«E questa è la fine della storia, veramente.
«Naturalmente, so che ti domandi che cosa ci è successo dopo. Che ne è stato di Armand? Dove sono andato io, cosa ho fatto… Ma t’assicuro che non è successo veramente niente. Niente che non fosse inevitabile. E quella peregrinazione per il Louvre quell’ultima notte fu né più né meno che profetica.
«In seguito non cambiai più. Non cercai più nulla in quell’unica grande sorgente di cambiamento che è l’umanità. Persino nel mio amore e nella mia dedizione alla bellezza del mondo, non cercai mai di imparare qualcosa che si potesse riportare all’umanità. Bevevo la bellezza del mondo come beve un vampiro. Ero soddisfatto, pieno fino all’orlo. Ma ero morto. Ed ero immutabile. La storia termina proprio a Parigi.
«Per molto tempo pensai che la morte di Claudia fosse stata la causa della fine d’ogni cosa. Che se avessi visto Madeleine e Claudia lasciare Parigi sane e salve, le cose avrebbero potuto andare diversamente tra me e Armand. Avrei potuto amare e desiderare ancora, cercare qualche sembianza della vita mortale ricca e variata, ancorché innaturale. Ma ora finalmente ho capito che non era vero. Anche se Claudia non fosse morta, anche se non avessi disprezzato Armand per aver lasciato che morisse, tutto si sarebbe svolto alla stessa maniera. Arrivare lentamente a conoscere il male che era in lui, o esserci catapultato dentro… era assolutamente lo stesso. Alla fine, non volevo più saperne niente. E dato che non meritavo niente di meglio, mi rinchiusi come un ragno nella fiamma d’un fiammifero. E persino Armand, che era il mio fedele, il mio unico compagno, era lontanissimo da me, oltre il velo che mi separava da tutte le cose viventi, un velo che aveva la sembianza d’un sudario.
«Ma so che sei ansioso di sapere che cosa è stato di Armand. E la notte è quasi finita. Voglio dirtelo perché è molto importante. La storia è incompleta.
«Lasciata Parigi, come t’ho detto ci mettemmo a viaggiare per il mondo: prima l’Egitto, poi la Grecia, poi l’Italia, l’Asia Minore, ovunque io scegliessi di andare, veramente, e ovunque la mia ricerca di arte mi conducesse. Il tempo cessò di esistere come entità dotata di un qualche significato durante quegli anni, e spesso restavo immerso in cose semplicissime — un quadro in un museo, la finestra d’una cattedrale, una statua di grande bellezza — per lunghi periodi.
«Ma durante tutti quegli anni sentivo un desiderio vago ma persistente di tornare a New Orleans. Non l’avevo mai dimenticata. E quando eravamo in luoghi tropicali, in luoghi dove crescono gli stessi fiori e alberi che crescono in Louisiana, ci pensavo intensamente e provavo per la mia patria l’unico barlume di desiderio che provassi per qualsiasi cosa al di fuori della mia infinita ricerca dell’arte. E di tanto in tanto Armand mi chiedeva di portarcelo. E io, da gentiluomo qual ero, ben consapevole d’aver fatto poco per compiacerlo e d’aver spesso trascorso lunghi periodi senza parlare veramente con lui o cercare la sua compagnia, desideravo farlo perché lui me lo chiedeva. A quanto pare la sua richiesta mi faceva dimenticare il timore indistinto di rinnovare il mio dolore a New Orleans, di ritrovare il pallido spettro della mia antica infelicità e della mia nostalgia. Ma rimandavo. Forse quel timore era più forte di quanto non sapessi. Arrivammo in America e vivemmo a New York per molto tempo. Continuavo a rimandare. Poi, alla fine, Armand mi convinse in un altro modo. Mi disse qualcosa che mi aveva tenuto nascosto da quando eravamo a Parigi.
«Lestat non era morto nel Teatro dei Vampiri. Io avevo creduto che fosse morto, e quando avevo chiesto ad Armand di quei vampiri, mi aveva detto ch’erano morti tutti. Ma allora mi confessò che non era così. Lestat aveva lasciato il teatro la notte che ero corso via da Armand e mi ero rifugiato nel cimitero di Montmartre. Due vampiri che erano stati creati insieme a Lestat dallo stesso maestro lo avevano aiutato a trovare una nave per New Orleans.
«Non posso spiegarti la sensazione che mi assalì quando lo seppi. Certo, Armand mi confessò di avermelo tenuto nascosto, nel timore che io avrei intrapreso un lungo viaggio solo per vendetta, un viaggio che m’avrebbe procurato sofferenze e angoscia. Ma la cosa non m’importava veramente. La notte in cui incendiai il teatro non pensavo affatto a Lestat; pensai a Santiago, a Celeste e agli altri che avevano annientato Claudia. Lestat, in realtà, aveva suscitato in me sentimenti che non avevo voluto confidare a nessuno, sentimenti che avevo desiderato dimenticare, nonostante la morte di Claudia. L’odio non era tra questi.
«Ma quando Armand mi disse che era vivo, fu come se il velo che mi proteggeva fosse diventato sottile e trasparente e mi parve di vedere Lestat, mi accorsi che desideravo rivederlo. E così facemmo ritorno a New Orleans.
«Era la tarda primavera di quest’anno. E non appena uscii dalla stazione, capii ch’ero davvero tornato a casa. Era come se lì la stessa aria fosse profumata e speciale, e mi sentivo straordinariamente a mio agio camminando su quei marciapiedi tiepidi e piatti, sotto quelle querce familiari, ascoltando i suoni incessanti, vibranti, pieni di vita della notte.
«Naturalmente, New Orleans era cambiata. Ma, lungi dal deplorare questi cambiamenti, ero grato per quanto sembrava uguale a prima. Ritrovai nel Garden District, che ai miei tempi era il Faubourg St-Marie, uno dei nobili vecchi palazzi che risalivano a quei tempi, così lontano dalla tranquilla strada di mattoni che io, camminando al chiaro di luna sotto le magnolie, provavo lo stesso senso di dolcezza e di pace che avevo conosciuto un tempo; non solo nelle strade strette e buie del Vieux Carré, ma nel terreno incolto di Pointe du Lac. C’erano il caprifoglio e le rose, il luccichio delle colonne corinzie contro le stelle; e al di là del cancello strade di sogno, altre ville… una cittadella piena di grazia.
«In Rue Royale, dove portai Armand accanto a turisti, a negozi d’antiquariato e agli ingressi sfavillanti di luci dei ristoranti alla moda, fui sorpreso di scoprire la casa dove Lestat, Claudia e io avevamo stabilito la nostra dimora, la facciata appena modificata dallo stucco fresco e da qualche riparazione. Le due porte-finestre si aprivano ancora sui balconcini sopra al negozio, e vidi, nella dolce luminosità dei lampadari elettrici, una elegante tappezzeria che non sarebbe apparsa inconsueta a quei tempi prima della guerra di secessione. In quel posto ebbi una forte percezione di Lestat, molto più di lui che di Claudia, e la certezza, sebbene lui non fosse affatto vicino a quella casa, che lo avrei trovato a New Orleans.
«E sentivo un’altra cosa ancora; una tristezza che mi invase dopo che Armand se ne fu andato per la sua strada. Ma questa tristezza non era dolorosa né travolgente. Era qualcosa d’intenso, quasi dolce, come il profumo del gelsomino e delle rose che affollavano il vecchio giardino nel cortile, che vidi attraverso i cancelli di ferro. E mi dava una sottile contentezza e mi trattenne a lungo in quel posto; mi trattenne in città; e non mi lasciò completamente la notte che me ne andai.
«Adesso mi domando che cosa avrebbe potuto derivare da questa tristezza, quale sentimento avrebbe potuto generare in me capace di diventare più forte di essa. Ma sto andando troppo avanti.
«Perché, poco dopo, vidi a New Orleans un vampiro, un giovane dal viso bianco, lucente, che camminava solo sui larghi marciapiedi di St Charles Avenue nelle ore che precedono l’alba. E subito mi convinsi che, se Lestat viveva ancora lì, quel vampiro avrebbe potuto conoscerlo e avrebbe potuto anche condurmi da lui. Naturalmente il vampiro non mi vide. Da tempo avevo imparato a distinguere quelli della mia razza nelle grandi città senza che loro avessero modo di notarmi. Armand, nelle sue brevi visite ai vampiri di Londra e di Roma, era venuto a sapere che l’incendio del Teatro dei Vampiri era noto in tutto il mondo, e che noi due eravamo considerati dei reietti. Le polemiche su questa storia per me non avevano alcun significato, e fino a oggi le ho evitate. Ma cominciai a tener d’occhio questo vampiro a New Orleans e a seguirlo, sebbene mi conducesse spesso soltanto a dei teatri o ad altri passatempi per i quali non avevo alcun interesse. Ma poi, una notte, le cose cambiarono.
«Era una sera molto calda, e non appena lo vidi in St Charles Avenue capii che stava andando in qualche posto. Non solo camminava in fretta, ma sembrava un po’ angosciato. Quando svoltò in una viuzza stretta, misera e buia, fui certo che era diretto verso qualcosa che mi avrebbe interessato.
«Ma poi entrò in una casetta di legno, e uccise una donna. Lo fece molto in fretta, senza ombra di piacere; quando ebbe finito, raccolse il figlio della donna da una culla di vimini, lo avvolse delicatamente in una coperta di lana azzurra e uscì di nuovo in strada.
«Solo dopo un isolato o due si fermò davanti a una cancellata di ferro coperta di rampicanti che cingeva un ampio cortile incolto. Oltre gli alberi vidi una vecchia casa scura, con la vernice che si staccava e le adorne ringhiere di ferro incrostate di ruggine arancione. Pareva una casa in rovina, arenata laggiù in mezzo alle numerose casette di legno, le grandi finestre vuote guardavano su ciò che doveva essere stato un malinconico grappolo di tetti bassi, una drogheria sull’angolo, un piccolo bar. Ma il vasto, scuro terreno proteggeva la casa da tutto questo, e dovetti procedere di alcuni passi prima di distinguere, attraverso i densi rami degli alberi, un debole alone di luce in una delle finestre del primo piano. Il vampiro era entrato dal cancello. Sentii il bambino piagnucolare, poi più nulla. Lo seguii, scavalcando agevolmente la vecchia cancellata; mi lasciai cadere nel giardino e salii silenziosamente sulla lunga veranda della facciata.
«La vista che mi si offrì, quando strisciai fino a una delle alte porte-finestre, era davvero stupefacente. Perché, nonostante il caldo di quella sera afosa, quando solo la veranda, persino con le sue assi deformate e rotte, avrebbe potuto essere l’unico posto tollerabile per un uomo o per un vampiro, un fuoco ardeva nel caminetto del salotto e tutte le finestre erano chiuse. Il giovane vampiro sedeva accanto a quel fuoco parlando con un altro vampiro molto vicino al caminetto, sollevando contro la grata rovente i piedi calzati di pantofole, e chiudendo continuamente con le dita tremanti i risvolti della frusta vestaglia azzurra. E sebbene un logoro cordone elettrico penzolasse da una ghirlanda di rose di stucco sul soffitto, soltanto una lampada a petrolio, sistemata sul tavolo accanto al bambino che piangeva, aggiungeva la sua luce fioca a quella del fuoco.
«Spalancai gli occhi e studiai quel vampiro che rabbrividiva, con la testa abbassata, la cui ricca chioma bionda ricadeva in molli onde a coprirgli il viso. Avrei voluto togliere la polvere dal vetro della finestra in modo da verificare il mio sospetto. ‘Mi abbandonate tutti!’ si lamentò il vampiro biondo con voce sottile e alta.
«‘Non puoi tenerci con te!’ rispose con tono brusco il giovane vampiro. Era seduto con le gambe accavallate, le braccia incrociate sull’esile busto, e guardava con aria di disprezzo la stanza polverosa e vuota. ‘Oh, silenzio!’ disse al bambino che si era messo a strillare. ‘Smettila, smettila’.
«‘La legna, la legna’ ordinò il vampiro biondo con voce flebile, e, come fece cenno all’altro di passargli la legna da ardere che stava accanto alla sua poltrona io riconobbi chiaramente, senza ombra di dubbio, il profilo di Lestat, quella pelle liscia ormai priva della pur minima traccia delle vecchie cicatrici.
«‘Se solo tu uscissi’ ringhiò quell’altro con rabbia, sollevando il grosso ceppo e mettendolo nel fuoco. ‘Se cacciassi qualcos’altro che non siano questi orrendi animali…’ E si guardò intorno con aria disgustata. Vidi, nell’ombra, i cadaverini pelosi di diversi gatti, buttati qua e là alla rinfusa nella polvere. Una cosa davvero straordinaria, perché un vampiro non sopporta la vicinanza delle sue vittime morte più di quanto qualsiasi mammifero possa restare vicino ai suoi escrementi. ‘Lo sai che è estate?’ domandò l’altro vampiro. Lestat si limitò a sfregarsi le mani. Il lamento del bimbo si spense, e il vampiro giovane aggiunse: ‘Su, deciditi con questo qui, prendilo, così ti scaldi’.
«‘Avresti potuto portarmi qualcos’altro!’ esclamò Lestat amaramente. E, quando guardò il bambino, vidi i suoi occhi stringersi contro la luce fosca della lampada fumosa. Fui sconvolto nel riconoscere quegli occhi, proprio quell’espressione adombrata dall’onda profonda dei capelli biondi. Eppure, sentire quella voce piagnucolosa, vedere quella schiena piegata e tremante! Quasi senza pensarci, picchiai forte sul vetro. Il giovane vampiro si alzò immediatamente con un’espressione dura, cattiva sul volto; ma io gli feci semplicemente cenno di girare il chiavistello. E Lestat, stringendosi la vestaglia alla gola, si alzò dalla poltrona.
«‘È Louis! Louis!’ esclamò. ‘Fallo entrare’. E gesticolò freneticamente, come un malato, perché il giovane ‘infermiere’ eseguisse.
«Come la finestra si aprì, respirai il fetore della stanza e il suo caldo soffocante. Il brulicare degli insetti sugli animali imputriditi mi graffiò i sensi al punto che arretrai senza volerlo, malgrado le suppliche disperate che mi rivolgeva Lestat. Là, nell’angolo in fondo, stava la bara dove dormiva, con la vernice che si staccava dal legno, semisommersa da pile di giornali ingialliti. E negli angoli c’erano ossa, tutte ripulite tranne che per qualche pezzettino e qualche ciuffo di pelo. Ma ora Lestat posò le sue mani asciutte sulle mie e mi trascinò verso di sé e verso il calore. Vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime e, quando la sua bocca si stiracchiò in uno strano sorriso di disperata felicità ch’era prossima al dolore, le deboli tracce delle vecchie cicatrici. Com’era sconcertante e orribile quest’uomo brillante, immortale, dal viso levigato, piegato e tremante e uggiolante come una vecchiaccia rugosa.
«‘Sì, Lestat’ mormorai. ‘Sono venuto a trovarti’. Respinsi la sua mano gentilmente, lentamente, e andai verso il bambino, che ora piangeva disperato per la paura e per la fame. Appena lo sollevai e allentai le coperte, si quietò un poco, poi gli diedi dei colpetti e lo cullai. Lestat mi sussurrava parole veloci, mezzo inarticolate, che non riuscivo a capire, le lacrime gli scorrevano lungo le guance, mentre il giovane vampiro stava presso la finestra con un’espressione di disgusto e una mano sul nottolino della finestra, come se intendesse chiuderla da un momento all’altro.
«‘Così tu sei Louis’ disse il giovane vampiro. Ciò parve aumentare l’inesprimibile agitazione di Lestat, che si asciugava freneticamente le lacrime con l’orlo della vestaglia.
«Una mosca si posò sulla fronte del bambino, e io la schiacciai tra due dita e la lasciai cadere morta sul pavimento. Il bambino non piangeva più. Mi guardava con degli incredibili occhi azzurri, azzurro scuro, il suo faccino tondo era lucido per il caldo, un sorriso giocava sulle sue labbra, un sorriso sempre più luminoso, come una fiamma. Non avevo mai dato la morte a un essere così giovane, così innocente, e me ne resi conto tenendo il bambino con una strana sensazione di dolore, ancora più forte di quella che s’era impadronita di me a Rue Royale. E cullando teneramente il bambino, avvicinai al caminetto la poltrona del giovane vampiro e mi sedetti.
«Non cercare di parlare… va bene così’ dissi a Lestat, che si lasciò cadere nella poltrona con un’espressione di gratitudine e si protese ad accarezzarmi con entrambe le mani i risvolti della giacca.
«‘Ma sono così contento di vederti’ balbettò tra le lacrime. ‘Ho sognato che venivi… che venivi…’ continuò. Poi fece una smorfia, come se sentisse un dolore che non riusciva a identificare, e nuovamente la sottile mappa di cicatrici apparve per un attimo. Guardava lontano, una mano all’orecchio, quasi volesse difendersi da un suono terribile. ‘Io non…’ cominciò; poi scosse la testa, spalancò gli occhi annebbiati dal dolore, si sforzò di mettermi a fuoco. ‘Io non volevo che lo facessero, Louis… voglio dire Santiago… quello, capisci, non m’aveva detto cosa avevano intenzione di fare’.
«‘È acqua passata, Lestat’ dissi.
«‘Sì, sì’ annuì con foga. ‘Acqua passata. Lei non avrebbe mai dovuto… perché, Louis, tu capisci…’ Scuoteva la testa, la sua voce pareva acquistare forza, acquistare un po’ di risonanza nello sforzo. ‘Lei non avrebbe mai dovuto essere uno di noi, Louis’. Si battè col pugno il petto incavato e ripeté a voce bassa ‘Noi’.
«Lei. Mi sembrò in quel momento che non fosse mai esistita. Che fosse stata un sogno irrazionale, fantastico, troppo prezioso e troppo personale perché potessi mai confidarlo a qualcuno. E da troppo tempo perduto. Lo guardai. Lo fissai e cercai di pensare: ‘Sì, noi tre insieme’.
«‘Non avere paura di me, Lestat’ gli dissi, come se stessi parlando a me stesso. ‘Non sono qui per farti del male’.
«‘Sei tornato da me, Louis’ mi sussurrò con quella voce sottile e acuta. ‘Sei tornato a casa da me, Louis, non è vero?’ E di nuovo si morse il labbro e mi guardò con aria disperata.
«‘No, Lestat’. Scossi la testa. Per un attimo fu in preda alla frenesia, di nuovo incominciò un gesto e poi un altro e infine rimase immobile, il viso coperto dalle mani, in un parossismo d’angoscia. L’altro vampiro, che mi studiava freddamente, domandò:
«‘Sei… sei tornato da lui?’
«‘No, naturalmente no’ risposi. E lui sorrise amaro, come a dire che quella era la risposta che si aspettava, che tutto sarebbe ricaduto di nuovo su di lui, e uscì sulla veranda. Sentivo che era molto vicino, in attesa.
«‘Volevo solamente rivederti, Lestat’ dissi. Ma Lestat sembrava non sentirmi. Qualcos’altro lo aveva distratto. Guardava lontano, con gli occhi spalancati, le mani vicino alle orecchie. Poi l’udii anch’io. Era una sirena. E come il suono crebbe, Lestat serrò gli occhi, si coprì le orecchie con le mani. E il suono diventò sempre più forte, risalendo la strada dal centro della città. ‘Lestat!’ urlai, al di sopra delle grida del bambino, che si levarono in quel momento per la stessa terribile paura della sirena. Ma la sua atroce sofferenza mi fece dimenticare me stesso. Le labbra gli scoprivano i denti in una spaventosa smorfia di dolore. ‘Lestat, è solo una sirena!’ gli dissi stupidamente. Si alzò dalla poltrona, venne verso di me, mi afferrò e mi strinse forte e io, senza volerlo, gli presi la mano. Lui si chinò, mi premette la testa contro il petto e mi strinse la mano così forte da farmi male. La stanza era piena dei lampi intermittenti della sirena; poi si allontanò.
«‘Louis, non posso sopportarlo, non posso sopportarlo’ ringhiò tra le lacrime. ‘Aiutami, Louis, resta con me’.
«‘Ma perché hai paura?’ domandai. ‘Non sai cosa sono queste cose?’ E quando lo guardai, quando vidi i suoi capelli biondi contro la mia giacca, mi tornò un’immagine di lui di tanto tempo prima, quell’alto, maestoso gentiluomo nel turbinante mantello nero, con la testa buttata all’indietro, che cantava con voce piena e perfetta l’aria vivace dell’opera alla quale eravamo appena stati; quel suo bastone da passeggio che batteva sul selciato a tempo con la musica; i suoi grandi occhi scintillanti che incantavano la giovane donna che si fermava, rapita, così che un sorriso illuminava il volto di Lestat e la canzone moriva sulle sue labbra; e per un attimo, per quell’attimo in cui i suoi occhi incontravano quelli della donna, tutto il male sembrava cancellato da quella vampata di piacere, da quell’entusiasmo per il semplice fatto di essere vivi.
«Era questo il prezzo di quel coinvolgimento? Una sensibilità sconvolta dal cambiamento, rovinata dalla paura? Pensai con calma a tutte le cose che avrei potuto dirgli, a come avrei potuto ricordargli che era immortale, che nulla lo condannava a questo ritiro se non lui stesso, e che era circondato dai segni evidenti di una morte inevitabile. Ma non dissi queste cose, e sapevo che non l’avrei fatto.
«Mi parve che il silenzio della stanza rifluisse rapidamente attorno a noi, come un mare oscuro che la sirena aveva sospinto lontano. Le mosche brulicavano sul cadavere putrescente di un ratto, e il bambino levò su di me uno sguardo sereno, come se i miei occhi fossero lucenti gingilli, e la sua mano piena di fossette si chiuse attorno al dito che tenevo sospeso sulla sua boccuccia morbida come un petalo.
«Lestat si era alzato, si era drizzato, ma solo per piegarsi di nuovo e strisciare nella poltrona. ‘Allora non resterai con me’ sospirò. Ma poi guardò lontano e sembrò improvvisamente assorto.
«‘Desideravo tanto parlare con te’ disse. ‘La notte che tornai a casa, a Rue Royale, desideravo solo parlare con te!’ Rabbrividì violentemente, chiudendo gli occhi, e la sua gola sembrò contrarsi. Era come se i colpi che gli avevo sferrato allora lo raggiungessero in quel momento. Guardava fisso davanti a sé senza vedere nulla, inumidendosi le labbra con la lingua, poi disse con voce bassa, quasi naturale, ‘Ti seguii a Parigi…’
«‘Cos’era che volevi dirmi?’ domandai. ‘Di che cosa volevi parlarmi?’
«Mi ricordavo perfettamente la sua folle insistenza al Teatro dei Vampiri. Per anni non ci avevo pensato. No, non ci avevo mai pensato. E mi rendevo conto che ora ne parlavo con molta riluttanza.
«Lestat si limitò a sorridermi, un sorriso insipido, quasi contrito. E scosse la testa. Vidi i suoi occhi riempirsi di una disperazione dolce, sfumata.
«Provai un senso di sollievo profondo, innegabile.
«‘Ma tu resterai!’ insistette.
«‘No’ risposi.
«‘E nemmeno io!’ fece il giovane vampiro dal buio là fuori. E restò per un attimo nella finestra aperta a guardarci. Lestat levò lo sguardo su di lui e poi lo distolse imbarazzato, il suo labbro inferiore sembrò indurirsi e tremare. ‘Chiudi, chiudi’ gridò, agitando il dito verso la finestra. Poi scoppiò in un singhiozzo e, coprendosi la bocca con la mano, abbassò la testa e pianse.
«Il giovane vampiro era sparito. Sentii i suoi passi veloci sul vialetto e il triste cigolio del cancello di ferro. Ero solo con Lestat, e lui piangeva. Passò molto tempo prima che smettesse, o almeno così mi parve; e durante tutto quel tempo non feci che osservarlo. Pensavo a tutto quello che c’era stato fra di noi. Ricordavo cose che pensavo di aver scordato completamente. E sentivo la stessa opprimente tristezza che avevo provato in Rue Royale dove avevamo vissuto. Solo che non mi sembrava una tristezza per Lestat, per quell’elegante, allegro vampiro che allora viveva con me. Mi sembrava tristezza per qualcos’altro, qualcosa che andava al di là di Lestat, che lo comprendeva ma era di più, era parte della grande, spaventosa tristezza per tutte le cose che avevo perduto o amato o conosciuto. Mi parve di essere in un luogo diverso, in un’epoca diversa. E quel luogo diverso e quell’epoca erano reali: una stanza dove gli insetti ronzavano come ronzavano qui e l’aria era stantia e densa di morte e del profumo di primavera. E io ero sul punto di riconoscere quel posto e di riconoscerlo con una sofferenza terribile, tanto terribile che la mia mente deviò e mi disse: ‘No, non riportarmi lì’. E tutt’a un tratto arretrò, ed ero con Lestat, qui, ora. Allibito vidi la mia lacrima cadere sul viso del bambino. La vidi brillare sulla sua guancia, paffuta nel sorriso. Doveva aver visto la luce nelle lacrime. Mi misi una mano sul viso e asciugai le lacrime che c’erano davvero e le guardai stupefatto.
«‘Ma Louis…’ diceva Lestat con voce sommessa. ‘Come puoi essere come sei, come puoi sopportarlo?’ Alzò lo sguardo su di me; sulla sua bocca la stessa smorfia, il suo viso bagnato di lacrime. ‘Dimmi, Louis, aiutami a capire! Come fai a capire tutto questo, come fai a sopportarlo?’ E io vedevo dalla disperazione nei suoi occhi e dal tono più grave che aveva preso la sua voce che anche lui si stava spingendo verso qualcosa che gli era estremamente doloroso, verso un luogo in cui non s’era avventurato per molto tempo. Ma poi, quando lo guardai, i suoi occhi parvero annebbiarsi, confondersi. Si strinse nella vestaglia e scuotendo la testa guardò nel fuoco. Un tremito lo percorse e gemette.
«‘Ora devo andare, Lestat’ gli dissi. Mi sentivo stanco, stanco di lui e stanco di quella tristezza. E di nuovo anelavo alla quiete là fuori, la quiete assoluta alla quale m’ero completamente abituato. Ma mi resi conto, alzandomi in piedi, che stavo portando via con me il bambino.
«Lestat mi guardò con i grandi occhi angosciati nel viso liscio, senza età. ‘Ma tu tornerai… verrai a trovarmi… Louis?’ chiese.
«Gli voltai le spalle e uscii da quella casa con calma, sentendo la voce di Lestat che mi chiamava. Quando raggiunsi la strada, guardai indietro e vidi che s’aggirava davanti alla finestra come se avesse paura a uscire. Capii che non usciva da molto, molto tempo, e che forse non sarebbe uscito mai più.
«Ritornai alla casetta da cui il vampiro aveva rapito il bambino, e lo lasciai nella sua culla.
«Non molto tempo dopo, dissi a Armand che avevo visto Lestat. Forse un mese dopo, non so bene. Il tempo significava poco per me allora, come adesso. Ma significava moltissimo per Armand. Era stupito che non gliene avessi parlato prima.
«Quella notte stavamo camminando verso la periferia della città, dove cede allo Audubon Park e l’argine è una china deserta, erbosa che scende fino a una spiaggia melmosa, coperta qua e là da pezzi di legno, che degrada fino alle onde del fiume. Sulla riva lontana c’erano le luci debolissime delle industrie e delle società sul lungofiume, puntini verdi o rossi che tremolavano in lontananza come stelle. E la luna metteva a nudo l’ampia, forte corrente che scivolava veloce tra le due sponde; e persino la calura estiva si era dissolta, con la fresca brezza che veniva dall’acqua e sollevava delicatamente il muschio attaccato alla quercia contorta dove eravamo seduti. Strappavo l’erba, l’assaggiavo, anche se il suo sapore era amaro e innaturale. Il gesto era istintivo. Avevo la sensazione, quasi, che non avrei mai più lasciato New Orleans. Ma che senso hanno simili pensieri quando si può vivere per sempre? Non lasciare ‘mai più’ New Orleans? Mai più sembrava una parola umana.
«‘Ma non hai alcun desiderio di vendetta?’ domandò Armand. Era sdraiato sull’erba accanto a me, appoggiato sul gomito, e mi fissava.
«‘Perché?’ chiesi con tono calmo. In quel momento desideravo, come m’accadeva spesso, che lui non ci fosse, di essere solo. Solo con quel fiume possente e freddo sotto la pallida luna. ‘È andato incontro da sé alla sua perfetta vendetta. Sta morendo, morendo di rigidità, di paura. La sua mente non riesce ad accettare questa epoca. Nulla di sereno e aggraziato come la morte di quel vampiro che m’hai descritto una volta a Parigi. Credo che stia morendo in quel modo goffo e grottesco in cui spesso muoiono gli esseri umani in questo secolo… di vecchiaia.’
«‘Ma tu… cos’hai provato?’ insistette sommessamente. E io fui colpito dalla qualità tutta personale di questa domanda; quanto tempo era che non ci parlavamo più a quel modo! In quel momento lo sentii con forza, sentii l’essere separato che lui era, creatura calma e padrona di sé, coi lisci capelli di rame e gli occhi grandi, talvolta malinconici, occhi che spesso non sembravano vedere altro che i propri pensieri. Questa notte parevano ardere di un fuoco incerto, inconsueto.
«‘Nulla’ risposi.
«‘Nulla in alcun senso?’
«Risposi di no. Il ricordo di quel dolore era quasi tangibile. Come se non m’avesse abbandonato di colpo, ma mi fosse restato accanto tutto questo tempo, volteggiando, dicendo: ‘Vieni’. Ma questo non lo volevo confessare a Armand, non volevo rivelarglielo. Ed ebbi la stranissima impressione di sentire il suo bisogno che io glielo raccontassi… gli raccontassi qualcosa… un bisogno stranamente affine al bisogno di sangue vivente.
«‘Ma lui non t’ha detto niente, niente che ti abbia fatto provare l’antico odio…’ mormorò. E fu a quel punto che compresi chiaramente quanto fosse afflitto.
«‘Che vuoi dire, Armand? Perché me lo domandi?’ gli dissi.
«Ma Armand si adagiò all’indietro sul ripido argine e restò per molto tempo a guardare le stelle. Le stelle mi ricordarono qualcosa di estremamente preciso: la nave che aveva portato me e Claudia in Europa, quelle notti sul mare quando sembrava che si abbassassero a toccare le onde.
«‘Pensavo che t’avesse detto qualcosa a proposito di Parigi…’ mormorò infine Armand.
«‘Cosa avrebbe dovuto dirmi a proposito di Parigi? Che lui non voleva che Claudia morisse?’ domandai. Claudia, ancora Claudia; quel nome mi suonava strano. Claudia che distribuiva le carte del solitario sul tavolo oscillante al movimento del mare, la lanterna cigolante sul gancio, il nero oblò pieno di stelle. La testa china, le dita sospese sull’orecchio come se stessero per sciogliere delle ciocche dei suoi capelli. Ed ebbi l’impressione orribilmente sconcertante che nel mio ricordo lei alzasse gli occhi dal solitario e che le sue orbite fossero vuote.
«‘Avresti potuto raccontarmi tutto quello che volevi a proposito di Parigi, Armand’ dissi, ‘già da un pezzo. Non avrebbe avuto importanza’.
«‘Anche che sono stato io a…’
«Mi voltai verso di lui, sdraiato a guardare il cielo. E vidi una straordinaria sofferenza sul suo viso, nei suoi occhi, che sembravano enormi, smisurati, e il viso bianco che li incorniciava appariva troppo scarno.
«‘Che sei stato tu a ucciderla? Che sei stato tu a trascinarla a forza in quel cortile e chiuderla là fuori?’ domandai. Sorrise. ‘Non dirmi che per tutti questi anni, hai sofferto per questo, no, non tu’.
«Armand chiuse gli occhi e girò la faccia dall’altra parte, appoggiando le mani al petto quasi gli avessi infetto un colpo tremendo e repentino.
«‘Non puoi convincermi che te ne importi qualcosa’ gli dissi freddamente. Volsi lo sguardo verso l’acqua, e di nuovo mi prese quella sensazione… che avrei voluto essere solo. Sapevo che di lì a poco mi sarei alzato e me ne sarei andato per conto mio. Cioè, sempre che non m’avesse lasciato lui per primo. Perché in verità mi sarebbe piaciuto poter restare là. Era un posto tranquillo, isolato.
«‘A te non importa niente di niente…’ stava dicendo. E poi si mise lentamente a sedere e si voltò verso me, così che vidi ancora quel fuoco oscuro nei suoi occhi. ‘Pensavo che almeno di questo ti dovesse importare. Che rivedendolo avresti sentito l’antica passione, l’antica rabbia. Pensavo che qualcosa dentro di te si sarebbe acceso e rianimato se l’avessi visto… se fossi ritornato in questo posto’.
«‘Che sarei tornato alla vita?’ chiesi piano. E sentii la fredda, metallica durezza delle mie parole, la modulazione, il controllo. Era come se io fossi stato perfettamente freddo, di metallo, e lui fosse divenuto improvvisamente fragile; fragile, come in effetti era da molto tempo.
«‘Sì!’ gridò. ‘Sì, alla vita!’ Ma poi prese un’espressione perplessa, decisamente confusa. E accadde una cosa strana: chinò il capo come chi si sente sconfitto. E qualcosa nel modo in cui Armand viveva quella sconfitta, qualcosa nel modo in cui il suo viso bianco e liscio la rifletteva, solo per un attimo, mi ricordò qualcun altro che avevo visto sconfitto nello stesso modo. E mi sorprese il fatto che mi ci volle tanto tempo prima di vedere il viso di Claudia in quell’espressione; Claudia, in piedi accanto al letto nella stanza dell’albergo Saint-Gabriel, che mi scongiurava di trasformare Madeleine in una di noi. Lo stesso sguardo indifeso, quel senso di sconfitta così profondamente sentito che ogni altra cosa veniva dimenticata. E lui, in quel momento, come Claudia, parve riaversi, attingere a una qualche riserva di forze. Ma disse sommessamente nell’aria: ‘Io sto morendo!’
«E io, che lo guardavo, lo sentivo, la sola creatura dell’universo che lo sentisse, pur sapendo con assoluta certezza che era vero, non dissi una parola.
«Un lungo sospiro gli sfuggì dalle labbra. Teneva la testa china. La mano destra inerte sull’erba. ‘Odio… quella è passione’ disse. ‘Vendetta, quella è passione…’
«‘Non per me…’ mormorai. ‘Non adesso’.
«I suoi occhi si fissarono su di me e il suo viso parve molto calmo. ‘Ho sempre creduto che l’avresti superato, che quando il dolore ti avesse lasciato, saresti ridiventato caldo d’amore e pieno di quella smodata e insaziabile curiosità di quando ti vidi la prima volta, quella fame inveterata di conoscenza che ti condusse fino a Parigi, fino alla mia celletta. Pensavo che fosse una parte di te che non poteva morire. E credevo che quando il dolore fosse svanito, mi avresti perdonato per la parte che ho avuto nella sua morte. Lei non ti ha mai amato, capisci. Non come l’hai amata tu, come ci hai amato entrambi. Io lo sapevo! Io lo capivo! E credevo di poterti prendere con me, tenerti con me, e il tempo si sarebbe dischiuso davanti a noi, e saremmo stati l’uno il maestro dell’altro. Tutte le cose che ti davano felicità mi avrebbero dato felicità; e io avrei protetto il tuo dolore. Il mio potere sarebbe stato il tuo. La mia forza la tua. Ma tu sei morto dentro per me, sei freddo e al di là della mia portata! È come se io non fossi qui, accanto a te. E, poiché non sono qui con te, ho la mostruosa impressione di non esistere affatto. Sei freddo e lontano da me come quegli strani quadri moderni fatti di linee e di forme dure che non riesco ad amare o capire, sei estraneo quanto quelle dure sculture meccaniche di questa età che non hanno alcuna forma umana. Mi vengono i brividi quando ti sto vicino. Guardo nei tuoi occhi, e non ci vedo il mio riflesso…’
«‘Chiedevi l’impossibile!’ dissi con foga. ‘Non vedi? E anch’io, fin dall’inizio’.
«Armand protestò, ma la negazione si formò appena sulle sue labbra, e lui alzò la mano come per stornarla.
«‘Pretendevo amore e bontà in questa che è la morte vivente’ continuai. ‘Era impossibile fin dall’inizio: non si può avere amore e bontà quando si fa ciò che si sa che è il male, ciò che si sa che è sbagliato. Si può solo avere la disperata confusione, nostalgia e ricerca di un’illusoria bontà in forma umana. Conoscevo la vera risposta alle mie domande ancor prima di arrivare a Parigi. Lo sapevo anche la prima volta che soppressi una vita umana per appagare la mia brama. Era la mia morte. Eppure non volevo accettarlo, non potevo accettarlo, perché, come ogni altra creatura, non volevo morire! E così ho cercato altri vampiri, Dio, il diavolo, cento cose con cento nomi. Ed era sempre la stessa cosa, sempre il male. E sempre errore. Perché nessuno riusciva a convincermi in nessun modo di ciò che io stesso sapevo essere vero, che ero dannato nella mia mente e nella mia anima. E quando arrivai a Parigi, pensai che tu fossi potente e bello e che non conoscessi il rimpianto, e desiderai disperatamente tutto questo. Ma tu eri un distruttore, come me, solo più spietato e astuto. Tu mi mostrasti la sola cosa che io potessi davvero sperare di diventare, in quale abisso di male e di freddezza avrei dovuto calarmi per porre fine al mio dolore. E io l’accettai. E così quella passione, quell’amore che tu avevi visto in me, fu estinto. E quel che vedi adesso è solo lo specchio di te stesso’.
«Passò molto tempo prima che parlasse. Si era alzato in piedi e guardava il fiume dandomi le spalle, la testa china come prima e le mani lungo i fianchi. Anch’io guardavo il fiume. Pensavo con calma: ‘Non c’è più nulla che io possa dire o fare’.
«‘Louis’ mi chiamò allora, alzando la testa, con una voce molto roca, irriconoscibile.
«‘Sì, Armand’ risposi.
«‘C’è ancora qualcosa che ti posso dare? Hai bisogno di qualcosa da me?’
«‘No’ dissi. ‘Che vuoi dire?’
«Lui non rispose. Si allontanò lentamente. Credo di aver pensato che volesse allontanarsi di pochi passi soltanto, forse per vagare da solo lungo la spiaggia fangosa. E quando mi resi conto che mi stava abbandonando, Armand era ormai soltanto un puntino contro l’incerto tremolio della luna sull’acqua. Non lo rividi mai più.
«Naturalmente, soltanto parecchie notti più tardi capii veramente che se n’era andato. La sua bara era rimasta. Ma lui non vi fece ritorno. E diversi mesi dopo feci trasportare quella bara al cimitero di St. Louis e la feci sistemare nella cripta accanto alla mia. La tomba, da lungo tempo trascurata perché la mia famiglia si era estinta, accolse la sola cosa che Armand si era lasciato dietro. Ma poi quel pensiero incominciò a inquietarmi. Ci pensavo mentre passeggiavo, e ancora all’alba, proprio prima di chiudere gli occhi. E una notte andai in città e tirai fuori la bara, la feci a pezzi e la lasciai in mezzo allo stretto passaggio tra l’erba alta del cimitero.
«Quel vampiro che era l’ultimo rampollo di Lestat m’accostò una notte, non molto tempo dopo. Mi pregò di raccontargli tutto quello che sapevo del mondo, di diventare il suo compagno e il suo maestro. Gli risposi che ciò che sapevo era soprattutto che, se me lo fossi ancora trovato davanti, l’avrei distrutto. ‘Vedi, qualcuno deve morire ogni notte ch’io vado in giro, finché non avrò il coraggio di farla finita’ gli dissi. ‘E tu, tu che sei un assassino efferato quanto me, saresti una vittima eccellente’.
«Lasciai New Orleans la notte dopo perché la sofferenza non mi abbandonava. E non volevo pensare a quella vecchia casa in cui Lestat stava morendo. O a quel vampiro, quel tipo elegante, moderno, che era fuggito lontano da me. O ad Armand.
«Volevo andare dove non c’era nulla che mi fosse familiare e nulla che avesse importanza per me.
«E qui finisce la storia. Non c’è nient’altro».
Il ragazzo restò muto a guardare il vampiro. E il vampiro rimase tranquillo, con le mani giunte sul tavolo e gli occhi stretti, orlati di rosso, fissi sul nastro che girava. Il suo viso in quel momento era così scarno che si vedevano le vene delle tempie, quasi fossero state scolpite in rilievo nella pietra. Ed era così immobile nella sedia che soltanto i suoi occhi verdi tradivano la vita, e quella vita era solo il tiepido fascino che il vampiro provava per il girare del nastro.
Poi il ragazzo si tirò indietro e si passò disordinatamente le dita della mano destra nei capelli. «No» disse, prendendo un po’ di fiato. Poi ripeté più forte: «No!»
Il vampiro non diede segno di sentirlo. Il suo sguardo si mosse dai nastri alla finestra, verso il cielo scuro, grigio.
«Non doveva finire così!» esclamò il ragazzo, piegandosi in avanti.
Il vampiro, che continuava a guardare il cielo, fece una breve, secca risata.
«Tutte le cose che lei ha provato a Parigi!» esclamò il ragazzo, con la voce che aumentava di volume. «L’amore per Claudia, il sentimento, persino il sentimento per Lestat! Non era necessario che finisse, non così, non nella disperazione! Perché è questo di cui si tratta, non è vero? Disperazione!»
«Smettila» gli intimò bruscamente il vampiro, alzando la mano destra. Il suo sguardo si spostò quasi meccanicamente sul viso del ragazzo. «Ti ho detto e ti ripeto che non sarebbe potuta finire in nessun altro modo».
«Non lo accetto» protestò il ragazzo, e incrociò le braccia sul petto, scuotendo energicamente la testa. «Non posso!» L’emozione sembrava accumularsi in lui, così che, senza pensarci, fece strisciare la sedia sulle nude assi e si alzò, misurando a grandi passi il pavimento. Ma poi, quando si voltò e guardò di nuovo in faccia il vampiro, gli morirono in gola le parole che stava per pronunciare. Il vampiro lo fissava, e il suo viso ostentava finalmente quell’espressione, lungamente trattenuta, d’ira e di amaro divertimento insieme.
«Ma non capisce? È stata un’avventura come non ne ho mai sentite in tutta la mia vita! Lei parla di passione, parla di desiderio consumante! Parla di cose che milioni di uomini non arriveranno mai a provare né a capire. E poi mi viene a dire che finisce così. Sa cosa le dico…» E si fermò sopra al vampiro, con le mani tese davanti a sé. «Se solo mi desse quel potere! Il potere di vedere e di sentire e di vivere per sempre!»
Gli occhi del vampiro cominciarono lentamente a dilatarsi, le sue labbra a schiudersi. «Cosa!» domandò piano. «Cosa?»
«Me lo dia!» pregò il ragazzo, stringendo la mano destra a pugno, battendosi il petto. «Faccia di me un vampiro, adesso!» gridò mentre il vampiro lo fissava stupefatto.
Ciò che accadde poi fu talmente veloce e confuso che il ragazzo a stento riuscì a vederlo, ma si concluse con il vampiro in piedi che teneva il ragazzo per le spalle, lo guardava con ira, e il viso del ragazzo, imperlato di sudore, era stravolto dalla paura. «È questo che vuoi?» sussurrò il vampiro, con le labbra esangui che tradivano appena il movimento. «Questo… dopo tutto quello che t’ho detto… questo è quello che chiedi?»
Un gridolino sfuggì dalle labbra del ragazzo, che cominciò a tremare in tutto il corpo, il sudore gli inondava la fronte e la pelle sopra al labbro superiore. Allungò cautamente la mano verso il braccio del vampiro. «Lei non sa com’è la vita umana!» proruppe, sul punto di scoppiare in lacrime. «L’ha dimenticato. Non capisce neppure il significato della sua storia, che cosa vuol dire essere una creatura umana come me». E poi un singhiozzo strozzato interruppe le sue parole, e le sue dita strinsero il braccio del vampiro.
«Dio!» esclamò il vampiro, e si allontanò dal ragazzo, spingendolo contro il muro e facendogli quasi perdere l’equilibrio. Si fermò, le spalle al ragazzo, a guardare la finestra grigia.
«La scongiuro… conceda a tutto questo un’altra occasione. Un’altra occasione… con me!» implorò il ragazzo.
Il vampiro si voltò verso di lui, il viso contorto dall’ira come prima. Ma poi, a poco a poco, cominciò a distendersi. Le palpebre si abbassarono lentamente sugli occhi, e le labbra si allungarono in un sorriso. Di nuovo guardò il ragazzo. «Ho fallito» sospirò, sorridendo ancora. «Ho fallito completamente…»
«No…» protestò il ragazzo.
«Non dire altro» lo interruppe il vampiro energicamente. «Mi resta solo una possibilità. Vedi i nastri? Stanno ancora girando. Mi resta solo un modo per dimostrarti il significato di quello che ho detto». Si slanciò in avanti così velocemente ad afferrare il ragazzo che questi si ritrovò che tentava di agguantare, di spingere qualcosa che non c’era; la sua mano era ancora protesa quando il vampiro lo strinse al petto, abbassando le labbra sul suo collo piegato. «Vedi?» sussurrò il vampiro; le lunghe labbra di seta scoprirono i denti e due lunghe zanne penetrarono nella carne del ragazzo. Il ragazzo balbettò, un lungo suono rauco gli uscì dalla gola, la sua mano si sforzava di stringere qualcosa e i suoi occhi si dilatarono, ma divennero subito opachi e grigi quando il vampiro cominciò a bere. E frattanto il vampiro appariva tranquillo come una persona addormentata. Il magro petto si alzava e si abbassava lentamente, impercettibilmente, con grazia da sonnambulo. Un uggiolio si levò dal ragazzo, e quando il vampiro lo lasciò andare lo tenne con ambo le braccia e guardò il viso umidiccio e bianco, le mani inerti, gli occhi semichiusi.
Il ragazzo gemeva, il suo labbro inferiore penzolava e tremava come se avesse la nausea. Gemette ancora, più forte, la sua testa cadde all’indietro, gli occhi ruotarono in su nella testa. Il vampiro lo depositò delicatamente sulla sedia. Il ragazzo si sforzava disperatamente di parlare, e le lacrime che gli sgorgarono dagli occhi parevano derivare da quel tentativo di parlare quanto da tutto il resto. La testa gli cadde in avanti, pesantemente, come a un ubriaco, una mano era appoggiata sul tavolo. Il vampiro restò in piedi a guardarlo, la sua pelle bianca diventò d’un morbido rosa luminoso. Era come se una luce rosa brillasse su di lui e tutto il suo essere sembrava restituire quella luce. La carne delle sue labbra era scura, quasi del colore d’una rosa rossa, le vene sulle sue tempie e sulle sue mani erano solo tracce sulla sua pelle, il suo viso giovane e liscio.
«Io… morirò?» mormorò il ragazzo, sollevando lentamente lo sguardo, con labbra umide e pendule. «Morirò?» gemette, con labbra tremanti.
«Non lo so» rispose il vampiro, e sorrise.
Il ragazzo sembrava sul punto di dire qualcosa d’altro, ma la mano sul tavolo gli scivolò in avanti sulle assi, vi appoggiò accanto la testa e perse conoscenza.
Quando riaprì gli occhi vide il sole. Riempiva la finestra sporca e disadorna e gli scaldava un lato del viso e la mano. Per un attimo restò inerte, il viso contro il tavolo; poi con grande sforzo si drizzò, tirò un profondo respiro e, chiudendo gli occhi, premette la mano sul punto da cui il vampiro gli aveva estratto il sangue. Quando l’altra mano accidentalmente toccò la lamina di metallo che copre il registratore, il ragazzo lanciò un grido perché il metallo scottava.
Poi si alzò, maldestramente, e mancò poco che cadesse, finché non appoggiò entrambe le mani sul lavandino bianco. Aprì rapidamente il rubinetto, si spruzzò il viso con l’acqua fredda, e se l’asciugò con una salvietta sudicia appesa a un chiodo. Ora respirava regolarmente, restò in piedi a guardarsi nello specchio senza appoggiarsi. Poi guardò l’orologio. Fu come se la vista dell’orologio lo scuotesse violentemente, gli desse più vita del sole o dell’acqua. Fece una rapida ispezione della stanza e del corridoio e, non trovando niente e nessuno, si rimise a sedere sulla sedia. Poi estrasse di tasca un piccolo taccuino bianco e una penna, li depose sul tavolo e toccò il tasto del registratore. Fece tornare indietro il nastro poi lo bloccò. Sentì la voce del vampiro, si sporse in avanti, ascoltando con estrema attenzione, poi schiacciò il tasto per sentire un altro punto poi ne cercò un altro ancora. Finalmente il suo viso si illuminò, le bobine giravano e la voce diceva: «Era una serata molto calda, e non appena lo vidi in St Charles Avenue, capii che stava andando in qualche posto…»
Rapidamente il ragazzo annotò:
«Lestat… traversa di St Charles Avenue. Vecchie case in rovina… quartiere misero. Cercare cancellata arrugginita».
Si cacciò rapidamente in tasca il taccuino, ripose i nastri nella cartella, assieme al piccolo registratore, e corse per il lungo corridoio, giù per le scale, fino in strada dove, di fronte al bar dell’angolo, aveva parcheggiato la macchina.