Rimasi sveglio per un intero turno di guardia. Ben presto capii che il dottor Talos non si sarebbe addormentato, ma continuai a sperare che per un motivo o per un altro ci avrebbe lasciati soli. Per un po' restò seduto, come se fosse assorto nei suoi pensieri, poi si levò in piedi e iniziò a camminare avanti e indietro, vicino al fuoco. Il suo volto era immobile ma espressivo… l'impercettibile movimento di un sopracciglio o l'inclinazione della testa potevano mutarlo completamente; e mentre passava e ripassava dinnanzi ai miei occhi socchiusi, notai l'angoscia, l'allegria, il desiderio, la noia, la fermezza e altre venti emozioni senza nome passare su quella maschera di volpe.
Infine iniziò a colpire con il bastone i fiori selvatici e in poco tempo decapitò tutti quelli che si trovavano a meno di una dozzina di passi dal fuoco. Aspettai fino a quando la sua figura eretta scomparve alla mia vista e si sentivano solo i colpi del bastone. Allora, lentamente, estrassi la gemma.
Mi pareva di stringere fra le mani una stella, qualcosa che ardeva nella notte. Dorcas stava dormendo; avevo sperato di poter studiare la pietra insieme a lei, ma non la svegliai. Quel gelido fulgore celeste aumentò al punto che temetti fosse visibile persino dal dottor Talos, nonostante fosse lontano. Avvicinai la gemma all'occhio, con l'intento infantile di guardare il fuoco come attraverso una lente, quindi la allontanai… il mondo fatto d'erba e di persone addormentate si era trasformato in una stanza di scintille, sferzate dalla lama di una scimitarra.
Non ricordo quanti anni avessi quando morì il Maestro Malrubius. Fu diversi anni prima che diventassi capitano, perciò dovevo essere ancora un bambino. Tuttavia rammento benissimo il momento in cui il Maestro Palaemon lo sostituì come insegnante degli apprendisti; il Maestro Malrubius assolveva quell'incarico da sempre, a quanto ricordavo, e per settimane e mesi ebbi la sensazione che il Maestro Palaemon non potesse essere il nostro vero insegnante come era stato il suo predecessore, nonostante fossi molto affezionato anche a lui. Quella sensazione di irrealtà era accentuata anche dal fatto che il Maestro Malrubius non era morto e non se ne era andato… era nella sua cabina, sdraiato sullo stesso letto che aveva usato ogni notte quando ancora insegnava a noi. Un detto afferma che ciò che non si vede è come se non esistesse: in quel caso era diverso… invisibile, il Maestro Malrubius era più presente che mai. Il Maestro Palaemon si rifiutava di ammettere che non sarebbe più tornato, perciò ogni gesto veniva soppesato su una doppia bilancia: — Il Maestro Palaemon lo concederà? — e — Cosa dirà il Maestro Malrubius?
Ma non disse mai niente. I torturatori non vanno alla Torre delle Guarigioni per quanto siano ammalati, perché c'è la credenza, vera o falsa che sia, che là vengano saldati i vecchi conti.
Se stessi raccontando questa storia solo per divertimento, non mi interromperei per parlare del Maestro Malrubius, che all'epoca in cui mi ritrovai fra le mani l'Artiglio doveva essere polvere ormai da anni. Ma un'opera storica, come ogni altra, ha le sue necessità. Non so molto dello stile letterario, ma ho capito a poco a poco che non si tratta di un'arte molto diversa dalla mia, nonostante le apparenze.
Decine o centinaia di individui vengono ad assistere a un'esecuzione e ho visto alcuni balconi franare sotto il peso degli spettatori, uccidendo in un colpo solo più persone di quante ne abbia mai ammazzate io in tutta la mia carriera. E quegli spettatori si possono paragonare ai lettori di un resoconto scritto.
Ma vi sono altre persone, oltre gli spettatori veri e propri, che devono essere accontentati: l'autorità in nome della quale il carnefice agisce, coloro che lo hanno pagato per far subire al condannato una morte facile o difficile e lo stesso carnefice.
Gli spettatori saranno soddisfatti se non vi saranno lunghi indugi, se al condannato è concesso di parlare brevemente e se lo fa bene, se la lama alzata brilla al sole per un istante prima di abbattersi permettendo loro di trattenere il fiato e di scambiarsi gomitate, infine se la testa cade provocando un soddisfacente fiotto di sangue. Allo stesso modo voi, che un giorno curioserete nella biblioteca del Maestro Ultan, non gradirete che io indugi troppo, vorrete che i personaggi parlino bene e in maniera concisa, che delle pause drammatiche vi preannuncino gli avvenimenti più importanti e che vi sia abbastanza sangue.
Le autorità che stanno alle spalle del carnefice, i chiliarchi o gli arconti (se mi concedete di continuare nella similitudine), non avranno niente da ridire purché il condannato non riesca a fuggire o a infiammare la folla e purché alla fine sia indiscutibilmente morto. Mi sembra che si possa paragonare questa autorità all'impulso che quando scrivo mi spinge al dovere. Tale impulso pretende che si rispetti la centralità del tema principale, senza relegarlo in prefazioni, indici o altre opere; richiede che la retorica non prenda il sopravvento e che la conclusione sia soddisfacente.
Coloro che pagano il carnefice affinché la morte sia o meno dolorosa si possono invece associare alle tradizioni letterarie e ai modelli riconosciuti, ai quali sono costretto a inchinarmi. Rammento che un giorno d'inverno, mentre la pioggia fredda picchiava contro i vetri dell'aula, il Maestro Malrubius, o perché gli sembravamo troppo depressi per lavorare bene o perché era depresso lui stesso, ci raccontò di un certo Maestro Werenfrid della nostra corporazione, che un tempo, essendo in grave stato di indigenza, accettò una remunerazione sia dai nemici del condannato che dai suoi amici. Sistemando gli uni alla destra e gli altri alla sinistra del ceppo, con la sua grande abilità fece in modo che entrambi vedessero ciò che avevano richiesto. Così, i vari partiti della tradizione assillano gli scrittori di opere storiche. Sì, anche gli Autarchi. Uno vuole scioltezza, l'altro abbondanza di esperienze nell'esecuzione… dello scritto. Occorre cercare di soddisfarli tutti, come fece il Maestro Werenfrid, ma senza la sua abilità. Ed è quello che anch'io mi sforzo di fare.
Resta il carnefice in persona: io. Non gli è sufficiente che si guadagni le lodi di tutti. Non gli basta nemmeno svolgere il proprio compito in un modo che sia onorevole e in armonia con gli insegnamenti dei maestri e con la tradizione più antica. Oltretutto, se vuole sentirsi pienamente soddisfatto nel momento in cui il Tempo solleva per i capelli la sua testa recisa, deve aggiungere all'esecuzione qualcosa di particolare e irripetibile anche se minuscolo. Solo in tal modo potrà sentirsi un libero artista.
Quella notte in cui avevo diviso il letto con Baldanders avevo fatto uno strano sogno e non ho esitato a descriverlo, dal momento che la narrazione dei sogni rientra nella tradizione letteraria. Ma quando io e Dorcas dormimmo sotto le stelle con Baldanders e Jolenta mentre il dottor Talos sedeva vicino a noi, feci quello che poteva essere molto più di un sogno, e un evento del genere esula dalla tradizione. Avviso voi che mi leggerete: non ha molto a che vedere con quello che successe in seguito; lo riporto solo perché all'epoca mi lasciò sconcertato e perché mi fa piacere parlarne. Comunque, essendosi fissato nella mia mente, è probabile che abbia influenzato le scelte che vi racconterò in seguito.
Nascosi l'Artiglio e mi sdraiai su una vecchia coperta vicino al fuoco. Dorcas dormiva con la testa accanto alla mia, Jolenta era allungata ai miei piedi e Baldanders era steso sul dorso dalla parte opposta del fuoco, con le suole degli stivali fra le braci. La sedia del dottor Talos era presso la mano del gigante ma voltata dall'altra parte. Non so se lui fosse seduto là, con il volto rivolto alla notte; per buona parte del tempo che descriverò mi parve che fosse presente, in altri momenti ero convinto che non ci fosse. Il cielo si stava schiarendo, credo.
Un rumore di passi mi arrivava alle orecchie, senza disturbare il mio riposo; era un rumore pesante ma attutito. Quindi udii un respiro e il fiutare di un animale. Se ero sveglio, avevo gli occhi aperti; ma ero ancora intontito e non voltai la testa. L'animale si avvicinò, fiutò i miei vestiti e la mia faccia. Era Triskele. Si sdraiò con la schiena contro il mio corpo. Non mi stupii del fatto che mi avesse ritrovato, e mi fece piacere vederlo.
Sentii altri passi, i passi lenti e sicuri di un uomo; capii subito che si trattava del Maestro Malrubius… rammentavo bene il suo passo nei corridoi sotto la torre, quando faceva il giro delle celle. Il rumore era lo stesso. Entrò nella mia visuale: aveva il mantello impolverato, come al solito, e se lo stringeva addosso come usava fare un tempo. Si sedette su una cassa. — Severian, dimmi i sette principii del governo.
Facevo molta fatica a parlare, ma nel sogno (se era un sogno) riuscii a dire: — Non ricordo di averli studiati, Maestro.
— Sei sempre stato il più distratto dei miei studenti — mi rimproverò e tacque.
Mi parve che se non avessi risposto sarebbe successa una tragedia, così esordii, debolmente: — Anarchia.
— Questa non è il governo, ma la sua mancanza. Ti ho spiegato che viene prima del governo. Adesso elenca i sette principii.
— Attaccamento alla persona del monarca. Attaccamento a una dinastia o a una successione. Attaccamento allo stato reale. Attaccamento a un codice che legittima lo stato al potere. Attaccamento alla legge. Attaccamento a un corpo di elettori più o meno esteso che formula la legge. Attaccamento a un concetto astratto concepito per includere la massa degli elettori, altri organismi che la originano e numerosi altri elementi, quasi tutti ideali.
— Va bene. E ora: quale fra questi principii viene per primo e quale è il più alto?
— Sono già in ordine di sviluppo, Maestro — risposi. — Ma non ricordo che tu abbia mai chiesto quale fosse il più alto.
Il Maestro Malrubius si sporse verso di me e i suoi occhi luccicarono più delle braci del fuoco. — Quale è il più alto, Severian?
— L'ultimo, Maestro?
— Intendi dire il concetto astratto concepito per includere la massa degli elettori, gli altri organismi che la originano e numerosi altri elementi, quasi tutti ideali?
— Infatti, Maestro.
— Com'è, Severian, il tuo attaccamento alla Divina Entità?
Non risposi. Forse stavo pensando, ma la mia mente era ancora troppo intorpidita dal sonno per essere consapevole dei propri pensieri. Invece, divenni perfettamente conscio di quello che mi circondava fisicamente. Il cielo, sopra la mia testa, pareva essere stato creato in tutto il suo splendore solo per me, per essere sottoposto al mio sguardo in quel momento. Stavo sdraiato a terra come su una donna e l'aria che mi circondava era limpida come il cristallo e fluida come il vino.
— Rispondimi, Severian.
— È il primo attaccamento, se lo provo.
— Prima di quello alla persona del monarca?
— Esatto, perché non c'è successione.
— L'animale che giace al tuo fianco morirebbe per te. Di quale genere di attaccamento si tratta?
— Del primo?
Non c'era nessuno. Mi sollevai a sedere. Malrubius e Triskele erano scomparsi, ma il mio fianco era leggermente caldo.