? — Aveva sfoderato il coltello. — Dài della merda a mio padre? Su, provaci di nuovo! Di’ qualcosa anche di mia madre, Stidge. Su. Su.

— Piantàtela — disse Charley. — Siamo venuti qui per grattare. Facciamoci una bella grattata. Stidge, sei peggio di un foruncolo nel culo.

— Tu pensi che io sia disposto a crederci? Tre ore e arrivi a New York?

— L’ha detto mio padre — borbottò Tamale.

— Allora era un mondo diverso — disse Charley. — Prima della guerra della Polvere era tutto diverso. Forse erano cinque ore, uhm, Tamale?

— Tre.

Tom sentiva tutti quei discorsi premergli sul cranio come un tumore al cervello. Tre ore, cinque, che importanza aveva mai? Quel mondo se n’era andato. Si allontanò da loro.

Sentì che stava per avere una visione.

Bene. Bene. Che venisse pure. Che bisticciassero, che si facessero pure a fettine se era questo che volevano. Lui abitava in altri mondi, più belli. Camminò per un breve tratto, aggirando un intero blocco di marciapiede rovesciato e frastagliato, passando davanti a una massa di griglie di ferro tutte arrugginite; si sedette sulla cordonatura d’una strada invasa dalla sabbia, appoggiando la schiena a un enorme tronco di palma che pareva avesse l’intenzione di trovarsi ancora là quando la California e tutto ciò che l’uomo vi aveva costruito fossero stati spazzati via dal tempo.

La visione arrivò impetuosa, ed era enorme, era il tutto e d’un sol colpo.

Talvolta era tutt’intera, non un mondo alieno soltanto, ma la grande, stupenda moltitudine di essi, che arrivavano uno sopra all’altro. In simili momenti, gli pareva di essere il punto focale del cosmo. Interi imperi galattici erompevano attraverso la sua anima. Aveva la visione completa di miriadi e miriadi di regni che si accavallavano gli uni sopra gli altri là fuori, al di là della comprensione dell’umanità.

Venite a me! Ah, sì, venite, venite.

Davanti ai suoi occhi stralunati per lo stupore comparve la più grande processione che avesse mai visto, una sequenza di mondi sovrapposti ad altri mondi. Era come un torrente, una marea incontrollata. Prima il mondo verde e l’Impero dei Nove Soli e il Doppio Regno, e poi i mondi dei poro, e i mondi dei zygerone che erano i signori dei poro, e sopra tutti si ergeva la figura di kusereen Gran Signore, appartenente alla razza che governava chissà quante galassie, comprese quelle in cui si trovavano i mondi dei zygerone e dei poro. Vide tremule forme trasparenti di vita, troppo strane perfino per essere incubi. Vide dischi turbinanti di luce che si stendevano fino al nucleo stesso dell’universo. Attraverso di lui scivolarono in successione intere biblioteche di dati, liste d’imperatori, re, dèi e demoni, i testi di bibbie sacre e sconosciute religioni, la musica di un’opera per eseguire la quale sarebbero stati necessari undici anni galattici. Teneva nel palmo della mano una sfera ingioiellata non più grande d’un granello di polvere nella quale erano registrati i nomi e la storia di milioni di monarchi delle novemila dinastie di Sapiil. Vide nere torri più alte delle montagne, che s’innalzavano in una fila ininterrotta fino all’orizzonte. Aveva la più completa percezione in tutte le direzioni sia nel tempo che nello spazio. Vide i cinquanta semidei dell’epoca di Theluvara i quali erano esistiti tre miliardi di anni prima, quando perfino i Kusereen erano stati giovani, e vide il Popolo dell’Occhio della Grande Nube Stellare ancora di là da venire.

Mio Dio, pensò, mio Dio, mio Dio, io non sono niente e Tu mi porti tutte queste meraviglie. Io Tom, il Tuo Servo. Se soltanto potessi raccontar loro le cose che Tu mi fai vedere. Se soltanto potessi farlo. Come posso servire Te, che hai creato tutto questo, e così tante altre cose? Che bisogno hai di me? Forse per far sì che io glielo dica. Allora glielo dirò. Glielo farò vedere. Farò in modo che le Tue meraviglie si manifestino ai loro occhi. Mio Dio, mio Dio, mio Dio! E la visione continuò, e continuò, e continuò con i suoi mondi senza fine.

Poi scomparve, spegnendosi con uno schiocco, e lui si ritrovò disteso in una strada in rovina in mezzo ad una cittadina deserta, stupefatto, il respiro affannoso, gli indumenti intrisi di sudore. Il volto preoccupato di Charley era sospeso sopra di lui.

— Tom? Tom? Puoi parlare, Tom?

— Sì. Certo.

— Pensavano ti fosse venuto un colpo!

— Era quella più grande — lui disse. — Ho visto tutto. Ho visto il potere e la gloria. Oh, povero Tom, povero Tom! Era la più grande e non tornerà mai più!

— Lascia che ti dia una mano — insisté Charley. — Siamo pronti a proseguire. Ce la fai ad alzarti? Ecco. Ecco. Vacci piano. Hai avuto un’altra visione? Hai visto il mondo verde?

Tom annuì. — L’ho visto. Sì. Ho visto tutto… Tutto.

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