XXVII È MORTO!

Il Campo Sanguinario, del quale i miei lettori avranno già sentito parlare anche se mi auguro che molti di loro non lo debbano mai vedere, sorge a nord-ovest di Nessus, tra un'enclave residenziale di armigeri e le caserme e le stalle della Xenagia dei Dimarchi azzurri. È abbastanza vicino alle Mura da sembrarvi attaccato a chi, come me, non vi era mai stato prima, ma rimane separato da parecchie strade tortuose. Non so quanti combattimenti sia in grado di ospitare. Forse le ringhiere che delimitano i singoli pezzi di terreno e sulle quali si siedono gli spettatori si possono spostare e vengono predisposte di volta in volta a seconda delle necessità. Io ho visitato quel luogo in una sola occasione, e mi ha dato l'impressione di un posto molto strano e malinconico, soprattutto a causa dell'erba calpestata e degli spettatori languidi e silenziosi.

Nel breve periodo trascorso da quando sono salito al trono, ho dovuto affrontare problemi più urgenti e pressanti della monomachia. Indipendentemente dal fatto che sia una cosa positiva o negativa, come sono più propenso a credere, si tratta di un fenomeno fortemente radicato in una società come la nostra, che per sopravvivere deve continuamente esaltare le virtù militari e nella quale pochissimi servitori armati possono essere usati per tenere sotto controllo la popolazione.

Ma è veramente un fenomeno negativo?

Le epoche che l'hanno messa al bando, e sono state molte a quanto ho letto, generalmente l'hanno sostituita con l'assassinio… e proprio con gli assassinii che la monomachia sembra destinata a prevenire, quelli derivanti da litigi fra famiglie, amici e conoscenti. In tal caso, muoiono due persone anziché una sola, perché la legge trova l'uccisore, che tendenzialmente non è un assassino di professione, e lo uccide a sua volta, come se così facendo potesse restituire la vita all'altra vittima. Perciò se, diciamo, mille duelli legali provocassero mille morti (il che non succede mai dal momento che molti combattimenti non hanno esito mortale), ma evitassero cinquecento omicidi, lo stato non si troverebbe in una situazione peggiore.

Inoltre, il combattente superstite è di sicuro l'individuo più adatto a difendere lo stato e a generare figli sani, mentre negli assassinii non ci sono mai superstiti e l'assassino, se sopravvive, è comunque un malvagio.

Eppure, con quale facilità la monomachia si presta all'intrigo!


Udimmo scandire i nomi quando eravamo ancora distanti cento passi: erano annunciati a gran voce e formalmente, più forte dei trilli delle raganelle.

Cadroe delle Diciassette Pietre!

Sabas del Prato Diviso!

Laurentia della Casa dell'Arpa! — Questa era una voce femminile.

Cadroe delle Diciassette Pietre!

Chiesi ad Agia chi venisse chiamato in quel modo.

— Hanno lanciato sfide o ne hanno ricevute. Gridano il loro nome o lo fanno fare da un servitore, per far sapere che sono presenti e che il loro avversario non è venuto.

Cadroe delle Diciassette Pietre!

Il sole, ormai nascosto per un quarto dietro l'impenetrabile pietra delle Mura, aveva colorato il cielo di gommagutta e di cerise, di porpora e di viola livido. Quelle tinte, cadendo sulla folla dei duellanti e degli spettatori come i raggi aurei del favore divino calano sopra gli ierarchi nelle opere d'arte, conferivano a quelle persone un aspetto incorporeo e taumaturgico, quasi che fossero stati tutti creati un istante prima dall' agitarsi di un drappo e stessero per svanire al suono di un fischietto.

Laurentia della Casa dell'Arpa!

— Agia — dissi, e udimmo accanto a noi il suono soffocato che la morte strappa alla gola di un uomo. — Agia, devi gridare: Severian della Torre di Malachiti.

— Non sono la tua serva. Gridalo tu, se vuoi.

Cadroe delle Diciassette Pietre!

— Non guardarmi in quel modo, Severian. Vorrei non essere venuta. Severian! Severian dei Torturatori! Severian della Cittadella! Severian della Torre del Dolore! La Morte! È arrivata la Morte! — La colpii sotto l'orecchio e lei cadde, con l'avern accanto.

Dorcas mi strinse il braccio. — Non avresti dovuto farlo, Severian.

— È solo una sberla. Non le ho fatto male.

— Ma lei ti odierà ancora di più.

— Pensi che mi odi?

Dorcas non rispose, e dopo un istante dimenticai la mia domanda… a una certa distanza, fra la folla, avevo visto un avern.

Il campo era un cerchio pianeggiante del diametro di quindici passi, circondato da una ringhiera che si apriva in due varchi per passare alle due estremità.

L'eforo chiamò: — L'aggiudicazione dell'avern è stata offerta e accettata. Il luogo è questo. Questo è il momento. Rimane solo da decidere se combatterete come siete, nudi o in altro modo. Cosa dite?

Prima che io potessi parlare, Dorcas gridò: — Nudi. Quell'uomo indossa l'armatura.

Il grottesco elmo del Septentrion oscillò in una negazione. Come la maggior parte degli elmi della cavalleria, lasciava scoperte le orecchie per poter sentire gli ordini. Nell'ombra dietro il paraguance scorsi una sottile striscia nera e mi sforzai di ricordare dove avessi già visto qualcosa del genere.

L'eforo domandò: — Rifiuti, ipparca?

— Gli uomini del mio paese non stanno nudi se non davanti a sole donne.

— Lui porta l'armatura! — urlò ancora Dorcas. — Quest'uomo invece non ha nemmeno la camicia. — La sua voce, che era sempre stata tanto bassa, squillava nella sera come una campana.

— La leverò. — Il Septentrion rigettò indietro la cappa e portò la mano guantata sulla spalla della corazza, che gli scivolò addosso e si afflosciò ai suoi piedi. Avevo immaginato di vedere un torace massiccio come quello di Padre Gurloes, invece era più magro del mio.

— Anche l'elmo.

Il Septentrion scosse di nuovo il capo e l'eforo chiese: — Il tuo rifiuto è definitivo?

— Sì. — Ci fu un'esitazione appena percettibile. — Posso solo dire che ho ricevuto l'ordine di non toglierlo.

L'eforo si volse verso di me. — Sono sicuro che nessuno di noi intenda mettere in imbarazzo l'ipparca e ancor meno il personaggio che lo ha mandato, e che non so chi sia. Penso che la cosa più saggia da fare sia di accordare a te, sieur, un vantaggio di compenso. Quale proponi?

Agia, che era stata zitta dal momento in cui l'avevo colpita, disse: — Rifiuta il duello, Severian, oppure rimanda il vantaggio a quando ne avrai bisogno.

Dorcas, intenta a sciogliere gli stracci che tenevano legato l'avern, disse a sua volta: — Rifiuta il duello.

— A questo punto non mi posso tirare indietro.

L'eforo domandò: — Hai deciso, sieur?

— Penso di sì. — La mia maschera era nella borsa. Come tutte quelle usate nella corporazione, era di cuoio sottile rinforzato da lamine d'osso. Non potevo sapere se mi avrebbe protetto dalle foglie dell'avern… ma provai un'enorme soddisfazione nel sentire le esclamazioni soffocate del pubblico quando la presi.

— Siete pronti? Ipparca? Sieur? Sieur, devi consegnare la spada a qualcuno di tua fiducia. Non puoi avere altra arma all'infuori dell'avern.

Mi guardai intorno per cercare Agia, ma era sparita fra la folla. Dorcas mi consegnò il fiore mortale e io le diedi Terminus est.

— Iniziate!

Una foglia mi passò sibilando vicino all'orecchio. Il Septentrion avanzava in maniera irregolare, stringendo lo stelo con la mano sinistra al di sotto delle foglie inferiori e tenendo allungata in avanti la destra come se volesse strapparmi il mio avern. Rammentai che Agia mi aveva messo in guardia contro quell'opportunità, così rafforzai la stretta tenendolo il più vicino possibile.

Girammo l'uno intorno all'altro per il tempo di cinque respiri. Poi cercai di colpire la mano tesa del mio avversario, ma lui parò il colpo con l'avern. Allora alzai il mio fiore sopra la testa come se fosse una spada e mi accorsi che era la posizione ideale: metteva fuori dalla portata del nemico lo stelo vulnerabile, mi permetteva di sferrare dall'alto in basso tutti i colpi che volessi e comunque mi consentiva di strappare le foglie con la destra.

Sperimentai subito quella scoperta, staccando una foglia e gettandola contro la faccia dell'ipparca. Nonostante la protezione dell'elmo, si dovette piegare per schivarla, e la folla alle sue spalle si disperse per evitare il colpo. Ne lanciai un'altra e poi un'altra ancora che si scontrò nell'aria con una delle sue.

Il risultato fu incredibile. Invece di attutire l'una lo slancio dell'altra e cadere insieme a terra come avrebbero fatto due lame inanimate, le foglie parvero attorcigliarsi fremendo una sull'altra, tagliando e colpendo con le punte tanto in fretta che, prima ancora di essere precipitate di un cubito, erano diventate solo lacere strisce di verde-nerastro che si trasformavano in cento colori e turbinavano come una trottola.

Qualcosa, o qualcuno, stava facendo forza contro la mia schiena. Era come se uno sconosciuto mi stesse vicino, con la spina dorsale appoggiata alla mia, ed esercitasse una leggera pressione. Sentivo freddo, ed ero grato al calore di quel corpo.

Severian! — Era la voce di Dorcas, ma pareva provenire da lontano.

Severian! Nessuno lo aiuta? Lasciatemi andare.

Lo squillo di un carillon. I colori, che avevo creduto essere prodotti dalle foglie, appartenevano invece al cielo, nel quale un arcobaleno si snodava sotto l'aurora australe. Il mondo era un grande uovo pasquale, brulicante di tutte le tinte della tavolozza. Vicino alla mia testa una voce domandò: — È morto? — E qualcun altro rispose seccamente: — Sì. Quelle foglie uccidono sempre. Vuole per caso vederlo trascinare via?

La voce del Septentrion, stranamente famigliare, disse: — Rivendico il diritto del vincitore sulle sue vesti e sulle sue armi. Datemi la spada.

Mi misi a sedere. Le foglie si dibattevano debolmente a pochi passi dai miei stivali. Il Septentrion era un po' più distante e teneva ancora in mano il suo avern. Trassi un respiro per domandare cosa fosse successo e qualcosa mi cadde dal petto sulle ginocchia: una foglia macchiata di sangue.

Quando mi vide, il Septentrion si volse di scatto e sollevò l'avern. L'eforo si interpose fra di noi, allungando le braccia. Dalle ringhiere uno spettatore urlò: — Il suo diritto, soldato! Lascia che si rialzi e prenda la sua arma.

Le gambe mi reggevano a fatica. Mi guardai intorno, intontito, in cerca del mio avern, e finalmente lo trovai solo perché era vicino ai piedi di Dorcas che stava lottando con Agia. Il Septentrion gridò: — Dovrebbe essere morto! — L'eforo disse: — Non lo è, ipparca. Quando avrà ripreso la sua arma, potrete continuare il duello.

Toccai lo stelo del mio avern e per un istante ebbi l'impressione di avere fra le mani la coda di un animale a sangue freddo ma vivissimo. Parve agitarsi nella mia mano e le foglie rumoreggiarono. Agia stava gridando «Sacrilegio!» e io mi attardai a guardarla, quindi ripresi l'avern e mi voltai per affrontare il Septentrion.

Gli occhi erano oscurati dall'elmo, ma ogni linea del suo corpo esprimeva paura. Per un momento mi sembrò che spostasse lo sguardo da me ad Agia, quindi si voltò e fuggì verso l'apertura della ringhiera. Gli spettatori gli bloccarono la strada e lui usò l'avern come una frusta, sferrando colpi in tutte le direzioni. Si udì un urlo, poi un crescendo di grida diverse. Il mio avern mi stava tirando indietro; o meglio, il mio avern non c'era più e qualcuno mi stringeva la mano. Dorcas. Chissà dove, lontano, Agia urlò: — Agilus! — e un'altra donna gridò: — Laurentia della Casa dell'Arpa!

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