Tenente di Vascello Arthur Saltus 23 Novembre 2000

Ieri si è preparata la follia di oggi;

il trionfo o il dolore, il silenzio di domani:

Bevi! perché non sai donde vieni, o perché;

Bevi! perché non sai dove vai, o perché.

Omar Khayyam

Capitolo tredicesimo

Saltus si era preparato a festeggiare.

La luce rossa si spense. Allungò la mano, per aprire il portello e spingerlo. La luce verde si spense. Saltus afferrò le due maniglie, e si issò in una posizione più comoda, con la testa e le spalle che sporgevano dal portello aperto. Era solo nella stanza, come si era aspettato, ma notò con una certa sorpresa che la luce era fioca; alcune delle lampade del soffitto si erano spente. Pessimo, come governo della casa. L’aria era fredda e sapeva di ozono. Scavalcò il bordo del portello, e si calò lungo il fianco del veicolo; la scaletta non c’era, e lui si calò al suolo, poi riuscì a chiudere il portello dall’esterno, infine si avviò verso l’armadietto, per prendere i vestiti.

Un altro vestito, quello di Chaney, era appeso nei suo sacco di carta, in attesa di essere reclamato dal proprietario. Notò che l’armadietto aveva accumulato uno strato notevole di polvere; uno strato sottile era perfino penetrato all’interno. Sì, il governo della casa era davvero disastroso. Quando Saltus ebbe indossato l’abito civile che aveva scelto, estrasse una bottiglia del bourbon migliore dal nascondiglio in cui l’aveva lasciata, nell’armadietto, e con un rapido gioco di prestigio la fece sparire in tasca.

Pensava di essere preparato adeguatamente al futuro.

Arthur Saltus controllò il suo orologio: le undici e due minuti. Guardò il calendario elettrico e l’orologio appesi alla parete, per verificare l’ora e la data: 23 Nov. 00. L’orologio faceva le dieci e cinquantacinque. La temperatura esterna era gelida: sei gradi sotto zero. Saltus immaginò che il suo orologio fosse guasto; aveva già fatto degli errori in passato. Uscì dalla stanza senza guardare le telecamere, tenendo furtivamente la mano appoggiata alla bottiglia, per nascondere il gonfiore della tasca. Non pensava che i tecnici potessero approvare le sue intenzioni.

Saltus percorse il corridoio, in uno spettrale silenzio, dirigendosi verso il deposito; i suoi passi erano attutiti dallo strato di polvere che copriva il pavimento, e si chiese se William avesse trovato la stessa polvere, sedici mesi prima. L’amico sarebbe rimasto sfavorevolmente colpito, poteva scommetterci. Aprì la porta del deposito, e le luci si accesero automaticamente… ma anche questa volta vide che alcune lampade erano bruciate. Qualcuno meritava una bella strigliata, per la manutenzione dei locali. Saltus si fermò sulla soglia, estrasse di tasca la bottiglia e l’aprì.

Un suono echeggiò nella stanza deserta.

— Buon compleanno!

Per un po’ di tempo, avrebbe avuto cinquant’anni.

Saltus assaporò il bourbon, che era ottimo, e poi si pulì la bocca con il dorso della mano; si guardò intorno, con curiosità crescente. Qualcuno aveva saccheggiato la cani busa… qualcuno si era servito tranquillamente delle provviste preparate per lui, e poi non si era curato di nascondere i resti, lasciandoli a lui. Il posto era pieno di clandestini e di governanti trascurate. Accidenti!

Scoprì una lampada a petrolio, sul pavimento, e si chinò a raccoglierla, per vedere se era ancora calda. Era fredda, ma il rumore che udì gli fece capire che nel serbatoio era rimasto del combustibile. Molte cassette di razioni alimentari erano state aperte… vuotate del loro contenuto… e le scatole erano state gettate in un angolo, in disordine. Accanto alle scatole c’erano alcuni contenitori d’acqua, e Saltus prese il primo e lo scosse, per controllarne lo stato. Era vuoto. Bevve un altro lungo sorso dalla bottiglia di bourbon, e girò per la stanza, ispezionando con maggiore attenzione le provviste. Non erano nell’ordine perfetto che ricordava.

Una borsa sigillata di indumenti era stata aperta, una borsa che conteneva diversi soprabiti pesanti e pellicce per l’inverno. Non riuscì a stabilire quanti ne fossero stati presi dalla borsa.

Un paio di stivali… no, due o tre paia… mancavano da una scansia che conteneva numerosi tipi di stivali e di scarpe. Un involto, contenente guantoni da neve, era stato aperto; ma anche questa volta era impossibile stabilire quanti ne fossero stati sottratti. Qualcuno aveva visitato il deposito, durante l’inverno. E quel “qualcuno” non doveva essere stato il maggiore… il suo arrivo era stato previsto per il quattro luglio, a meno che il giroscopio non fosse impazzito e avesse sbagliato di sei mesi buoni. Saltus si voltò di nuovo a contare le scatole di razioni usate e i contenitori d’acqua vuotati; il numero delle scatole non sarebbe stato sufficiente ad alimentare un uomo robusto come William per sedici mesi… a meno che egli non avesse vissuto fuori per quasi tutto il tempo, sostentandosi con i prodotti locali. Le provviste usate avrebbero potuto fargli passare un inverno, addizionate ai prodotti della terra. Pareva una possibilità improbabile.

Saltus attraversò la stanza, dirigendosi verso il banco di lavoro. Era ingombro di rifiuti.

Tre scatole gialle erano posate sul banco, scatole che non aveva mai visto durante le visite precedenti. La prima era vuota, ma Saltus sollevò il coperchio della seconda e trovò un panciotto a prova di pallottole, latto di una sostanza che non conosceva, una specie di nylon.

Non esitò. Il panciotto sembrava fragile e niente affatto pratico, ma siccome Katrina sapeva sempre quel che faceva, lui indossò il panciotto protettivo sotto la giacca borghese. Saltus bevve un altro sorso di bourbon, e guardò le condizioni disastrose del banco di lavoro. Non era nel carattere di William lasciare le cose in disordine… be’, non fino a questo punto. C’era anche un po’ di lavoro di William, nella confusione generale.

Sul banco c’erano un registratore a nastro e un’altra lampada a petrolio. Un attimo dopo scoprì anche delle scatole vuote, che avevano contenuto munizioni per fucile, un’altra scatoletta vuota di nastro per il registratore, una mappa spiegata, e i gradi staccati dall’uniforme del maggiore. Saltus pensò di aver capito il significato di quanto aveva visto. Toccò la lampada a petrolio, ma la trovò fredda, benché il serbatoio fosse pieno; poi si curvò sul banco di lavoro, per esaminare il registratore. Erano stati registrati solo pochi minuti di nastro.

Saltus schiacciò il tasto di dettatura, disse: — Stacco — e fece ritornare il nastro a punto di partenza.

Un altro tasto, e il nastro ricominciò a svolgersi. Saltus schiacciò il tasto di ascolto:

Voce: — Qui Moresby. Quattro Luglio 1999. Orario di arrivo 10 e 05 sui mio orologio, 4 e 10 per l’orologio murale. Discrepanza di sei ore e cinque minuti. Polvere dappertutto, scaletta mancante dalla stanza delle operazioni; deposito deserto e provviste intatte, ma l’acqua è stantia. Mi preparo alla ricognizione.

Breve periodo di suoni confusi.

Arthur Saltus, aspettando, bevve un altro sorso di bourbon. Guardò nuovamente i gradi staccati dall’uniforme di William.

Voce: — … girando intorno all’angolo di nord-ovest, in direzione sud… verso di voi. Forze approssimative, dai dodici ai quindici uomini. Attenzione, caporale, hanno dei mortai. Passo. — Il rumore di un forte cannoneggiamento si udiva in sottofondo.

Voce: — Roger. C’è una breccia nel recinto, a nordovest… un dannato bastardo ha cercato di far passare un autocarro. Sta ancora bruciando, forse li fermerà. Passo.

Voce: — Lei deve trattenerli, caporale. Non posso mandarle neanche un uomo… qui siamo sul doppio rosso. Chiudo. Il canale non fece udire più alcun suono, e anche il rumore delle cannonate cessò.

Arthur Saltus guardò l’apparecchio, con aria costernata, avendo il primo sospetto di quanto probabilmente era accaduto. Ascoltò i rumori prodotti dal maggiore nel deposito, e gli parve di seguire con lo sguardo i gesti del vecchio compagno; il rumore delle cartucce che venivano estratte dalla scatola era facilmente riconoscibile; un fruscio indicava il momento in cui il maggiore aveva spiegato la mappa.

Voce: — Aquila Uno! I banditi ci hanno colpiti… ci hanno colpiti sull’angolo di nord-ovest. Riesco a contarne dodici, disseminati sul pendio, sotto il recinto. Hanno due… accidenti!… due mortai, e ci stanno martellando. Passo. — La voce rauca, quasi stridula, era sottolineata da un continuo, cupo cannoneggiamento.

Voce: — Sono penetrati nel recinto? Passo.

Voce: — Negativo… negativo. Quell’autocarro in fiamme li trattiene. Penso che proveranno qualche altro metodo… se possono, faranno un buco nel recinto a cannonate, o con qualche altro mezzo. Passo.

Voce: — Li deve trattenere, caporale. È un’azione diversiva; il vero attacco l’abbiamo qui. Chiudo.

Voce: — Accidenti, tenente… — Silenzio.

La pausa fu di breve durata.

Voce: — Moresby, Servizio Segreto dell’Aviazione, chiama Chicago o la zona di Chicago. Rispondete, Chicago.

Arthur Saltus ascoltò i tentativi di Moresby di stabilire un contatto radio con il mondo esterno, e ascoltò il dialogo successivo tra Moresby e il sergente Nash, che si trovava in una posizione sconosciuta, a ovest di Chicago, e resisteva ancora. Respirò profondamente, sbalordito, quando udì l’affermazione che riguardava Chicago… la notizia fu come un violento colpo nello stomaco… e ascoltò, quasi incredulo, lo scambio di battute che seguiva alla dichiarazione. Baja California indicava chiaramente che i segnali venivano inviati a oriente: era che si trovavano le H, ed era da che erano state chiamate. I cinesi, alla fine, stavano operando una rappresaglia per la perdita delle due città, dei due centri ferroviari cancellati dalle forze americane. Era probabile che in quel momento… sedici mesi dopo il colpo… il Lago Michigan e le terre adiacenti fossero radioattive come la vasta zona coltivabile che aveva circondato Yungning. Sì, i cinesi avevano compiuto la loro rappresaglia.

Ma chi li aveva chiamati? Chi aveva chiamato la bomba? Chi erano i banditi? Cosa diavolo erano i ramjets? Il ramjet era un tipo di aereo, gli sembrava.

Voce: — … Il Quartier Generale della Quinta Armata è stato ristabilito a ovest della Base di Addestramento Navale, ma lei attraverserà le nostre linee molto prima di quel punto. Cerchi le sentinelle. Usi molta cautela, signore. Stia in guardia, perché ci sono molto ramjets tra la sua posizione e la nostra. Sono pesantemente armati. Passo.

Moresby ringraziò il suo interlocutore, e uscì.

Il nastro ripeté un suono secco, e quello era Moresby che staccava la radio, e un momento dopo il nastro tacque, perché Moresby aveva spento il registratore. Arthur Saltus aspettò… ascoltò attentamente, sperando di udire un poscritto, lasciato da William al ritorno nel deposito, dopo la ricognizione. Il nastro continuò a scorrere, senza che si udisse alcun suono, finché non si udì la voce stessa di Saltus: — Stacco.

Saltus rimase insoddisfatto. Lasciò scorrere il nastro fino alla fine della bobina, ma non ci fu altro. Moresby non era tornato nel deposito… ma Saltus sapeva che il maggiore non avrebbe mai tentato di raggiungere il quartier generale della Quinta Armata, vicino a Chicago, non l’avrebbe mai fatto nello stretto margine di cinquanta ore concessogli sull’obiettivo, e in un territorio ostile, sotto il fuoco nemico. Forse il maggiore avrebbe potuto tentare di raggiungere Joliet, se la strada fosse stata sicura, ma certamente non sarebbe penetrato in un territorio ostile, con il termine delle cinquanta ore sempre incombente. Era uscito; e non era tornato indietro.

Ma Saltus era insoddisfatto. Qualcosa cercava di raggiungere la sua attenzione, qualche lieve discrepanza, qualcosa che non era del tutto a posto, una strana sensazione appena al di sotto del livello conscio, e lui fissò a lungo il registratore, cercando di scoprire cos’era che non andava. C’era qualche insignificante particolare, un trascurabile nonnulla che non si adattava al disegno generale. Saltus fece ritornare indietro il nastro, e lo ascoltò per la seconda volta. Posò sul banco la bottiglia, per ascoltare con maggiore attenzione.

Quando la registrazione fu terminata, fu sicuro della presenza di qualcosa di sbagliato, qualcosa che voleva attirare la sua attenzione.

Ascoltò per la terza volta. Rimase curvo sull’apparecchio.

Nell’ordine:

William faceva il suo rapporto preliminare; due voci, che si preoccupavano dei banditi e dei mortai sull’angolo di nord-ovest, e di un combattimento al cancello principale; William di nuovo, che chiamava Chicago; il sergente Nash che rispondeva, con un dialogo sulla situazione di Chicago e un invito a raggiungerli al quartiere generale spostato in altra località. Una parola di saluto e di ringraziamento di William, e poi lo scatto della radio che veniva staccata; un momento più tardi il nastro taceva del tutto, quando William aveva spento il registratore e lasciato il deposito…

Ecco… ecco cos’era.

Il nastro taceva, quando il registratore era stato spento. Non c’erano rumori successivi di attività intorno al banco, non c’era alcun messaggio finale… non c’era nulla che indicasse che William aveva toccato di nuovo il registratore, dopo essere uscito dal deposito. Aveva spento la radio e il registratore, con un doppio movimento, nell’ordine, e poi era uscito dalla stanza. Il nastro avrebbe dovuto finire a quel punto, fermarsi a quel punto. Invece no. Saltus guardò l’orologio, contando i secondi. Riascoltò il nastro per la quarta volta, dal punto in cui William aveva spento il registratore al punto in cui lui l’aveva riacceso, dicendo — Stacco.

L’intervallo durava esattamente un minuto e quarantaquattro secondi. E la causa era stato qualcuno dopo William. Qualcun altro aveva aperto la porta del deposito, aveva saccheggiato le provviste, aveva preso gli abiti invernali, e aveva ascoltato il rapporto inciso su nastro. Qualcun altro aveva lasciato scorrere il nastro per un minuto e quarantaquattro secondi, prima di spegnere l’apparecchio e andarsene. Forse il visitatore era tornato, ma William non era più ritornato.

Arthur Saltus captò al volo l’avvertimento. Chiuse la porta del corridoio, e schiacciò un interruttore a mano per tenere accese le luci del deposito. Prese da una scansia un fucile automatico e una pistola; allacciò il cinturone intorno alla vita.

Bevve un altro lungo sorso di bourbon, e fece tornare indietro il nastro fino al punto del suo «Stacco».

— Saltus a rapporto. Questo è stato il mio stacco, e questo è il mio compleanno, 23 novembre, nella bella cifra tonda dell’anno 2000. Ho cinquant’anni ma ne dimostro appena venticinque… il merito è della vita sana che conduco. Salve Katrina. Salve Chaney. E salve anche a lei, signor Gilbert Seabrooke. Quell’ometto ficcanaso di Washington è ancora in giro, dalle sue parti?

«Sono arrivato alle 10 e 55 o alle 11 e 02, a seconda di quale orologio guardo e di quale tempo considero. Non so se è mattina o sera, e lo dico perché non ho ancora messo fuori il naso per fiutare il vento. Ho perduto tutta la fede nei tecnici, negli ingegneri e nei protoni di mercurio, ma faranno bene a non fregarmi il compleanno, tutto intero e completo. Quando uscirò da quella porta voglio vedere la luce del sole, una bella luce chiara sui prati… la luce del mattino. Voglio che gli uccelli cantino e i conigli si comportino da conigli e gli scoiattoli scoiattolino dappertutto, e tutto il resto.

«Katrina, il governo della casa fa schifo, qui; la governante deve essere licenziata. Polvere sui mobili, sul pavimento, luci che mancano, lampade bruciate, scatole vuote che imbrattano il paesaggio, per quello che vale… è una baraonda. Degli estranei sono entrati e usciti, servendosi allegramente nelle scansie, saccheggiando tutto il disponibile, e prendendo a prestito perfino i cappotti. Immagino i he qualcuno abbia trovato la chiave della porta.

«Tutto quello che avete sentito prima del mio stacco era il rapporto di William. Lui non è tornato a finirlo, e non è andato a Chicago o nelle vicinanze… potete contarci. — Abbandonò il tono disinvolto usato fino a quel momento. — È fuori.

Arthur Saltus iniziò una descrizione completa di tutto quello che aveva trovato. Enumerò le cose che mancavano dalle scansie e dagli scaffali, enumerò le scatole vuote accumulate alla rinfusa contro la parete, i contenitori d’acqua usati, le due lampade che erano state usate solo parzialmente… William doveva avere semplicemente provato il funzionamento di quella posata sul banco di lavoro… citò i detriti e i rifiuti che si trovavano sul pavimento, i gradi strappati, e il particolare notato nel nastro, spostato di un minuto e quarantaquattro secondi. Invitò chi lo ascoltava a fare la stessa prova, e poi ad offrirgli una spiegazione migliore, se proprio non voleva dare retta alla sua. Poi disse:

— E quando arriverà qui, civile, dia un’altra controllatina al deposito; riconti i vuoti, per vedere se il nostro visitatore è tornato. E… ehi… si armi, signore. Farà bene a sparare diritto, se dovrà sparare. Ricordi qualcosa di quello che le abbiamo insegnato.

Saltus spense per un attimo l’apparecchio, perché il nastro non registrasse il momento in cui lui beveva un sorso di bourbon… anche se questo sarebbe stato piuttosto difficile… e poi schiacciò di nuovo il tasto.

— Adesso vado a vedere se riesco a trovare William… cercherò di seguirlo. Dio solo sa quello che potrò trovare, dopo sedici mesi, ma tenterò ugualmente. Probabilmente ha fatto una o l’altra di queste due cose; è andato a Joliet, per cercare di scoprire il possibile sulla faccenda di Chicago, o si è buttato nella mischia, se era lungo la strada.

«Se la battaglia era qui… nella base… credo che sia corso verso l’angolo di nord-ovest, ad aiutare il caporale; lui doveva gettarsi sempre nella battaglia. — Breve pausa. — Salgo a dare un’occhiata a quell’angolo, ma se non trovo niente cercherò di raggiungere Joliet. Adesso sono nella stessa barca del vecchio William… devo sapere cos’è accaduto a Chicago. — Guardò solennemente lo spazio vuoto della bottiglia, e aggiunse — Katrina, questo è sicuramente un brutto colpo per la sua esplorazione del futuro. Tutti questi studi per niente.

Saltus smise di parlare, ma lasciò girare il nastro del registratore.

Prese una radio, e collegò il filo dell’antenna esterna. Dopo un periodo di ricerca tra le diverse frequenze, ritornò a girarsi verso il registratore.

— Radio negativa. Niente di niente sui canali militari. — Un altro breve sondaggio delle diverse frequenze. — È maledettamente strano, no? Nessuno usa le lunghezze d’onda principali.

Saltus passò alle frequenze non militari, e cercò attentamente.

— Anche le altre frequenze sono negative. Tutti tengono la bocca chiusa. Di che cosa pensate abbiano paura? — Ritornò ai canali militari, e alzò il volume al massimo, ottenendo solo un lieve fruscio di sottofondo. La mancanza di comunicazioni lo sconcertava.

Schiacciò il tasto di trasmissione.

— Marina degli Stati Uniti, rispondimi! Avanti, naviganti di terra e di mare, mi conoscete… sono io, Saltus. Sono un amico dell’ammiraglio, non ricordate? Saltus chiama la Marina degli Stati Uniti. Passo.

Chiamò per due o tre volte, su diversi canali.

Nella radio crepitò un improvviso ordine.

— Smetti di trasmettere, idiota! Ti localizzeranno subito! — Poi tacque.

Saltus rimase così sorpreso, che spense subito la radio.

Rivolgendosi al registratore:

— Chaney, ha sentito? C’è davvero qualcuno, là fuori! Non hanno grandi mezzi… poca energia, o forse la distanza è troppa… ma c’è qualcuno. Con una maledetta paura in corpo, anche. I ramjets devono fare una paura del diavolo. — Si fermò a riflettere su questo. — Katrina, cerchi di scoprire cos’è un ramjet. I nostri amici cinesi non possono essere qui; non hanno i mezzi di trasporto, e non potrebbero attraversare i “campi minati” del Pacifico, anche se li avessero. E tenga nella manica questo asso, civile… è roba segretissima.

Arthur Saltus si preparò alla ricognizione, ricordando sempre di tenere d’occhio la porta.

Si infilò un giaccone imbottito, e sollevò il cappuccio; si tolse le scarpe leggere e trovò un paio di stivali della sua misura. Infilò in una tasca i guanti imbottiti. Saltus si mise a tracolla una borraccia d’acqua, e si legò sulla schiena uno zaino con le provviste. Scelse un fucile, lo caricò, e si versò in una tasca due scatole di munizioni. La mappa non era di grande interesse… conosceva la strada per Joliet, ci era stato da poco, giovedì scorso, per andare a controllare una faccenduola per il presidente. Il presidente lo aveva ringraziato. Caricò una macchina fotografica, e trovò anche lo spazio per infilarsi in tasca una riserva di pellicole di nylon.

Saltus decise di non prendere né la radio né il registratore, essendo il peso già notevole; sarebbe già stato scomodo, senza, e tutti i segni parevano indicare che la ricognizione era perduta, e non aveva lasciato alcuna traccia. Chicago era perduta, proibita, e Joliet avrebbe potuto costituire un problema. Ma lui poteva fare qualcosa con il registratore e con il breve messaggio di William… qualcosa per assicurarne il ritorno alla base di partenza. Un ultimo esame della stanza non gli suggerì altri oggetti da portare con sé. Spense le luci e bevve un lungo sorso della sua provvista di bourbon, che si assottigliava sempre di più, e lasciò il deposito. Il corridoio era vuoto e polveroso, e gli parve di vedere le sue impronte, nella polvere.

Portò il registratore, con il cordone dondolante, nella stanza delle operazioni, dove il veicolo aspettava nel suo serbatoio di poliacqua. Una ricerca attenta nella stanza non gli rivelò nessuna presa di elettricità; perfino i fili che facevano funzionare l’orologio e il calendario erano nascosti nella parete, venivano dall’altra parte del muro e non erano visibili.

— Maledizione! — Saltus si girò, guardando i due occhi di vetro. — Perché voi ragazzi non siete capaci di fare qualcosa di giusto, almeno per una volta? Perfino il vostro schifoso giroscopio a protoni è… è Sheeg!

Uscì dalla stanza, camminò lungo il corridoio polveroso fino a raggiungere la porta del laboratorio adiacente, e diede alla porta un sonoro calcio, per avvertire i tecnici del suo scontento. Questo avrebbe dovuto scuotere i tecnici.

Spalancò la bocca, quando vide la porta spalancarsi sotto il colpo. Nessuno la richiuse. Saltus si avvicinò, e guardò dentro. Nessuno lo respinse. Il laboratorio era vuoto. Vi entrò, e si guardò intorno; era la prima volta che vedeva il centro operativo del progetto, e l’impressione non fu delle migliori.

Anche nel laboratorio alcune lampade erano bruciate, senza essere cambiate. Un gruppo di tre monitor occupava un pannello che copriva quasi una parete, alla sua sinistra; uno dei monitor era spento e silenzioso, ma i due restanti gli diedero una visione confusa e insoddisfacente della stanza che aveva appena lasciato. Il veicolo era riconoscibile soltanto per la sua forma, e per il serbatoio che lo ospitava. Le due immagini erano difettose, come se gli apparecchi fossero invecchiati, deteriorandosi, senza che nessuno li sostituisse. Si girò, lentamente, e guardò con attenzione il locale; non c’era alcun segno di occupazione, per lo meno recente. Gli strumenti e gli apparecchi c’erano… e funzionavano ancora… ma il personale del laboratorio era svanito, lasciando solo polvere e segni nella polvere. Una spia gialla di un computer lo guardava, considerandolo probabilmente un intruso.

Saltus posò il registratore, e lo collegò alla presa.

Disse, senza preamboli:

— Chaney, la casa del tesoro è vuota, abbandonata… i tecnici se ne sono andati. Non mi chieda dove e perché… non ci sono segni né indizi, e non hanno lasciato alcun messaggio. Adesso sono nel laboratorio, ma qui non c’è nessuno, all’infuori dei topi e di me. La porta era aperta, più o meno, e io sono entrato. — Bevve un sorso di bourbon, ma questa volta non si preoccupò di nasconderlo al registratore.

— Adesso vado a cercare William. Mi aspetti, Katrina, deliziosa strega. Buon compleanno, gente.

Saltus staccò il registratore, avvolse il cordone intorno allo strumento, e ritornò nell’altra stanza, per calare l’apparecchio nel TDV. Per compensare l’aumento di peso, staccò la telecamera sistemata nella bolla, e la gettò fuori, non prima di avere recuperato le pellicole. Sperava che l’agente di collegamento mandato da Washington piangesse calde lacrime sulla perdita. Saltus chiuse il portello, e uscì dalla stanza.

Il corridoio terminò e le scale lo portarono in alto, verso l’uscita di servizio, la “porta delle operazioni”, come la chiamavano. Il cartello che proibiva di portare armi oltre la porta era stato cancellato; una chiazza di vernice nera copriva tutte le lettere.

Saltus guardò l’ora e infilò le chiavi nelle aperture. Un campanello suonò, dietro di lui, quando spinse la porta, e la porta si aprì. La giornata era luminosa; luminosa di sole e di neve bianca.

Erano le dodici meno cinque. Era mattino. Il suo compleanno era appena cominciato.

Un’automobile lo aspettava nel parcheggio.

Capitolo quattordicesimo

Arthur Saltus uscì, cautamente, nella neve. La base pareva abbandonata; nulla si muoveva per le strade e i vialetti.

Tornò a guardare l’automobile ferma.

Era piccola, e somigliava più al “maggiolino” tedesco che ai modelli americani, ed era di un colore verde-oliva; ma capì che era americana, avvicinandosi, dal nome inciso sui mozzi delle ruote. L’auto era laggiù da prima dell’inizio della nevicata; non c’era alcuna traccia di movimenti passati, di insidie. Uno strato di neve copriva la macchina, e un finestrino era socchiuso, una semplice fessura dalla quale era entrata la neve, che si era sciolta all’interno, inumidendo i sedili.

Saltus si guardò intorno: guardò il parcheggio, il giardino e gli spazi freddi e vuoti che lo circondavano, ma non vide alcun segno di movimento o di vita. Restò immobile, vigile, ascoltando con attenzione, guardando, e fiutando il vento, alla ricerca di qualche segno di vita. Nessuno aveva lasciato delle impronte rivelatrici sulla neve, e non c’erano suoni od odori rivelatori nel vento. Quando ne fu sicuro, Saltus si allontanò dalla porta delle operazioni, chiudendola alle sue spalle, assicurandosi che le serrature avessero scattato. Tenendo alto il fucile, si avvicinò cautamente all’angolo dell’edificio e si affacciò a guardare. La strada era deserta e la neve intatta, come tutti i prati e i viottoli tra le costruzioni, dall’altra parte della strada. I cespugli erano curvi sotto il peso della neve. Il suo piede urtò un oggetto sepolto nella neve, quando fece un passo avanti per abbandonare la protezione dell’angolo.

Abbassò lo sguardo, si chinò, ed estrasse dalla neve un apparecchio radio. Era stato preso dal deposito, in basso.

Saltus lo rigirò tra le mani, cercando di vedere se aveva riportato dei guasti, ma l’apparecchio era intatto; nessun segno indicava che fosse stato colpito da qualche proiettile, e dopo una breve esitazione il comandante immaginò che Moresby doveva averlo lasciato cadere in quel punto per sbarazzarsi del peso superfluo. Saltus ricominciò la sua esplorazione, girando intorno all’edificio, per assicurarsi di essere solo. La neve che rifletteva il chiarore del sole era immacolata. Ne fu sollevato, e si fermò di nuovo per assaggiare il bourbon.

L’automobile richiamò la sua attenzione.

Il cruscotto lo sconcertò; invece che una chiavetta d’accensione c’era un interruttore, con le due posizioni standard, on e off; non c’erano quadranti per fornire le necessarie informazioni sulla quantità di benzina, di olio, sulla temperatura dell’acqua, sulla pressione dei pneumatici, e non c’era neppure un tachimetro. Spinto da un’idea improvvisa ed eccitante, Saltus scese dall’auto e sollevò il cofano. Tre grosse batterie argentate erano allineate, accanto a un motore così semplice e compatto da non apparire in grado di spostare niente, meno che mai un’automobile. Saltus abbassò il cofano, e tornò al volante. Abbassò l’interruttore nella posizione on. Non si udì alcun suono, ma una luce ammiccò sul cruscotto. Saltus spinse con estrema lentezza la leva nella posizione “avanti”, e l’auto, obbediente, avanzò lentissima nella neve, verso la strada deserta. Saltus schiacciò l’acceleratore con crescente soddisfazione, e deliberatamente spinse alla massima velocità la macchina nella strada nevosa. L’auto sbandò in maniera strana, poi ritornò sotto il controllo del pilota, quando Saltus toccò il volante. La piccola automobile era divertente.

Seguì la strada familiare che portava alla vecchia caserma dove aveva vissuto con William e con il civile, descrivendo curve e zig-zag sulla neve, perché l’auto pareva obbedire a tutti i suoi comandi. Era capace di descrivere un giro completo e poi di fermarsi, con il muso puntato nella direzione desiderata, poteva descrivere curve pazzesche senza minacciare di ribaltarsi, poteva affondare nella neve e continuare a muoversi senza scivolare, se chi si trovava al volante aveva un poco di abilità. Saltus pensò che quelle auto elettriche avrebbero dovuto essere inventate cento anni prima.

Saltus si fermò, con una stretta al cuore, davanti alle caserme… davanti al luogo in cui c’erano state le caserme. Per poco non passò oltre senza accorgersi di avere raggiunto il posto. Tutti i vecchi edifici erano bruciati fino alle fondamenta di cemento, e sotto la neve erano quasi irriconoscibili. Saltus scese dall’auto e guardò i resti degli edifici, e le ombre solitarie proiettate dal sole d’inverno.

Si sentiva molto depresso. Risalì a bordo, e si diresse verso la Strada E, poi girò a nord, verso il centro ricreativo.

Parcheggiò l’auto fuori del recinto che circondava l’area, ed entrò cautamente dal cancello, per esplorare il luogo. La neve immacolata era rassicurante, ma non voleva cullarsi in un falso senso di sicurezza. Tenendo pronto il fucile, fermandosi a ogni passo per ascoltare e fiutare il vento e guardare nella neve, Saltus avanzò fino ai bordi di ceramica della piscina, e guardò in basso. Era quasi vuota, l’acqua non c’era più, e il trampolino era stato rimosso.

Quasi vuota: una mezza dozzina di lunghi fagotti erano distesi sotto la coltre di neve, sul fondo, e quei fagotti avevano la forma di uomini. Due elmetti militari giacevano vicino, riconoscibili malgrado la neve che li copriva. Un piede nudo, congelato, sporgeva dalla coltre nevosa, immerso nella fredda luce del sole.

Saltus si voltò, respirando forte, deluso e amareggiato; non era sicuro di sapere quello che si era aspettato di trovare, dopo tanto tempo, ma certamente non era quello che aveva visto… certamente non erano i cadaveri del personale della base, gettati in una tomba scoperta, ammonticchiati come animali. Gli elmetti militari suggerivano quale fosse la loro identità, e suggerivano che le vittime erano state gettate là dentro da estranei… da ramjets. Se ci fossero stati superstiti, a Elwood Station, avrebbero cremato i cadaveri.

Ricordò la stupenda immagine di Katrina nella piscina… Katrina, quasi nuda, ancor più provocante che se fosse stata nuda, con indosso quel costume da bagno minuscolo, bello ed eccitante… e lui l’aveva inseguita nell’acqua, aveva voluto toccare quel corpo umido e splendido, averlo sotto le sue mani, e non si era mai stancato. E lei l’aveva provocato, sfuggendogli sempre, sapendo quel che lui stava facendo ma fingendo di non rendersene conto: e questo aveva aumentato l’eccitazione del gioco. E Chaney! Il povero civile sopraffatto era rimasto seduto ai bordi della piscina, verde d’invidia solforica, volendo ma non osando. Accidenti, quello era stato un giorno da ricordare!

Arthur Saltus esplorò la strada, e poi risalì a bordo dell’auto.


C’erano due larghe brecce nel recinto che circondava la base, sull’angolo di nord-ovest. Entrambe le brecce erano state provocate da azioni dirette dall’esterno. La carcasse di un camion bruciato aveva provocato la prima breccia, e quella carcassa rugginosa occupava ancora il varco. Un mortaio aveva prodotto la seconda breccia. C’era una piccola cavità nel terreno, proprio al di sotto della seconda breccia, una cavità prodotta da un altro proiettile di mortaio; evidentemente il colpo era stato lanciato quando la breccia era già stata prodotta. C’erano degli oggetti, nella neve, che potevano essere i miseri resti di uomini; quei resti erano come macchie su tutto il pendio, da una parte e dall’altra del recinto. C’era anche lo scheletro riconoscibile di un’automobile completamente distrutta.

Saltus guardò i rottami dell’auto, trovando i resti delle ruote e i pezzi di macchinario, e guardando, sorpreso, un parabrezza di plastica così solida che il pezzo era uscito completamente dalla parte anteriore della macchina, ed era caduto, intatto, al suolo, un blocco compatto di plastica trasparente sepolto a diversi metri dai rottami. Lo paragonò al parabrezza della sua macchina, e trovò che era identico. Le batterie erano state portate via… o erano state completamente demolite; il piccolo motore era una massa di metallo fuso.

Saltus cercò di liberare il terreno dalla neve, per quel che poteva, cercando qualcosa che gli indicasse che William Moresby era morto in quel luogo. Era probabile che William avesse trovato quell’auto al parcheggio… un’auto gemella di quella che Saltus aveva ora… dirigendosi poi a nord, sul teatro dello scontro. In quel punto. Sarebbe stato dannatamente brutto, se il vecchio amico fosse morto prima di uscire dall’auto. Il vecchio William meritava una fine migliore.

Non trovò niente… neppure un brandello di uniforme, tra i rottami, e per il momento questo era incoraggiante.

In fondo alla discesa erano visibili dei tronchi d’albero ammassati e un’impalcatura che reggeva un grande cartello. L’impalcatura era traballante. Un corpo coperto dalla neve giaceva accanto a un tronco, ma questo era tutto; non c’erano armi, sul luogo. I resti di un mortaio esploso si trovavano davanti all’impalcatura, e dall’aspetto del pezzo, Saltus immaginò che un proiettile difettoso fosse esploso all’interno della canna, distruggendo l’arma e probabilmente uccidendo l’artigliere. Non c’era un cadavere, sul posto, che suffragasse l’ipotesi, a meno che non si trattasse del cadavere appoggiato al tronco d’albero. Il secondo dei due mortai menzionati nella registrazione non c’era… era stato portato via. I vincitori di quello scontro erano stati i ramjets; avevano preso il mortaio rimasto e se ne erano andati… o erano penetrati nella base, attraverso la breccia.

Saltus risalì il pendio, e attraversò la breccia nel recinto. Il fondo nevoso seguiva i contorni del terreno, seguendo il contorno rotondo della cavità. Saltus inciampò in qualcosa d’invisibile, in fondo alla cavità del terreno, e dovette lottare per mantenere l’equilibrio. Un vento freddo gli soffiava sul viso, intorpidendogli le dita, un vento che batteva, implacabile, il pendio.

Saltus iniziò lo sgradevole compito di togliere la neve da ciascuno dei corpi caduti, togliendone a sufficienza per vedere le stoffe marcite delle uniformi. I difensori avevano indossato delle uniformi dell’esercito, e uno di loro portava ancora al collo la piastrina d’identificazione; in un altro punto trovò delle sbarrette da caporale attaccate a un brandello di manica, e non molto lontano c’era un paio di scarpe vuote. Non riuscì a trovare l’uniforme dell’aviazione di William Moresby.

Un pensiero lo colpì. Aveva trascurato qualcosa.

Saltus ritornò sui suoi passi, verso il recinto, infastidito dalla dimenticanza e infastidito per la futilità del suo compito: disseppellì i resti di abiti civili, anonimi e irriconoscibili, e un bracciale giallo. Una croce nera sbiadita su uno straccio marcito di cotone giallo non gli disse niente, ma l’infilò ugualmente in tasca, per un esame più approfondito. Katrina avrebbe voluto vederlo, quel bracciale. I corpi dei ramjets erano d’impossibile identificazione; sedici mesi di esposizione all’aria e alle intemperie li avevano resi irriconoscibili come quegli altri corpi, dall’altra parte del recinto. L’unica cosa nuova che aveva scoperto era che i banditi dei quali parlava il nastro erano dei civili, dei civili armati di mortaio, e in possesso di una specie di organizzazione centrale… forse lo stesso gruppo che aveva chiamato la bomba H su Chicago. Ramjets alleati dei cinesi… o per lo meno pronti a richiedere la loro collaborazione.

Per Saltus, la scena significava una sola cosa: guerra civile.

Si fermò, d’un tratto, colpito da un nuovo pensiero, fissando con gli occhi sbarrati per la sorpresa i corpi sepolti dalla neve. Ramjets… che avevano fatto saltare Chicago… per ritorsione? I ramjets che avevano perduto, a Chicago, venti anni prima, prigionieri del loro stesso muro, che ora avevano colpito con ferocia, per rappresaglia? Ramjets, che avevano lavorato insieme ai cinesi, legati a loro da un odio comune per l’uomo bianco, per l’establishment bianco?

Guardò di nuovo il cadavere vicino al tronco d’albero, scendendo fin laggiù, ma era impossibile, ormai, distinguere il colore della pelle.

Arthur Saltus risalì il pendio.

Il mondo era stranamente vuoto e silenzioso… deserto, abbandonato. Non aveva visto alcun traffico sulla lontana autostrada, né sulla vicina ferrovia; il cielo era stranamente sgombro di aerei. Saltus era rimasto sempre in guardia, pronto al pericolo, ma non aveva visto nessuno, niente… nella neve non c’erano neppure delle orme di animali. Un mondo deserto… o, più probabilmente, un mondo nascosto. Quella voce rabbiosa, alla radio, gli aveva ordinato di tacere, per non rivelare il suo nascondiglio.

Saltus rimase solo per pochi altri minuti sulla fredda collina, in piedi tra i rottami dell’auto distrutta. Sperava davvero che William fosse riuscito a saltare giù prima che il mortaio avesse distrutto la macchina. Il vecchio soldato meritava di restituire almeno un paio di colpi ai banditi, prima che i suoi profeti di sciagure fossero discesi a prenderlo.

Alla fine si convinse che il maggiore era morto lassù.


Saltus passò accanto all’edificio della mensa, dandogli solo un’occhiata di sfuggita. Come le caserme, le parti in legno della costruzione erano state bruciate. Pensò che, probabilmente, i ramjets avevano saccheggiato la base, dopo aver praticato la breccia nella barriera, bruciando tutte le parti infiammabili e rubando o distruggendo il resto. Era una incredibile fortuna quella che aveva avuto… perché il laboratorio era stato costruito per sopportare guerre e terremoti; altrimenti lui sarebbe uscito in una stanza aperta sotto il cielo, e sarebbe sceso dal veicolo nella neve. Sperò che i banditi fossero morti di fame da molto tempo… ma nello stesso momento ricordò le provviste mancanti nel deposito.

Quel bandito non era morto di fame, ma non aveva neppure dato da mangiare ai suoi compagni. Come aveva latto a entrare dalla porta chiusa? Avrebbe avuto bisogno di entrambe le chiavi, e avrebbe dovuto prenderle a William… ma un colpo diretto sull’auto avrebbe mandato chissà dove le chiavi, come tutti gli altri pezzi del veicolo. E presumendo che il bandito fosse entrato in possesso delle chiavi, perché non aveva aperto la porta ai suoi compagni? Perché il deposito non era stato saccheggiato, ripulito, perché il laboratorio non era stato messo a ferro e fuoco? Quell’uomo era stato così egoista da tenere per sé la scoperta, nutrendosi e coprendosi mentre i suoi compagni morivano? Forse; ma non mancava solo un paio di stivali; ne mancavano altri.

Saltus girò un angolo a velocità folle, frenando subito nella neve, e poi ripartendo verso il cancello principale. Fu un piccolo sollievo trovare la garitta ancora in piedi; era difficile bruciare o distruggere dei blocchi di cemento. Il cancello era spalancato, era stato piegato e divelto e gettato da una parte. Varcò lo spazio vuoto, e si concentrò sulla traccia appena visibile della strada, davanti a lui; la distesa immacolata di neve mostrava ai lati degli avvallamenti, e questa era l’unica traccia che lo guidava. E pensare che appena giovedì scorso lui e William avevano viaggiato su quella strada, per passare la giornata a Joliet.

Un uomo barbuto balzò fuori della garitta, e sparò contro il finestrino posteriore dell’auto.

Arthur Saltus non perse tempo a decidere se era sorpreso o infuriato… lo sparo Io spaventò, e lui reagì automaticamente al pericolo. Schiacciando al massimo l’acceleratore, girò con violenza il volante, descrivendo una curva impressionante. La macchina scivolò e ondeggiò, ma descrisse il suo arco, puntando contro la garitta. Saltus schiacciò ancora l’acceleratore. Le ruote posteriori girarono a vuoto sulla neve e riuscirono a ripartire solo quando ebbero incontrato il terreno, e allora la macchina sfrecciò in avanti, a una velocità che trovò Saltus impreparato. L’auto attraversò lo spazio del cancello zigzagando paurosamente. La macchina andò a urtare con forza la porta della garitta, e nello stesso momento Saltus balzò a terra, tenendosi stretto al fianco del veicolo.

Saltus sparò in rapida successione nella porta traballante, e come risposta udì un grido di dolore; sparò di nuovo, e poi si arrampicò sul cofano della macchina, per affacciarsi sulla porta. L’uomo che urlava era disteso a terra, e si stringeva il petto insanguinato. Un negro alto e magro era appoggiato alla parete opposta, e stava prendendo la mira per sparargli. Saltus sparò senza sollevare il fucile, e poi, deliberatamente, si girò e finì con un colpo nella fronte l’uomo che si torceva disperatamente al suolo. Le grida terminarono.

Per un istante il mondo fu avvolto nel silenzio.

Saltus disse: — E adesso, cosa diavolo…

Un colpo di violenza incredibile lo scosse, un colpo alla schiena, che gli tolse il fiato e gli fece morire in gola la frase che aveva iniziato, e poi Saltus udì il rumore dello sparo, che pareva giungere da distanze inimmaginabili. Barcollò e cadde in ginocchio, mentre un incendio furioso esplodeva nella sua spina dorsale, e risaliva fino al cranio. Un altro sparo lontano ruppe la pace di quel mondo silenzioso, ma questa volta Saltus non sentì nulla. In ginocchio, cercò di voltarsi per affrontare la minaccia.

Il ramjet si stava arrampicando sul cofano della macchina, per prenderlo.

Impacciato, come un uomo proteso a nuotare tra le sabbie mobili, Saltus sollevò il fucile, e cercò di prendere la mira. L’arma era pesante, quasi troppo per essere mossa; Saltus si muoveva, con un movimento lento e dolorosissimo. Il ramjet si gettò su di lui, cercando di prendergli il fucile o di immobilizzarlo. Saltus guardò il viso, ma il viso non era che una chiazza confusa, che non poteva inquadrare chiaramente. Qualcuno, dietro il viso, torreggiava sopra di lui, grande come una montagna; le mani di qualcuno afferrarono la canna del fucile, pei strappargliela. Saltus tirò il grilletto.

Il viso torreggiante cambiò: si disintegrò in un confuso turbine di ossa, sangue e pelle, si disintegrò come l’auto elettrica di William sotto il fuoco di un mortaio. Il viso confuso scomparve, mentre un tuono tremendo riempiva la garitta e faceva scuotere la porta divelta. Un enorme frammento della montagna ondeggiò sopra di lui, minacciando di seppellirlo, al momento della caduta. Saltus cercò, disperatamente, di allontanarsi, strisciando sul terreno.

Il corpo che cadeva lo colpì sulle ginocchia, e fece schizzare via il fucile. Saltus rimase sepolto dalla massa, cercando di respirare, disperatamente, e pregando Dio di non venire schiacciato.

Arthur Saltus aprì gli occhi e vide che la luce del giorno se ne era andata. Un peso intollerabile lo schiacciava sul pavimento della garitta, e un dolore insopportabile scuoteva il suo corpo.

Muovendosi faticosamente — ogni movimento gli costava un tremendo dolore — ma avanzando solo di pochi centimetri per volta, cercò di uscire dalla massa che lo schiacciava, di rovesciarla. Dopo minuti — oppure ore? — di sforzi disperati, riuscì a emergere e a inginocchiarsi, e si tolse lo zaino che gli produceva un dolore martellante alla schiena; prima di gettare via la borraccia, cercò di bere, versando molta acqua sul terreno. Il fucile giaceva al suolo, accanto alle sue gambe, ma con sorpresa si accorse di non avere nella mano e nel braccio la forza sufficiente per raccoglierlo. Gli occorse un periodo che gli parve di un’ora per estrarre di sotto il pesante giaccone a pelo l’automatica.

Un tempo incredibile fu trascorso a strisciare sullo stesso cofano, per uscire. Con una spinta, fece cadere al suolo la pistola. Saltus si piegò, toccò l’arma, tentò d’impugnarla, e la testa gli girò; fu costretto ad abbandonare l’arma per salvarsi. Si afferrò alla maniglia, e riuscì a mettersi in piedi. Dopo qualche tempo tentò di nuovo, e riuscì soltanto a impugnarla, e la testa gli girò; fu costretto ad abbandonare l’arma per salvarsi. Si afferrò alla maniglia, e riuscì a mettersi in piedi. Dopo qualche tempo tentò di nuovo, e riuscì soltanto a impugnare la pistola e a rialzarsi, prima di essere sopraffatto da una nuova ondata di nausea. Si voltò, e vomitò nella neve.

Saltus salì a bordo dell’auto, e innestò la marcia indietro, allontanandosi dalla porta della garitta di guardia. Aprendo un finestrino per ricevere lo stimolo dell’aria gelida, mosse di nuovo l’auto, e si diresse verso il parcheggio. L’auto zigzagò nella neve, ma questa volta Saltus non si divertiva alle evoluzioni del veicolo. L’auto cadde da un marciapiede e scivolò nella neve, slittando fino a rimbalzare contro il marciapiede opposto; avrebbe prodotto danni gravi all’occupante, se la velocità fosse stata maggiore. Saltus non aveva più la forza di spingere il freno, e la piccola auto si fermò solo quando urtò la parete di cemento del laboratorio. Saltus fu proiettato contro il volante, e poi cadde fuori, sulla neve. Una sottile traccia di sangue segnò il suo cammino incerto dall’auto alla porta con le serrature gemelle.

La porta si aprì facilmente… tanto facilmente che un angolo fievole della sua mente ottenebrata si incuriosi: aveva inserito entrambe le chiavi nelle serrature, prima di aprire la porta? Aveva usato le chiavi?

Arthur Saltus cadde, rotolando lungo la scala, perché non riuscì a fermarsi in tempo.

La pistola gli era sfuggita di mano, ma non ricordava dove l’aveva perduta; la bottiglia di bourbon, per festeggiare il suo compleanno, gli era sfuggita di tasca, ma non ricordava di averla vuotata oppure gettata via; e aveva perduto le chiavi della porta. Saltus giacque sul dorso, sul pavimento polveroso, guardando le luci e le scale che portavano alla porta chiusa. Non ricordava di avere chiuso quella porta.

Una voce disse: — Cinquanta ore.

Capì che stava perdendo i contatti con la realtà, capì che stava passando dei periodi di delirio febbrile, tra i quali s’inserivano momenti di lucidità fredda e dolorosa. Avrebbe voluto dormire su quel pavimento, avrebbe voluto girarsi, affondare il viso nella polvere e lasciare che il fuoco che infuriava nella schiena si estinguesse. Il panciotto protettivo di Katrina gli aveva salvato la vita, pei un pelo. La pallottola… una o più d’una?… era affondata nella schiena, ma senza il panciotto avrebbe attraversato tutto il petto, uscendo dall’altra parte e squarciando la gabbia toracica. Grazie, Katrina.

Una voce disse: — Cinquanta ore.

Cercò di alzarsi, ma ricadde disteso sul viso. Cercò di inginocchiarsi, ma ricadde, battendo di nuovo il viso. Non gli erano rimaste molte energie. Le forze gli stavano sfuggendo. All’unisono con lo scandito trascorrere di un’eternità, strisciò sul ventre, dirigendosi verso il TDV.

Arthur Saltus lottò per un’ora, per scalare il fianco del veicolo. La lucidità gli stava sfuggendo, scomponendosi in un mare di fantasie deliranti, di nausea e di torpore: provò diverse allucinazioni. In una, gli parve che qualcuno gli stesse sfilando gli stivali pesanti… e poi che qualcuno gli togliesse i pesanti indumenti invernali, e cercasse di togliergli gli abiti. Quando, alla fine, cadde a testa in giù attraverso il portello aperto del veicolo, ebbe l’impressione delirante che qualcuno, da fuori, lo avesse aiutato a scavalcare il bordo.

Una voce disse: — Spingi il pedale.

Giacque sullo stomaco sulla griglia, con il viso nella direzione sbagliata, e ricordò che i tecnici non avrebbero recuperato il veicolo se non al termine delle cinquanta ore. L’avevano fatto, quando William non era ritornato, e il veicolo era emerso dopo sessantuno secondi, senza il suo passeggero. Qualcosa era sotto di lui, e gli faceva male, spingeva una gabbia toracica già dolorante oltre ogni possibilità di sopportazione. Saltus riuscì a togliere l’oggetto che gli faceva male, e scoprì che si trattava di un registratore. Lo spinse in direzione del pedale, ma l’oggetto cadde a pochi centimetri dalla destinazione. L’allucinazione chiuse rumorosamente il portello, sopra di lui.

Disse, con voce rauca e spezzata:

— Chaney… i banditi hanno bruciato la casa del tesoro…

Il registratore fu scagliato contro il pedale.


Erano le due e quaranta del mattino del 24 Novembre 2000. Il suo cinquantesimo compleanno era terminato già da tempo.

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