A Stan Rice, Carole Malkin e Alice O’Brien Borchardt
«Capisco…» disse pensieroso il vampiro, poi attraversò lentamente la stanza fino alla finestra. Qui restò a lungo, in piedi, contro la luce fioca di Divisadero Street e i bagliori intermittenti del traffico. Adesso il ragazzo riusciva a distinguere più chiaramente l’arredamento della stanza, il tavolo rotondo di quercia, le sedie. E su una parete, un lavandino e uno specchio. Posò la cartella sul tavolo e aspettò.
«Quanto nastro hai con te?» chiese il vampiro voltandosi, così che il ragazzo ora ne poteva scorgere il profilo. «Ce n’è abbastanza per la storia di una vita?»
«Certo, se è una bella vita. A volte, quando mi va bene, intervisto anche tre o quattro persone in una notte. Ma dev’essere una bella storia. Mi pare corretto, no?»
«Molto» rispose il vampiro. «Quand’è così, desidero raccontarti la storia della mia vita. Lo desidero veramente».
«Perfetto» disse il ragazzo. Estrasse rapidamente il piccolo registratore dalla cartella e controllò cassetta e batterie. «Sono proprio impaziente di sentire che cosa glielo fa credere, perché lei…»
«No» interruppe il vampiro. «Non possiamo cominciare così. Sei pronto col tuo apparecchio?»
«Sì».
«Allora siediti. Io accendo la lampada lassù».
«Pensavo che i vampiri non amassero la luce» intervenne il ragazzo. «Non crede che il buio aumenti l’atmosfera…» Poi si fermò. Il vampiro, con le spalle alla finestra, lo osservava. Il ragazzo non riusciva a decifrare l’espressione del suo viso: c’era qualcosa che lo inquietava in quella figura immobile. Di nuovo provò a dire qualcosa e rinunciò. Tirò un sospiro di sollievo quando il vampiro si diresse verso il tavolo e afferrò il cordone della lampada.
Di colpo la stanza fu inondata da una cruda luce gialla. Il ragazzo, levando gli occhi sul vampiro, non riuscì a trattenere un moto di stupore. Le sue dita arretrarono danzando sul tavolo fino ad artigliare il bordo. «Santo Cielo!» mormorò, poi riprese a fissarlo ammutolito.
Il vampiro era perfettamente candido e levigato, come scolpito nell’avorio, e il suo viso appariva esanime come una statua, a eccezione di quegli occhi verdi, ardenti come fiamme in un teschio, che scrutavano intensamente il ragazzo. Ma poi il vampiro sorrise con un velo di malinconia e la liscia massa bianca del suo volto si mosse ridisegnandosi con i tratti infinitamente flessibili ed essenziali di un cartone animato. «Vedi?» chiese dolcemente.
Il ragazzo rabbrividì, alzando la mano come per ripararsi da una luce violenta. Il suo sguardo scorse lentamente sulla giacca nera e impeccabile appena intravista nel bar, sulle lunghe pieghe del mantello, sulla cravatta di seta nera annodata alla gola e sul luccichio del colletto, bianco come la carne del vampiro. S’incantò a osservare la folta capigliatura corvina, le onde pettinate all’indietro sulle orecchie e i riccioli che sfioravano appena l’orlo del colletto.
«Allora, la vuoi ancora l’intervista?» domandò il vampiro.
Il ragazzo aprì la bocca prima di riuscire a emettere un suono. Annuì. «Sì» rispose infine.
Il vampiro si sedette lentamente di fronte a lui e sporgendosi in avanti gli disse in tono gentile, confidenziale: «Non aver paura. Fai partire il nastro».
Allungò un braccio verso il ragazzo. Questo fece un balzo all’indietro, mentre due rivoli di sudore gli scorrevano ai lati del viso. Il vampiro gli strinse vigorosamente una spalla. «Credimi, non ti farò del male» lo rassicurò. «Ci tengo davvero a questa occasione. È molto più importante per me di quanto tu possa credere. Voglio cominciare». Ritirò la mano e rimase immobile in attesa.
Il ragazzo si asciugò fronte e labbra col fazzoletto, balbettò che il microfono era inserito, schiacciò il tasto e annunciò che l’apparecchio era acceso.
«Lei non è stato sempre un vampiro, vero?» attaccò.
«No» rispose l’altro. «Avevo venticinque anni quando lo divenni; era il 1791».
Il ragazzo fu colpito dalla precisione della data, che ripeté prima di chiedere: «Come avvenne?»
«Ci sarebbe una risposta molto semplice. Ma non credo di aver voglia di dare risposte semplici» disse il vampiro. «Credo di voler raccontare la storia vera…»
«Sì» commentò precipitosamente il ragazzo, che continuava a spiegare e ripiegare il fazzoletto e aveva ricominciato ad asciugarsi le labbra.
«Ci fu una tragedia…» cominciò il vampiro. «Il mio fratello minore… morì». Poi si fermò, dando modo al ragazzo di schiarirsi la voce e di asciugarsi ancora il viso col fazzoletto prima di cacciarselo in tasca quasi con impazienza.
«Non le fa male, vero?» chiese timidamente.
«Do quest’impressione?» ribatté il vampiro. «No». Scosse la testa. «Ma è una storia che ho raccontato solo a un’altra persona… e tanto tempo fa. No, non mi fa male…
«A quel tempo vivevamo in Louisiana. Ci avevano assegnato della terra e noi ci tenevamo due piantagioni di indaco, sul Mississippi, molto vicino a New Orleans…»
«Ah, ecco l’accento…» disse piano il ragazzo.
Per un istante il vampiro lo fissò senza espressione. «Ho un accento?» Cominciò a ridere.
Agitatissimo, il ragazzo rispose frettolosamente. «L’ho notato al bar quando le ho chiesto che cosa faceva per vivere. Solo una leggera asprezza delle consonanti, niente altro. Non avevo immaginato che fosse francese».
«Non preoccuparti» lo rassicurò il vampiro. «Non sono stupito come sembro, solo che qualche volta me ne dimentico. Ma lasciami andare avanti…»
«La prego…» mormorò il ragazzo.
«Stavo parlando delle piantagioni. Ebbero davvero una parte importante nella faccenda, voglio dire, in come diventai un vampiro. Ma ci arriveremo. La nostra vita era nello stesso tempo lussuosa e primitiva. Per noi era il massimo del piacere: capisci, lì vivevamo infinitamente meglio di come avremmo mai potuto vivere in Francia. O forse era solo un’illusione, causata da quel luogo assolutamente selvaggio che era la Louisiana; ma, dato che a noi sembrava così, lo era davvero. Ricordo i mobili importati che ingombravano la casa» il vampiro sorrise. «E il clavicembalo: delizioso. Lo suonava mia sorella. Le sere d’estate si sedeva alla tastiera con la schiena rivolta alle porte-finestre spalancate. Ricordo ancora quella musica lieve, scorrevole, e vedo la palude che si stendeva al di là delle sue spalle, i cipressi ornati di muschio che ondeggiavano contro il cielo… E poi i suoni della palude, un coro di creature, le grida degli uccelli. Credo ne fossimo innamorati; ci faceva apparire i mobili di palissandro più preziosi che mai, la musica più delicata e desiderabile. Persino quando il glicine spezzò le persiane nell’attico e, in meno di un anno, penetrò coi suoi viticci le pareti di mattone imbiancato… sì, ne eravamo innamorati. Tutti tranne mio fratello: non ricordo di averlo mai sentito lamentarsi di qualcosa, ma sapevo cosa provava. A quel tempo mio padre era morto, io ero il capofamiglia, e mi toccava continuamente difenderlo da mia madre e da mia sorella. Pretendevano di portarlo in visita, o alle feste di New Orleans, ma lui odiava questo genere di cose. Mi pare che avesse smesso di andarci prima dei dodici anni. L’unica cosa che contava per lui era la preghiera, la preghiera e un libro di vite dei santi rilegato in pelle.
«Alla fine gli costruii una cappella lontano dalla casa e lui prese a passarci la maggior parte della giornata e spesso anche le prime ore della sera. C’è dell’ironia in questo, a pensarci bene. Lui era così diverso da noi, diverso da tutti, mentre io ero così normale! In me non c’era nulla, proprio nulla fuori dell’ordinario». Il vampiro sorrise.
«Certe volte alla sera uscivo a cercarlo e lo trovavo nel giardino fuori dalla cappella che sedeva assorto su una panchina di pietra; allora gli raccontavo i miei problemi, le difficoltà con gli schiavi, la mia sfiducia nel sorvegliante, nel tempo o nell’amministratore… tutte le preoccupazioni che costituivano le coordinate della mia esistenza. E lui stava ad ascoltare, facendo appena qualche commento, sempre partecipe; me ne andavo con la netta impressione che mi avesse risolto ogni cosa. Non credevo che avrei mai potuto negargli alcunché, e promisi solennemente a me stesso che, quando fosse giunto il momento, gli avrei concesso di abbracciare il sacerdozio, per quanto straziante per me potesse essere la sua perdita. Naturalmente, mi sbagliavo». Il vampiro si fermò.
Per un momento il ragazzo stette a guardarlo in silenzio, poi sussurrò come risvegliandosi da profonde riflessioni: sembrava che non riuscisse a trovare le parole giuste. «Ah… non voleva farsi prete?» azzardò.
Il vampiro lo studiò come se cercasse di decifrare il significato della sua espressione. Poi disse:
«Intendevo dire che mi sbagliavo sul mio conto, sul fatto di non negargli nulla». Il suo sguardo corse sulla parete in fondo fino a fissarsi sui vetri della finestra. «Cominciò ad avere delle visioni».
«Visioni vere e proprie?» domandò il ragazzo ancora esitante, come pensando ad altro.
«Allora non lo credevo» rispose il vampiro. «Accadde quando aveva quindici anni. A quell’epoca era molto bello: aveva una pelle liscissima e immensi occhi azzurri. Era robusto, non magro come me adesso… e come ero anche allora… ma i suoi occhi… quando lo guardavo negli occhi mi pareva di essere solo ai limiti del mondo… su una spiaggia dell’oceano spazzata dal vento. C’era solo il sommesso mugghiare delle onde, nient’altro. Be’» riprese, gli occhi ancora fissi alla finestra, «cominciò ad avere delle visioni. Sulle prime non ne parlò quasi, ma smise completamente di venire a casa a mangiare. Viveva nella cappella. A qualsiasi ora del giorno e della notte lo trovavo inginocchiato davanti all’altare, sulla nuda pietra. E la cappella stessa era in stato d’abbandono. Aveva smesso di badare alle candele o di cambiare le tovaglie dell’altare o persino di scopare via le foglie. Una notte mi allarmai veramente: ero stato a osservarlo dal pergolato di rose per un’ora intera, e per tutto quel tempo lui era rimasto in ginocchio senza mai muoversi e senza abbassare neanche una volta le braccia, che teneva spiegate a formare una croce. Gli schiavi pensavano tutti che fosse pazzo». Il vampiro alzò le sopracciglia con aria stupita. «Io ero convinto che si trattasse soltanto di… un eccesso di zelo. Che nel suo amore per Dio avesse forse esagerato. Poi mi parlò delle visioni. Sia San Domenico che la Madonna erano andati a visitarlo nella cappella, gli avevano detto di vendere tutte le nostre proprietà in Louisiana, tutto quello che possedevamo, e di devolvere il denaro alle opere di Dio, in Francia. Mio fratello doveva diventare un grande capo religioso, riportare il paese all’antico fervore e arrestare la marea dell’ateismo e della rivoluzione. Naturalmente, lui non possedeva denaro suo. Ero io che dovevo vendere le piantagioni e le nostre case di New Orleans e dargli il denaro».
Di nuovo il vampiro si fermò. E il ragazzo sedeva immobile, guardandolo allibito. «Ah… mi scusi» sussurrò. «Cosa fece lei? Vendette le piantagioni?»
«No». Il volto del vampiro era sempre disteso. «Io risi. E lui… lui arrivò all’esasperazione. Insisteva che l’ordine gli proveniva dalla Vergine stessa: chi ero io per non curarmene? Chi ero io?» ripeté piano, come se stesse nuovamente cercando la risposta a quella domanda. «Chi ero, in effetti? E più tentava di convincermi, più lo deridevo. Era una sciocchezza, gli dicevo, il frutto di una mente immatura e anche malata. La cappella era stata un errore: l’avrei fatta abbattere immediatamente. Andando a scuola a New Orleans si sarebbe tolto dalla testa queste assurdità. Non ricordo tutto quello che dissi, ma ricordo i sentimenti che provai. Dietro a tutto il mio disprezzo e i miei rifiuti c’erano ira repressa e delusione. Ero amaramente deluso. Non gli credevo affatto».
«Ma è comprensibile» si inserì il ragazzo nella pausa, mentre l’espressione esterrefatta del suo viso si attenuava. «Voglio dire, chi gli avrebbe creduto?»
«E davvero così comprensibile?» Il vampiro guardò il ragazzo. «Io penso che si trattasse di perverso egoismo; lascia che ti spieghi. Io amavo davvero mio fratello, e a volte credevo proprio che fosse un santo in terra. Lo incoraggiavo nella preghiera e nelle meditazioni, come dicevo, ed ero disposto a rinunciare a lui se avesse voluto prendere gli ordini. Se qualcuno mi avesse parlato d’un santo, ad Arles o a Lourdes, che aveva delle visioni, gli avrei creduto. Ero cattolico; credevo nei santi. Conoscevo le loro immagini, i loro simboli, i loro nomi; accendevo ceri nelle chiese davanti alle loro statue di marmo. Ma non credevo, non potevo credere a mio fratello. Non solo non credevo che avesse delle visioni, ma non riuscivo a prendere in considerazione l’idea neppure per un momento. E perché? Perché era mio fratello. Santo poteva anche essere; fuori della norma, senz’altro. Ma Francesco d’Assisi proprio no. Non mio fratello; un mio fratello non ne aveva diritto. Questo è egoismo, capisci?»
II ragazzo riflette un po’ prima di rispondere, fece cenno col capo e disse che sì, credeva di sì.
«Forse ebbe davvero quelle visioni» riprese il vampiro.
«Allora… lei non crede di sapere… adesso… se le avesse avute o no?»
«No, però so che non vacillò nella sua convinzione neppure per un istante. Questo lo so adesso e lo sapevo allora, la notte che lasciò la mia stanza in preda all’esaltazione e al dolore. Non vacillò mai neppure un istante. E pochi minuti dopo, era morto».
«In che modo?» chiese il ragazzo.
«Semplicemente, attraversò la porta-finestra che dava sulla veranda, stette per un momento in cima alla scala di mattoni e poi cadde. Quando io arrivai era già morto; s’era rotto l’osso del collo». Il vampiro scosse la testa in segno di costernazione, ma il suo viso era ancora sereno.
«Lo vide cadere?» chiese il ragazzo. «Perse l’equilibrio?»
«No, ma due domestici lo videro. Dissero che aveva guardato in su, come se avesse visto qualcosa in cielo. Poi tutto il suo corpo s’era mosso in avanti come se fosse stato spinto dal vento. Uno dei domestici riferì anche che mio fratello stava per dire qualcosa quando cadde. Anch’io pensavo che stesse per dire qualcosa, ma fu in quel momento che mi scostai dalla finestra. Gli ero di spalle quando udii il tonfo». Lanciò un’occhiata al registratore. «Non riuscivo a perdonarmelo. Mi sentivo responsabile della sua morte… e anche tutti gli altri sembravano convinti che io lo fossi».
«Ma com’è possibile? Non ha detto che lo videro cadere?»
«Non era un’accusa diretta. Però tutti sapevano che tra noi era successo qualcosa di spiacevole, che c’era stata un’accesa discussione poco prima della disgrazia. I domestici e mia madre ci avevano sentito. Mia madre non smetteva di chiedermi cosa era accaduto e come mai mio fratello, sempre così tranquillo, si fosse messo a gridare. Poi ci si mise anche mia sorella, e naturalmente io mi rifiutavo di parlare. Ero talmente sconvolto, disperato e infelice che non me la sentivo d’avere pazienza con nessuno; e a ogni costo ero deciso a non parlare con loro di quelle ‘visioni’. Non avrebbero mai saputo che mio fratello era diventato non un santo, ma solo… un fanatico. Mia sorella si mise a letto per non affrontare il funerale; mia madre raccontò a tutti in parrocchia che qualcosa di orribile era successo nella mia stanza, qualcosa che io non intendevo rivelare. Persino la polizia mi interrogò, su richiesta di mia madre. Infine venne a trovarmi il prete e pretese di sapere cos’era successo. Non lo rivelai a nessuno. Dissi che c’era stata solo una discussione. Io non ero nella veranda quando lui era caduto, protestai, e tutti mi guardavano come se l’avessi ucciso io. Ma anch’io avevo questa sensazione. Restai seduto nel salottino accanto al feretro per due giorni, continuando a pensare che lo avevo ucciso io. Rimasi a guardare il suo viso finché mi apparvero delle macchie davanti agli occhi e fui lì lì per svenire. La parte posteriore del cranio s’era fracassata sul selciato, e la testa sul cuscino aveva una forma sbagliata. Mi costringevo a guardarla, a studiarla, vincendo il dolore e il lezzo della decomposizione, ed ero spesso tentato di provare ad aprirgli gli occhi. Fantasie demenziali, impulsi folli! Ma il pensiero dominante era questo: l’avevo deriso, non gli avevo creduto, ero stato duro con lui. Era caduto per colpa mia».
«Tutto questo è veramente accaduto?» mormorò il ragazzo. «Mi sta raccontando qualcosa di… di vero?»
«Sì». Il vampiro lo guardò senz’ombra di stupore. «Vorrei continuare il mio racconto». Ma quando il suo sguardo si soffermò brevemente sul ragazzo e tornò a fissarsi sulla finestra, dimostrò solo un debole interesse per il suo interlocutore, che sembrava impegnato in una specie di muta battaglia interiore.
«Ma lei ha detto che non sapeva se quelle visioni… che lei, un vampiro… non sapeva con certezza se…»
«Voglio andare con ordine. Voglio continuare a raccontare le cose come accaddero. No, io non so niente di quelle visioni. A tutt’oggi non so niente». E ancora una volta attese finché il ragazzo disse:
«Sì, continui, per favore».
«Be’, volevo vendere le piantagioni. Non volevo rivedere mai più la casa e la cappella. Alla fine le affittai a un’agenzia che le avrebbe amministrate per conto mio e sistemai le cose in modo da non dovermici mai recare di persona. Feci trasferire mia madre e mia sorella in una delle case di New Orleans. Inutile dire che mio fratello non mi abbandonava neppure un secondo; il pensiero del suo corpo che marciva nella terra era fisso in me. Era sepolto nel cimitero di St. Louis a New Orleans: io facevo di tutto per evitare di passare davanti a quei cancelli, e tuttavia non cessavo mai di pensare a lui. Ubriaco o sobrio, vedevo il suo corpo marcire nella bara, e non riuscivo a sopportarlo. Mille volte sognai che era in cima alle scale e io gli tenevo il braccio, parlandogli gentilmente; lo esortavo a ritornare nella stanza da letto e gli dicevo dolcemente che gli credevo, che doveva pregare per me perché avessi fede. Frattanto, gli schiavi di Pointe du Lac (così si chiamava la mia piantagione) cominciavano a raccontare di aver visto il suo spettro sulla veranda, e il sorvegliante non riusciva a mantenere l’ordine. Nei circoli mondani a mia sorella venivano spesso rivolte domande offensive sull’incidente, che la resero isterica. Non era affatto isterica; però le sembrava giusto reagire in quella maniera, e così fece. Io bevevo e restavo a casa il meno possibile. Vivevo come un uomo che vuole morire ma non ha il coraggio di darsi la morte. M’aggiravo solitario per strade e vicoli oscuri… m’abbattevo privo di sensi nei cabaret. Rifiutai un paio di duelli più per apatia che per viltà, benché desiderassi sinceramente di essere ucciso. E alla fine fui aggredito. Avrebbe potuto trattarsi di chiunque: i miei inviti erano aperti a marinai, ladri, maniaci, tutti. Ma fu un vampiro. Mi agguantò una notte a pochi passi dalla porta di casa e mi lasciò in fin di vita, o almeno così credetti».
«Vuol dire che… le succhiò il sangue?»
«Sì» rise il vampiro. «Mi succhiò il sangue. È così che si fa».
«Ma lei sopravvisse» osservò il giovane. «Eppure ha detto che quello lo ridusse in fin di vita».
«Bevve il mio sangue fino quasi a farmi morire. Appena mi trovarono mi misero a letto, confuso e totalmente ignaro di quanto mi era accaduto. Credo di aver pensato che mi fosse venuto un colpo per il troppo bere. Mi aspettavo di morire da un momento all’altro e non m’interessava affatto bere, mangiare o parlare col dottore. Mia madre mandò a chiamare il prete. Quando arrivò ero in preda alla febbre e gli rivelai tutto: le visioni di mio fratello e come mi ero comportato con lui. Ricordo che mi aggrappai al suo braccio, facendogli giurare ripetutamente che non l’avrebbe detto a nessuno. ‘So di non averlo ucciso io’ dissi infine. ‘Solo che non posso più vivere ora che lui è morto. Dopo averlo trattato in questo modo!’
«‘È ridicolo’ rispose il prete. ‘Tu puoi vivere benissimo: non c’è nulla di male in te, tranne il tuo autocompiacimento. Tua madre ha bisogno di te, e ancor più tua sorella. In quanto a tuo fratello, era posseduto dal demonio’. A queste parole rimasi talmente sconvolto da non riuscire a protestare. Il diavolo era l’artefice delle visioni, continuò. Il diavolo imperversava. L’intera terra di Francia era sotto l’influenza del Maligno, e la Rivoluzione era stata il suo massimo trionfo. Nulla avrebbe potuto salvare mio fratello tranne l’esorcismo, la preghiera e il digiuno, uomini che lo tenessero stretto quando il diavolo infuriava nel suo corpo e cercava di agitarlo. ‘È il diavolo che l’ha scaraventato giù dalle scale; è lampante!’ dichiarò. ‘In quella stanza tu non stavi parlando con tuo fratello, ma col demonio!’ Mi mandò su tutte le furie. Pensavo di essere già stato portato al limite estremo, ma non era così. Il prete continuò a parlare del demonio, del woodoo tra gli schiavi e di casi d’invasamento in altre parti del mondo. E io esplosi. Distrussi la stanza nel tentativo di ammazzarlo».
«Ma la sua forza… il vampiro…?»
«Ero fuori di me» spiegò il vampiro. «Feci cose che in condizioni normali non avrei mai fatto. La scena è confusa, sbiadita, fantastica… ricordo solo che lo trascinai fuori dalla porta dietro la casa, attraverso il cortile, in cucina; e lì gli sbattei la testa contro la parete di mattoni fin quasi a ucciderlo. Quando riuscirono a calmarmi, stanco fino alla morte, mi fecero un salasso. Gli imbecilli! Ma stavo dicendo qualcos’altro. Fu allora che mi resi conto del mio egoismo. Forse l’avevo visto riflesso nel prete. Il suo atteggiamento di disprezzo per mio fratello rispecchiava esattamente il mio; il ricorso automatico e superficiale al diavolo; e il rifiuto anche solo di prendere in considerazione l’idea che la santità potesse essere passata così vicino».
«Ma negli indemoniati ci credeva».
«Quella è un’idea molto più accettabile» rispose immediatamente il vampiro. «Chi ha smesso di credere in Dio o nel bene continua lo stesso a credere nel diavolo. Non so perché. No, anzi, lo so: il male è sempre possibile. E il bene è eternamente difficile. Ma capisci che parlare d’invasamento è solo un modo per dare del pazzo a qualcuno. Ebbi questa netta sensazione con quel prete. Sono sicuro che vide la follia. Forse gli era capitato di trovarsi di fronte a un pazzo furioso e l’aveva dichiarato indemoniato. Non è detto che si debba per forza vedere Satana quando si pratica un esorcismo… ma avere davanti un santo e affermare che le sue visioni siano tutte fantasie… no, è puro egoismo rifiutare di credere che sia potuto succedere tra noi».
«Non lo avevo mai considerato da questo punto di vista» disse il ragazzo. «Ma a lei cosa accadde? Mi stava dicendo che per curarla le avevano fatto un salasso… deve averla quasi uccisa».
Il vampiro rise. «Sì, naturalmente. Ma il vampiro tornò quella notte stessa. Voleva Pointe du Lac, la mia piantagione.
«Era molto tardi. Mia sorella si era appena addormentata.
Ricordo tutto come fosse ieri. Entrò dal cortile, aprendo le porte-finestre senza un rumore… un uomo alto, di carnagione chiara, con una massa di capelli biondi e movimenti aggraziati, quasi felini. Con garbo dispose uno scialle sugli occhi di mia sorella e abbassò lo stoppino della lampada. Mia sorella sonnecchiava accanto al bacile e al panno con cui aveva inumidito la mia fronte; restò sotto quello scialle senza agitarsi neppure una volta fino al mattino. Ma nel frattempo, io avevo subito una metamorfosi».
«Mi spieghi».
Il vampiro sospirò. Si appoggiò allo schienale della sedia, fissando le pareti. «Sulle prime pensai si trattasse d’un altro dottore, o di qualcuno convocato dalla famiglia per tentare di farmi ragionare; ma quel sospetto sparì immediatamente. Si avvicinò al mio letto e si chinò in modo che il suo viso fosse illuminato dalla lampada, e vidi che non poteva essere un uomo normale. I suoi occhi grigi parevano incandescenti e le lunghe mani bianche che gli pendevano ai lati del corpo non erano quelle di un essere umano. Credo che tutto mi sia stato chiaro fin da quel primo istante e quello che mi disse era solo una conseguenza. Voglio dire che nel momento in cui lo vidi, in cui vidi quell’aura innaturale e percepii ch’era una creatura a me sconosciuta, io mi ridussi a nulla. Quell’Io che non riusciva ad accettare la presenza di un essere straordinario accanto a sé fu annientato. Tutte le mie costruzioni mentali, e persino il mio senso di colpa e la voglia di morire, mi sembravano ormai prive di senso. Mi dimenticai completamente di me stesso!» si toccò silenziosamente il petto col pugno. «Di me stesso, nel modo più assoluto. E in quell’istante seppi perfettamente il significato delle nuove possibilità che mi si schiudevano. Da allora in poi provai soltanto una crescente meraviglia. Quando mi parlò e mi disse che cosa potevo diventare, qual era stata e quale sarebbe stata la sua vita, il mio passato divenne cenere. Analizzai la mia vita come fosse quella di un altro… la vanità, l’egoismo, la fuga costante dalle piccole seccature, la devozione formale a Dio, alla Vergine e a un sacco di santi i cui nomi riempivano i miei libri di preghiera e nessuno dei quali, tuttavia, incideva minimamente nella mia esistenza meschina, materialistica e interessata. Vidi i miei veri dèi… gli dèi della maggior parte degli uomini. Il cibo, il bere, e la sicurezza nel conformismo. Cenere».
Il viso del ragazzo era teso, tra il confuso e lo sbigottito. «Così decise di diventare un vampiro?» azzardò. Il vampiro rimase in silenzio per un momento.
«Decisi. Non è la parola giusta. Eppure mentirei se dicessi che fu inevitabile a partire dal momento in cui lui entrò nella stanza. No, non fu inevitabile; e non posso nemmeno dire che lo decisi; diciamo che quando ebbe finito di parlare, non mi rimaneva alcun’altra decisione possibile, e proseguii per la mia strada senza mai voltarmi indietro. Tranne una volta».
«Una volta? Quale?»
«La mia ultima aurora. Quella mattina non ero ancora un vampiro. E vidi la mia ultima aurora.
«Me ne ricordo perfettamente; il buffo è che non mi pare di ricordare nessun’altra aurora prima di quella. Rammento che la luce apparve prima in cima alle porte-finestre: un chiarore dietro le tende di merletto, poi un bagliore a chiazze tra le foglie degli alberi, sempre più luminoso. Infine il sole irruppe dalle finestre e ombre di merletto si distesero sul pavimento di pietra e su tutta la sagoma di mia sorella, che dormiva ancora, ombre di merletto sullo scialle che le copriva le spalle e la testa. Appena sentì caldo, respinse lo scialle senza svegliarsi; poi, la piena luce del sole si posò sui suoi occhi, e lei serrò le palpebre. Il sole brillava sul tavolo dove lei riposava, la testa sulle braccia; brillava, fiammeggiava nell’acqua della brocca. Lo sentivo sulle mie mani stese sul copriletto, poi sul viso. Restai a letto a ripensare a tutte le cose che m’aveva detto il vampiro, poi dissi addio all’aurora e diventai un vampiro. Fu… la mia ultima aurora».
Di nuovo lo sguardo del vampiro vagava fuori della finestra; quando smise di parlare, il silenzio calò così improvviso che al ragazzo sembrava palpabile. Poi udì i rumori della strada. Il rombare assordante di un camion. Il cordone della lampada si mosse per la vibrazione. Il camion passò.
«Ne sente la mancanza?» domandò con voce flebile.
«Non direi» rispose il vampiro. «Ci sono tante altre cose… ma dove eravamo rimasti? Vuoi sapere come fu che diventai un vampiro?»
«Sì. Come avvenne il cambiamento in lei, esattamente?»
«Non posso veramente raccontartelo; posso parlarti della cosa, racchiuderla in parole che potranno spiegarti il valore che ha per me, ma non riuscirò a descriverla esattamente. Sarebbe come se ti volessi raccontare l’esperienza sessuale senza che tu l’abbia mai vissuta».
Improvvisamente un’altra idea parve illuminare il giovane, ma prima che potesse parlare il vampiro riprese: «Come dicevo, questo vampiro, Lestat, voleva la mia piantagione: una ragione piuttosto banale, senza dubbio, per concedermi una vita che durerà fino alla fine del mondo; ma lui non era una persona che andava tanto per il sottile, non considerava la piccola popolazione mondiale di vampiri come un circolo di eletti, direi. Aveva problemi umani, un padre cieco che ignorava che suo figlio era un vampiro e non doveva scoprirlo. La vita a New Orleans era diventata troppo difficile per lui, tenuto conto dei suoi bisogni e della necessità di prendersi cura del padre, perciò voleva Pointe du Lac.
«La sera seguente ci recammo subito alla piantagione, sistemammo il padre cieco nella stanza da letto principale, e cominciò la mia trasformazione. Non posso dire che sia consistita in un passo determinato, sebbene ci sia stato un passo oltre il quale non potevo più tornare indietro. Furono necessarie diverse azioni, tra cui anzitutto la morte del sorvegliante. Lestat lo assalì nel sonno. Io dovevo assistere e approvare, essere testimone della soppressione d’una vita umana per dimostrare il mio impegno e la mia trasformazione in atto. Questo fu senza dubbio il momento più difficile per me. Prima t’ho detto che non avevo paura di morire, solo un certo ribrezzo all’idea del suicidio. Ma avevo un grandissimo rispetto per la vita altrui, e un terrore della morte che si era sviluppato di recente, a causa di mio fratello. Fui costretto invece a osservare il sorvegliante che si destava di soprassalto, che cercava, invano, di liberarsi di Lestat respingendolo con ambo le mani, per poi ricadere, lottare sotto la stretta di Lestat, e infine afflosciarsi, dissanguato. E morire. Non morì subito. Restammo in quella angusta stanza da letto a vederlo agonizzare per quasi un’ora. Questa operazione era necessaria per la mia trasformazione, altrimenti Lestat non sarebbe mai rimasto. Poi dovemmo eliminare il corpo del sorvegliante: fui lì lì per vomitare. Già debole e febbricitante, avevo poche riserve; maneggiare un cadavere, in quella situazione, mi provocò la nausea. Lestat rideva, dicendomi cinicamente che mi sarei sentito molto diverso quando fossi stato un vampiro, che ne avrei riso anch’io. Su questo si sbagliava: la morte non mi ha mai fatto ridere, per quanto frequentemente e regolarmente io ne sia la causa.
«Ma andiamo con ordine. Percorremmo la strada lungo il fiume finché, giunti a un campo aperto, potemmo abbandonare il corpo del sorvegliante. Gli strappammo il cappotto, gli rubammo il denaro e gli macchiammo le labbra di liquore. Conoscevo sua moglie, che viveva a New Orleans, e sapevo in che stato di disperazione sarebbe crollata quando avessero scoperto il cadavere. Ma soprattutto m’addolorò pensare che non avrebbe mai saputo cos’era veramente successo, che suo marito non era stato sorpreso ubriaco dai rapinatori lungo la strada. Di minuto in minuto, mentre tempestavamo di lividi il suo corpo e il suo volto, sentivo crescere in me l’agitazione. Per tutta la durata dell’operazione, Lestat fu straordinario. Non mi appariva più umano d’un angelo biblico. Tuttavia sotto quella pressione l’incantesimo si era indebolito. Avevo concepito la mia trasformazione in vampiro sotto due luci diverse. Da una parte si trattava semplicemente di una malia: Lestat mi aveva sopraffatto sul letto di morte. Ma dall’altra c’era la voglia di autodistruggermi, di dannarmi completamente. Questa era la porta aperta per cui era entrato Lestat, sia nella prima che nella seconda occasione, ma ora non stavo distruggendo me stesso, bensì qualcun altro: il sorvegliante, sua moglie, la sua famiglia… Indietreggiai e probabilmente sarei fuggito da Lestat, con l’equilibrio in pezzi, se lui non avesse intuito, con istinto infallibile…» Il vampiro rifletté. «L’istinto potente del vampiro per cui anche il più impercettibile cambiamento nell’espressione del volto umano ha l’evidenza d’un gesto. Lestat aveva un tempismo sovrannaturale. Mi spinse di furia nella carrozza e sferzò i cavalli verso casa. ‘Voglio morire’ incominciai a protestare. ‘È intollerabile. Voglio morire. Tu puoi uccidermi. Fammi morire’. Mi rifiutavo di guardarlo, di lasciarmi ammaliare dalla sua assoluta bellezza. Mi chiamò per nome, a voce bassa, ridendo… Era proprio deciso a ottenere la piantagione».
«Ma l’avrebbe lasciata andare?» chiese il ragazzo. «E a quali condizioni?»
«Non so. Conoscendo Lestat come lo conosco adesso, direi che piuttosto di lasciarmi andare m’avrebbe ucciso. Ma era questo che volevo, capisci? Non m’interessava vivere. O almeno così credevo. Appena arrivammo a casa, scesi dalla carrozza e mi avviai, come uno zombi, verso la scala di mattoni da cui era caduto mio fratello. Da mesi ormai la casa era abbandonata, dato che il sorvegliante aveva la sua villetta, e il caldo e l’umido della Louisiana avevano già cominciato a sgretolare i gradini. Da ogni fessura spuntava l’erba e persino dei piccoli fiori selvatici. Ricordo di aver sentito la fresca umidità della notte quando mi sedetti sui gradini in basso; abbandonai il capo contro il muro di mattoni e carezzai quei fiorellini dai gambi cerosi. Ne strappai un ciuffo dal terriccio molle e lo strinsi in mano. ‘Voglio morire! Uccidimi, uccidimi!’ supplicai il vampiro. ‘Ho ucciso un uomo, non posso più vivere!’ Lui sogghignò col fare impaziente di chi è costretto ad ascoltare palesi bugie; poi, in un lampo, si avvinghiò a me, come aveva fatto con quell’uomo. Io tentai di divincolarmi percuotendolo selvaggiamente. Gli affondai uno stivale nel petto e lo riempii di calci, con tutta la violenza di cui ero capace, mentre i suoi denti mi pungevano la gola e le tempie battevano per la febbre. Poi, con mossa tanto fulminea che non riuscii a vederla, me lo trovai ritto ai piedi degli scalini, sprezzante. ‘Credevo volessi morire, Louis’ mi disse».
Sentendo quel nome il ragazzo emise un suono basso, brusco.
«Sì, è così che mi chiamo», fece il vampiro, e proseguì.
«Be’, mi ritrovai, ancora una volta, impotente di fronte alla mia viltà e fatuità. Forse, confrontandomi direttamente con l’idea, avrei trovato col tempo il coraggio di togliermi veramente la vita, e avrei smesso di piagnucolare che lo facessero gli altri; mi vidi languire in una sofferenza quotidiana che ritenevo necessaria come la penitenza della confessione, e sperare sinceramente che la morte mi cogliesse ignaro, rendendomi degno del perdono eterno. Mi vidi anche in cima alle scale, fermo, nel punto esatto in cui s’era trovato mio fratello; poi il mio corpo precipitava, sfracellandosi sui mattoni.
«Ma non c’era tempo per il coraggio. O meglio, non c’era tempo nel piano di Lestat per nient’altro che non fosse il suo piano. ‘Ora ascoltami, Louis’ disse, e si sdraiò accanto a me sui gradini, con un movimento così aggraziato e così sensuale da farmi subito pensare a un amante; io mi ritrassi, ma lui mi circondò col braccio destro e m’attirò a sé. Mai prima d’allora eravamo stati così vicini, e in quella luce fioca vidi lo splendido fulgore dei suoi occhi e quella maschera innaturale della pelle. Come cercai di muovermi, mi premette le dita sulle labbra e disse: ‘Stai fermo. Adesso ti succhierò il sangue fino a portarti alla soglia della morte, ma voglio che tu stia calmo, tanto calmo da sentire il sangue scorrere nelle tue vene, tanto calmo da sentire lo stesso sangue scorrere nelle mie. È la tua coscienza, la tua volontà, che deve tenerti in vita’. Io tentavo di divincolarmi, ma lui premeva così forte con le dita da bloccare tutto il mio corpo prostrato; e quando mi arresi, Lestat mi affondò i denti nel collo».
Gli occhi del ragazzo divennero immensi. Mentre il vampiro parlava, s’era rattrappito sempre più sulla sedia, e ora il suo volto appariva contratto, lo sguardo teso come se si preparasse a resistere a un colpo.
«Ti è mai capitato di perdere molto sangue?» chiese il vampiro. «Conosci quella sensazione?»
Le labbra del ragazzo formarono la parola no, ma non ne uscì alcun suono. Si schiarì la gola. «No».
«Nel salotto al piano di sopra, dove avevamo progettato la morte del sorvegliante, ardevano delle candele. Una lanterna a olio oscillava nella brezza della veranda. Tutta questa luce si fuse e cominciò a tremolare, come se una presenza dorata volteggiasse sopra di me, sospesa sul pozzo delle scale, impigliata dolcemente nella ringhiera, salendo in spire e contorcendosi come fumo. ‘Ascolta. Tieni gli occhi ben aperti’ mi sussurrò Lestat, con le labbra contro il mio collo. Ricordo che il movimento delle sue labbra mi fece rizzare i peli in tutto il corpo, trasmettendomi una scossa paragonabile a un orgasmo…»
Si fermò a riflettere, con le dita della mano destra quasi avvolte a spirale sotto il mento e l’indice che lo carezzava leggermente. «Il risultato fu che in pochi minuti divenni debole fino alla paralisi. Scoprii, in preda al panico, che non avevo nemmeno la forza di parlare. Lestat continuava a tenermi stretto, il suo braccio pesava come una sbarra di ferro. Sentii i suoi denti ritrarsi, e le due punture mi sembrarono enormi ferite solcate dal dolore. Si piegò sul mio capo immobile, mi tolse di dosso la mano destra e si morse il polso. Il sangue mi scorreva sulla camicia e sulla giacca: Lestat lo osservava con occhio attento e brillante. Avevo l’impressione che lo stesse guardando da un’eternità, e intanto quel tremolio di luce si librava dietro la sua testa come la scia di un’apparizione. Credo di sapere cosa stava per fare ancora prima che lo facesse, e aspettavo, nella mia impotenza, come se avessi aspettato per anni. Premette il suo polso sanguinante sulla mia bocca e disse, con tono fermo e un po’ impaziente: ‘Louis, bevi’. E io bevvi. ‘Forza, Louis’ e ‘Presto’ mi mormorò più volte. Bevevo, succhiando il sangue dai fori, provando per la prima volta dai tempi dell’infanzia quel particolare piacere che dà succhiare il nutrimento, col corpo e l’anima concentrati su un’unica risorsa vitale. Poi accadde qualcosa». Il vampiro, appena accigliato, si appoggiò allo schienale della sedia.
«Com’è patetico tentare di descrivere cose che davvero non si possono descrivere!» mormorò, quasi in un sussurro. Il ragazzo sedeva rigido come un pezzo di ghiaccio.
«Mentre succhiavo il sangue non vedevo nulla tranne quella luce… e subito dopo sentii un… suono: dapprima un cupo mormorio, poi come dei colpi di tamburo sempre più forti, come se qualche gigantesca creatura si avvicinasse lentamente attraverso una foresta oscura e sconosciuta percuotendo un enorme tamburo. Poi giunse il suono d’un altro tamburo: un altro gigante che avanzava qualche metro dietro di lui; e pareva che ogni gigante, concentrato sul suo tamburo, non badasse affatto al ritmo dell’altro. Sentii il suono crescere sempre più, fino a riempirmi non solo l’udito ma tutti i sensi, a pulsarmi nelle labbra e nelle dita, nelle tempie, nelle vene. Soprattutto nelle vene; un tamburo e poi l’altro; poi Lestat liberò improvvisamente il suo polso, io aprii gli occhi e sentii subito l’impulso di riafferrarglielo e riportarmelo di forza alla bocca, a tutti i costi; mi frenai perché mi resi conto che quel tamburo era il mio cuore, e che l’altro tamburo era il suo». Il vampiro sospirò. «Capisci?»
Il ragazzo scosse la testa. «No… cioè, sì… voglio dire, io…»
«Naturalmente» fece il vampiro, guardando lontano.
«Aspetti, aspetti!» esclamò eccitato il ragazzo. «Il nastro è quasi finito. Devo girarlo». Il vampiro osservò pazientemente la sostituzione.
«E poi?» Il viso del ragazzo era imperlato di sudore; si asciugò frettolosamente col fazzoletto.
«Vidi con gli occhi di un vampiro» ricominciò il vampiro in tono lievemente distaccato. Sembrava quasi distratto. Poi si drizzò sulla schiena. «Lestat era di nuovo ritto in fondo alle scale, e io lo vidi come mai avrei potuto vederlo prima. Prima mi era sembrato bianco, d’un bianco assoluto, tanto che nella notte era quasi luminoso; ora lo vedevo pieno della sua stessa vita e del suo stesso sangue: era splendente, non luminoso. E m’accorsi che non soltanto Lestat, ma tutto era cambiato.
«Era come se solo allora, per la prima volta, riuscissi a vedere colori e forme. Ero talmente affascinato dai bottoni della giacca nera di Lestat che non guardai nient’altro per molto tempo. Poi Lestat cominciò a ridere e io percepii quella risata come un suono completamente nuovo. Sentivo ancora il battito del suo cuore come il suono di un tamburo, ed ecco che ora giungeva quella risata metallica. Era sconcertante: un suono confluiva nell’altro, come gli echi confusi delle campane, finché non imparai a separarli; poi si accavallavano, ciascuno basso ma distinto, crescente ma discreto, come scoppi di risa». Il vampiro sorrise deliziato. «E scampanii… «‘Smettila di guardare i miei bottoni’ disse Lestat. ‘Vai laggiù, tra gli alberi. Liberati di quel che di umano è rimasto del tuo corpo e non innamorarti così follemente della notte da smarrire la strada! ‘
«Era un saggio avvertimento. Quando vidi la luna sul selciato, ne rimasi a tal punto incantato che restai lì un’ora, credo. Passai accanto alla cappella di mio fratello senza dedicargli neppure un pensiero e, mentre stavo tra le piante di cotone e le querce, la notte mi apparve come un coro di donne sussurranti che mi invitavano tutte al loro seno. Quanto al mio corpo, non aveva ancora subito la completa trasformazione e non appena mi abituai a tutti quei suoni e a quelle visioni cominciò a dolermi. Tutti i fluidi umani venivano espulsi dal mio corpo. Morivo come creatura umana, eppure come vampiro ero pieno di vita; e con i miei risvegliati sensi dovetti assistere alla morte del mio corpo con un certo disagio e, alla fine, con terrore. Di corsa risalii le scale fino al salotto, dove Lestat, già al lavoro sulle carte della piantagione, ispezionava i costi e i profitti dell’anno precedente. ‘Sei un uomo ricco’ mi disse quando entrai. ‘Mi sta succedendo qualcosa’ gridai.
«‘Stai morendo, tutto qui; non fare lo stupido. Non hai delle lampade a olio? Con tutto il denaro che hai puoi permetterti olio di balena solo per una lanterna? Portamela’. «‘Sto morendo!’ gridai. ‘Morendo!’ «‘Capita a tutti’ ribatté ostinato, negandomi ogni aiuto. Quando ci ripenso, provo ancora disprezzo per lui. Non perché avevo paura, ma perché avrebbe potuto condurmi a seguire questa trasformazione col dovuto rispetto, calmarmi e spiegarmi che potevo osservare la mia morte con gli stessi occhi affascinati con cui avevo osservato e sentito la notte. Ma non lo fece. Lestat non fu mai un vampiro come me. Mai». Non lo disse con tono vanaglorioso, ma come se desiderasse sinceramente che le cose fossero andate in modo diverso.
«Alors» sospirò. «Stavo morendo velocemente, il che significava che la mia capacità di provare paura diminuiva altrettanto rapidamente. Rimpiango solo di non essere stato più attento alla trasformazione. Lestat si comportava da idiota. ‘Oh, per la malora!’ cominciò a gridare. ‘Ma io non ho pensato a sistemarti! Sono proprio scemo!’ Ero tentato di dirgli ‘Sì, lo sei…’ ma non lo feci. ‘Per questa mattina dormirai con me: non ho ancora provveduto alla tua bara’».
Il vampiro rise. «L’idea della bara mi scatenò un terrore tale da esaurire ogni capacità di spaventarmi che mi era rimasta. Poi provai solo un leggero brivido all’idea di dover dividere una bara con Lestat. Lui era andato nella stanza da letto di suo padre a dargli la buonanotte e a dirgli che sarebbe tornato al mattino. ‘Ma dove vai, si può sapere come mai hai questi orari sballati?’ domandò il vecchio, e Lestat si spazientì. Da garbato qual era stato, al punto di risultare quasi stomachevole, si fece prepotente. ‘Non mi prendo cura di te, forse? Ho piazzato un tetto sulla tua testa molto migliore di quanti tu ne abbia mai piazzati sulla mia! Se ho voglia di dormire tutto il giorno e bere tutta la notte, lo faccio, e se a te non va, puoi andare al diavolo!’ Il vecchio si mise a piangere. Solo il mio particolare stato emotivo e l’anormale sensazione di sfinimento che avvertivo m’impedirono di esprimere la mia disapprovazione. Osservavo la scena attraverso la porta aperta, affascinato dalle tinte del copriletto e dal vero e proprio turbinio di colori sul viso del vecchio. Le vene azzurre pulsavano sotto la carne rosata e grigiastra. Trovavo attraente persino il giallo dei suoi denti, ed ero quasi ipnotizzato dal tremolio delle sue labbra. ‘Che figlio, che figlio!’ balbettò il vecchio, che ovviamente non aveva mai sospettato la vera natura. ‘Va bene, vai. So che hai una donna da qualche parte: vai a trovarla al mattino appena il marito se ne va. Dammi il rosario. Cos’è successo al mio rosario?’ Lestat bestemmiando gli porse il rosario…»
«Ma…» incominciò il ragazzo.
«Sì?» disse il vampiro. «Mi sa che non ti lascio fare abbastanza domande».
«Dicevo… ma i rosari non hanno delle croci?»
«Oh, la leggenda delle croci!» il vampiro rise. «Ti riferisci alla nostra paura delle croci?»
«Credevo non poteste nemmeno guardarle».
«Idiozie, amico mio, pure idiozie. Io posso guardare tutto quello che voglio; in particolare, non mi dispiace affatto guardare i crocifissi».
«E quella diceria a proposito dei buchi della serratura… che potete… diventare vapore e passarci attraverso?»
«Mi piacerebbe» sghignazzò il vampiro. «Assolutamente fantastico. Mi piacerebbe passare per ogni specie di serratura e sentire il solletico provocato dalle loro forme particolari! No». Scosse la testa. «Questa è, come direste oggi… una cazzata?»
Il ragazzo rise suo malgrado. Poi il suo viso si fece serio.
«Non devi essere così timido con me» lo incoraggiò il vampiro. «Avanti!»
«E i pioli nel cuore?» Le guance del ragazzo si colorarono appena.
«Altra cazzata». Il vampiro articolò con cura le sillabe, tanto che il ragazzo dovette sorridere. «Nessun potere magico. Perché non ti fumi una sigaretta? Vedo che le hai nel taschino della camicia».
«Oh, grazie» disse il ragazzo, come se gli fosse stata rivelata una magica ricetta; ma appena mise la sigaretta tra le labbra, le mani gli tremarono così violentemente che fece scempio del primo fragile fiammifero.
«Permettimi» fece il vampiro. Prese la scatola dei fiammiferi e rapidamente ne accostò uno alla sigaretta del ragazzo, che aspirò, gli occhi fissi sulle dita del vampiro. Poi il vampiro si ritrasse dal tavolo con un delicato fruscio delle vesti. «C’è un portacenere nel lavandino» disse; il ragazzo scattò per prenderlo, fissò un attimo i pochi mozziconi che c’erano dentro e adocchiando un cestino per la carta straccia vi vuotò il portacenere, che depose veloce sul tavolo. Vi appoggiò la sigaretta, su cui le sue dita avevano lasciato delle impronte umide. «È sua questa stanza?» domandò.
«No» rispose il vampiro. «È solo una stanza».
«Poi cosa accadde?» chiese il ragazzo. Il vampiro sembrava intento a osservare il fumo che passava sotto la lampadina.
«Ah… ritornammo in gran fretta a New Orleans. Lestat aveva la bara in una squallida camera vicino ai bastioni».
«E lei entrò nella bara?»
«Non avevo scelta. Pregai Lestat di lasciarmi stare nello sgabuzzino, ma lui rise allibito. ‘Non sai che cosa sei?’ mi disse. ‘Ma cos’è, magia? Deve per forza avere questa forma?’ implorai. Mi rispose con un’altra risata. Non riuscivo a sopportare l’idea; eppure mi stavo rendendo conto di non avere alcuna paura: trovavo la cosa ben strana. Per tutta la vita avevo avuto paura dei luoghi chiusi; nato e cresciuto in Francia tra soffitti altissimi e finestre che arrivavano al suolo, avevo un vero terrore degli spazi ristretti. Mi sentivo a disagio persino nel confessionale, in chiesa: una paura abbastanza normale. E adesso, mentre discutevo con Lestat, m’accorsi di non provarne affatto; solo, me ne ricordavo. Mi ci attaccavo per abitudine, perché ancora non sapevo valutare la mia nuova ed emozionante libertà. ‘Ti stai comportando male’ disse Lestat alla fine. ‘Ed è quasi l’alba; dovrei lasciarti morire. Perché morirai, lo sai. Il sole distruggerà il sangue che ti ho dato, in ogni tessuto, in ogni vena. Ma non dovresti avere paura. Sembri uno di quei tipi che perdono un braccio o una gamba e continuano a sostenere di sentire dolore dove hanno perso l’arto’. Be’, fu senz’altro la cosa più intelligente e utile che Lestat abbia mai detto in mia presenza, e mi convinse all’istante. ‘Allora, io entro nella bara’ m’annunciò alla fine col tono più sprezzante di cui era capace, ‘e tu ti metterai sopra di me, se hai capito bene’. Eseguii. Mi sdraiai bocconi su di lui, estremamente turbato dal fatto di non provare il minimo terrore, e pieno di disgusto per la sua vicinanza, malgrado fosse bello e affascinante. Chiuse il coperchio. Gli domandai se fossi completamente morto. Sentivo formicolii e pruriti ovunque. ‘No, allora vuoi dire di no’ mi disse. ‘Quando lo sarai, potrai udire e vedere il tuo corpo cambiare senza sentire niente. Entro stanotte dovresti essere morto. Dormi’».
«Aveva ragione? Lei era già… morto quando si svegliò?»
«Sì. Cambiato, direi. Perché ovviamente sono vivo. Solo il mio corpo era morto. Anche prima che si fosse purificato completamente dai fluidi e dalla materia di cui non aveva più bisogno, era morto. Quando me ne resi conto entrai in un’ altra fase del mio abbandono delle emozioni umane. Innanzi tutto, mentre io e Lestat caricavamo la bara su un carro funebre e ne rubavamo un’altra da una camera mortuaria, capii che quel vampiro non mi piaceva affatto. Non avevo ancora tutti i suoi poteri, ma gli ero infinitamente più vicino di quanto lo ero stato prima della morte del mio corpo. Non te lo posso spiegare meglio per l’ovvia ragione che tu sei com’ero io prima che il mio corpo morisse. Non puoi capire. Ma prima della mia morte Lestat era stato in senso assoluto l’esperienza più travolgente che avessi mai avuto. La tua sigaretta è ridotta a un cilindro di cenere».
«Oh!» Il ragazzo schiacciò veloce il filtro nel portacenere. «Vuol dire che quando si annullò la distanza fra di voi, lui perse tutto… il suo fascino?» I suoi occhi erano inchiodati sul vampiro e le sue mani estraevano sigaretta e fiammifero con molta più disinvoltura di prima.
«Proprio così» assentì il vampiro con evidente soddisfazione. «Il viaggio di ritorno a Pointe du Lac fu esaltante. Ma l’interminabile cianciare di Lestat fu senz’altro la cosa più noiosa e sgradevole che mi sia mai capitata. Certo, come ho detto, ero ancora lontano dall’essere uguale a lui. Dovevo lottare ancora contro il mio corpo che mi stava abbandonando. E incominciai quella notte stessa, quando dovetti eseguire il mio primo omicidio».
Il vampiro allungò il braccio attraverso il tavolo e tolse delicatamente della cenere dal bavero del ragazzo; questo, allarmato, fissò con gli occhi sgranati la mano che si ritraeva. «Scusami» disse il vampiro. «Non volevo farti paura».
«Mi scusi lei» ribattè il ragazzo. «Ho solo avuto l’impressione che il suo braccio fosse… stranamente lungo. È arrivato così lontano senza muoversi!»
«No» spiegò il vampiro, appoggiando ancora le mani sulle gambe accavallate. «Mi sono spostato tanto velocemente che tu non hai potuto vedermi. Era un’illusione».
«Lei si è spostato? Ma no, è rimasto seduto dov’è adesso, appoggiato allo schienale della sedia».
«No» ripeté il vampiro con voce ferma. «Mi sono proprio spostato. Così». E lo rifece. Il ragazzo lo osservò, tra il confuso e l’impaurito. «Non l’hai visto neanche questa volta» disse il vampiro. «Ma osserva il mio braccio: vedi? così disteso è di lunghezza normale, vero?» E sollevò il braccio, con l’indice puntato verso il cielo come se fosse un angelo che stava per annunciare il Verbo del Signore. «Hai avuto un’idea della differenza fondamentale tra il tuo modo di vedere e il mio. A me il mio gesto è apparso lento, quasi languido. E il rumore del mio dito che ti toglieva la cenere dalla giacca era del tutto udibile: forse adesso puoi capire perché il mio ritorno a Pointe du Lac fu una festa di nuove esperienze, il semplice oscillare di un ramo nel vento una vera delizia».
«Sì» fece il ragazzo; ma appariva ancora molto turbato. Il vampiro lo guardò un istante, poi disse: «Ti stavo dicendo…»
«Del primo omicidio».
«Sì. Innanzitutto nella piantagione s’era scatenato un pandemonio: il corpo del sorvegliante era stato scoperto, e così pure, nella stanza da letto principale, quel vecchio cieco, di cui nessuno sapeva spiegarsi la presenza. E nessuno era riuscito a trovarmi a New Orleans; mia sorella s’era messa in contatto con la polizia: quando arrivai a Pointe du Lac trovai parecchi poliziotti. Naturalmente era già buio; Lestat mi spiegò in fretta che non dovevo farmi vedere dalla polizia nemmeno alla luce più debole, tanto meno ora, che mi trovavo in condizioni così particolari. Parlai con loro nel viale delle querce davanti alla casa della piantagione, ignorando le richieste di entrare in casa; spiegai che la notte prima ero stato a Pointe du Lac e il vecchio cieco era mio ospite. Quanto al sorvegliante, non era stato lì quella notte: s’era recato a New Orleans per affari.
«Sistemata questa faccenda, nella quale il mio nuovo distacco dalle emozioni umane mi servì a meraviglia, mi si presentò il problema della piantagione. I miei schiavi versavano in uno stato di confusione totale, in tutta la giornata non si era lavorato per niente. Avevamo un grosso impianto per la produzione di tintura di indaco; per questo la direzione del sorvegliante era stata quanto mai importante. Ma disponevo di parecchi schiavi in gamba che avrebbero potuto sostituire il sorvegliante egregiamente già molto tempo prima, se solo ne avessi riconosciuto l’intelligenza e non ne avessi temuto l’aspetto e i modi africani. Ora li studiai attentamente e affidai a loro l’incarico dell’amministrazione. Al migliore promisi la casa del sorvegliante. Scegliemmo due giovani donne dai campi che si prendessero cura del padre di Lestat; dissi loro che esigevo la massima discrezione per la mia vita privata e che sarebbero stati tutti ricompensati non solo per il servizio, ma anche per non disturbare né me né Lestat. Allora non mi rendevo conto che questi schiavi sarebbero stati i primi — e probabilmente gli unici — a sospettare che io e Lestat non eravamo esseri normali: non avevo pensato che la loro conoscenza del soprannaturale era di parecchio superiore a quella dei bianchi; inesperto com’ero, li concepivo ancora come infantili selvaggi appena addomesticati dalla schiavitù. Mi sbagliavo di grosso. Ma fammi continuare la mia storia… stavo per raccontarti il mio primo omicidio: Lestat me lo rovinò con la sua tipica mancanza di buon senso».
«Lo rovinò?»
«Non avrei mai dovuto incominciare con gli esseri umani. Ma anche questa è una cosa che ho dovuto imparare da solo. Lestat volle che ci precipitassimo nelle paludi subito dopo che le faccende con la polizia e gli schiavi furono sistemate. Era molto tardi e le baracche degli schiavi erano completamente buie. Presto non vedemmo più le luci di Pointe du Lac e io cominciai ad agitarmi. Era di nuovo la stessa storia: timori portati dalla memoria, turbamento. Lestat, se avesse avuto un minimo di sensibilità, avrebbe potuto spiegarmi le cose con pazienza e gentilezza: che non era proprio il caso che temessi le paludi, che ero assolutamente invulnerabile ai serpenti e agli insetti, e che dovevo concentrarmi sulla mia nuova facoltà di vedere nella completa oscurità. Invece mi vessava coi rimproveri. Si interessava soltanto alle nostre vittime, a portare a termine la mia iniziazione e non pensarci più.
«Così, quando incontrammo le nostre vittime, Lestat mi spinse subito all’azione. Era un piccolo campo di schiavi fuggitivi: Lestat li aveva già visitati e ne aveva sterminati circa un quarto, aspettando nel buio che qualcuno di loro si allontanasse dal fuoco, o assalendoli nel sonno. Non s’erano mai accorti della presenza di Lestat. Dovemmo stare appostati per più di un’ora prima che uno degli uomini — erano tutti uomini — lasciasse finalmente la radura inoltrandosi appena nel bosco. Qui si slacciò i calzoni ed espletò una normale necessità fisiologica; ma quando si voltò per andarsene Lestat mi scosse e disse: ‘Prendilo’». Il vampiro sorrise notando gli occhi atterriti del ragazzo. «Credo di aver sentito lo stesso orrore che forse provi tu ora. Ma non sapevo di poter uccidere animali anziché uomini. Dissi precipitosamente a Lestat che non avrei mai potuto assalire quell’uomo. E lo schiavo sentì la mia voce: si voltò, la schiena rivolta al fuoco lontano, e cercò nel buio. Poi, rapido e silenzioso, estrasse dalla cintura un lungo coltello. Tranne i calzoni e la cintura, era nudo: un giovane alto, robusto, pelle lustra. Disse qualcosa in dialetto francese, poi avanzò. Mi resi conto che, benché io lo potessi vedere chiaramente nel buio, lui non vedeva noi. Mi lasciò esterrefatto la velocità con cui Lestat gli fu addosso, agganciandolo per il collo e bloccandogli contemporaneamente il braccio sinistro. Lo schiavo si mise a gridare e cercò di liberarsi da Lestat, che gli affondò i denti nel collo: l’uomo si irrigidì come morso da un serpente. Cadde in ginocchio, e Lestat lo finì alla svelta perché alcuni schiavi stavano accorrendo. ‘Mi disgusti’ disse tornando da me. Eravamo come neri insetti, perfettamente mimetizzati nella notte, che osservavano gli schiavi muoversi, ignari della nostra presenza, scoprire l’uomo ferito, portarselo via, sparpagliarsi tra il fogliame alla ricerca dell’aggressore. ‘Su, dai, dobbiamo trovarne un altro prima che tutti facciano ritorno al campo’ disse Lestat. E rapidamente ripartimmo dietro a un uomo rimasto isolato dagli altri. Io ero ancora terribilmente agitato, convinto che non ce l’avrei fatta ad aggredirlo e senza alcun desiderio di farlo. C’erano parecchie cose, come ho accennato, che Lestat avrebbe potuto dire e fare. Avrebbe avuto mille maniere di rendere questa esperienza più preziosa per me. Ma non fece nulla».
«Cosa avrebbe potuto fare?» chiese il ragazzo. «Che cosa vuoi dire?»
«Uccidere non è un atto qualsiasi» spiegò il vampiro. «Non si tratta solo di rimpinzarsi di sangue». Scosse la testa. «È l’esperienza di un’altra vita, della perdita di quella vita, attraverso il sangue, lentamente; è rinnovare il ricordo della perdita della mia propria vita, quando succhiai il sangue dal polso di Lestat e udii il suo cuore battere con il mio cuore. Molte volte è una celebrazione di quell’esperienza; perché per i vampiri quella è l’esperienza suprema». Lo disse con un tono estremamente serio, come se stesse discutendo con qualcuno di parere diverso. «Non credo che Lestat l’abbia mai compreso, anche se non so come fosse possibile. Credo che qualcosa capisse, ma molto poco, penso, di quel che c’era da sapere. A ogni modo, allora non pensò neanche lontanamente di rammentarmi ciò che avevo provato quando ero attaccato al suo polso per riceverne la vita e non volevo mollarlo; né si degnò di scegliermi un posto in cui fare la mia prima esperienza di omicidio con un minimo di dignità e di tranquillità. Si gettò a capofitto nella lotta come fosse qualcosa da lasciare alle spalle il più presto possibile, come qualche metro di strada. Balzato sullo schiavo, gli tappò la bocca e gli denudò il collo, tenendolo stretto. ‘Avanti’ disse. ‘Ormai non puoi più tornare indietro’. Disgustato e infiacchito dalla delusione, gli obbedii. M’inginocchiai accanto a quell’uomo piegato che lottava, e stringendogli con le mani le spalle in una morsa penetrai nel suo collo. I miei denti avevano appena iniziato a trasformarsi, perciò dovetti lacerargli la carne, non pungerla; ma una volta prodotta la ferita, il sangue prese a scorrere. E dopo, dopo che mi ci attaccai e bevvi… tutto il resto si dileguò.
«Lestat, la palude, il rumore del campo lontano non mi dicevano nulla. Lestat avrebbe potuto essere un insetto che ronza, si posa, e poi svanisce dall’orizzonte del significato. Succhiare mi aveva ipnotizzato; il caldo vigore con lui l’uomo si ribellava m’alleviava la tensione delle mani; sentii ancora quel rullo di tamburo — il battito del suo cuore — solo questa volta batteva perfettamente a tempo col mio, e li sentivo risuonare in ogni fibra del mio essere, finché il battito cominciò a farsi sempre più lento e i due suoni divennero brontolii sordi che minacciavano di continuare in eterno. Stavo assopendomi, scivolando senza peso; in quel momento Lestat mi tirò indietro: ‘È morto, idiota!’ disse, con la consueta grazia. ‘Non si beve quando sono morti! Ricordalo!’ Ma io deliravo, non ero in me, insistevo che il cuore di quell’uomo batteva ancora, spasimavo dal desiderio di riattaccarmi a lui. Le mie mani corsero al suo petto, poi gli afferrarono i polsi: glieli avrei incisi se Lestat non mi avesse scaraventato a terra e schiaffeggiato. Quello schiaffo fu stupefacente. Non provai il solito dolore. Fu un colpo tremendo, una scossa di tutti i sensi, mi proiettò in un vortice di confusione e mi lasciò inerme e sbigottito, col dorso appoggiato a un cipresso, la notte brulicante di insetti nelle mie orecchie. ‘Se lo fai, crepi’ stava dicendo Lestat. ‘Se gli resti attaccato quand’è morto ti risucchia nella morte con lui. E adesso hai bevuto troppo, per giunta; starai male’. La sua voce mi irritava. All’improvviso mi assalì violentissimo l’impulso di gettarmi su di lui, ma mi sentivo proprio come aveva detto. C’era un dolore sordo nel mio stomaco, come se un gorgo m’inghiottisse le interiora. Era quel sangue che passava troppo rapidamente nel mio, ma io lo ignoravo. Lestat ora si muoveva nella notte come un gatto. Io lo seguivo, la testa mi scoppiava, e il dolore allo stomaco non era ancora passato quando arrivammo alla casa di Pointe du Lac.
«Seduti al tavolo del salotto, mentre Lestat distribuiva le carte di un solitario, lo guardavo con disprezzo. Borbottava delle stupidaggini. Diceva che mi sarei abituato a uccidere, che non sarebbe stato niente di speciale. Non potevo permettermi di essere emotivo; reagivo in modo eccessivo, come se non mi fossi scrollato di dosso gli ‘affanni mortali’. Mi sarei abituato fin troppo presto a queste cose. ‘Tu credi?’ gli chiesi infine. Ma di quel che avrebbe risposto non m’importava granché: ormai avevo capito quanto eravamo diversi. Per me quell’omicidio era stato un cataclisma, quanto l’aver bevuto dal polso di Lestat. Queste esperienze avevano talmente sconvolto e modificato il mio modo di percepire tutto quello che mi circondava, dal ritratto di mio fratello sulla parete del salotto alla visione di una stella solitaria nel riquadro più in alto della porta-finestra, che non riuscivo a concepire come un altro vampiro potesse trovare tutto scontato. Ero definitivamente cambiato, lo sentivo. E ciò che provavo, per ogni cosa, anche per il suono delle carte da gioco deposte una per una sulle file splendenti del solitario, era rispetto. Per Lestat era tutto il contrario, o non provava nulla: un essere amorfo da cui non si poteva ricavare niente. Noioso, banale e infelice come un mortale, cianciava sul gioco, minimizzando la mia esperienza, totalmente corazzato contro la possibilità di fare a sua volta qualsiasi esperienza rilevante. Quando venne il mattino mi resi conto che gli ero del tutto superiore e che nel sceglierlo per maestro ero stato tristemente ingannato. Doveva guidarmi attraverso le lezioni necessarie, sempre che ce ne fossero ancora, e io avrei dovuto sopportare il suo crudele modo di fare, per me addirittura blasfemo, verso la vita stessa. Per lui provavo indifferenza: nella mia superiorità, non lo disprezzavo nemmeno. Solo, avevo fame di nuove esperienze, fame del bello e del travolgente, come il mio omicidio. Capii che per far rendere al massimo ogni possibile esperienza dovevo esercitare i miei poteri su ciò che imparavo. Lestat era completamente inutile.
«Era già passata la mezzanotte quando finalmente mi alzai dalla sedia e uscii sulla veranda. La luna era grande sopra i cipressi, e la luce delle candele si riversava fuori dalle porte aperte. I grossi pilastri intonacati e le pareti della casa erano stati imbiancati di fresco, le assi del pavimento appena spazzate, e una pioggia estiva aveva reso l’aria pulita e sfavillante di gocce. Mi appoggiai contro l’ultimo pilastro della veranda sfiorando con la testa i morbidi viticci d’un gelsomino che cresceva in perenne contesa col glicine; pensai a che cosa mi aspettava in tutto il mondo e per tutto il tempo a venire, e mi risolsi ad accostarmici con rispetto, imparando da ogni cosa ciò che mi avrebbe aiutato ad affrontarne un’altra. Cosa ciò significasse, non lo sapevo neanch’io. Capisci quando dico che non volevo gettarmi a capofitto nelle esperienze, che le sensazioni che avevo provato come vampiro erano assolutamente troppo forti perché potessi osare dissiparle?»
«Sì» rispose il ragazzo con ardore. «Sembra come quando si è innamorati».
Gli occhi del vampiro luccicarono. «Giusto. Somiglia all’amore» sorrise. «E ti racconto il mio stato d’animo di quella notte, perché tu possa renderti conto che esistono profonde differenze tra vampiro e vampiro, e di come arrivai ad assumere un atteggiamento diverso da quello di Lestat. Devi capire che non lo snobbavo perché non comprendeva il valore della sua esperienza; semplicemente, non riuscivo a capire come si potessero sprecare simili sensazioni. Ma ecco che Lestat fece qualcosa che m’avrebbe indicato un modo di imparare.
«C’era qualcosa di più in lui, nei confronti di Pointe du Lac, che un semplice apprezzamento della ricchezza. S’era molto compiaciuto della bellezza delle porcellane usate per la cena di suo padre; amava la sensazione che offrivano al tatto i panni di velluto e ricalcava i disegni dei tappeti con la punta delle scarpe. Ora estrasse un bicchiere di cristallo da una delle vetrine dicendo: ‘Mi mancano i bicchieri’. Però lo disse con un piacere così malizioso che m’indusse a studiarlo con occhio severo. Lo detestavo intensamente! ‘Voglio mostrarti un trucco’ m’annunciò. ‘Cioè, se ti piacciono i bicchieri’. Dopo averlo posato sul tavolo delle carte uscì sulla veranda, dov’ero io. Sembrava di nuovo un animale in agguato, con gli occhi che tagliavano il buio oltre le luci della casa e scrutavano il terreno sotto i rami inarcati delle querce. In un baleno saltò la ringhiera e atterrò dolcemente sul terriccio, quindi si lanciò nel buio pesto per afferrarvi qualcosa con tutt’e due le mani. Quando tornò e me la mostrò, vidi con sgomento che era un ratto. ‘Non fare lo scemo’ mi disse. ‘Non hai mai visto un ratto?’ Era un enorme ratto di campagna, con una lunga coda, che si dibatteva disperatamente. Lestat lo teneva per il collo in modo che non potesse mordere. ‘I ratti non sono niente male’ disse. Lo accostò al bicchiere di cristallo, gli squarciò la gola e riempì veloce il bicchiere di sangue. Poi lanciò il ratto contro la ringhiera della veranda e levò trionfante il calice verso la candela. ‘Può capitare di dover vivere di ratti, di tanto in tanto, perciò vedi di levarti quell’espressione dalla faccia’ continuò. ‘Ratti, polli, bestiame. Se viaggi in nave, meglio che t’accontenti dei ratti, se non vuoi terrorizzare l’equipaggio e spingerlo a cercare la tua bara. È molto, molto meglio ripulire la nave dai ratti’. E si mise a sorseggiare il sangue, centellinandolo come si fosse trattato di vino di Borgogna. Fece una leggera smorfia. ‘Si raffredda così in fretta…’
«‘Vuoi dire che possiamo vivere di animali?’ domandai.
«‘Sì’. Lo bevve tutto e poi, come niente fosse, scagliò il bicchiere contro il caminetto. Diedi un’occhiata ai frammenti. ‘Non ti spiace, vero?’ chiese accennando al bicchiere rotto, con un sorriso sarcastico. ‘Spero proprio che non ti spiaccia, anche perché non ci puoi fare proprio niente’.
«‘Posso sbattere fuori te e tuo padre da Pointe du Lac, se mi va’ risposi. Credo fosse la prima volta che mi mostravo in collera.
«‘Perché dovresti farlo?’ chiese con aria fintamente allarmata. ‘Hai ancora molte cose da imparare… non è vero?’ Rideva, camminando lentamente per la stanza. Fece scorrere le dita sulla rifinitura di seta della spinetta. ‘Tu suoni?’ mi chiese.
«Io ringhiai qualcosa come: ‘Non toccarla!’ e lui mi rise in faccia. ‘La tocco finché mi pare’ ribatté. ‘Tu non sai, per esempio, tutti i modi in cui puoi morire. E morire adesso sarebbe così spiacevole… non trovi?’
«‘Ci sarà pure qualcun altro al mondo in grado di insegnarmi queste cose’ dissi. ‘Non sarai mica l’unico vampiro! E tuo padre avrà forse settant’anni: non puoi essere un vampiro da molto tempo, avrai pure avuto qualcuno che ti ha istruito…’
«‘E tu credi di riuscire a trovare degli altri vampiri da solo? Loro potrebbero vederti arrivare, mio caro, ma tu non li vedresti. A me non sembra che tu abbia molte alternative. Io sono il tuo maestro e tu hai bisogno di me, ti piaccia o no. E tutti e due abbiamo della gente a cui badare. Mio padre ha bisogno di un dottore, e ci sono tua madre e tua sorella. Non avere la malaugurata idea di andargli a dire che sei un vampiro; tu preoccupati di loro e di mio padre: domani notte farai meglio a uccidere alla svelta e dedicarti subito alla piantagione. Adesso, a letto! Dormiremo nella stessa stanza: è molto meno rischioso’.
«‘No. La stanza da letto tientela per te. Non ho alcuna intenzione di stare nella stessa camera con te!’
«Lestat andò su tutte le furie. ‘Ti proibisco di fare stupidaggini, Louis. T’avverto: non c’è niente che tu possa fare per difenderti una volta che sorge il sole, niente. Stanze separate vuol dire difese separate. Doppie precauzioni e doppie possibilità d’essere scoperti’. Poi elencò una serie di minacce spaventose per convincermi, ma era come se parlasse a un muro. Lo guardavo assorto, ma non lo ascoltavo. Lo vedevo fragile e stupido, un uomo fatto di ramoscelli secchi con una voce sottile, lagnosa. ‘Dormo da solo’ dissi, e spensi piano, una a una, le fiamme delle candele, soffocandole nella mano. ‘È quasi mattino’ insistette lui.
«‘Allora chiuditi dentro’ gli risposi. Abbracciai la bara, la sollevai e la trasportai giù per le scale di mattone. Sentivo lo scatto delle serrature delle porte-finestre di sopra, e il fruscio dei tendaggi. Il cielo impallidiva ma era ancora spruzzato di stelle, e un’altra pioggia leggera soffiava col vento del fiume chiazzando il selciato. Aprii la porta della cappella di mio fratello, spingendo indietro le rose e le spine che l’avevano quasi sigillata, e deposi la bara sul pavimento di pietra davanti all’inginocchiatoio. Riuscivo quasi a scorgere le immagini dei santi sulle pareti. ‘Paul’ dissi piano, rivolgendomi a mio fratello, ‘per la prima volta nella mia vita non provo niente per te, per la tua morte; e per la prima volta sento per te ogni cosa, sento il dolore della tua perdita come mai prima sapevo sentire’. Capisci…»
Il vampiro si volse verso il ragazzo. «Per la prima volta adesso ero pienamente e completamente un vampiro. Serrai perfettamente le imposte di legno delle finestrelle con le sbarre e sprangai la porta. Poi salii nella bara foderata di raso riuscendo a stento a vedere il luccichio della stoffa nell’oscurità, e mi ci chiusi dentro. È così che sono diventato un vampiro».
«E così lei era lì» disse il ragazzo dopo una pausa, «insieme a un altro vampiro che odiava».
«Eppure dovevo stare con lui: come ti dissi, m’aveva messo in una posizione di grande svantaggio nei suoi confronti. Mi aveva convinto che c’erano molte cose che ancora non sapevo e solo lui era in grado d’insegnarmi. In realtà invece la maggior parte di quello che imparai erano consigli pratici a cui sarei potuto arrivare facilmente anche da solo: per esempio, che avremmo potuto viaggiare per nave e farci trasportare le bare raccontando che contenevano le spoglie dei nostri cari spedite per essere sepolte; che nessuno avrebbe osato aprirle, e che avremmo potuto uscircene di notte per ripulire la nave dai topi — cose di questo genere. Poi c’erano i negozi e i commercianti di sua conoscenza che ci facevano entrare molto dopo l’orario di chiusura per vestirci secondo i canoni della più raffinata moda parigina, e gli agenti disposti a trattare questioni finanziarie nei ristoranti e nei cabaret. In tutte queste faccende mondane, Lestat era un discreto maestro. Che specie di uomo fosse stato nella vita, non ero in grado di dirlo, né m’importava; ma adesso sembrava sotto tutti i rispetti appartenere alla mia stessa classe, il che significava ben poco per me, se non che le nostre esistenze procedevano un po’ più tranquillamente di quanto sarebbe potuto accadere altrimenti. Aveva un gusto impeccabile, anche se per lui la mia biblioteca era solo ‘un mucchio di polvere’, e più d’una volta mi parve s’imbestialisse vedendomi leggere un libro o scrivere qualche osservazione su un diario. ‘Sciocchezze da mortale’ mi diceva, e nel frattempo spendeva tanti di quei soldi, soldi miei, per arredare sontuosamente Pointe du Lac, che persino io, che non sono per niente avaro, avevo dei momenti di perplessità. E quando intratteneva i visitatori di Pointe du Lac — quegli infelici viaggiatori che risalivano la strada del fiume a cavallo o in carrozza e chiedevano ospitalità per la notte, sfoggiando lettere di presentazione di altri coloni o di ufficiali di New Orleans — con questi era tanto gentile e garbato da rendermi molto più facile sopportarlo, sebbene mi sentissi irrimediabilmente legato a lui e fossi sempre più esasperato dalla sua perversità».
«Ma a questi uomini non faceva del male?» chiese il ragazzo.
«Oh sì, spesso. Ora ti rivelerò un piccolo segreto, se mi permetti, che riguarda non solo i vampiri, ma generali, soldati e re. Alla maggior parte di noi è più gradito vedere qualcuno morire che essere fatto oggetto di scortesie sotto il nostro tetto. Strano… sì. Ma molto vero, ti assicuro. Che Lestat andasse a caccia di mortali ogni notte, lo sapevo; ma se si fosse comportato in modo incivile o sgradevole con la mia famiglia, coi miei ospiti o coi miei schiavi, non lo avrei sopportato. Invece no. Sembrava dilettarsi particolarmente dei visitatori. E diceva che non bisognava badare a spese quando si trattava delle nostre famiglie. Faceva vivere suo padre in un lusso che sfiorava il ridicolo: quel vecchio cieco si sentiva continuamente raccontare quanto fossero belli e costosi i suoi abiti e le sue giacche da camera, quali tessuti d’importazione fossero stati appena sistemati sul suo letto, quali vini francesi e spagnoli avessimo in cantina, e quanto producesse la piantagione anche nelle annate cattive quando tutti meditavano di abbandonare completamente la produzione di indaco e di darsi allo zucchero. Altre volte invece Lestat faceva il prepotente col vecchio. Dava in tali escandescenze che il poveretto si metteva a piangere come un bambino. ‘Non ti faccio vivere in un lusso principesco?’ gli gridava Lestat. ‘Non provvedo a tutti i tuoi bisogni? Smettila di frignare che vuoi andare a messa o a trovare i vecchi amici! Che sciocchezze! I tuoi vecchi amici sono morti! Perché non muori anche tu, così lasci in pace me e le mie finanze!’ Il vecchio piagnucolava a voce bassa che quelle cose significavano così poco per lui, alla sua età; che lui si sarebbe accontentato della sua piccola fattoria, per sempre. Desiderai spesso chiedergli: ‘Dov’era questa fattoria? Da dove venite?’ per ottenere qualche informazione sul posto in cui Lestat poteva aver conosciuto un altro vampiro. Ma non osai sollevare la questione per paura che il vecchio attaccasse a piangere e Lestat andasse su tutte le furie. Ma questi scatti non erano più frequenti dei periodi di gentilezza quasi ossequiosa in cui Lestat portava il vassoio della cena a suo padre e lo nutriva pazientemente intrattenendolo sul tempo, su cos’era successo a New Orleans e sulle attività di mia madre e di mia sorella. Era evidente che c’era un abisso tra padre e figlio, sia per educazione che per sensibilità, ma non riuscivo a immaginarmi come fosse potuto succedere. E verso questa faccenda riuscii ad assumere un distacco in qualche modo coerente.
«Quel modo di vita, come ho detto, era sopportabile. Con quel suo sorriso beffardo, Lestat voleva farmi intuire che aveva poteri terribili e rapporti con le tenebre che nemmeno potevo immaginare; e non perdeva occasione per sminuirmi o punzecchiarmi per il mio amore dei sensi, per la mia riluttanza a uccidere, e per quella specie di deliquio che uccidere provocava in me. Rise fragorosamente quando scoprii che potevo vedermi nello specchio e che le croci non mi facevano nessun effetto, e quando gli chiedevo di Dio o del diavolo mi provocava chiudendo ermeticamente le labbra. ‘Una notte mi piacerebbe incontrare il diavolo’ disse una volta con un sorriso maligno. ‘Lo inseguirei da qui alle foreste del Pacifico. Io sono il diavolo’ E vedendo la mia espressione stupefatta, si sbellicò dalle risate. Ma in realtà, disprezzandolo, finii per ignorarlo e per diffidare di lui, pur studiandolo con una specie di distaccato rapimento. A volte mi sorprendevo a fissare quel polso che m’aveva trasformato in vampiro, e cadevo in una tale immobilità che mi sembrava che la mia mente abbandonasse il corpo, o meglio che il mio corpo diventasse la mia mente; lui se ne accorgeva e mi guardava, in quella sua ostinata ignoranza di ciò che provavo e di ciò che anelavo conoscere, e mi riscuoteva brutalmente da quello stato. Sopportai tutto questo con un distacco a me sconosciuto nella vita mortale, finché mi resi conto che faceva parte della mia nuova natura: che avrei potuto stare a Pointe du Lac, pensando per ore alla vita di mio fratello e vederla breve e compiuta nelle tenebre imperscrutabili, capendo finalmente quant’era vana e dissennata la passione devastante con cui avevo pianto la sua perdita e mi ero rivoltato contro gli altri mortali come un animale impazzito. Tutta quella confusione ora somigliava a dei ballerini folli che si dimenavano nella nebbia; e ora, calato in questa strana natura di vampiro, provavo una profonda tristezza. Ma non stavo a rimuginare. Non vorrei darti quest’impressione, perché sarebbe stato tempo sprecato; invece mi guardavo intorno, osservavo i mortali che conoscevo e vedevo tutta la vita come cosa preziosa, condannando tutti gli inutili sensi di colpa e le sterili passioni che la fanno scivolare tra le dita come sabbia. Fu solo allora, da vampiro, che conobbi veramente mia sorella. Le proibii di stare alla piantagione in modo che potesse condurre quella vita di città che le avrebbe permesso di vivere i suoi giorni felici, di mettere alla prova la sua bellezza, di trovare marito; invece d’intristirsi sul fratello perduto, o perché io mi allontanavo da lei, o facendo da infermiera a mia madre. Cercavo di dare loro tutto ciò di cui potevano avere bisogno o desiderio, tenendo in considerazione anche le richieste più banali. Mia sorella rideva della mia trasformazione, quando ci incontravamo di notte e la portavo fuori dal nostro appartamento per le strette strade, a passeggiare al chiaro di luna lungo l’argine tappezzato di alberi, assaporando gli effluvi dei fiori d’arancio e il carezzevole tepore, discorrendo per ore dei suoi pensieri e dei suoi sogni più segreti, quelle piccole fantasie che non osava dire a nessuno e che persino a me riusciva a confessare soltanto in un sussurro nella fioca luce del salotto. La vedevo davanti a me: una creatura scintillante, preziosa, che presto sarebbe invecchiata, presto sarebbe morta, presto avrebbe irrimediabilmente perduto questi momenti che nella loro intangibilità ci facevano sperare, a torto… a torto, in una sorta d’immortalità. Come se si trattasse di un nostro diritto innato, di cui non si afferra il significato fino a quel punto della vita in cui ci vediamo davanti solo tanti anni quanti già ce ne siamo lasciati alle spalle. Quando ogni istante, ogni istante, va prima conosciuto e poi assaporato.
«Era il distacco che rendeva possibile tutto questo, era una sublime solitudine quella con cui Lestat e io ci muovevamo nel mondo degli uomini mortali. E ogni preoccupazione materiale era superata. Bisognerà che ti spieghi come funzionava sul piano pratico.
«Lestat aveva sempre saputo come derubare le vittime, scelte per l’abbigliamento sontuoso e per altri promettenti segni di stravaganza. Ma i problemi fondamentali dell’asilo e della segretezza lo avevano sempre messo in difficoltà. Avevo l’impressione che sotto quell’apparenza da gentiluomo ci fosse una profonda ignoranza delle più elementari questioni finanziarie. Ma io me ne intendevo, così lui poteva procurarsi il denaro in qualsiasi momento e io potevo investirlo. Quando non svuotava le tasche d’un morto in qualche vicolo, era seduto ai più importanti tavoli da gioco nei salotti più ricchi della città, adoperando la sua scaltrezza di vampiro per succhiare oro, dollari e atti di proprietà ai giovani rampolli dei coloni che si lasciavano ingannare dalla sua cordialità e sedurre dal suo fascino. Tuttavia non era mai riuscito a condurre la vita che desiderava; per questo mi aveva introdotto nel mondo del soprannaturale: per procurarsi qualcuno che investisse e amministrasse il denaro, qualcuno che disponesse di queste abilità della vita mortale, preziosissime in quest’altra vita.
«Ma lascia che ti descriva New Orleans com’era allora, così capirai, quant’era semplice la nostra vita. In tutta l’America non c’era una città come New Orleans; non solo c’erano francesi e spagnoli d’ogni classe che avevano costituito l’elemento originario di quella singolare aristocrazia locale, ma vi si erano poi anche riversati emigranti d’ogni provenienza, soprattutto irlandesi e tedeschi. E non c’erano solo gli schiavi negri, che erano ancora eterogenei ed eccentrici nei loro diversi abbigliamenti e comportamenti tribali, ma tutta quella classe, che andava aumentando, della gente libera di colore, gente meravigliosa in cui si mischiava il nostro sangue e quello delle isole, che produceva una magnifica ed eccezionale casta di artigiani, artisti, poeti, e donne di rinomata bellezza. Poi c’erano gli indiani, che nei giorni d’estate ricoprivano l’argine con le erbe e gli oggetti d’artigianato che vendevano. E in mezzo a tutta quest’accozzaglia di lingue e di colori s’aggirava la gente del porto, i marinai, che arrivavano a grandi ondate per spendere il loro denaro nei cabaret, per comprarsi una notte con quelle belle donne, scure o chiare che fossero, per cenare nei migliori ristoranti francesi e spagnoli e bere vini d’importazione. Aggiungi, qualche anno dopo la mia trasformazione, gli americani che estesero la città dal vecchio quartiere francese verso la sorgente del fiume, costruendo dimore sontuose in stile greco, che brillavano come templi al chiaro di luna. Infine, naturalmente, c’erano i coloni, sempre i coloni, che scendevano in città coi loro lucidi landò a comprare abiti da sera, argento e gemme, ad affollare le stradine anguste che portavano al vecchio Teatro dell’Opera francese, al Théàtre d’Orléans e alla cattedrale di St. Louis, dalle cui porte spalancate le salmodie della messa cantata si spandevano sulla folla che riempiva la Place d’Armes, sui rumori e sui bisticci del mercato francese, sul moto silenzioso, spettrale delle barche lungo le acque rialzate del Mississippi, che scorreva contro l’argine sopra il livello della stessa New Orleans, di modo che le barche sembravano galleggiare nel cielo.
«Questa era New Orleans, un luogo magico e magnifico, dove un vampiro riccamente vestito che attraversava elegantemente una dopo l’altra le pozze di luce delle lampade a gas, non avrebbe potuto, di sera, essere notato più di centinaia d’altre creature esotiche — sempre che fosse notato affatto, che qualcuno s’arrestasse e sussurrasse da dietro un ventaglio: ‘Quell’uomo… com’è pallido, che strana luminosità… come si muove. Non sembra naturale!’ Una città in cui un vampiro poteva dileguarsi prima che le parole formulate sulle labbra avessero il tempo di prendere suono, rifugiarsi nei vicoli dove vedeva come un gatto, nei bar senza luce dove i marinai dormivano con la testa sul tavolo, in stanze d’albergo dagli alti soffitti dove una donna solitaria poteva stare coi piedi su un cuscino ricamato, le gambe coperte da un copriletto di pizzo e la testa reclinata sotto la luce fioca di un’unica candela senza mai vedere la grande ombra muoversi sui fiori di stucco del soffitto o le lunghe dita bianche protendersi per spegnere la fragile fiamma.
«Un posto notevole, se non altro perché tutta la gente che per una qualsiasi ragione vi passava lasciava dietro di sé qualche monumento, qualche struttura di marmo, mattone o pietra oggi ancora in piedi; infatti anche quando sparirono le lampade a gas e arrivarono gli aeroplani e i palazzi degli uffici affollarono gli isolati di Canal Street, rimase un tocco indelebile di bellezza e di fascino esotico; forse non in tutte le strade, ma ancora in tante che per me il paesaggio resta quello di allora, e se adesso vago sotto le stelle per le strade del quartiere francese o del Garden District, ritorno a quell’epoca. Suppongo che questa sia la natura dei monumenti. Sia che si tratti d’una casetta o d’una villa con le colonne corinzie e i fregi di ferro battuto. Un monumento non ti dice che questo o quell’altro uomo è passato di lì, ma che ciò che ha provato in un punto del tempo e dello spazio continua. La luna che illuminava allora New Orleans sorge ancora. Finché saranno in piedi quei monumenti, essa sorgerà ancora. Questa sensazione, almeno qua… e là… resta identica».
Il vampiro era visibilmente triste. Sospirò, come se dubitasse di quanto aveva appena detto. «Cosa stavo dicendo?» domandò improvvisamente come chi è un po’ stanco. «Ah, già, i soldi. Lestat e io dovevamo far soldi. Ti stavo dicendo che lui aveva una certa abilità nel rubare. Ma l’importante era investire bene dopo. Ma sto correndo troppo. Io uccidevo animali. Su questo tornerò tra un momento. Lestat uccideva solo esseri umani, talvolta due o tre per notte, talvolta di più. Beveva da uno quel tanto che bastava a soddisfare una sete momentanea, poi ne prendeva un altro. Migliore era la vittima, più ci godeva, com’era solito dire nel suo modo volgare. Per aprire la serata, quel che preferiva era una fresca ragazzina; ma la cosa che lo appagava di più era un ragazzo. Per uno della tua età sarebbe impazzito».
«Per me?» disse in un soffio il ragazzo. Stava appoggiato in avanti, sui gomiti, per scrutare gli occhi del vampiro; poi si raddrizzò.
«Sì» continuò il vampiro, come se non avesse notato il cambiamento d’espressione del ragazzo. «Vedi, i ragazzi rappresentavano per Lestat la perdita più grande, proprio perché sono sulla soglia della massima possibilità di vita. Naturalmente, Lestat non ci arrivava da solo: fui io a capirlo. Lestat non capiva niente.
«Ti farò un esempio di quel che piaceva a Lestat. Dopo di noi, verso la sorgente del fiume, c’era la piantagione Frenière, una splendida distesa di terra che aveva grandi possibilità di rendere con lo zucchero, subito dopo che fu inventato il processo di raffinazione. Immagino tu sappia che in Louisiana si raffinava lo zucchero. C’è qualcosa di perfetto e d’ironico nel fatto che questa terra che amavo produceva zucchero raffinato. Lo dico con più tristezza di quanto tu possa capire, credo. Questo zucchero raffinato è veleno. Era come l’essenza della vita di New Orleans, così dolce da essere fatale, così inebriante da far dimenticare tutti gli altri valori… Ma come dicevo, dopo di noi verso la sorgente del fiume vivevano i Frenière, una grande e antica famiglia francese che aveva messo al mondo in quella generazione cinque ragazze e un giovanotto. Ora, tre delle giovani donne erano destinate a non maritarsi, ma due erano ancora abbastanza giovani; e tutte dipendevano dal giovanotto. Lui doveva amministrare la piantagione come avevo fatto io per mia madre e mia sorella; lui doveva negoziare matrimoni, mettere insieme le doti quando l’intera fortuna di quel posto si reggeva precariamente sul raccolto di zucchero dell’anno dopo; lui doveva contrattare, lottare, insomma tener lontano da Frenière il mondo materiale. Lestat decise che lo voleva. E quando il destino stesso quasi lo beffò, uscì di senno. Corse seri pericoli per avere il ragazzo Frenière, che era stato coinvolto in un duello. Aveva insultato a un ballo un giovane creolo spagnolo; niente di serio, in realtà, ma, come la maggior parte dei giovani creoli, questo era disposto a morire per niente. Entrambi erano disposti a morire per niente. Casa Frenière era in tumulto. Naturalmente, Lestat lo sapeva benissimo. Tutti e due avevamo battuto la piantagione Frenière, Lestat a caccia di schiavi e di ladri di polli, io di animali».
«Lei uccideva solo animali?»
«Sì. Poi ti spiegherò. Stavo dicendo che frequentavamo entrambi la piantagione, dove io indulgevo a uno dei massimi piaceri dei vampiri: osservare la gente senza essere visti. Conoscevo le sorelle Frenière come conoscevo gli splendidi rosai attorno alla cappella di mio fratello. Erano delle donne straordinarie. Ciascuna a suo modo era intelligente come il fratello; e una di loro, che chiamerò Babette, non solo intelligente, ma anche molto più saggia di lui. Tuttavia a nessuna di loro era stato insegnato come occuparsi della piantagione, nessuna aveva un’idea delle più elementari questioni finanziarie. Tutte dipendevano completamente dal giovane Frenière, e ne erano ben consapevoli. Quindi, sotto quel sublime amore per lui, quella convinzione appassionata che fosse lui a tenere la luna in cielo, e che qualunque amore coniugale sarebbe stato solo un pallido riflesso di quell’amore, c’era una disperazione forte come la volontà di sopravvivere. Se Frenière fosse morto nel duello, la piantagione sarebbe finita. La sua fragile economia, il tenore di vita lussuoso, invariabilmente fondato sull’ipoteca del raccolto dell’anno successivo, era nelle sue mani. Immagina quindi il panico e l’infelicità della famiglia Frenière la notte in cui il figlio andò in città per affrontare il duello stabilito. E immagina Lestat, che digrignava i denti come un diavolo da operetta perché non poteva uccidere il giovane Frenière».
«Mi sta dicendo che lei provava…compassione per le donne Frenière?»
«Sì, assolutamente» disse il vampiro. «La loro condizione era disperata. Anche il ragazzo mi faceva compassione. Quella notte si chiuse nello studio del padre e stese il testamento. Sapeva perfettamente che se alle quattro del mattino dopo fosse caduto sotto i colpi della spadina, la sua famiglia sarebbe caduta con lui. Deplorava la sua situazione, eppure non poteva fare nulla per evitarla. Sottrarsi al duello non solo avrebbe significato la rovina sociale, ma probabilmente sarebbe stato impossibile. L’altro giovane l’avrebbe perseguitato fino a costringerlo a battersi. A mezzanotte, lasciando la piantagione, guardava in faccia la morte con l’animo di chi, avendo solo una strada da percorrere, si è coraggiosamente risolto a seguirla. Avrebbe ucciso il ragazzo spagnolo o sarebbe morto: l’esito non era prevedibile, nonostante la sua abilità. Il suo viso rifletteva una profondità di sentimenti e una consapevolezza che non avevo mai trovato sul volto delle vittime di Lestat. Fu la mia prima battaglia con Lestat. Erano mesi che gli impedivo di uccidere il ragazzo, e adesso intendeva farlo prima che lo facesse lo spagnolo.
«Eravamo a cavallo, lanciati dietro al giovane Frenière alla volta di New Orleans, Lestat deciso a superarlo, io deciso a superare Lestat. Come ti dicevo, il duello era fissato per le quattro del mattino, al margine della palude appena fuori della porta nord della città. Arrivandoci appena prima delle quattro, avevamo poco tempo per far ritorno a Pointe du Lac, il che significava che le nostre stesse vite erano in pericolo. Covavo un’ira senza precedenti nei confronti di Lestat, e lui era deciso a prendersi il ragazzo. ‘Lascialo al suo destino’ insistetti, afferrando Lestat prima che potesse avvicinarsi a Frenière. Era pieno inverno, nelle paludi faceva un freddo intenso e umido e raffiche di gelida pioggia spazzavano la radura in cui si doveva tenere il duello. Naturalmente, io non temevo questi elementi come potresti temerli tu; non mi facevano intirizzire né mi minacciavano con brividi o malattie da mortali. Ma i vampiri sentono il freddo quanto gli esseri umani, e spesso il sangue della preda è un potente e sensuale lenimento. Quel che mi preoccupava quel mattino, però, non era il malessere che provavo, ma la perfetta cappa di oscurità creata da questi elementi, che rendeva Frenière estremamente vulnerabile all’aggressione di Lestat. Bastava solo che s’allontanasse dai suoi due amici e s’incamminasse nella palude che Lestat avrebbe potuto assalirlo. Così lottai con Lestat, riuscendo a trattenerlo».
«Ma verso tutto questo lei non provava un senso di distacco, di lontananza?»
«Be’…» sospirò il vampiro. «Sì. Ma anche un’ira tremenda. Volersi saziare della vita di un’intera famiglia era per me la dimostrazione suprema dell’indifferenza e del disprezzo totale che Lestat aveva verso tutto ciò che avrebbe dovuto vedere con la profondità d’un vampiro. Così lo tenevo nel buio, e lui mi sputava addosso e mi copriva d’insulti intanto che il giovane Frenière prese lo spadino dal suo amico e padrino e uscì sull’erba umida e viscida per incontrare il suo avversario. Ci fu una breve conversazione, poi il duello incominciò. Pochi secondi, ed era finito. Frenière aveva ferito a morte l’avversario con un agile colpo al petto. Il giovane spagnolo stava in ginocchio sull’erba, sanguinante, moribondo, urlando qualcosa d’incomprensibile a Frenière. Il vincitore rimase immobile, in piedi. Tutti ebbero modo di constatare che non c’era alcuna dolcezza nella vittoria. Frenière guardava la morte come un abominio. I suoi compagni avanzarono con le lanterne, esortandolo a venir via il più presto possibile e lasciare il moribondo ai suoi amici. Nel frattempo, il ferito non permetteva a nessuno di toccarlo. Poi, come il gruppo di Frenière si voltò per andarsene, avviandosi a passi pesanti verso i cavalli, l’uomo a terra estrasse una pistola. Forse io solo potei vederlo, in quel buio pesto. In ogni caso, gridai un avvertimento a Frenière e mi lanciai verso la pistola. Non avrei potuto fare a Lestat cosa più gradita. Mentre io mi perdevo nella mia goffaggine, distraendo Frenière e lanciandomi sull’arma, Lestat, con la sua esperienza e la sua incredibile velocità, abbrancò il giovane e lo fece sparire tra i cipressi. Dubito che i suoi amici abbiano capito cosa accadde. La pistola aveva sparato, il ferito era crollato, e io correvo per quegli acquitrini semighiacciati gridando il nome di Lestat.
«Poi lo vidi. Frenière giaceva scomposto ai piedi di un cipresso, gli stivali affondati nell’acqua nera, e Lestat era ancora piegato su di lui, con una mano sulla mano che ancora reggeva la spada. Andai verso Lestat per tirarlo via, ma quella mano destra vibrò contro di me con la velocità del lampo, tanto che non la vidi, e non seppi che m’aveva colpito finché non mi ritrovai anch’io nell’acqua; naturalmente, quando mi ripresi, Frenière era bell’e morto. Lo vidi, con gli occhi chiusi e le labbra assolutamente immobili come stesse dormendo. ‘Maledetto!’ inveii contro Lestat. Poi mi mossi, perché il corpo di Frenière aveva cominciato a scivolare giù nell’acquitrino. L’acqua salì sul suo viso e lo coprì completamente. Lestat era esultante; mi ricordò che ci restava meno di un’ora per ritornare a Pointe du Lac, e giurò di vendicarsi di me. ‘Se non fosse che mi piace la vita da piantatore del Sud, ti ucciderei stanotte. Conosco un sistema’ mi minacciò. ‘Dovrei portare il tuo cavallo nelle paludi. Ti scaveresti da solo la fossa e ci creperesti asfissiato!’ E si allontanò.
«Anche dopo tutti questi anni, provo ancora per lui quella rabbia, come un liquido incandescente che mi riempie le vene. Allora seppi cosa significava per lui essere un vampiro».
«Era solo un assassino» disse il ragazzo, con una voce che rifletteva in parte l’emozione del vampiro. «Non aveva rispetto per nulla».
«No. Per lui essere un vampiro significava vendetta. Vendetta contro la vita stessa. Ogni volta che sopprimeva una vita, era una vendetta. Non c’è da meravigliarsi, allora, che non capisse niente. Le sfumature dell’esistenza di vampiro non gli erano accessibili, dal momento che era concentrato su questa mania di riscatto sulla vita mortale che aveva lasciato. Consumato dall’odio, si volgeva indietro. Consumato dall’invidia, nessuna cosa lo appagava, se non poteva toglierla agli altri; e una volta ottenutala, tornava indifferente e insoddisfatto, perché non amava quella cosa per se stessa, e si rimetteva a caccia di qualcos’altro. Vendetta cieca, sterile e spregevole.
«Ti ho parlato delle sorelle Frenière. Erano quasi le cinque e mezzo quando tornai alla loro piantagione. L’alba sarebbe arrivata subito dopo le sei, ma ero quasi a casa. Scivolai sulla veranda superiore della loro casa e le vidi tutte riunite nel salotto; non si erano neppure cambiate per andare a dormire. Le candele bruciavano basse, e le cinque donne sedevano già come in lutto, attendendo la notizia. Erano tutte vestite di nero, nella loro abituale tenuta da casa, e nell’oscurità le nere forme dei loro abiti facevano un’unica massa con i capelli corvini, così che alla luce delle candele i loro volti avevano l’aspetto di cinque dolci, scintillanti apparizioni, ognuna a modo suo sconsolata. Solo il viso di Babette aveva un aspetto risoluto, come se avesse già deciso di assumersi la responsabilità di Frenière, qualora suo fratello fosse morto, e sul suo volto c’era la stessa espressione ch’era stata sul volto di suo fratello quand’era montato a cavallo per recarsi al duello. L’aspettava qualcosa di quasi impossibile. L’aspettava la morte finale, di cui Lestat era colpevole. Perciò feci qualcosa di molto rischioso. Mi feci mostrai lei, giocando sulla luce. Come puoi notare, il mio viso è molto bianco e ha una superficie liscia, che riflette moltissimo i raggi, piuttosto simile a quella del marmo levigato».
«Sì» annuì il ragazzo, visibilmente agitato. «È molto… bello, davvero. Mi domando se… ma cosa accadde?»
«Ti domandi se ero un bell’uomo quand’ero vivo» suggerì il vampiro. Il ragazzo accennò di sì. «Lo ero. Nulla nella mia struttura è cambiato. Solo, non avevo mai saputo di essere bello. La vita turbinava attorno a me in un vento di meschine preoccupazioni, come ho detto. Non guardavo niente, nemmeno lo specchio… anzi, meno che mai lo specchio… con occhio sgombro. Ma questo è quel che accadde. Mi avvicinai al vetro della finestra e lasciai che la luce sfiorasse il mio viso. E lo feci in un momento in cui gli occhi di Babette erano rivolti alla finestra. Poi svanii opportunamente.
«In pochi secondi tutte le sorelle seppero che era stata vista una ‘strana creatura’, una creatura simile a uno spettro, e le due schiave si rifiutarono categoricamente di uscire a controllare. Io intanto aspettavo impaziente che si verificasse ciò che volevo: infine Babette prese un candelabro da un tavolo, accese le candele e, superando la paura di tutti gli altri, s’avventurò da sola sulla fredda veranda per vedere cosa c’era, mentre le sorelle volteggiavano sulla soglia come grandi uccelli neri, e una di loro gridava che il fratello era morto e che quello che lei aveva visto era il suo spettro. Naturalmente Babette, forte com’era, non attribuiva mai ciò che vedeva alla sua immaginazione o agli spettri. Aspettai che arrivasse in fondo alla veranda prima di parlarle, e anche allora lasciai che vedesse soltanto il vago profilo del mio corpo accanto a una colonna. ‘Dite alle vostre sorelle di andare via’ le sussurrai. ‘Vengo a parlarvi di vostro fratello. Fate come dico’. Stette immobile per un istante, poi si volse verso di me e si sforzò di distinguermi nell’oscurità. ‘Ho solo poco tempo a disposizione; non vi farei del male per nulla al mondo’ le dissi. E lei obbedì. Dicendo che non era niente, ordinò alle sorelle di chiudere la porta, e loro eseguirono, come chi non solo ha bisogno di un capo, ma non chiede di meglio che obbedire. Poi entrai nella luce delle candele di Babette».
Gli occhi del ragazzo erano spalancati. Si portò la mano alle labbra. «Aveva lo stesso aspetto per lei… che ha per me?»
«Lo chiedi con una tale innocenza… Sì, credo di sì, certo. Però al lume di candela ho sempre avuto un aspetto meno soprannaturale. E del resto con lei non finsi affatto d’essere una creatura normale. ‘Mi restano pochi minuti’ le dissi immediatamente. ‘Ma ciò che devo dirvi è della massima importanza. Vostro fratello si è battuto coraggiosamente e ha vinto il duello — ma aspettate. È morto. La morte è stata con lui come un ladro della notte contro cui nulla hanno potuto la sua bontà o il suo coraggio. Ma non è la sola cosa di cui voglio parlarvi. Voi potete governare la piantagione e potete salvarla. Quel che dovete fare è non permettere a nessuno di convincervi a fare altrimenti. Assumete questa posizione a dispetto di ogni protesta, di ogni appello alle convenzioni, alla decenza o al buon senso. Non date ascolto a nulla. Qui adesso c’è la stessa terra che c’era qui ieri mattina quando vostro fratello dormiva di sopra. Nulla è cambiato. Prendete il suo posto. Se non lo fate, la terra è perduta, e così la famiglia. Sareste cinque donne condannate ad avere la metà o meno ancora di quanto la vita potrebbe darvi. Imparate ciò che dovete sapere. Non fermatevi di fronte a nulla finché non avrete le risposte. E se vi capitasse di vacillare, per farvi coraggio ricordate questa mia visita. Prendete in mano le redini della vostra vita: vostro fratello è morto’».
«Dalla sua espressione capivo che aveva ascoltato ogni parola. Se ci fosse stato tempo m’avrebbe rivolto delle domande, ma mi credette quando le dissi che non potevo fermarmi. Usai tutta la mia abilità per lasciarla tanto velocemente da farle sembrare che svanissi. Dal giardino vidi il suo volto lassù nel bagliore delle candele. Mi cercava nel buio, girandosi e rigirandosi. Poi si fece il segno della croce e tornò dalle sorelle».
Il vampiro sorrise. «Su tutta la costa del fiume non ci fu una chiacchiera a proposito di questa strana apparizione a Babette Frenière, ma dopo il primo momento di lutto e di tristezza delle donne rimaste sole, lei diventò lo scandalo del vicinato, avendo scelto di gestire da sola la piantagione. Mise insieme una dote considerevole per la sorella minore, e si maritò lei stessa un anno dopo. Nel frattempo Lestat e io non ci rivolgevamo quasi più la parola».
«Continuava a vivere a Pointe du Lac?»
«Sì. Non potevo essere sicuro che m’avesse svelato tutto quel che dovevo sapere. E dovevamo continuare a fingere. Mia sorella si sposò in mia assenza, durante un mio ‘attacco di febbre malarica’, e un simile inconveniente mi mise fuori uso anche il mattino dei funerali di mia madre. Nel frattempo, io e Lestat ogni notte ci mettevamo a tavola col vecchio e facevamo rumore con il coltello e la forchetta, mentre lui ci diceva di non avanzare niente sul piatto e di non bere il vino troppo in fretta. Afflitto da numerosi e terribili mal di testa, solevo ricevere mia sorella e suo marito nella camera da letto semibuia, con le coperte fino al mento, invitandoli a portare pazienza per la luce fioca che il mio male agli occhi mi imponeva, e intanto affidavo loro grandi quantità di denaro da investire per tutti noi. Fortunatamente il marito di mia sorella era un idiota, innocuo, ma pur sempre un idiota, il frutto di quattro generazioni di matrimoni tra cugini primi.
«Sebbene da questo lato le cose andassero lisce, cominciavamo ad avere dei problemi con gli schiavi. Erano tipi sospettosi; per di più, come t’ho accennato, Lestat uccideva indiscriminatamente tutti quelli che voleva. Perciò si parlava sempre di morti misteriose in quella parte della costa. Ma era soprattutto quello che vedevano di noi a far parlare gli schiavi; una sera, aggirandomi tra le loro baracche come un’ombra, li udii parlare.
«Innanzitutto ti devo spiegare il carattere di questi schiavi. Era circa il 1795; io e Lestat avevamo vissuto a Pointe du Lac relativamente in pace per quattro anni; con il denaro che lui procurava io avevo accresciuto le nostre terre e acquistato a New Orleans case e appartamenti che poi affittavo, mentre il lavoro della piantagione in sé produceva poco… era più una copertura per noi che un investimento. Ho detto ‘nostre’, ma è sbagliato. Non ho mai intestato nulla a Lestat e, come puoi immaginare, dal punto di vista legale ero ancora vivo. Ma nel 1795 gli schiavi non erano come quelli dei film o dei romanzi sul Sud. Non avevano la voce dolce, la pelle bruna rivestita di cenci grigiastri, e non parlavano un dialetto inglese: erano africani. O dominicani. Erano molto neri e completamente stranieri; parlavano le loro lingue africane e il dialetto francese; e quando cantavano, cantavano canzoni africane che rendevano i campi esotici e strani, una cosa che mi aveva sempre spaventato quando ero mortale. Erano superstiziosi, avevano i loro segreti e le loro tradizioni. Insomma, non erano stati ancora completamente distrutti in quanto africani. La schiavitù era la maledizione della loro esistenza; ma ancora non erano stati privati di ciò che era tipicamente loro. Tolleravano il battesimo e gli abiti modesti che la legge cattolica francese imponeva loro; ma alla sera trasformavano i loro tessuti da pochi soldi in costumi affascinanti, facevano gioielli con ossa di animali e scarti di metallo che lucidavano fino a farli sembrare d’oro; le baracche degli schiavi di Pointe du Lac, quando calavano le tenebre, diventavano una terra straniera, una costa africana, per la quale neppure il più freddo dei sorveglianti desiderava aggirarsi. Nulla da temere, naturalmente, per un vampiro.
«Perlomeno, fino a una sera d’estate, in cui, fingendomi un’ombra, udii attraverso le porte aperte una conversazione che mi convinse che Lestat e io eravamo in grave pericolo. Gli schiavi avevano ormai capito che non eravamo comuni mortali. Quasi bisbigliando, le cameriere raccontarono come, attraverso una fessura della porta, ci avessero visto cenare con argenteria vuota su piatti vuoti, portando alle labbra bicchieri vuoti, ridendo, con volti sbiancati e spettrali al lume di candela, il vecchio ridotto a un idiota indifeso in nostro potere. Attraverso le serrature avevano visto la bara di Lestat, e una volta lui aveva battuto spietatamente uno di loro, sorpreso a ciondolare vicino alle finestre della sua stanza che davano sulla veranda. ‘Non c’è nessun letto là dentro’ si confidarono e accennando col capo. ‘Dorme nella bara, lo so’. Erano giunti alla convinzione, quanto mai fondata, che noi fossimo quello che eravamo. Quanto a me, mi avevano visto, sera dopo sera, uscire dalla cappella, ormai poco più che una massa informe di mattoni e di rampicanti, ricoperta da strati di glicine in fiore in primavera, di rose selvatiche d’estate, col muschio rilucente sulle vecchie imposte ormai prive di vernice, mai aperte, e i ragni che roteavano sotto gli archi di pietra. Naturalmente, io fingevo di visitarla in memoria di Paul, ma era chiaro dai loro discorsi che non credevano più a quelle menzogne. E ora ci attribuivano non solo le morti degli schiavi trovati nei campi e nelle paludi e anche del bestiame e di qualche sporadico cavallo, ma tutti gli altri eventi misteriosi; anche le inondazioni e i tuoni erano le armi di Dio in una battaglia personale ingaggiata contro Louis e Lestat. Ma c’era di peggio: questi schiavi non avevano nessuna intenzione di scappare. Noi eravamo dei diavoli, non si poteva sfuggire al nostro potere. No, era necessario distruggerci. E a questa riunione, alla quale partecipai non visto, c’erano parecchi schiavi di Frenière.
«Ciò significava che la voce si sarebbe diffusa per tutta la costa. E sebbene io fossi fermamente convinto che la costa fosse impermeabile a un’ondata di isteria, non intendevo correre il rischio di attirare l’attenzione, di qualunque tipo fosse. Ritornai precipitosamente a casa per comunicare a Lestat che il gioco era finito. Doveva dire addio alla frusta da schiavista e al porta-tovagliolo d’oro e trasferirsi in città.
«Naturalmente fece resistenza. Suo padre era gravemente ammalato e poteva anche morire. Non aveva alcuna intenzione di scappare da quegli stupidi schiavi. ‘Li ucciderò tutti’ disse calmo, ‘a tre, quattro alla volta. Se qualcuno scapperà, tanto meglio’.
«‘Sei pazzo. Io voglio che tu sparisca’.
«‘Tu vuoi che io sparisca! Tu!’ sghignazzò. Stava costruendo un castello di carte sulla tavola da pranzo con delle bellissime carte francesi. ‘Tu codardo piagnucoloso d’un vampiro, che strisci di notte per i vicoli a caccia di gatti e di topi, che fissi le candele per ore come se fossero persone e stai sotto la pioggia come uno zombi finché non hai i vestiti fradici, puzzi come quei vecchi bauli dei solai e sembri un idiota allo zoo’.
«‘Non hai più niente da insegnarmi e il tuo comportamento sconsiderato ci ha messo in pericolo entrambi. Io posso vivere da solo in quella cappella mentre questa casa cade in rovina. A me non importa!’ gli dissi. Ed era vero. ‘Tu invece devi avere tutte le cose che non hai mai avuto in vita e fai diventare l’immortalità un negozio di rigattiere, in cui siamo tutt’e due grotteschi. Adesso vai da tuo padre e dimmi quanto tempo gli resta da vivere, perché quello è il tempo che rimarrai ancora qui, sempre che gli schiavi non si sollevino contro di noi’.
«Allora mi disse di andare io a guardare come stava suo padre, dal momento che ero io quello che stava sempre a ‘guardare’, e lo feci. Il vecchio stava proprio morendo. La morte di mia madre m’era stata più o meno risparmiata, perché era morta all’improvviso, un pomeriggio. L’avevano trovata seduta tranquillamente nel cortile, col suo cestino da lavoro; morta come ci si addormenta. Ma qui mi trovavo davanti a una morte naturale troppo lenta, con agonia e con lucidità. E il vecchio m’era sempre piaciuto; affabile, semplice, faceva poche domande. Di giorno stava seduto al sole sulla veranda, sonnecchiando e ascoltando gli uccelli; di sera gli tenevano compagnia le nostre chiacchiere, quali che fossero. Era capace di giocare a scacchi, tastando attentamente ogni pezzo e ricordando con notevole precisione l’intera situazione della scacchiera; e se Lestat non giocava mai con lui, io lo facevo spesso. Ora giaceva e respirava con fatica, la fronte bollente e madida, il cuscino attorno al viso macchiato di sudore. E mentre lui gemeva e invocava la morte, Lestat nella stanza accanto prese a suonare la spinetta. La chiusi sbattendo la ribalta, non gli schiacciai le dita per un soffio. ‘Ti proibisco di suonare mentre lui muore!’ gli dissi. ‘Va’ al diavolo!’ mi rispose. ‘Suono anche il tamburo, se mi pare!’ Prese un grande vassoio d’argento dalla credenza, fece scivolare un dito in una delle maniglie e prese a battervi sopra con un cucchiaio.
«Gli dissi di smettere, o l’avrei fatto smettere io. Ma in quel momento cessammo entrambi di fare rumore perché il vecchio lo stava chiamando. Diceva che doveva parlare con Lestat, prima di morire. Ordinai a Lestat di andare da lui. Il suono delle sue grida era straziante. ‘Perché dovrei? Ho badato a lui tutti questi anni. Non basta?’ Estrasse dalla tasca una limetta per le unghie, si sedette ai piedi del letto del vecchio e cominciò la manicure.
«Intanto, io sapevo che c’erano schiavi per casa che ci stavano osservando e ascoltando. Speravo sinceramente che il vecchio morisse in pochi minuti. Una o due volte prima di allora avevo dovuto affrontare il sospetto o il dubbio di uno o più schiavi, ma mai di così tanti. Suonai immediatamente per convocare Daniel, lo schiavo cui avevo dato la casa e la posizione del sorvegliante; ma mentre lo aspettavo, sentivo il vecchio che parlava a Lestat; Lestat, che sedeva con le gambe accavallate, limando senza posa, un sopracciglio inarcato, la sua attenzione concentrata sulle unghie perfette. ‘È stata la scuola’ diceva il vecchio. ‘Oh, lo so che ti ricordi… cosa posso dirti… io’ gemeva.
«‘È meglio che lo dici’ lo interruppe Lestat, ‘perché stai per morire’. Il vecchio emise un rumore terribile, e credo che anche a me sia sfuggito un grido. Lestat mi faceva profondamente schifo. Stavo pensando di farlo uscire da quella stanza. ‘Be’, lo sai, no? Persino uno stupido come te lo deve capire’ disse Lestat.
«‘Non mi perdonerai mai, vero? Né ora, né quando sarò morto’ disse il vecchio.
«‘Non capisco di che stai parlando!’ disse Lestat.
«Cominciavo a perdere la pazienza con lui, e il vecchio si agitava sempre più. Scongiurava Lestat di ascoltarlo. Fremevo d’orrore di fronte a quella scena. Intanto era arrivato Daniel, e come lo vidi capii che a Pointe du Lac tutto era perduto. Se fossi stato più attento, avrei potuto accorgermene anche prima. Il suo sguardo era vitreo. Per lui ero un mostro. ‘Il padre del signor Lestat è molto malato. Sta morendo’ dissi, ignorando la sua espressione. ‘Non voglio che ci sia alcun rumore stanotte; gli schiavi restino tutti nelle loro baracche. Sta arrivando un dottore’. Mi guardò come se mentissi. Poi mosse lo sguardo, curioso e freddo, da me alla porta della stanza del vecchio. Il suo viso subì un tale cambiamento che mi alzai immediatamente e guardai nella stanza. Era Lestat, seduto scompostamente ai piedi del letto, con la schiena contro la colonna del baldacchino; stava lavorando furiosamente di lima, e storceva la bocca in modo tale che si vedevano distintamente entrambi i canini».
Il vampiro si fermò, una muta risata gli scuoteva le spalle. Guardò il ragazzo. E il ragazzo guardò timidamente il tavolo. Ma aveva già guardato, e fissamente, la bocca del vampiro. Aveva visto che le labbra avevano un tessuto diverso da quello della pelle, seriche e delicatamente solcate, come quelle di una persona qualsiasi, solo spaventosamente bianche; e aveva intravisto i denti candidi. Soltanto che il vampiro aveva una maniera di ridere per cui non si vedevano completamente; e finora il ragazzo non aveva ancora pensato a quei denti. «Puoi immaginare» prosegui il vampiro, «cosa volesse dire questo.
«Dovevo ucciderlo».
«Come?» fece il ragazzo.
«Dovevo ucciderlo. Cominciò a correre. Avrebbe dato l’allarme a tutta la piantagione. Forse si poteva risolvere la cosa in un altro modo, ma non c’era tempo. Così l’inseguii e lo bloccai. Ma a quel punto, scoprendomi nell’atto di fare qualcosa che non avevo fatto per quattro anni, mi fermai. Quello era un uomo. Aveva in mano, per difendersi, il suo coltello dal manico d’osso. Glielo presi e glielo piantai nel cuore. Immediatamente crollò sulle ginocchia, stringendo le dita sulla lama e sanguinando. E la vista del sangue, il suo profumo, mi fece impazzire. Credo di aver quasi ululato. Ma non cercai di prenderlo, non volevo. Poi ricordo di aver visto la figura di Lestat apparire nello specchio sopra la credenza. ‘Perché l’hai fatto?’ domandò. Mi voltai per affrontarlo, deciso a non farmi vedere da lui in questo stato di debolezza. Mi disse che il vecchio stava delirando, non riusciva a capire cosa stesse dicendo. ‘Gli schiavi, sanno tutto… devi andare alle baracche e tenerli d’occhio’ riuscii a dirgli. ‘Del vecchio mi occuperò io’.
«‘Uccidilo’ sibilò Lestat.
«‘Sei pazzo!’ reagii io. ‘È tuo padre!’
«‘Lo so che è mio padre!’ mi rispose Lestat. ‘È per questo che devi ucciderlo tu. Io non posso! Altrimenti l’avrei fatto da un pezzo, che il diavolo se lo porti!’ Si torse le mani. ‘Dobbiamo andarcene da qui. E guarda cos’hai combinato a uccidere questo! Non c’è tempo da perdere; tra pochi minuti sua moglie sarà quassù, a urlare… o peggio, manderà qualcun altro!’»
II vampiro sospirò. «Era tutto vero. Lestat aveva ragione. Sentivo gli schiavi che si erano raccolti attorno alla villetta di Daniel ad aspettarlo. Daniel aveva avuto il coraggio di entrare da solo nella casa infestata dai vampiri. Non vedendolo ritornare, gli schiavi sarebbero stati colti dal panico, avrebbero potuto fare qualsiasi cosa. Dissi a Lestat di calmarli, di usare tutto il suo potere di padrone bianco su di loro e di cercare di non spaventarli troppo, poi entrai nella stanza da letto e chiusi la porta. Ebbi allora un altro choc in quella notte di choc. Perché non avevo mai visto il padre di Lestat come in quel momento.
«S’era messo a sedere, un po’ chinato; parlava a Lestat, lo scongiurava di rispondergli, dicendogli che capiva la sua amarezza meglio di lui stesso. Era un cadavere vivente. Nulla animava il suo corpo scavato tranne un’indomita volontà: perciò i suoi occhi, nel loro luccichio, erano più che mai infossati nel cranio, e le sue labbra, nel loro tremore, rendevano più orribile la sua vecchia bocca ingiallita. Mi sedetti ai piedi del letto, e poiché soffrivo nel vederlo così, gli diedi la mano.
Non so dirti quanto il suo aspetto mi avesse scosso. Vedi, la morte che io do è rapida e incosciente, lascia la vittima in una specie di sonno incantato. Ma questa era una lenta agonia, il corpo che rifiuta di arrendersi al vampiro del tempo che l’ha succhiato per anni e anni. ‘Lestat’ disse. ‘Solo per questa volta, non essere duro con me. Solo per questa volta, sii per me il ragazzo che eri. Mio figlio’. Disse più volte queste parole: ‘Mio figlio, mio figlio’; poi disse qualcosa che non riuscii a sentire sulla purezza e l’innocenza distrutta. Ma vedevo che non era fuori di sé, come pensava Lestat, bensì in uno stato di terribile lucidità. Il fardello del passato gravava su di lui con tutto il suo peso; e il presente, ch’era solo morte, morte che lui combatteva con tutta la sua volontà, nulla poteva per alleggerire quel fardello. Ma io sapevo che avrei potuto ingannarlo se avessi usato tutta la mia abilità; allora, chinandomi vicino a lui, sussurrai la parola: ‘Padre’. Non era la voce di Lestat, era la mia, un mormorio sommesso. Ma subito il vecchio si calmò, e pensai che potesse morire. Invece mi strinse la mano come se fosse risucchiato dalle onde di un oscuro oceano e io solo potessi salvarlo. Adesso parlava di un certo insegnante di campagna, dal nome incomprensibile, che aveva trovato in Lestat un allievo di talento e aveva chiesto di mandarlo in convento per dargli un’istruzione. Si malediceva per aver ricondotto a casa Lestat, per aver bruciato i suoi libri. ‘Devi perdonarmi, Lestat’ gridava.
«Gli strinsi forte la mano, sperando che potesse bastare come risposta, ma lui insisteva ancora. ‘Hai tutto per vivere, ma sei freddo e brutale com’ero io allora, quando c’era sempre da lavorare, freddo e fame. Lestat, ricordati, tu eri il più fine di tutti loro! Dio mi perdonerà se tu mi perdoni’.
«In quel momento, Lestat varcò la soglia. Gesticolai per farlo stare zitto, ma non mi vide. Allora mi alzai in fretta, in modo che il padre da lontano non potesse udire la sua voce. Alla sua vista, gli schiavi erano scappati. ‘Ma sono là fuori, radunati nel buio. Li sento’ disse Lestat. Poi guardò il vecchio. ‘Uccidilo, Louis!’ mi implorò, con un tono di supplica che non gli avevo mai sentito prima, e che cedette subito alla collera. Fallo!’
«‘Chinati su quel cuscino e digli che gli perdoni tutto, che gli perdoni di averti portato via da scuola quando eri ragazzo! Diglielo, adesso!’
«‘Cosa?’ Lestat storse la bocca, così che il suo viso sembrò un teschio. ‘Avermi portato via da scuola!’ Alzò di scatto le mani ed emise un terribile ruggito di disperazione. ‘Che vada al diavolo! Uccidilo!’
«‘No!’ gridai. ‘Tu lo perdonerai. Oppure lo ucciderai tu stesso. Avanti. Uccidi tuo padre’.
«Il vecchio implorava che gli dicessimo di che cosa stavamo parlando. Invocava: ‘Figlio, figlio’ e Lestat ballava come impazzito. Corsi alle tende di pizzo. Sentivo e vedevo gli schiavi circondare la casa di Pointe du Lac, forme tessute nelle ombre, che piano piano si avvicinavano. ‘Eri Giuseppe tra i tuoi fratelli’ diceva il vecchio. ‘Il migliore di tutti loro, ma come facevo a saperlo? Lo seppi dopo, quando te ne eri andato, quando erano passati tutti quegli anni e loro non potevano offrirmi nessun conforto, nessuna consolazione. Poi sei ritornato da me e m’hai portato via dalla fattoria, ma non eri più tu. Non era lo stesso ragazzo’.
«A questo punto presi Lestat e lo trascinai letteralmente verso il letto. Mai l’avevo visto così debole e al tempo stesso infuriato. Si liberò dalla mia stretta e s’inginocchiò accanto al cuscino, guardandomi in cagnesco. Io restai in piedi, deciso, e sussurrai: ‘Perdona!’
«‘Va tutto bene, padre. Devi riposare tranquillo. Non ho nessun rancore verso di te’ disse con voce sottile e sforzata per coprire la sua ira.
«Il vecchio si voltò sul cuscino, mormorando con sollievo qualcosa di impercettibile, ma Lestat se n’era già andato. S’arrestò bruscamente nel vano della porta, con le mani sulle orecchie. ‘Stanno arrivando!’ sussurrò; poi, voltandosi appena, tanto da riuscire a vedermi, mi intimò: ‘Fallo fuori. Per amor di Dio!’
«Il vecchio non seppe mai cosa accadde. Non si svegliò mai dal suo stordimento. Lo dissanguai giusto quel che bastava, aprendogli l’incisione in modo che morisse, senza soddisfare la mia oscura passione. Quel pensiero non potevo sopportarlo. Ora sapevo che non aveva alcuna importanza che il corpo venisse ritrovato in queste condizioni, perché ne avevo avuto abbastanza di Pointe du Lac e di Lestat e di quel ruolo di ricco possidente. Avrei incendiato la casa e avrei attinto alle molte ricchezze che possedevo sotto falsi nomi, accumulate in previsione di un simile momento.
«Frattanto, Lestat inseguiva gli schiavi. Lasciava dietro di sé tanta rovina e tanta morte che nessuno sarebbe rimasto per raccontare di quella notte a Pointe du Lac; e io lo seguivo. Prima d’allora, la sua ferocia era sempre stata misteriosa, ma ora scopriva le mie zanne dinnanzi agli uomini che fuggivano; il mio avanzare costante superava la loro corsa maldestra, patetica, e su di loro calava il velo della morte, o il velo della follia. Di fronte alla prova incontestabile dell’esistenza e del potere del vampiro, gli schiavi si dispersero in tutte le direzioni. E fui io a tornare di corsa su per le scale e a gettare la torcia nella casa di Pointe du Lac.
«Lestat mi fu subito dietro. ‘Cosa fai!’ gridò. ‘Sei pazzo!’ Ma non c’era modo di spegnere le fiamme. ‘Se ne sono andati e tu distruggi la casa, distruggi tutto!’ Girava senza posa per il sontuoso salotto, in mezzo al suo fragile splendore. ‘Porta fuori la tua bara. Hai tre ore prima dell’alba!’ gli dissi. La casa era una pira funeraria».
«Il fuoco avrebbe potuto farvi male?» chiese il ragazzo.
«Altroché!» fece il vampiro.
«Ritornò alla cappella? Era sicura?»
«Per niente. Una cinquantina di schiavi era dispersa per i campi. Molti di loro non avrebbero mai fatto la vita dei fuggiaschi e sicuramente sarebbero andati subito a Frenière o verso sud alla piantagione Beau Jardin, più a valle. Non avevo alcuna intenzione di restare là quella notte; ma c’era poco tempo per andare in qualsiasi altro posto».
«Quella donna, Babette!» esclamò il ragazzo.
Il vampiro sorrise. «Sì, andai da Babette. Ora viveva a Frenière col suo giovane marito. Mi restava abbastanza tempo per caricare la bara nella carrozza e andare da lei».
«E Lestat?»
Il vampiro sospirò. «Lestat venne con me. Intendeva proseguire per New Orleans, e cercava di persuadermi a fare lo stesso; ma quando vide che intendevo nascondermi a Frenière, anche lui optò per quella soluzione: probabilmente non ce l’avremmo mai fatta a raggiungere New Orleans. Cominciava a far chiaro, non tanto da essere percettibile agli occhi dei mortali, ma io e Lestat lo vedevamo.
«Ora, per quanto riguarda Babette, ero andato un’altra volta a farle visita. Come ti dissi, aveva scandalizzato la costa rimanendo da sola nella piantagione senza un uomo in casa, senza neanche una donna più anziana. Il maggior problema di Babette era che rischiava di raggiungere il successo finanziario solo nell’isolamento dell’ostracismo sociale. Per la sua sensibilità la ricchezza in sé non voleva dire nulla; una famiglia, dei discendenti… questo significava qualcosa per Babette. Sebbene fosse in grado di tenere insieme la piantagione, lo scandalo la stava logorando. Stava cedendo interiormente. L’avvicinai una notte nel giardino. Impedendole di guardarmi, le dissi nel tono più garbato che ero la stessa persona che aveva visto l’altra volta, che sapevo della sua vita e della sua sofferenza. ‘Non aspettatevi che la gente lo capisca’ le dissi. ‘Sono degli stupidi. Vorrebbero che vi ritiraste a causa della morte di vostro fratello. Vorrebbero usare la vostra vita come se fosse olio per la lampada della rispettabilità. Dovete sfidarli, ma con purezza e fiducia in voi’. Stette ad ascoltare tutto il tempo in silenzio. Le dissi che doveva dare un ballo per una causa, che doveva essere religiosa. Che scegliesse un convento di New Orleans, uno qualunque, e vi organizzasse un ballo filantropico. Avrebbe invitato gli amici più cari della madre morta e si sarebbe comportata con perfetta sicurezza di sé. Fiducia e purezza erano essenziali.
«Babette trovò che era un colpo di genio. ‘Non so cosa siate, e comunque non me lo direste’ disse (era vero, non l’avrei fatto). ‘Ma posso solo pensare che siate un angelo’. E mi pregò di lasciarle vedere il mio viso. Cioè, mi pregò come può pregare la gente come Babette, che non è veramente portata a chiedere qualcosa a qualcuno. Non che Babette fosse orgogliosa. Era semplicemente forte e onesta, il che nella maggior parte dei casi fa sì che chiedere… Vedo che vuoi farmi una domanda». Il vampiro si fermò.
«Oh, no» disse il ragazzo, che aveva sperato di tenerla per sé.
«Ma non devi aver paura di chiedermi qualunque cosa. Se ci fosse qualcosa di troppo privato…» quando disse queste parole, il suo volto si oscurò per un attimo. Si aggrondò, e come le sopracciglia si avvicinarono l’una all’altra, sulla fronte, sopra all’occhio sinistro, apparve una minuscola fossa, come se qualcuno ve l’avesse impressa con un dito. Gli dava una bizzarra espressione di profondo turbamento. «Se ci fosse qualcosa di tanto privato che tu non lo possa chiedere, non ne avrei mai parlato».
Il ragazzo si scoprì a fissare gli occhi del vampiro, le ciglia che sembravano neri fili metallici nella tenera pelle delle palpebre.
«Su, chiedi» disse il vampiro.
«Babette, il modo in cui parla di lei» mormorò il ragazzo, «come se provasse qualcosa di speciale».
«T’ho dato l’impressione di non poter provare dei sentimenti?» chiese il vampiro.
«No, affatto. Evidentemente aveva compassione del vecchio. Restò a confortarlo quando lei stesso era in pericolo. E quello che provava per il giovane Frenière quando Lestat voleva ucciderlo… l’ha spiegato. Ma mi stavo domandando… aveva un sentimento particolare per Babette? Fu questo sentimento per Babette, fin da principio, che la spinse a proteggere Frenière?»
«Amore, vuoi dire» osservò il vampiro. «Perché esiti a dirlo?»
«Perché lei ha parlato di distacco».
«Tu pensi che gli angeli siano distaccati?» domandò il vampiro.
Il ragazzo riflette un istante. «Sì» rispose.
«Ma gli angeli non sono forse capaci di amore? Non contemplano il volto di Dio con amore assoluto?»
Il ragazzo riflette ancora rapidamente. «Amore o adorazione».
«Che differenza c’è?» chiese il vampiro con aria pensierosa. «Che differenza c’è?» Era chiaro che non stava chiedendolo al ragazzo, ma a se stesso. «Gli angeli provano l’amore, l’orgoglio… la superbia della Caduta… e l’odio. Le forti, prepotenti emozioni delle persone distaccate nelle quali emozione e volontà sono la stessa cosa» concluse. Adesso fissava il tavolo, come ripensandoci, non del tutto soddisfatto. «Provavo per Babette… un forte sentimento. Non era il sentimento più forte che abbia mai provato per un essere umano». Guardò il ragazzo. «Ma era profondo. Babette era per me, a modo suo, l’essere umano ideale…»
Si spostò sulla sedia — il mantello si mosse delicatamente attorno a lui — e rivolse il viso alla finestra. Il ragazzo si piegò in avanti per controllare il registratore, poi prese dalla cartella un’altra cassetta e l’inserì. «Temo di averle chiesto qualcosa di troppo personale. Non volevo…» balbettò ansiosamente al vampiro.
«Per niente» il vampiro lo guardò improvvisamente. «È una domanda del tutto pertinente. Io provo amore, e ne ho certamente provato per Babette, anche se non proprio il più grande amore che abbia mai provato. È stata una sorta di anticipazione.
«Per tornare alla mia storia, il ballo di beneficenza di Babette fu un successo e segnò il suo rientro in società. La sua non trascurabile ricchezza cancellò qualsiasi dubbio albergasse nella mente dei familiari dei suoi pretendenti, e così si sposò. Le facevo visita nelle notti d’estate, senza lasciarmi mai vedere da lei o farle sapere che c’ero. Venivo a controllare se era felice e, constatandolo, anch’io, mi sentivo felice.
«E ora andavo da Babette con Lestat. Lui avrebbe già ucciso tutti i Frenière da tempo, se non l’avessi trattenuto e adesso era convinto che io avessi deciso di sterminarli. ‘E che pace ci porterebbe questo?’ chiesi. ‘Tu mi dai dell’idiota, ma l’idiota sei sempre stato tu. Credi che non sappia perché m’hai fatto diventare un vampiro? Non sapevi vivere per conto tuo, non sapevi cavartela neanche nelle cose più elementari. Da anni ormai faccio tutto io mentre tu sai solo fingere un’ aria di superiorità. Non c’è più niente che tu mi possa insegnare sulla vita. Di te non ho bisogno, non so che farmene. Tu hai bisogno di me, e se fai tanto di toccare anche solo uno degli schiavi Frenière, mi libererò di te. Se vuoi la guerra, l’avrai; e non ho bisogno di dimostrarti che ho più risorse io nel dito mignolo che tu in tutto il tuo corpo. Fai come dico’».
«Ebbene, nonostante tutto, questo discorso l’allarmò; protestò che aveva ancora molto da insegnarmi: le cose e i tipi di persone che avrebbero potuto procurarmi una morte improvvisa se le avessi uccise, i luoghi del mondo dove non sarei mai dovuto andare, e via di seguito, sciocchezze che a stento riuscivo a sopportare. Ma non avevo tempo per lui. A Frenière, le luci del sorvegliante erano accese; stava cercando di calmare l’agitazione degli schiavi fuggitivi e dei suoi. E si vedeva ancora l’incendio di Pointe du Lac contro il cielo. Babette, dopo aver mandato là carrozze e schiavi per aiutare a domare le fiamme, era rimasta in piedi a darsi da fare. I fuggiaschi terrorizzati erano tenuti lontani dagli altri, e a quel punto tutti consideravano le loro storie come fantasie di schiavi. Babette intuiva che qualcosa di terribile era accaduto e pensava a un delitto, ma niente di soprannaturale. Quando la trovai era nello studio, a stendere un appunto sull’incendio nel diario della piantagione. Era quasi mattino. Avevo solo pochi minuti per convincerla a collaborare. Le parlai intimandole di non girarsi, e lei m’ascoltò tranquillamente. Le dissi che dovevo avere una stanza, per riposare. ‘Non vi ho mai dato fastidio: ora vi domando una chiave, e la promessa che nessuno entrerà in quella stanza fino a domani notte. Poi vi spiegherò tutto’. Ero quasi alla disperazione. Il cielo impallidiva. Lestat era nel frutteto, con le bare. ‘Ma perché siete venuto da me stanotte?’ chiese lei. ‘E perché non da voi?’ risposi. ‘ Non vi ho forse aiutata proprio quando avevate più bisogno di guida, quando eravate rimasta sola tra i deboli e gli inetti? Non vi ho forse dato buoni consigli, in due diverse occasioni? E da allora non ho sempre vegliato sulla vostra felicità?’ Vidi la sagoma di Lestat alla finestra. Era in preda al panico. ‘Datemi la chiave di una stanza. Non permettete che nessuno vi si avvicini finché non scenderà la notte. Vi giuro che non vi farei mai del male’. ‘E se io non… se io credessi che voi siete stato mandato dal demonio!’ disse allora lei, e fece per voltarsi. Allungai la mano sulla candela e la spensi. Mi vide in piedi con le spalle alle finestre che cominciavano a ingrigirsi. ‘Se non lo fate, e se credete che io sia il diavolo, io morrò’ risposi. ‘Datemi la chiave. Potrei uccidervi ora, se lo volessi. Capite?’ Mi avvicinai a lei scoprendomi di più: Babette boccheggiò e si ritrasse, reggendosi al bracciolo della seggiola. ‘Ma non lo farò. Preferirei morire che uccidervi. Morirò se non mi date la chiave che vi chiedo’.
«Acconsentì. Che cosa pensasse, non lo so. Mi diede uno dei magazzini al pianterreno, dove tenevano a invecchiare il vino, e giurerei che vide me e Lestat portarci le bare. Io non solo lo chiusi a chiave, ma mi ci barricai dentro.
«La sera dopo, quando mi svegliai, Lestat era già in piedi».
«Quindi Babette mantenne la parola».
«Sì. Solo che era andata anche più in là. Non solo aveva rispettato la nostra porta chiusa; l’aveva chiusa anche dall’esterno».
«E i racconti degli schiavi… li aveva sentiti?».
«Sì, li aveva sentiti. Lestat fu il primo a scoprire che eravamo chiusi dentro, comunque. Andò su tutte le furie. Aveva deciso di arrivare a New Orleans il più presto possibile. Ormai la sua diffidenza nei miei confronti era totale. ‘Mi sei servito solo finché mio padre era vivo’ mi sibilò, cercando disperatamente di trovare un’apertura da qualche parte. Ma quel posto era una prigione.
«‘Non ho intenzione di sopportare più niente da te, t’avverto’. Non si fidava più nemmeno di voltarmi le spalle. Io mi sforzavo di sentire le voci nella stanza di sopra, sperando che chiudesse il becco, senza alcuna voglia di confidargli neppure per un momento il mio sentimento per Babette o le mie speranze.
«Pensavo anche a un’altra cosa. Tu mi domandi dei sentimenti e del distacco. Uno dei suoi aspetti, del distacco con sentimenti, è la possibilità di pensare contemporaneamente a due cose diverse. Puoi pensare che non sei al sicuro e che forse morirai, e pensare qualcosa di molto astratto e remoto. E a me succedeva proprio questo. In quel momento stavo pensando, molto nel profondo, senza parole, a come avrebbe potuto essere sublime l’amicizia tra me e Lestat, ai pochi ostacoli da eliminare, alle cose da vivere insieme. Forse era la vicinanza di Babette che mi faceva sentire in questo modo, perché come avrei potuto mai conoscere veramente Babette se non, naturalmente, nell’unico modo definitivo: togliendole la vita, stringendola a me in un abbraccio mortale, in cui la mia anima sarebbe diventata una cosa sola col suo cuore e con esso si sarebbe nutrita. Ma la mia anima desiderava conoscere Babette senza soddisfare il mio bisogno di uccidere, senza derubarla di ogni respiro vitale, di ogni goccia di sangue. Ma con Lestat; come avremmo potuto conoscerei, se fosse stato un uomo di polso, un uomo di pensiero! Mi tornavano alla mente le parole del vecchio: Lestat allievo brillante, amante di libri che gli erano stati bruciati. Io conoscevo soltanto il Lestat che dileggiava la mia biblioteca, che la chiamava ‘un mucchio di polvere’, che canzonava incessantemente le mie letture e le mie meditazioni.
«A quel punto mi accorsi che la situazione nella casa sopra le nostre teste andava quietandosi. Ogni tanto si udiva qualche passo, le assi scricchiolavano, e la luce nelle fessure mandava un debole, ineguale chiarore. Vedevo Lestat che tastava le pareti di mattoni in cerca di un passaggio, con quel duro, resistente volto di vampiro ridotto a una maschera contorta di frustrazione. Ero sicuro che dovevamo separarci immediatamente, che avrei forse dovuto mettere addirittura un oceano fra di noi. E mi resi conto che l’avevo sopportato solo per la mia insicurezza. M’ero preso gioco di me stesso fino a convincermi che restavo per il vecchio, per mia sorella e per suo marito. Invece ero rimasto con Lestat perché avevo paura che fosse a conoscenza di segreti importanti che non sarei arrivato a scoprire da solo, ma soprattutto perché era il solo della mia specie che conoscessi. Non m’aveva mai svelato come era diventato vampiro o dove avrei potuto trovare anche soltanto un altro membro della nostra specie. La cosa mi preoccupava moltissimo in quel momento, e mi aveva preoccupato per quattro anni. L’odiavo e volevo lasciarlo; ma potevo?
«Intanto, Lestat continuava a cianciare che non aveva bisogno di me e non avrebbe sopportato più nulla, men che meno le minacce dei Frenière. Eravamo pronti a scattare non appena si fosse aperta la porta. ‘Ricordati’ mi disse infine. ‘Velocità e forza: in questo li battiamo. E paura. Ricordati sempre: usa la paura! Non fare il sentimentale adesso. Ci giocheremmo tutto quanto’.
«‘E dopo vorrai restare solo?’ gli chiesi. Volevo che fosse lui a dirlo. A me mancava il coraggio. O piuttosto, non sapevo neanch’io cosa volevo.
«‘Voglio arrivare a New Orleans!’ rispose. ‘Ti stavo solo avvertendo che non ho bisogno di te. Ma per uscire di qui abbiamo bisogno l’uno dell’altro. Non sai neanche da che parte cominciare a usare i tuoi poteri! Non hai coscienza di quello che sei! Quando quella donna arriverà, usa i tuoi poteri di persuasione. Ma se non è sola, allora sii pronto ad agire da quello che sei’.
«‘E cioè che cosa?’ gli chiesi; perché mai come in quel momento mi era sembrato tanto misterioso. ‘Che cosa sono io?’
«Era francamente disgustato. Alzò le braccia al cielo. ‘Sii pronto…’ disse, mostrando i magnifici denti, ‘a uccidere!’ Improvvisamente levò lo sguardo alle assi del soffitto; ‘Stanno per coricarsi lassù, li senti?’ Dopo un lungo silenzio, durante il quale Lestat andava su e giù per la stanza e io stavo seduto a meditare su quel che avrei potuto fare o dire a Babette o, ancora più in profondità, su una domanda più difficile — cosa provavo per Babette? — dopo un lungo silenzio, una luce lampeggiò sotto la porta. Lestat era già pronto a scattare, chiunque l’avesse aperta. Era Babette, sola; entrò con una lampada, senza vedere Lestat, che le stava alle spalle, guardando dritto verso me.
«Non l’avevo mai vista come allora: i capelli sciolti per la notte, una massa di onde scure dietro la vestaglia bianca, e il viso teso per l’inquietudine e la paura. Questo le dava un fulgore febbrile e faceva apparire smisurati i suoi grandi occhi castani. Come ti ho detto, io amavo la sua forza, la sua onestà e la grandezza della sua anima. Non provavo una passione per lei, simile a quella che potresti provare tu. Ma la trovavo più seducente di qualunque donna conosciuta nella vita mortale. Persino in quella austera vestaglia, le sue braccia e i suoi seni erano rotondi e morbidi; mi pareva un’anima affascinante vestita d’una carne ricca, misteriosa. Io, benché duro, scarno e consacrato a uno scopo, mi sentivo attratto da lei irresistibilmente; ma sapendo che la mia passione poteva solo risolversi nella morte, m’allontanai immediatamente da lei, domandandomi se quando guardò dentro i miei occhi li vide morti e senz’anima.
«‘Voi siete quello che venne da me prima’ disse allora, come se non ne fosse stata sicura. ‘E siete il proprietario di Pointe du Lac. Siete voi!’ Come parlò, capii che dovevano esserle giunti all’orecchio gli episodi più drammatici della notte precedente e che sarei riuscito a convincerla con delle menzogne. Per ben due volte avevo usato il mio aspetto innaturale per avvicinarla, per parlarle; adesso non potevo nasconderlo o minimizzarlo.
«‘Non voglio farvi alcun male’ le dissi. ‘Voglio soltanto una carrozza e dei cavalli… i cavalli che lasciai ieri notte al pascolo’. Non sembrò udire le mie parole; si avvicinò, decisa a intrappolarmi nel cerchio della sua luce.
«Poi vidi Lestat dietro di lei, la sua ombra che si univa a quella di lei sulla parete di mattone, inquieto e pericoloso. ‘Mi darete la carrozza?’ insistetti. Lei mi guardava, sollevando la lampada; e proprio nel momento in cui feci per distogliere lo sguardo, vidi il suo viso cambiare. Divenne immobile, assente, come se la sua anima stesse perdendo la coscienza. Chiuse gli occhi e scosse la testa. Pensai di averle indotto, in qualche modo, senza fare alcuno sforzo, uno stato di trance. ‘Che cosa siete!’ sussurrò lei. ‘Vi manda il diavolo. Vi mandava il diavolo quando veniste da me!’
«‘Il diavolo!’ le risposi. Ciò mi fece soffrire più di quanto avrei immaginato di poter soffrire. Se lo credeva veramente, avrebbe pensato che i miei consigli erano malvagi, avrebbe messo in dubbio se stessa. La sua vita era ricca e buona, sapevo che non doveva farlo. Come tutte le persone forti, soffriva sempre di un po’ di solitudine; in un certo qual modo, era un’isolata, una segreta infedele. L’equilibrio sul quale si reggeva avrebbe potuto essere sconvolto se avesse messo in dubbio la propria bontà. Mi fissava con orrore, senza tentare di mascherarlo. Era come se in quell’orrore avesse dimenticato la sua posizione di vulnerabilità. E in quel momento Lestat, sempre attratto dalla debolezza come un assetato dall’acqua, le afferrò il polso: Babette lanciò un urlo e lasciò cadere la lampada. Le fiamme balzarono sull’olio, e Lestat la sospinse verso la porta aperta. ‘Ci darete la carrozza!’ le disse. ‘Datecela subito, coi cavalli. Siete in pericolo di morte; non parlate di diavoli!’
«Calpestai le fiamme e assalii Lestat, gridandogli di lasciarla. La teneva stretta per i polsi, Babette era furiosa. ‘Sveglierai tutta la casa se non la pianti di gridare!’ mi disse. ‘E io la ucciderò! Dateci la carrozza… portateci fuori. Date ordini al mozzo di stalla!’ le disse, spingendola all’aperto.
«Attraversammo lentamente il cortile buio, io oppresso da un’angoscia quasi insopportabile, Lestat davanti a me; e davanti a noi due Babette, che camminava a ritroso, scrutandoci nel buio. All’improvviso si fermò. Una luce fioca ardeva nella casa là sopra. ‘Non vi darò niente!’ esclamò. Afferrai il braccio di Lestat e gli dissi che dovevo vedermela io. ‘Rivelerà a tutti la nostra presenza se non mi fai parlare con lei’ gli sussurrai.
«‘Allora vedi di controllarti’ disse con aria disgustata. ‘Sii forte. Non perderti in ciance’.
«‘Mentre io parlo tu vai… vai alle stalle e prendi la carrozza e i cavalli. Ma non uccidere!’ Non sapevo se mi avrebbe obbedito o no, ma guizzò via non appena feci un passo verso Babette. Sul viso di lei c’era un misto di furia e di fermezza. Disse: ‘Vade retro, Satana’. E io restai là, davanti a lei, senza parole, guardandola con occhio fermo, come lei guardava me. Il suo odio per me bruciava come fuoco.
«‘Perché mi dite questo?’ chiesi. ‘Fu un cattivo consiglio quello che vi diedi? Vi feci del male? Venni ad aiutarvi, a darvi forza. Pensai soltanto a voi, quando non ne avevo alcun bisogno, alcuno’.
«Scosse la testa. ‘Ma perché, perché, mi parlate in questo modo?’ domandò. ‘So cosa avete fatto a Pointe du Lac; siete vissuto là come un demonio! Gli schiavi sono stravolti dai racconti! Tutto il giorno uomini hanno battuto la strada del fiume per Pointe du Lac; mio marito era tra loro! Ha visto la casa ridotta a un mucchio di rovine, corpi di schiavi dappertutto nei frutteti, nei campi. Che cosa siete voi? Perché mi parlate così gentilmente? Che cosa volete da me?’ Si aggrappò ai pilastri del portico, arretrando lentamente verso la scala. Sopra, dietro la finestra illuminata, qualcosa si mosse.
«‘Ora non posso darvi queste risposte’ le dissi. ‘Credetemi quando vi dico che venni da voi solo per aiutarvi. E se avessi avuto un’altra scelta, ieri notte non sarei mai venuto a recarvi preoccupazioni e affanni, per nulla al mondo!’».
Il vampiro si fermò.
Il ragazzo si protese in avanti sulla sedia, con gli occhi sgranati. Il vampiro sembrava di ghiaccio, guardava lontano, perduto nei pensieri, nei ricordi. Il ragazzo abbassò subito lo sguardo, come se fosse la maniera più educata di comportarsi. Di nuovo lanciò un’occhiata al vampiro, poi distolse lo sguardo, il volto turbato quanto quello del vampiro; poi cominciò a dire qualcosa, ma si fermò.
Il vampiro si voltò verso di lui e lo studiò, così che il ragazzo arrossendo distolse ancora lo sguardo, inquieto. Ma poi rialzò il viso e guardò il vampiro negli occhi. Deglutì, ma sostenne lo sguardo indagatore del vampiro.
«È questo che vuoi?» sussurrò il vampiro. «È questo che volevi sentire?»
Spostò indietro la sedia senza rumore e andò alla finestra. Il ragazzo sedeva come stordito, fissando quelle larghe spalle e il lungo mantello. Il vampiro voltò appena la testa. «Non m’hai risposto. Non è questo che volevi, vero? Volevi un’intervista. Qualcosa da trasmettere alla radio».
«Non importa. Se vuole, butterò via i nastri!» Il ragazzo si alzò. «Non posso dire di capire tutto quello che mi dice. Sa che mentirei se glielo dicessi. Perciò come posso chiederle di continuare, se non dicendo che quello che invece capisco… non somiglia a nessuna delle cose che posso dire d’aver capito finora». Fece un passo verso il vampiro. Il vampiro guardava giù in Divisadero Street. Poi lentamente voltò la testa, guardò il ragazzo e sorrise. La sua espressione era serena, quasi affettuosa. E improvvisamente il ragazzo si sentì a disagio. Si cacciò le mani in tasca e si girò verso il tavolo. Poi esitando guardò il vampiro e mormorò: «Per favore, potrebbe… continuare?»
Il vampiro si voltò, le braccia incrociate, e si appoggiò alla finestra. «Perché?» domandò.
Il ragazzo era perplesso. «Perché voglio sentire la storia». Si strinse nelle spalle. «Perché voglio sapere cos’è successo».
«D’accordo» rispose il vampiro, con lo stesso sorriso sulle labbra. Ritornò alla sedia, si sedette di fronte al ragazzo e spostò appena il registratore. «Gran bella macchinetta davvero» commentò. «Allora, fammi continuare.
«Quel che provavo in quel momento per Babette era un desiderio di comunicare, più forte d’ogni altro bisogno provato allora… tranne quello fisico del… sangue. Era così forte, che mi resi conto di quanto era profonda la mia solitudine. Prima, quando le avevo parlato, c’era stata un’intesa breve ma forte, semplice e piacevole come prendere la mano di una persona. Stringerla. Lasciarla andare teneramente. Tutto questo in un momento d’estremo bisogno e di pericolo. Ora invece eravamo ai ferri corti. Per Babette, io ero un mostro; e io avrei fatto qualunque cosa per sconfiggere quel suo sentimento. Il consiglio che allora le avevo dato era giusto, le dissi, e nessuno strumento del demonio poteva fare il bene, anche se l’avesse voluto.
«‘Lo so!’ mi rispose. Ma con questo voleva dire che non poteva fidarsi di me più che del diavolo in persona. Feci per avvicinarmi, ma lei arretrò. Sollevai una mano e Babette si ritrasse, aggrappandosi alla ringhiera. ‘Va bene, allora’ le dissi, terribilmente esasperato. ‘Perché ieri notte mi avete aiutato? Perché siete venuta da me sola?’ Vidi sul suo volto come un lampo di astuzia. Una ragione c’era, ma non me l’avrebbe mai rivelata. Le era impossibile parlarmi liberamente, apertamente, comunicare con me come avrei desiderato. Mi sentivo stanco. Già era tarda notte, e da quel che vedevo e sentivo, Lestat era entrato nella cantina e aveva preso le nostre bare; avevo bisogno di andarmene, e anche bisogno di uccidere e di bere. Ma non era questo che mi rendeva esausto. Era qualcos’altro, qualcosa di molto peggio. Era come se quella notte fosse stata soltanto una di mille e mille notti, in un mondo senza fine, una notte che si curvava in un’altra notte, descrivendo un grande arco di cui non potevo scorgere la fine, una notte in cui vagavo solo sotto un gelido, indifferente firmamento. Credo d’essermi allontanato da lei e di essermi coperto gli occhi con le mani. Improvvisamente mi sentivo oppresso e debole. Credo d’aver emesso, involontariamente, dei lamenti. Poi, in questo vasto e desolato paesaggio notturno, dov’ero solo e dove Babette era soltanto un’illusione, vidi d’un tratto una possibilità mai considerata prima, una possibilità dalla quale ero fuggito, assorto com’ero nella percezione del mondo, calato nei sensi del vampiro, innamorato del colore, della forma, del suono, dei canti, della dolcezza e dell’infinita variazione. Babette si muoveva ma io non ci facevo caso. Prese qualcosa dalla tasca; il grande anello delle chiavi tintinnò. Salì i gradini. Lasciamola andare, pensai. ‘Creatura del demonio!’ sussurrai. ‘Vade retro Satana’ ripetei. Poi mi voltai per guardarla. Era impietrita sui gradini, con gli occhi spalancati, pieni di sospetto. Prese la lanterna appesa al muro, e la tenne in mano guardandomi fissamente; la teneva stretta, come un prezioso borsellino. ‘Pensate che sia mandato dal demonio?’ le domandai.
«Fece scorrere rapidamente le dita della mano sinistra attorno al gancio della lanterna, e con la destra fece il segno della croce, pronunciando parole latine che udii a malapena; ma il suo viso sbiancò e le sopracciglia s’inarcarono quando s’accorse di non aver prodotto alcun effetto. ‘Vi aspettavate che svanissi in una nuvoletta di fumo?’ le chiesi. Mi avvicinai a lei, perché con la forza del pensiero avevo realizzato il necessario distacco nei suoi confronti. ‘E dove andrei?’ le chiesi. ‘Dove andrei? All’inferno, da dove sono venuto? Dal diavolo, che mi ha mandato?’ Mi fermai ai piedi della scala. ‘E se vi dicessi che non so nulla del diavolo, che non so neppure se esiste?’ Era il diavolo che avevo visto allora nel paesaggio dei miei pensieri; era il diavolo a cui pensavo in quel momento. M’allontanai da lei. Non mi sentiva come fai tu adesso. Non mi ascoltava. Alzai gli occhi alle stelle. Lestat era pronto, lo sapevo. Era come se fosse stato pronto con le carrozze, in quel posto, da anni; e da anni Babette fosse stata in piedi sulle scale. D’improvviso ebbi la sensazione che ci fosse mio fratello, lui pure da secoli, e che mi parlasse piano con voce concitata, e che le cose che mi diceva fossero disperatamente importanti, ma si allontanassero alla stessa velocità con cui venivano dette, come il fruscio di topi nelle travi d’una casa immensa. Ci fu un suono stridulo e un’esplosione di luce. ‘Io non so se vengo dal demonio o no! Io non so cosa sono!’ gridai a Babette, con voce assordante per le mie sensibili orecchie. ‘Dovrò vivere fino alla fine del mondo, e non so neppure che cosa sono!’ Ma la luce balenò davanti a me: era la lanterna che Babette aveva acceso con un fiammifero e che ora reggeva in modo da non permettermi di guardarle il viso. Per un momento vidi solo luce, poi il grande peso della lanterna mi colpì a tutta forza nel petto, il vetro si fracassò sui mattoni, e le fiamme mi balzarono sulle gambe e sul viso. Lestat gridò dal buio: ‘Spegnilo, spegnilo, idiota! Ti distruggerà!’ Sentii qualcosa che mi fustigava forsennatamente. Era la giacca di Lestat. Ero caduto indietro, contro il pilastro, inerme sia per il fuoco e il colpo sia per la consapevolezza che Babette voleva distruggermi, e perché m’ero reso conto di non sapere che cos’ero.
«Tutto ciò accadde nel giro di pochi secondi. Il fuoco era ormai spento. M’inginocchiai nel buio con le mani sui mattoni. Lestat in cima alle scale aveva preso di nuovo Babette: mi gettai su di lui, agguantandolo per il collo e tirandolo indietro. Mi si rivoltò contro, infuriato, e mi prese a calci, ma io m’aggrappai a lui e lo tirai giù, sopra di me, fino all’ultimo gradino. Babette era impietrita. Vidi la sua sagoma scura contro il cielo e il riflesso della luce nei suoi occhi. ‘Muoviti, allora’ ringhiò Lestat, tirandosi in piedi. Babette si portava la mano alla gola. I miei occhi offesi si sforzavano di raccogliere la luce per vederla. La sua gola sanguinava. ‘Ricordatevi!’ le dissi. ‘Avrei potuto uccidervi o lasciare che vi uccidesse, ma non l’ho fatto. M’avete chiamato demonio! Avete torto’».
«Fermò Lestat appena in tempo» mormorò il ragazzo.
«Sì. Lestat era capace di uccidere e bere in un baleno. Ma riuscii a salvare unicamente la vita fisica di Babette. L’avrei scoperto solo molto tempo dopo».
«In un’ora e mezzo Lestat e io arrivammo a New Orleans; i cavalli erano quasi morti dalla stanchezza; fermammo la carrozza in una strada laterale, a un isolato di distanza da un nuovo albergo spagnolo. Lestat prese un vecchio per un braccio e gli mise in mano cinquanta dollari. ‘Trovaci una suite’ comandò, ‘e ordina champagne. Di’ che è per due gentiluomini e paga in anticipo. Quando torni ne avrai altri cinquanta per te. Ma attento, ti terrò d’occhio’. I suoi occhi brillanti soggiogarono l’uomo. Sapevo che l’avrebbe ucciso non appena quello fosse ritornato con le chiavi della stanza; e infatti così fece. Sedevo nella carrozza guardando stancamente l’uomo diventare sempre più debole e finalmente morire; il suo corpo crollò come un sacco di pietre quando Lestat lo lasciò andare. ‘Buona notte, dolce principe’ disse Lestat, ‘ed ecco i tuoi cinquanta dollari’. Gli ficcò il denaro in tasca come se fosse stato uno scherzo straordinario.
«Ci infilammo per le porte del cortile dell’albergo e salimmo nel lussuoso salotto del nostro appartamento. Lo champagne scintillava nel secchiello gelato. Due bicchieri stavano sul vassoio d’argento. Sapevo che Lestat ne avrebbe riempito uno e si sarebbe seduto a contemplarne il tenue colore paglierino. E io, come in trance, giacevo sul sofà pensando che non m’importava nulla di quel che Lestat poteva fare. Devo abbandonarlo o morire, pensavo. Sarebbe dolce morire. Sì, morire. Volevo morire prima e lo volevo anche adesso. Lo vedevo con una chiarezza così dolce, una calma così assoluta!
«‘Tu sei malato!’ sbottò Lestat improvvisamente. ‘È quasi l’alba’. Scostò le tende di pizzo e io vidi le cime dei tetti sotto il cielo azzurro cupo, e sopra la costellazione di Orione. ‘Va’ a uccidere!’ mi intimò Lestat sollevando il bicchiere. Scavalcò il davanzale, e udii i suoi piedi atterrare dolcemente sul tetto accanto all’albergo. Stava andando a prendere le bare, o perlomeno una. La sete cresceva in me come febbre e lo seguii. Il mio desiderio di morire era costante, come un puro pensiero della mente, svuotato d’emozione. Eppure avevo bisogno di nutrirmi. Come t’ho detto, allora non uccidevo le persone. Camminai per i tetti in cerca di topi».
«Ma perché… ha detto che Lestat non avrebbe dovuto farla cominciare con le persone. Voleva dire… vuol dire che per lei era una scelta estetica, non morale?»
«Me l’avessi chiesto allora, t’avrei detto che era estetica, che desideravo comprendere la morte per stadi successivi. Che la morte d’un animale mi procurava un tale piacere e una tale esperienza che avevo appena cominciato a capirla, e desideravo serbare l’esperienza della morte umana per una comprensione più matura. Ma era morale, perché tutte le decisioni estetiche sono morali, in realtà».
«Non capisco» disse il ragazzo. «Pensavo che le decisioni estetiche potessero essere completamente immorali. Come la mettiamo col cliché dell’artista che abbandona moglie e figli per poter dipingere? O con Nerone che suona l’arpa mentre Roma brucia?»
«Entrambe sono decisioni morali, al servizio d’un bene superiore, nella mente dell’artista. Il conflitto è tra la morale dell’artista e la morale della società, non tra l’estetica e la morale. Ma spesso non lo si comprende; e questa è la rovina, la tragedia. Un artista che ruba dei colori in un negozio, per esempio, crede di aver preso una decisione inevitabile ma immorale, e si vede come decaduto dalla grazia; ne segue disperazione e meschina irresponsabilità, come se la moralità fosse un grande mondo di vetro che con una sola azione si può frantumare irrimediabilmente. Ma allora la questione non mi preoccupava granché: allora ignoravo queste cose. Credevo di uccidere gli animali soltanto per ragioni estetiche e cercavo di eludere il grande interrogativo morale: se io, per la mia stessa natura, fossi o non fossi dannato.
«Perché vedi, anche se Lestat non mi aveva mai detto niente sui diavoli o sull’inferno, io credevo d’essermi dannato quando ero passato dalla sua parte, come deve aver pensato Giuda quando si mise il cappio al collo. Capisci?»
Il ragazzo non disse nulla. Fece per parlare ma si fermò. Per un istante chiazze di colore divamparono sulle sue guance.
«E lo era?» sussurrò.
Il vampiro restò immobile, sorridendo: un tenue sorriso che giocava sulle sue labbra come la luce. Il ragazzo lo stava fissando come se lo vedesse per la prima volta.
«Forse…» rispose il vampiro raddrizzandosi e accavallando le gambe «…dovremmo affrontare le cose una alla volta. Forse dovrei continuare con la mia storia».
«Sì, la prego…»
«Come t’ho detto, quella notte ero agitato. Avevo cercato di eludere questo problema e ora ne ero completamente sopraffatto, e in quello stato non avevo alcun desiderio di vivere. Ebbene, questo produceva in me, come negli esseri umani a volte, un desiderio ardente di soddisfare almeno il bisogno fisico. Credo d’averlo usato come pretesto. T’ho detto cosa significa uccidere per i vampiri; puoi immaginarti la differenza tra un topo e un uomo.
«Scesi in strada dietro a Lestat e camminai per parecchi isolati. A quel tempo le strade erano fangose, i casamenti come isole sopra i canali di scolo, e tutta la città era estremamente buia paragonata alle città d’oggi. Le luci sembravano fari in un mare nero. Anche con l’avvicinarsi del mattino, solo gli abbaini e le verande ai piani superiori emergevano dal buio, e per un mortale i vicoli che percorrevo erano neri come la pece. Sono dannato? Vengo dal demonio? La mia vera natura è quella d’un diavolo? continuavo a chiedermi. E se è così, perché ribellarmi all’idea, tremare quando Babette mi scaglia addosso una lanterna fiammeggiante, allontanarmi disgustato quando Lestat uccide? Cosa sono diventato, diventando un vampiro? Dove devo andare? E intanto, mentre il desiderio di morire mi faceva trascurare la sete, sentivo bruciarmi dentro la voglia di bere; le vene pulsavano come fili di dolore nella mia carne; le tempie mi battevano; e alla fine non potei più sopportarlo. Lacerato dal desiderio di restare inerte, di lasciarmi morire di fame, di languire nei pensieri, da una parte; e spinto dall’impulso a uccidere dall’altra, mi ritrovai in una strada vuota e desolata e udii un pianto di bimba.
«Veniva dall’interno di una casa. M’avvicinai alle pareti, cercando, nel mio consueto distacco, di capire perché piangesse. Era stanca, indolenzita e disperatamente sola. Ormai piangeva da così tanto tempo, che presto avrebbe smesso per puro e semplice sfinimento. Feci scorrere una mano verso l’alto passandola sotto la pesante imposta di legno e tirai, finché si sfilò la spranga. La bambina era seduta nella stanza buia accanto a una donna morta, morta da giorni. La stanza era ingombra di bauli e di pacchi, come se diverse persone avessero preparato i bagagli per partire; ma la madre giaceva mezzo svestita, il corpo già in putrefazione, e non c’era nessuno al di fuori della bambina. Prima che s’accorgesse di me passarono alcuni istanti; ma quando mi notò mi disse subito che dovevo fare qualcosa per aiutare sua madre. Avrà avuto cinque anni al massimo, molto magra, e il suo viso era macchiato di sporco e lacrime. M’implorava d’aiutarla. Dovevano prendere una nave, mi disse, prima che venisse la peste; il padre le aspettava. Cominciò a scuotere la madre e a piangere disperatamente; poi mi guardò di nuovo e scoppiò in un diluvio di lacrime.
«Ormai il bisogno di bere mi divorava. Non ce l’avrei fatta a stare un altro giorno senza nutrirmi. Ma c’erano delle alternative: le strade abbondavano di topi e da qualche parte, molto vicino, un cane ululava disperatamente. Se avessi voluto, avrei potuto volar via dalla stanza, nutrirmi e tornare al più presto. Ma la domanda: ‘Sono dannato?’ mi martellava dentro. E allora perché provo tanta pietà per lei, per il suo viso sparuto? Perché desidero toccare le sue piccole, morbide braccia, tenerla adesso sulle ginocchia, come sto facendo, sentirla reclinare la testa sul mio petto mentre le sfioro piano questi capelli di seta? Perché? Se sono dannato devo volerla uccidere, devo voler fare di lei nient’altro che cibo per un’esistenza maledetta, perché essendo dannato devo odiarla.
«Pensando a questo, vidi il viso di Babette contorto dall’odio quando reggeva la lanterna aspettando di accenderla, vidi Lestat nella mia mente e lo odiai, e mi sentii dannato, sì, quello era l’inferno, e in quell’istante mi chinai, e penetrai con violenza in quel morbido, piccolo collo, udii la piccina gridare, e col sangue caldo sulle mie labbra, le sussurrai: ‘È solo un momento, poi non ci sarà più dolore’. Ma era stretta a me, e presto non fui più capace di dire niente. Per quattro anni non avevo assaporato un essere umano; e ora sentivo il suo cuore con quel terribile ritmo, e che cuore! Non il cuore d’un uomo o d’un animale, ma il rapido, tenace cuore d’un bambino, che pulsava sempre più forte, rifiutandosi di morire, battendo come un piccolo pugno bussa alla porta, gridando: ‘Non morirò, non morirò, non posso morire, non posso morire…’ Credo d’essermi alzato in piedi ancora avvinto a lei, il suo cuore che trascinava il mio sempre più velocemente, senza speranza di tregua: il sangue scorreva troppo veloce per me, la stanza roteava. Poi, senza volerlo, fissai lo sguardo al di sopra della sua testa reclinata, della sua bocca aperta, attraverso l’oscurità, sul viso di sua madre; e attraverso le palpebre semichiuse i suoi occhi mandavano bagliori verso me, come fossero vivi! Gettai a terra la bambina. S’accasciò come una bambola snodata. Voltandomi per fuggire, in preda a orrore cieco per la madre, vidi la finestra riempita da una forma familiare. Era Lestat, che ora indietreggiava ridendo, il corpo piegato in una specie di balletto nella strada fangosa. ‘Louis, Louis’ mi scherniva, puntando contro di me un lungo dito ossuto, come a dire che m’aveva colto in flagrante. Poi con un balzo scavalcò il davanzale, mi cacciò da parte, afferrò dal letto il corpo fetido della madre e accennò dei passi di danza con lei».
«Mio Dio!» sussurrò il ragazzo.
«Sì, credo d’averlo detto anch’io» riprese il vampiro. «Inciampò nella bambina mentre trascinava la madre in cerchi sempre più grandi, cantando e ballando; i capelli ingarbugliati della donna le ricadevano sul viso, poi la testa le si rovesciò all’indietro e un liquido nero le sgorgò dalla bocca. Lestat la buttò per terra. Io ero uscito dalla finestra e arrancavo per le strade. Mi corse dietro. ‘Hai paura di me, Louis?’ urlava. ‘Hai paura? La bimba è viva, Louis, l’hai lasciata che respirava ancora. Vuoi che torni indietro e la faccia diventare un vampiro? Potrebbe esserci utile, Louis, e pensa a tutti i bei vestitini che le potremmo comprare. Louis, aspetta, Louis! Tornerò indietro a cercarla, se lo desideri!’ Mi corse dietro per tutta la strada fino all’albergo, attraverso i tetti dove avevo sperato di seminarlo, finché saltai dentro la finestra del salotto, mi voltai infuriato, e la chiusi di scatto. Lui la colpì con le braccia distese come un uccello che cerca di volare attraverso il vetro, poi si mise a scuotere l’intelaiatura. Io ero completamente fuori di senno. Andavo avanti e indietro per la stanza pensando a come ucciderlo. M’immaginavo il suo corpo bruciato, accartocciato, sul tetto di sotto. La ragione mi aveva abbandonato, ero diventato puro furore, e quando lui entrò dal vetro rotto lottammo come mai avevamo lottato prima. Fu l’inferno a fermarmi, il pensiero dell’inferno, di noi come due anime dell’inferno che si rivoltano nell’odio. Persi la mia sicurezza, il mio scopo, la mia presa. Ero sul pavimento, e lui in piedi sopra di me, con gli occhi freddi, sebbene il petto gli ansimasse. ‘Sei uno stupido, Louis’ mormorò. La sua voce era calma, tanto calma che mi fece tornare in me. ‘Il sole sta sorgendo’ osservò; il petto anelava leggermente per la lotta, gli occhi si stringevano mentre guardava la finestra. Non l’avevo mai visto così. In qualche modo lo scontro lo aveva infiacchito, o forse era più che fiacchezza. ‘Entra nella bara’ mi disse, senza la minima traccia d’ira. ‘Ma domani notte… parliamo’.
«Ero stupito. Lestat che voleva parlare! Non riuscivo a crederlo. Lestat e io non avevamo mai veramente parlato. Credo di averti descritto con cura i nostri litigi, i nostri rabbiosi battibecchi».
«Era disperato per i soldi, per le vostre case» suggerì il ragazzo. «Oppure era altrettanto spaventato di rimanere solo quanto lo era lei?»
«Anch’io me lo domandai. Pensai persino che volesse uccidermi in qualche modo che ignoravo. Capisci, allora non sapevo perché mi risvegliavo ogni sera a una certa ora, se era automatico oppure no, quando quel sonno simile alla morte mi abbandonava, e perché certe volte succedeva prima di altre. Era una delle cose che Lestat non mi voleva spiegare. Spesso lui si svegliava prima di me. Come t’ho detto, in tutte le cose pratiche mi superava. Quella mattina chiusi la bara con una specie di disperazione.
«Naturalmente, chiudere la bara è sempre fonte di turbamento. È un po’ come sottoporsi a una moderna anestesia. Anche l’errore involontario di un intruso può determinare la morte».
«Ma come poteva fare a ucciderla? Non avrebbe potuto esporla alla luce; lui stesso non avrebbe potuto sopportarla».
«Questo è vero; però, svegliandosi prima di me, avrebbe potuto inchiodarmi la bara. O darle fuoco. Il fatto era che io non sapevo cosa avrebbe potuto fare, cosa poteva sapere che io ancora ignoravo.
«Ma non ci potevo fare niente e col pensiero della donna e della bambina ancora fisso in mente, e il sole che sorgeva, non mi restavano più energie per discutere con lui, così m’abbandonai a incubi orribili».
«Davvero lei sogna!» disse il ragazzo.
«Spesso» rispose il vampiro. «A volte vorrei non sognare. Perché sogni così lunghi e chiari, da mortale, non ne ho mai avuti; e neppure incubi così contorti. Nei primi tempi, questi sogni mi assorbivamo talmente che spesso mi sembrava di combattere contro il risveglio più a lungo che potevo, e talvolta stavo a pensare a questi sogni fino a metà della notte; e spesso vagavo stordito e senza meta cercando di interpretarne il significato. Per molti versi erano elusivi come i sogni dei mortali. Per esempio sognai mio fratello vicino a me, a metà tra la vita e la morte, che mi chiedeva aiuto. Spesso sognavo Babette; e spesso — quasi sempre — c’era un grande sfondo di terreno incolto, quel deserto notturno che avevo visto quando Babette mi maledì. Era come se tutte queste figure camminassero e parlassero sulla dimora desolata della mia anima dannata. Non ricordo cosa sognai quel giorno, forse perché ricordo troppo bene la discussione che ci fu tra me e Lestat la sera seguente. Vedo che anche tu sei ansioso di ascoltarla.
«Come dicevo, Lestat mi aveva sbalordito per quella sua nuova calma, quella ponderatezza. Ma la sera, quando mi risvegliai, non lo ritrovai così, non subito. Nel salotto c’erano due donne e parecchie candele disseminate sui tavolini e sul buffet intagliato; Lestat teneva una donna tra le braccia e la baciava. Era molto ubriaca e molto bella, una grande bambola drogata con l’ordinata cuffietta che le cadeva lentamente sulle spalle scoperte e sul seno quasi nudo. L’altra donna sedeva al tavolo da pranzo, di fronte ai resti del banchetto, e stava bevendo un bicchiere di vino. Vedevo che i tre avevano cenato (Lestat naturalmente aveva fatto finta… è incredibile come la gente non s’accorge che un vampiro fa solo finta di mangiare) e che la donna al tavolo s’annoiava. La scena mi provocò una violenta agitazione. Sapevo che cosa avesse in mente Lestat. Se fossi entrato in salotto, la donna avrebbe rivolto a me le sue attenzioni. Quel che poteva succedere, non riuscivo a immaginarlo, sapevo solo che Lestat voleva che le uccidessimo tutte e due. La donna che stava sul sofà con lui aveva già cominciato a prenderlo in giro per i suoi baci, la sua freddezza, la sua mancanza di desiderio per lei. La donna seduta al tavolo osservava la scena, con neri occhi a mandorla pieni di soddisfazione; quando Lestat si alzò e andò da lei, mettendo le mani sulle sue bianche braccia nude, s’illuminò. Piegandosi per baciarla, Lestat mi vide attraverso la fessura della porta. Mi guardò per un istante, poi riprese a parlare con le donne. Si chinò e spense le candele sul tavolo. ‘È troppo buio qui’ disse la donna sul divano. ‘Lasciaci in pace’ ribattè l’altra donna. Lestat si sedette e le fece cenno di sederglisi in grembo. Lei eseguì, circondandogli il collo col braccio sinistro, mentre con la mano destra gli lisciava all’indietro i capelli biondi. ‘Hai la pelle gelida’ fece lei, ritraendosi leggermente. ‘Non sempre’ rispose Lestat; e seppellì il viso nella carne del suo collo. Io lo osservavo ammaliato. Lestat era magistralmente abile e terribilmente perverso, ma non seppi quanto era abile finché non affondò i denti, premendole la gola col pollice, abbracciandola stretta con l’altro braccio, e bevve a sazietà senza che l’altra donna se ne accorgesse neppure. ‘La tua amica non sa reggere il vino’ disse, scivolando via dalla sedia e mettendovi a sedere la donna priva di conoscenza, con le braccia ripiegate sotto al viso sul tavolo. ‘È una scema’ commentò l’altra donna accostandosi alla finestra a guardare le luci di fuori. Allora New Orleans era una città con molte case basse e in notti chiare come quella le strade illuminate dai lampioni erano uno spettacolo magnifico viste dalle alte finestre di quel nuovo albergo spagnolo; e le stelle brillavano basse sopra questa debole luce, come sul mare. ‘Io son capace di scaldarti quella tua pelle fredda molto meglio di lei’. Si voltò verso Lestat, e devo confessare che provai un certo sollievo al pensiero che avrebbe sistemato lui anche questa. Ma le cose semplici non erano il suo forte. ‘Credi?’ le disse. La donna gli prese la mano. ‘Ma sei caldo!’ fece».
«Il sangue l’aveva scaldato?» chiese il ragazzo.
«Sì. Dopo aver ucciso, un vampiro diventa caldo come te adesso». Il vampiro fece per riprendere; poi, dando un’occhiata al ragazzo, sorrise. «Dicevo… Lestat teneva la mano della donna nella sua e le disse che era stata l’altra a scaldarlo. Naturalmente era rosso in viso e molto alterato. La tirò a sé, e lei lo baciò, osservando con una risata che era diventato un’autentica fornace di passione.
«‘Ah, ma il prezzo è alto’ le disse lui, affettando tristezza. ‘La tua graziosa amica…’ Si strinse nelle spalle. ‘L’ho sfinita’. E si ritrasse, come per invitare la donna ad andare al tavolo. Cosa che lei fece, con un’espressione di superiorità sui lineamenti minuti. Si chinò per guardare l’amica, ma poi perse interesse — finché vide qualcosa. Un tovagliolo. Aveva raccolto le ultime gocce di sangue dalla ferita alla gola. Lo tirò su, sforzandosi di distinguerlo al buio. ‘Sciogliti i capelli’ sussurrò Lestat dolcemente. Lei li lasciò cadere, indifferente, sciolse le ultime trecce, così che i capelli le ricaddero biondi e ondulati sulla schiena. ‘Morbidi’ disse Lestat, ‘Così morbidi. T’immagino così, sdraiata su un letto di raso’.
«‘Ma che cosa dici!’ lo canzonò lei, e gli voltò le spalle scherzosamente.
«‘Sai che specie di letto?’ fece Lestat. La donna rise e rispose: ‘II tuo letto, immagino’. Poi si voltò a guardarlo e Lestat, senza mai distogliere lo sguardo da lei, inclinò lievemente il corpo dell’amica, che cadde all’indietro sul pavimento, con gli occhi sbarrati. La donna boccheggiò. Si allontanò maldestramente dal cadavere, urtando un tavolinetto e quasi rovesciandolo. La candela finì per terra e si spense. ‘Spegni la luce…e poi spegni la luce’ disse Lestat dolcemente. Poi la prese tra le braccia e mentre lei si dibatteva come una falena, affondò i denti».
«Ma che cosa pensava lei?» chiese il ragazzo. «Voleva fermarlo come quando voleva impedirgli di uccidere Frenière?»
«No» rispose il vampiro. «Non avrei potuto fermarlo. Sapevo che uccideva degli umani ogni notte. Gli animali non gli davano alcuna soddisfazione. Gli animali potevano andare bene quando mancava tutto il resto, ma non li si doveva mai scegliere. Se provavo della compassione per quelle donne, era sepolta sotto la mia terribile agitazione. Sentivo ancora nel mio petto il piccolo cuore martellante di quella bimba affamata; e ancora mi consumavo nelle domande sulla mia natura divisa. Ero furioso perché Lestat aveva messo in scena questo spettacolo per me, e aveva aspettato che mi svegliassi per uccidere le donne; e di nuovo mi domandai se potevo liberarmi di lui, avvertendo più che mai il mio odio e la mia debolezza.
«Nel frattempo Lestat appoggiava al tavolo i leggiadri cadaveri delle ragazze e accendeva tutte le candele, finché la stanza risplendette come per un matrimonio. ‘Entra, Louis’ disse. ‘T’avrei procurato della compagnia ma so che preferisci scegliere per conto tuo. Peccato che la signorina Frenière abbia il vezzo di scagliare lanterne in fiamme! Nel bel mezzo d’una festa sarebbe imbarazzante, non trovi? Specialmente in un albergo!’ Sistemò la ragazza bionda sulla sedia con la testa piegata da un lato contro lo schienale di damasco, quella più scura col mento posato appena sopra il seno; quest’ultima era impallidita, e i suoi lineamenti sembravano già rigidi, come se fosse una di quelle donne in cui è il fuoco della personalità a conferire bellezza. L’altra invece sembrava soltanto addormentata; non ero nemmeno certo che fosse morta. Lestat le aveva prodotto due ferite, una nella gola e l’altra sopra il seno sinistro, ed entrambe sanguinavano ancora copiosamente. Le sollevò il polso e, incidendolo con un coltello, riempì due calici e mi invitò a sedermi.
«‘Ti lascio’ gli dissi subito. ‘Voglio dirtelo ora.’
«‘Lo immaginavo’ mi rispose appoggiandosi allo schienale, ‘e immaginavo anche che non avresti rinunciato a una bella predica. Dimmi che sono un mostro, una volgare carogna!’
«‘Non esprimo giudizi sul tuo conto. Non m’interessi. M’interessa la mia nuova natura e sono arrivato a convincermi che non posso più credere che tu mi dica la verità. Tu usi la conoscenza per il tuo potere personale’ gli dissi. E credo, come accade a molti quando fanno simili dichiarazioni, di non averlo neanche guardato. Stavo più che altro ascoltando le mie parole. Ma poi gli vidi di nuovo sul viso la stessa espressione di quando m’aveva detto che avremmo parlato. Mi stava ascoltando. Improvvisamente, ero disorientato. Sentivo più dolorosamente che mai l’abisso che ci separava.
«‘Perché sei diventato vampiro?’ esplosi. ‘E perché un vampiro così! Vendicativo, che si diverte a prendere vite umane anche quando non ne ha bisogno. Questa ragazza… perché l’hai uccisa quando una sarebbe bastata? E perché l’hai terrorizzata così prima di ucciderla? E per quale motivo l’hai appoggiata lì, in quel modo grottesco, come se volessi provocare gli dèi a fulminarti per la tua empietà?’
«Lestat ascoltò tutto questo senza parlare, e nella pausa che seguì mi sentii di nuovo perso. Gli occhi di Lestat erano grandi e pensierosi; altre volte li avevo visti così, ma non ricordavo quando, certamente non quando parlava con me.
«‘Cosa credi che sia un vampiro?’ mi chiese con onestà.
«‘Io non pretendo di saperlo. Tu sì. Che cos’è?’ domandai. E a questo lui non rispose niente, come se avesse intuito la disonestà della domanda, il disprezzo. Rimase semplicemente seduto a guardarmi con la stessa espressione immobile. Poi io dissi: ‘So solo che dopo averti lasciato cercherò di scoprirlo. Girerò tutto il mondo, se necessario, per trovare altri vampiri. So che ne esistono, e non ho ragione di non credere che ne esistano in gran numero. E sono certo di trovare dei vampiri che hanno molto più in comune con me di quanto io non abbia con te. Vampiri che concepiscano la conoscenza come la concepisco io, che abbiano usato la loro natura superiore per apprendere segreti che tu nemmeno puoi sognare. E anche se non mi hai spiegato tutto, scoprirò le cose da me o da loro, quando li troverò’.
«Scosse la testa. ‘Louis!’ disse. ‘Tu sei innamorato della tua natura mortale! Tu insegui i fantasmi del tuo Io passato. Frenière, sua sorella… sono immagini di ciò che eri e che ancora vorresti essere. E nel tuo idillio con la vita mortale, sei morto alla natura di vampiro!’
«A questo obiettai immediatamente. ‘La natura di vampiro è per me la più grande avventura della mia vita; tutto ciò che è stato prima è confuso, annebbiato; sono passato per la vita mortale come un cieco che avanza a tentoni da un oggetto all’altro. È solo da quando sono diventato vampiro che per la prima volta ho rispettato tutta la vita. Non ho mai un essere umano vivente, pulsante, finché non sono stato un vampiro; non ho mai saputo cos’è la vita finché essa non mi è sgorgata in un fiotto rosso sulle labbra, sulle mani!’ Mi sorpresi a fissare le due donne; la più scura ora stava diventando di una terribile sfumatura di blu. La bionda respirava. ‘Non è morta! ‘ dissi improvvisamente a Lestat.
«‘Lo so. Lasciala perdere’ rispose. Le sollevò il polso, le fece un nuovo taglio vicino all’altro e si riempì il bicchiere. ‘Tutto quello che dici è sensato’ mi disse, bevendo un sorso. ‘Tu sei un uomo d’intelletto. Io invece non lo sono mai stato; quello che so l’ho imparato ascoltando la gente parlare, non dai libri. Non sono andato mai abbastanza a lungo a scuola, ma non sono stupido, e dammi retta perché sei in pericolo. Tu non conosci la tua natura di vampiro. Sei come un uomo adulto che, ripensando alla sua infanzia, s’accorge di non averla mai apprezzata. Ma non puoi, da uomo, tornare nella stanza dei bambini e metterti a giocare coi tuoi balocchi, chiedendo di essere sommerso di amore e di cure, solo perché adesso hai capito quanto valgono. Lo stesso è per la tua natura mortale. Ci hai rinunciato. Non puoi fare ritorno al mondo del calore umano coi tuoi nuovi occhi’.
«‘Lo so benissimo!’ ribattei. ‘Ma cos’è questa nostra natura? Se posso vivere del sangue degli animali, perché devo andare per il mondo a portare sventura e morte alle creature umane?’
«‘Sei felice?’ chiese. ‘Vaghi nella notte, nutrendoti di topi come un pezzente, poi contempli trasognato la finestra di Babette, pieno d’affanno ma impotente, come la dea che venne di notte a guardare Endimione che dormiva e non poté averlo. E anche se potessi tenerla tra le braccia, e lei ti guardasse senza orrore o disgusto, e poi? Pochi anni per vederla vinta dalle ingiurie del tempo e poi morire davanti ai tuoi occhi? Questo ti rende felice? Questa è follia, Louis. Vanità. Quel che devi vedere davanti a te è la natura di vampiro, cioè quella del predatore. Ti garantisco che se stanotte uccidi una donna bella e piena di vita come Babette e le succhi il sangue fino a farla cadere ai tuoi piedi, non rimarrà più appetito per il suo profilo al lume di candela, o per ascoltare dalla finestra il suono della sua voce. Sarai saziato, Louis, come è destino che tu sia, da tutta la vita che potrai avere; e quando sarà finita, ti tornerà fame della stessa cosa, ancora, ancora e ancora. Il rosso che c’è in questo bicchiere sarà altrettanto rosso; le rose della tappezzeria altrettanto delicatamente disegnate. Vedrai la luna nello stesso modo, lo stesso tremolio di una candela. E con quella stessa sensibilità a cui tieni tanto, vedrai la morte in tutta la sua bellezza, e la vita, come la si conosce soltanto nel momento stesso della morte. Non lo capisci questo, Louis? Tu solo tra tutte le creature puoi vedere la morte in quel modo, impunemente. Tu solo… sotto la luna che sorge… puoi colpire come la mano di Dio!’
«Si appoggiò allo schienale della sedia, vuotò il bicchiere, e spostò lo sguardo sulla donna priva di sensi. Il seno le si sollevava e le sopracciglia s’inarcavano come se stesse rinvenendo. Un lamento le sfuggì dalle labbra. Non m’aveva mai detto prima parole simili, né l’avevo creduto capace. ‘I vampiri sono assassini’ continuò. ‘Predatori, i cui occhi onniveggenti sono fatti per dare loro il distacco. La capacità di vedere la vita umana nella sua interezza, senza provare sentimenti sdolcinati di pena, ma un elettrizzante senso di appagamento nell’essere la fine di quella vita, nel contribuire in qualche modo al piano divino’.
«‘Così la vedi tu!’ protestai. La ragazza si lamentò ancora; il suo viso era molto pallido. La sua testa ruotò contro lo schienale della sedia.
«‘Così stanno le cose’ rispose. ‘Tu parli di trovare altri vampiri! I vampiri sono assassini! Non vogliono né te né la tua sensibilità. Ti vedranno arrivare molto prima che tu li veda, e vedranno il tuo punto debole; e, non fidandosi di te, cercheranno di ucciderti; cercherebbero di ucciderti anche se tu fossi come me. Perché sono predatori solitari e non cercano compagnia più di quanto facciano le pantere nella giungla. Sono gelosi del loro segreto e del loro territorio; e se ne troverai due o più assieme, sarà solo per sicurezza, e uno sarà lo schiavo dell’altro, come tu con me’.
«‘Io non sono il tuo schiavo!’ esclamai. Ma nel momento stesso in cui lo diceva, mi resi conto che fin dall’inizio era stato proprio così.
«‘E così che i vampiri crescono… attraverso la schiavitù. E come se no?’ domandò. Ancora una volta prese il polso della ragazza, e lei gridò quando il coltello la ferì. Aprì gli occhi lentamente mentre Lestat le teneva il polso sul bicchiere. Li sbattè e si sforzò di tenerli aperti. Era come se un velo le coprisse gli occhi. ‘Sei stanca vero?’ le domandò Lestat. Lei lo guardò come se non riuscisse veramente a vederlo. ‘Stanca!’ le ripeté lui, chinandosi e fissandola negli occhi. ‘Tu hai voglia di dormire’. ‘Sì…’ gemette lei piano. Lestat la sollevò e la portò nella camera da letto. Le nostre bare, erano posate sul tappeto contro la parete; c’era anche un letto ricoperto di velluto. Lestat non la mise sul letto, ma la depose lentamente nella sua bara. ‘Che fai?’ gli chiesi dalla soglia. La ragazza si guardava intorno come un bambino terrorizzato. ‘No…’ gemeva. Poi, come lui chiuse il coperchio, urlò. Continuò a urlare da dentro la bara.
«‘Perché lo fai, Lestat?’ chiesi.
«‘Mi piace’ rispose lui. ‘Mi diverte’. Mi guardò. ‘Non è detto che ci debbano piacere le stesse cose. Puoi riservare i tuoi gusti da esteta per cose più pure. Uccidili rapidamente se vuoi, ma fallo! Mettiti in testa che sei un predatore! Ah!’ Alzò le mani disgustato. La ragazza non gridava più. Lestat si sistemò su una seggiolina accanto alla bara e, accavallando le gambe, ne contemplò il coperchio. La sua bara era verniciata di nero, non una semplice scatola rettangolare come usano adesso, ma rastremata alle estremità e più larga nel punto in cui il cadavere incrocia le braccia sul petto. Suggeriva la forma umana. La aprì, e la ragazza si tirò su a sedere, stupefatta, con occhi da pazza e le labbra bluastre e tremanti. ‘Stenditi, tesoro’ le disse Lestat, e la spinse indietro; la donna si distese, quasi isterica, guardandolo fisso. ‘Sei morta, tesoro’ le disse lui; lei urlò e si girò disperatamente nella bara come un pesce, come se il suo corpo potesse sfuggire attraverso i fianchi, attraverso il fondo. ‘È una bara, una bara!’ gridò. ‘Fammi uscire!’
«‘Ma tutti dobbiamo giacere in una bara prima o poi’ le sussurrò lui. ‘Stai calma, tesoro. Questa è la tua bara. La maggior parte di noi non ha mai la possibilità di sapere cosa si prova. Tu lo sai!’ continuò. Non posso dire se lei stesse ascoltando o no, o se stesse impazzendo. Mi vide sul limitare della porta e si immobilizzò, guardando prima Lestat e poi me. ‘Aiutatemi!’ mi implorò.
«Lestat mi guardò. ‘Ero convinto che tu avessi il mio stesso istinto’ disse. ‘Quando ti diedi quella prima preda, pensavo che saresti stato avido di un’altra e un’altra ancora, che ti saresti accostato alla vita umana come a una coppa ricolma, come me. Invece no. Tutto questo tempo, non ho cercato di renderti più forte perché ti preferivo debole. Ti ho osservato giocare all’ombra nella notte, contemplare la pioggia che cadeva, e mi son detto: è facile da trattare, è un tipo semplice. Ma sei un debole, Louis. Sei un bersaglio. Per i vampiri e adesso anche per gli umani. Questa storia con Babette ci ha esposto entrambi. Era come se tu volessi che fossimo distrutti tutti e due’.
«‘Non posso guardare quello che fai’ dissi, voltando la schiena. Gli occhi della ragazza mi bruciavano nella carne; per tutto il tempo che lui aveva parlato, era stata a guardarmi immobile.
«‘Non puoi guardare!’ rise. ‘T’ho visto ieri notte con quella bambina. Tu sei un vampiro, proprio come me!’
«Si alzò per venire verso di me, ma la ragazza di nuovo si sollevò e lui si voltò per ricacciarla giù. ‘Pensi che dovremmo farne un vampiro? Dividere le nostre vite con lei?’ chiese. Risposi all’istante: ‘No!’
«‘Perché? Perché è solo una puttana?’ domandò. ‘E maledettamente costosa, per giunta!’ disse.
«‘Può vivere ora? O ha già perso troppo sangue?’ gli chiesi.
«‘Commovente!’ fece lui. ‘Non può più vivere.’
«‘Allora uccidila’. La ragazza cominciò a urlare. Lestat rimase immobile. Mi voltai e vidi che sorrideva. Lei aveva appoggiato il viso al raso e singhiozzava. La ragione l’aveva abbandonata quasi completamente; piangeva e pregava la Vergine di salvarla, ora con le mani sul viso, ora sulla testa, col polso che spandeva sangue sui capelli e sul raso. Mi chinai sulla bara. Stava morendo, era vero; i suoi occhi ardevano, ma il tessuto intorno era già bluastro. Ora sorrideva. ‘Non mi lascerai morire, vero?’ sussurrò. ‘Tu mi salverai’. Lestat allungò la mano e le prese il polso. ‘Ma è troppo tardi, amore’ le disse. ‘Guardati il polso, il seno’. E poi le toccò la ferita sulla gola. Lei si portò la mano alla gola e annaspò, la bocca spalancata, l’urlo strozzato. Guardai Lestat. Non riuscivo a capire perché lo faceva. Il suo viso era liscio come è il mio adesso, più animato per il sangue, ma freddo e privo di emozioni.
«Non la guardava con occhio maligno, come i personaggi malvagi del teatro, né desiderava spasmodicamente vederla soffrire come se si cibasse di crudeltà. Stava semplicemente a guardarla. ‘Non ho mai voluto essere cattiva’ piangeva la ragazza. ‘Ho fatto soltanto quello che sono stata costretta a fare. Tu non permetterai che mi succeda questo. Mi lascerai andare. Non posso morire così. Non posso!’ singhiozzava, con singulti secchi e flebili. ‘Mi lascerai andare. Devo andare dal prete. Mi lascerai andare’.
«‘Ma il mio amico è un prete’ disse Lestat sorridendo, come se gli fosse venuto appena in mente per scherzo. ‘Questo è il tuo funerale, cara. Vedi, prima eri a una cena, ora sei morta. Ma Dio ti offre la possibilità d’essere assolta. Non capisci? Confessagli i tuoi peccati’.
«Dapprima lei scosse la testa, poi mi guardò di nuovo con quegli occhi imploranti. ‘È vero?’ sussurrò. ‘Bene’ intervenne Lestat, ‘non mi sembri pentita: dovrò chiudere il coperchio’.
«‘Smettila, Lestat!’ gli urlai. La ragazza aveva ricominciato a strillare, e io non riuscivo più a sopportarne la vista. Mi chinai su di lei e le presi la mano. ‘Non riesco a ricordare i miei peccati’ balbettò, mentre io le guardavo il polso, deciso a ucciderla. ‘Non devi sforzarti. Di’ soltanto a Iddio che sei pentita’ le dissi, ‘poi morirai e sarà tutto finito’. Si distese indietro e gli occhi le si chiusero. Affondai i denti nel suo polso e incominciai a succhiare. Lei si scosse una volta come se sognasse e pronunciò un nome; poi, quando sentii il battito del suo cuore raggiungere quella lentezza ipnotica che conoscevo, mi ritrassi da lei, inebriato, confuso per un istante, aggrappandomi allo stipite della porta. La vedevo come in un sogno. Le candele ardevano ai margini della mia visione. Lei era perfettamente immobile, e Lestat le sedeva accanto composto, come se ne stesse piangendo la morte. Il suo volto era calmo. ‘Louis’ mi disse. ‘Non capisci? La pace ti arriverà soltanto quando potrai farlo ogni notte della tua vita. Non c’è niente altro. Ma questo è tutto!’ Parlava con voce quasi affettuosa; poi si alzò e mi mise le mani sulle spalle. Entrai nel salotto, cercando di sottrarmi a quel contatto, ma non abbastanza risoluto per respingerlo. ‘Vieni fuori con me, per le strade. È tardi. Non hai bevuto abbastanza. Lascia che ti mostri quello che sei. Davvero! Perdonami se l’ho fatto male, se ho lasciato troppo alla natura. Vieni!’
«‘Non ce la faccio Lestat’ gli dissi. ‘Hai scelto male il tuo compagno’.
«‘Ma Louis’ ribattè ‘non hai mai provato!’».
Il vampiro di fermò: stava studiando il ragazzo. E il ragazzo, allibito, non disse nulla.
«Era vero. Non avevo bevuto abbastanza; e scosso dal terrore della ragazza, lasciai che mi conducesse fuori dell’albergo, giù per la scala di servizio. La gente stava uscendo dalla sala da ballo di Condé Street e la stradina era affollata. Si tenevano cene negli alberghi e un gran numero di famiglie di piantatori erano alloggiate in città; passammo attraverso la folla come in un incubo. La mia sofferenza era intollerabile. Non avevo mai provato un simile tormento psichico. Perché le parole di Lestat avevano senso per me. Trovavo la pace soltanto quando uccidevo, solo in quell’istante; e non avevo più dubbi sul fatto che uccidere qualunque cosa inferiore a un essere umano non mi dava altro che una vaga nostalgia, lo scontento che mi aveva portato ad avvicinarmi agli esseri umani, a osservare attraverso i vetri la loro vita. Io non ero un vampiro. E nel mio dolore mi domandai irrazionalmente, come un bambino: Non potrei tornare indietro? Non potrei essere ancora un uomo? Il sangue di quella ragazza era ancora caldo dentro di me, ne sentivo l’eccitazione e la forza fìsica, e tuttavia io mi ponevo questa domanda. Le facce degli umani sfilavano davanti a me come fiamme di candele nella notte danzanti su onde oscure. Affondavo nelle tenebre, esausto della mia nostalgia. Giravo su e giù per le strade, guardavo le stelle e pensavo: ‘Sì, è vero, quel che dice è vero, quando uccido non c’è più nostalgia; e non posso sopportare questa verità, non posso’.
«Improvvisamente ci fu un momento come di sospensione. La strada era perfettamente silenziosa. C’eravamo allontanati molto dalla zona principale della città vecchia e ci trovavamo vicino ai bastioni. Non c’erano luci, solo un fuoco a una finestra e un’eco lontana di gente che rideva. Ma non c’era nessuno. Nessuno vicino a noi. Sentivo all’improvviso la brezza del fiume e l’aria calda della notte che saliva; e Lestat vicino a me, così immobile che avrebbe potuto essere di pietra. Sopra la lunga, bassa fila dei tetti a punta si ergevano le sagome imponenti delle querce, grandi forme oscillanti e sonore sotto le stelle basse nel cielo. Il dolore per il momento era sparito; la confusione sparita. Chiusi gli occhi e udii il vento e il suono dell’acqua che scorreva dolcemente, velocemente nel fiume. Mi bastò, per un momento. Ma sapevo che non sarebbe durato, che questa pace sarebbe volata via come se mi venisse strappata dalle braccia, e io l’avrei inseguita, io, la più disperatamente sola tra tutte le creature di Dio, per riportarla indietro. Poi una voce accanto a me rimbombò profonda nella calma della notte, un rullo di tamburo, alla fine di quel momento di pace, che diceva: ‘Agisci secondo la tua natura; questo è solo un assaggio. Agisci secondo la tua natura’. E il momento passò. Come quella ragazza nel salotto dell’albergo, mi sentivo stordito e disposto ad accogliere ogni minimo suggerimento. Annuii a Lestat e lui a me. ‘Il dolore è terribile per te’ mi disse. ‘Lo senti come nessun’altra creatura perché sei un vampiro. Tu non vuoi che continui’.
«‘No’ gli risposi. ‘Proverò quello che ho provato con lei, unito a lei e senza peso, preso in una danza’.
«‘Questo e altro’. La sua mano strinse la mia. ‘Non voltare le spalle, vieni con me’.
«Mi condusse di corsa per la strada, voltandosi ogni volta che esitavo, cercando con la sua mano la mia, il sorriso sulle labbra, la sua presenza meravigliosa per me come la notte che arrivò nella mia vita mortale e mi disse che saremmo stati vampiri. ‘Il male è un’opinione’ mi sussurrò. ‘Noi siamo immortali. Abbiamo davanti ricchi festini che la coscienza non può apprezzare e che gli uomini mortali non possono conoscere. Dio uccide, e così faremo noi; indiscriminatamente Dio prende il più ricco e il più povero, e così faremo noi; perché nessuna creatura soggetta a Dio è come noi, nessuna è così simile a Lui come noi, angeli tenebrosi non confinati entro i limiti maleodoranti dell’inferno, ma erranti per la sua terra e per tutti i suoi regni. Stanotte voglio un bambino. Sono come una madre… voglio un bambino!’
«Avrei dovuto sapere che cosa aveva in mente. E invece no. Mi aveva ipnotizzato, incantato. Giocava con me come quando ero mortale; mi conduceva. Mi diceva ‘Non sentirai più dolore’.
«Giungemmo in una strada con tante finestre illuminate. Era un posto di stanze in affitto, marinai e gente delle chiatte. Entrammo per una porta stretta e poi in un corridoio di pietre, dove udivo il mio respiro come fosse vento. Lestat strisciò lungo la parete finché la sua ombra balzò fuori nella luce di una porta accanto all’ombra di un altro uomo, le loro teste piegate insieme, i loro sussurri come il fruscio di foglie secche. ‘Che c’è?’ Mi accostai a lui, temendo improvvisamente che quell’esaltazione morisse in me. Vidi ancora il paesaggio da incubo che avevo visto quando parlavo con Babette, provai il gelo della solitudine, il gelo della colpa. ‘È là!’ sussurrò Lestat. ‘Quella che hai ferito. Tua figlia’.
«‘Cosa dici, di che cosa stai parlando?’
«‘L’hai salvata’ mormorò. ‘Lo sapevo. Hai lasciato la finestra aperta su di lei e sulla sua mamma morta, e della gente che passava per la strada l’ha portata qui’.
«‘La bambina!’ boccheggiai. Ma Lestat mi stava già conducendo oltre la porta. Ci fermammo davanti a una lunga corsia di letti di legno, ciascuno con un bambino sotto una stretta coperta bianca, una candela alla fine della corsia, dove un’infermiera era curva su un piccolo scrittoio. Percorremmo il corridoio tra le due file. ‘Bambini affamati, orfani’ disse Lestat. ‘Figli della peste e della febbre’. Si arrestò. Vidi la bambina distesa sul letto. Poi arrivò l’uomo di prima, e sussurrò qualcosa, pianissimo, a Lestat; quanta attenzione per i piccoli addormentati. Qualcuno in un’altra stanza stava piangendo. L’infermiera s’alzò e corse via.
«Allora il dottore si chinò e avvolse la bambina nella coperta. Lestat aveva preso del denaro dalla tasca e l’aveva deposto ai piedi del letto. Il dottore gli disse quant’era contento che fossimo venuti a prenderla, che la maggior parte dei bambini erano orfani; arrivavano con le navi e spesso erano troppo piccoli persino per dire qual era il corpo della loro madre. Pensava che Lestat fosse il padre.
«Pochi istanti dopo, Lestat già correva per le strade col fagottino, il bianco della coperta che brillava contro il nero della sua giacca e del suo mantello; persino al mio occhio esperto sembrava talvolta che la coperta volasse nella notte senza che nessuno la reggesse, una forma in movimento che viaggiava nel vento come una foglia in posizione verticale, sospinta lungo un corridoio, cercando di superare il vento e di prendere veramente il volo. Lo raggiunsi vicino ai lampioni di Place d’Armes. La bambina giaceva pallida sulla sua spalla, le guance ancora piene come prugne, sebbene dissanguata e prossima alla morte. Aprì gli occhi, o piuttosto le palpebre le scivolarono indietro; e sotto le lunghe ciglia ricurve vidi una striscia di bianco. ‘Lestat, cosa stai facendo? Dove la stai portando?’ domandai. Ma lo sapevo benissimo. Andava in albergo e voleva portarla nella nostra stanza.
«I cadaveri erano come li avevamo lasciati, uno ben sistemato nella bara come se se ne fosse già occupato il becchino, l’altro sulla sedia vicino al tavolo. Lestat passò in fretta accanto a essi come se non li vedesse, mentre io l’osservavo affascinato. Le candele s’erano consumate tutte e le uniche luci erano la luna e la strada. Osservavo il suo profilo luccicante, di ghiaccio, mentre deponeva la bambina sul cuscino. ‘Vieni qui, Louis, non hai mangiato abbastanza, lo so’ mi disse con la stessa voce calma, persuasiva che aveva usato abilmente per tutta la sera. Mi teneva la mano nella sua, ferma, calda. ‘Guardala, Louis, com’è paffuta e dolce, come se neppure la morte potesse toglierle la freschezza; la voglia di vivere è troppo forte! La morte potrà fare una scultura delle sue piccole labbra e delle sue mani rotondette, ma non potrà farla appassire! Ti ricordi come la volevi quando la vedesti in quella stanza?’ Io gli resistevo. Non volevo ucciderla. Non l’avevo voluto la notte prima. E poi improvvisamente ricordai quel conflitto fra due forze e fui dilaniato dall’angoscia: ricordai il potente battito del suo cuore contro il mio e lo desiderai, lo desiderai così ardentemente che voltai le spalle al suo letto e mi sarei precipitato fuori dalla stanza se Lestat, velocissimo, non m’avesse trattenuto; ricordai il viso di sua madre e quel momento di orrore, quando avevo lasciato cadere la bambina e lui era entrato nella stanza. Eppure adesso non mi stava prendendo in giro; ero confuso. ‘Tu la vuoi, Louis. Non capisci? Una volta uccisa lei, potrai uccidere chiunque tu desideri. La volevi ieri notte, ma ti sei intenerito, ecco perché non è morta’. Era vero; avrei riprovato il piacere d’essere stretto a lei, col suo piccolo cuore che batteva e batteva. ‘E troppo forte per me… il suo cuore, non si arrende mai’ gli dissi. ‘È davvero così forte?’ Lestat sorrise. Mi tirò accanto a lui. ‘Prendila, Louis, so che la vuoi’. E io lo feci. M’accostai al letto e mi fermai a guardarla. Il suo petto si muoveva appena e una delle sue manine era impigliata nei lunghi capelli d’oro. Non riuscivo a sopportarlo: la guardavo, non volevo che morisse e la desideravo; e più la guardavo, più sentivo il sapore della sua pelle, il mio braccio che scivolava sotto la sua schiena e la tirava su contro di me, il suo morbido collo. Morbida, morbida, ecco cos’era, tanto morbida. Cercai di dirmi che era meglio per lei che morisse — che cosa ne sarebbe stato di lei? — ma erano menzogne. Io la volevo! E così la presi tra le braccia e la strinsi, la sua guancia ardente contro la mia, i suoi capelli che mi ricadevano sul polso e mi sfioravano le palpebre, il dolce profumo dell’infanzia forte e vibrante nonostante la malattia e la morte. Lei gemette, agitandosi nel sonno, e questo era più di quanto potessi sopportare. L’avrei uccisa prima che si svegliasse, prima che se ne accorgesse. Le punsi la gola e udii Lestat che mi diceva, stranamente: ‘Basta un taglietto. È soltanto una piccola gola’. E gli obbedii.
«Non ti racconterò di nuovo come fu, tranne che fui rapito come prima, e come sempre quando si uccide, solo questa volta di più; mi si piegarono le ginocchia e m’abbandonai semidisteso sul letto, per succhiarla fino all’ultima goccia, e quel cuore martellava ancora, e non accennava a rallentare, non voleva arrendersi. E improvvisamente, mentre io continuavo a succhiare senza posa, e la parte istintiva di me aspettava che quei battiti si facessero sempre più lenti fino a cessare, Lestat mi strappò da lei. ‘Ma non è morta’ mormorai. Ma era tutto finito. I mobili della stanza emergevano dal buio. Rimasi stordito, a fissarla, troppo debole per muovermi, con il capo contro la testiera del letto, le mani sulla coperta di velluto. Lestat la tirò su, le parlò, chiamandola per nome. ‘Claudia, Claudia, ascoltami, torna in te, Claudia’. La portò fuori dalla stanza da letto nel salotto, parlando così piano che lo udivo a mala pena. ‘Sei malata, mi senti? devi fare come ti dico per star bene’. E allora, nella pausa che seguì, ripresi i sensi. Capii che cosa stava facendo: s’era tagliato il polso e l’aveva offerto a lei, e lei stava bevendo. ‘Ecco, così, cara; ancora’ le diceva. ‘Devi bere se vuoi guarire’.
«‘Maledetto!’ gridai, e lui mi fulminò con occhi di fiamma. Sedeva sul divano con la bambina avvinta al polso. Vidi la manina bianca di lei che gli stringeva la manica, e il petto di lui che si sollevava nel respiro, il suo viso contorto come non l’avevo mai visto. Emise un gemito e le sussurrò ancora di continuare; quando mi affacciai alla soglia, mi guardò ancora, come per minacciarmi: ‘Ti ucciderò!’
«‘Ma perché, Lestat?’ gli sussurrai. Ora lui stava cercando di staccarsela di dosso, e lei non voleva mollare. Con le dita attanagliate alla mano e al braccio di lui, teneva quel polso quasi sulla bocca, ringhiando. ‘Basta, basta!’ le disse Lestat. Stava chiaramente soffrendo. Si staccò bruscamente da lei e le afferrò le spalle con entrambe le mani. Lei tentò disperatamente di raggiungere il polso coi denti, ma non ci riuscì; alla fine lo guardò con l’aria più innocente e meravigliata di questo mondo. Lestat indietreggiò, con le mani protese per impedirle di muoversi. Poi si mise un fazzoletto attorno al polso e si allontanò da lei, sempre all’indietro, verso il cordone del campanello. Lo tirò energicamente, tenendo ancora gli occhi fissi su di lei.
«‘Cos’hai fatto, Lestat?’ gli domandai. ‘Cos’hai fatto?’ La guardai. Sedeva composta, rianimata, piena di vita, senza alcuna traccia di pallore o di debolezza, con le gambe diritte in fuori sul damasco della sedia, l’abito bianco morbido e leggero come la tunica d’un angelo attorno al suo corpicino. Stava osservando Lestat. ‘Non me’ le disse lui, ‘mai più. Capisci? Ma t’insegnerò quel che devi fare!’ Quando cercai di farmi guardare da lui e di farmi spiegare che cosa stesse combinando, mi scrollò di dosso. Mi assestò un tale colpo col braccio che mi spedì contro la parete. Qualcuno bussò alla porta. Sapevo che cosa aveva in mente. Ancora una volta cercai di precederlo, ma lui girò su se stesso così velocemente che non lo vidi neppure colpirmi. Quando invece lo vidi, ero lungo disteso sulla poltrona e lui stava aprendo la porta. ‘Sì, entra per favore, c’è stato un incidente’ diceva al giovane schiavo. Chiuse la porta e lo assalì alle spalle così che il ragazzo non seppe mai cosa accadde. Piegandosi sul corpo a bere, fece un cenno d’invito alla bambina, che scivolò giù dal divano, si mise in ginocchio e prese il polso che le veniva offerto, sollevando velocemente il polsino della camicia. Sulle prime lo mordicchiò, come se volesse divorarne la carne, poi Lestat le mostrò come doveva fare. Si tirò indietro e le lasciò quel che restava, con lo sguardo fisso sul petto del ragazzo, così quando fu il momento si piegò in avanti e disse: ‘Basta così, sta morendo… Non devi mai bere dopo che si è fermato il cuore, altrimenti starai male di nuovo, male da morire; capito?’ Ma lei aveva bevuto abbastanza e si sedette accanto a lui, nella sua stessa identica posizione, con la schiena contro il divano e le gambe distese sul pavimento. In pochi secondi il ragazzo morì. Io mi sentivo stanco e nauseato, come se la notte fosse durata mille anni. Stavo seduto a guardarli: la bambina ora si avvicinava a Lestat, gli si rannicchiava accanto col braccio di lui intorno alle spalle, sebbene i suoi occhi indifferenti rimanessero inchiodati sul cadavere. Poi sollevò lo sguardo verso di me.
«‘Dov’è la mamma?’ chiese dolce la bambina. La sua voce era pari alla sua bellezza, chiara come un campanello d’argento. Sensuale. Lei era sensuale. Aveva occhi grandi e luminosi come quelli di Babette. Naturalmente, io mi rendevo conto a malapena di che cosa significava tutto questo. Mi rendevo conto solo di che cosa avrebbe potuto significare, e ne ero inorridito. Lestat si alzò, sollevandola su dal pavimento, e venne verso di me. ‘È nostra figlia’ disse. ‘Tu vivrai con noi’. Le rivolse un sorriso radioso, ma i suoi occhi erano freddi, come se fosse tutto un orribile scherzo; poi guardò me, e sul suo viso vidi un’espressione convinta. La spinse verso di me. Me la trovai in grembo; la circondai con le braccia, sentendo di nuovo com’era morbida, tenera la sua pelle, come quella d’un frutto tiepido, di prugne scaldate al sole; i suoi immensi occhi luminosi mi fissavano con curiosità e fiducia. ‘Questo è Louis, e io sono Lestat’ le disse lui, lasciandosi cadere accanto a lei. Lei si guardò intorno e disse che era una stanza carina, molto carina, ma che voleva la sua mamma. Lestat aveva estratto il pettine e lo passava tra i capelli della bimba, tenendole i boccoli in modo da non tirarli: i capelli si sbrogliavano diventando come raso. Era la bambina più bella che avessi mai visto, e ora risplendeva del freddo fuoco di un vampiro. I suoi occhi erano gli occhi di una donna, lo vedevo già. Sarebbe diventata bianca e esile come noi ma non avrebbe perso le sue fattezze. Capii allora quello che aveva detto Lestat sulla morte, che cosa aveva voluto dire. Le toccai il collo là dove due ferite rotonde sanguinavano un poco. Raccolsi il fazzoletto di Lestat da terra e glielo accostai al collo. ‘La tua mamma ti ha lasciato con noi. Vuole che tu sia felice’ le stava dicendo lui con quello stesso tono di sconfinata sicurezza di sé. ‘Sa che noi possiamo renderti molto felice’.
«‘Ne voglio ancora’ fece lei, indicando il cadavere sul pavimento.
«No, non stanotte; domani notte’ disse Lestat. E andò a liberare la sua bara del cadavere della donna. La bambina mi scivolò dal grembo e io la seguii. Osservò Lestat che sistemava sul letto le due giovani e lo schiavo, tirandogli su le coperte fino al mento. ‘Stanno male?’ chiese la bimba.
«‘Sì, Claudia’ riprese lui. ‘Stanno male e sono morti: perché quando beviamo il loro sangue muoiono’. Andò verso di lei e la prese ancora in braccio. Io ero ipnotizzato da lei, da lei trasformata, da ogni suo gesto. Non era più una bambina, era una bambina vampiro. ‘Sicché, Louis stava per lasciarci’ continuò Lestat, con lo sguardo che si spostava dal mio viso a quello di lei. ‘Stava per andare via. Ma adesso ha cambiato idea: vuole restare per prendersi cura di te e farti felice’. Mi guardò. ‘Non te ne vai, vero, Louis?’
«‘Sei un bastardo!’ gli sussurrai. ‘Un demonio!’
«‘Che linguaggio di fronte a tua figlia’ mi rimproverò Lestat.
«‘Non sono tua figlia’ osservò lei con voce argentina. ‘Sono figlia della mia mamma’.
«‘No, cara, non più’. Lestat lanciò un’occhiata alla finestra, poi chiuse dietro le nostre spalle la porta e girò la chiave nella serratura. ‘Sei nostra figlia, figlia di Louis e figlia mia, capisci? Ora, con chi potresti dormire? Con Louis o con me?’ Infine, guardandomi, disse: ‘Forse potresti dormire con Louis. Dopo tutto, quando sono stanco… non sono molto gentile’».
Il vampiro fece una pausa. Il ragazzo non disse nulla. «Una bambina vampiro!» mormorò infine. Improvvisamente il vampiro sollevò lo sguardo trasalendo, ma il suo corpo non si mosse; guardò il registratore come fosse qualcosa di mostruoso.
Il ragazzo s’accorse che il nastro era quasi finito. Con un gesto rapido, aprì la cartella e ne tirò fuori una nuova cassetta, che sistemò impacciato. Schiacciò il tasto della registrazione e guardò il vampiro: il suo viso aveva un aspetto molto stanco, tirato, gli zigomi sembravano più sporgenti e i suoi verdi occhi splendenti, enormi. Avevano iniziato col buio, che era venuto presto in quella notte d’inverno a San Francisco, e adesso non erano ancora le dieci. Il vampiro si drizzò e sorrise: «Siamo pronti per continuare?»
«Lestat aveva fatto questo alla ragazzina solo perché lei rimanesse?» chiese il ragazzo.
«Difficile dirlo. Forse era una specie di dimostrazione. Ma sono convinto che Lestat era una persona che preferiva non pensare né dare spiegazioni, neanche a se stesso. Un’uomo d’azione. Una persona che deve essere messa sotto grande pressione prima di confessare che ci sono metodo e riflessione nel suo modo di comportarsi. Così era successo quella notte. Lestat era stato spinto a rivelare, anche a se stesso, perché viveva a quel modo.Una delle ragioni che lo avevano convinto era stato senza dubbio il tentativo di trattenermi. Ma credo che volesse lui stesso capire le ragioni per cui uccideva, esaminare la propria vita. Aveva scoperto in che cosa credeva nel momento stesso in cui me ne parlava. Comunque, desiderava certamente che io rimanessi. Con me faceva una vita che da solo non avrebbe mai fatto. Per fortuna, come ti ho detto, stavo bene attento a non intestargli mai nessuna proprietà, cosa che lo ha sempre mandato in bestia. Ma almeno su questo punto sono riuscito a non cedere». Il vampiro si mise improvvisamente a ridere. «Se penso a tutto quello che mi ha convinto a fare! Che strano! Riuscì a convincermi a uccidere una bambina, ma non a spartire il mio denaro». Scosse la testa. «Ma non era avidità, davvero, come puoi vedere. Era la paura che m’incuteva a rendermi avaro con lui».
«Ne parla come se fosse morto. Dice che Lestat era questo o quell’altro. È morto?» domandò il ragazzo.
«Non lo so» rispose il vampiro. «Può darsi. Ma ci arriveremo. Stavamo parlando di Claudia, no? C’è ancora qualcosa che volevo dire sulle ragioni di Lestat, quella notte. Lui non si fidava di nessuno. Era come una pantera, un predatore solitario, per sua stessa ammissione. Eppure quella notte mi aveva parlato; si era in qualche modo scoperto, semplicemente dicendo la verità. Aveva messo da parte il suo tono canzonatorio, la sua aria di condiscendenza. Aveva dimenticato, anche se per poco, la sua perpetua rabbia. E questo per Lestat era scoprirsi. Quando eravamo soli in quella strada buia, avevo sentito con lui una comunione che non avevo più provato da quando ero morto. Forse ha reso Claudia un vampiro per vendetta.»
«Vendetta, non solo su di lei, ma sul mondo» suggerì il ragazzo.
«Sì. Come ho detto, tutte le motivazioni di Lestat giravano attorno alla vendetta».
«Era cominciato tutto col padre? Con la scuola?»
«Non so. Ne dubito» rispose il vampiro. «Ma vorrei proseguire».
«Oh, sì, per favore, continui, deve continuare; voglio dire, sono solo le dieci». Il ragazzo mostrò l’orologio.
Il vampiro lo guardò e gli sorrise. Il viso del ragazzo cambiò. Divenne inespressivo, come se gli fosse venuto un colpo.
«Ti faccio ancora paura?» chiese il vampiro.
Il ragazzo non rispose, ma si ritrasse un poco dall’orlo del tavolo. Il suo corpo s’allungò, i piedi si protesero sulle nude assi e poi si contrassero.
«Se non avessi paura, penserei che sei un incosciente» disse il vampiro. «Ma non averla. Vogliamo continuare?»
«La prego» fece il ragazzo, indicando con le mani l’apparecchio.
«Dunque» continuò il vampiro, «la nostra vita era molto cambiata con Mademoiselle Claudia, come puoi immaginare. Il suo corpo morì ma i suoi sensi si risvegliarono, com’era accaduto a me. Ne studiai i segni in lei quasi con devozione. Ma per parecchi giorni non mi resi conto di quanto la desideravo, di quanto mi piaceva parlare e stare con lei. Al principio, pensavo soltanto a proteggerla da Lestat. Ogni mattina me la portavo nella bara e cercavo di non perderla mai di vista. Era quello che voleva Lestat, che infatti ogni tanto lasciava intendere che avrebbe potuto farle del male. ‘Una bambina affamata è uno spettacolo spaventoso’ mi diceva, ‘ma un vampiro affamato è anche peggio’. Si sarebbero udite le sue grida fino a Parigi, diceva, se l’avesse rinchiusa per farla morire. Ma tutto questo era rivolto a me, per farmi riavvicinare e trattenermi lì. Già spaventato di fuggire da solo, non avrei mai potuto concepire questo rischio con Claudia. Era una bambina. Aveva bisogno di cure.
«E provavo molto piacere a prendermi cura di lei. Dimenticò subito i suoi cinque anni di vita mortale, o almeno così sembrava, perché era misteriosamente tranquilla. E di tanto in tanto temevo addirittura che avesse perso completamente il senno, che la malattia della sua vita mortale, combinata con il grande choc della trasformazione in vampiro, potesse averla privata della ragione; ma, come dimostrarono i fatti, non era così. Era solo talmente diversa da me e da Lestat che non riuscivo a capirla; perché era, sì, una bimbetta, ma anche una feroce assassina, capace di darsi alla caccia spietata del sangue con tutta l’ostinazione di un bambino. E sebbene Lestat continuasse a minacciare me di fare del male a lei, non minacciava affatto lei, anzi era affettuoso, fiero della sua bellezza, ansioso di insegnarle che dovevamo uccidere per vivere e che noi non saremmo mai morti.
«A quel tempo la peste infuriava in città, come t’ho detto, e Lestat la portava in fetidi cimiteri dove le vittime della febbre gialla e della peste giacevano accatastate, mentre il rumore delle pale non cessava mai, giorno e notte. ‘Questa è la morte’ le diceva, indicandole il cadavere putrefatto di una donna, ‘che noi non possiamo patire. I nostri corpi resteranno sempre come sono, freschi e vivi; ma non dobbiamo mai esitare a dare la morte; perché di questo viviamo’. E Claudia contemplava con liquidi occhi imperscrutabili.
«Se non c’era discernimento in lei in quei primi anni, non c’era neppure ombra di paura. Muta e bella, giocava con le bambole, vestendole e svestendole per ore. Muta e bella, uccideva. E anch’io, trasformato dall’insegnamento di Lestat, cercavo ormai esseri umani. Ma non era soltanto uccidendoli che alleviavo in me quella pena che era stata costante nelle notti buie, immote di Pointe du Lac, quando avevo come sola compagnia Lestat e il vecchio; erano anche le grandi folle ondeggianti che invadevano le strade, che non si addormentavano mai, i cabaret sempre aperti, i balli fino all’alba, la musica e le risa che uscivano a fiotti dalle finestre spalancate; la gente tutt’intorno a me, le mie vibranti vittime, che non vedevo più con quel grande amore che avevo provato per mia sorella e per Babette, ma con un nuovo tipo di distacco e di bisogno. E io le uccidevo, assassini infinitamente vari e a grande distanza l’uno dall’altro, e camminavo, con la vista e i movimenti leggeri di un vampiro, per la città brulicante, germogliante, circondato dalle vittime che mi seducevano, m’invitavano a cena al loro tavolo, nelle loro carrozze, nei loro bordelli. Indugiavo appena, quel tanto che mi bastava per prendere quello che dovevo, consolato nella mia grande malinconia da quel dono che la città mi faceva di una infinita teoria di magnifici estranei.
«Perché era così. Io mi nutrivo di estranei. Mi avvicinavo solo quel che bastava per vedere la vibrante bellezza, l’espressione unica, la voce nuova e appassionata, poi uccidevo prima che si potessero accendere in me quei sentimenti di ripulsa, quella paura, quella pena.
«Claudia e Lestat potevano cacciare, sedurre e restare a lungo in compagnia della vittima designata, che godeva di ottimo umore nella sua inconsapevole amicizia con la morte. Io invece ancora non ci riuscivo. Così per me quella popolazione smisurata era una manna, una foresta in cui mi smarrivo, incapace di fermarmi, girando vorticosamente e troppo veloce per pensare o per dolermi, più spesso accettando l’invito alla morte che invitando io stesso.
«Nel frattempo vivevamo in una delle mie case nel quartiere spagnolo, in Rue Royale, un lungo appartamento sontuoso al primo piano sopra un negozio che avevo affittato a un sarto, con un patio nascosto e ben protetto dalla strada, persiane di legno incassate e un portone con sbarre per il passaggio delle carrozze: un posto molto più lussuoso e sicuro di Pointe du Lac. La nostra servitù era gente libera di colore che ci lasciava alla nostra solitudine prima dell’alba per tornarsene a casa, e Lestat comprava gli ultimissimi oggetti d’importazione dalla Francia e dalla Spagna: candelieri di cristallo e tappeti orientali, paraventi di seta con dipinti uccelli del paradiso, canarini cinguettanti in grandi gabbie d’oro col tetto a cupola, divinità greche in marmo pregiato e vasi cinesi magnificamente dipinti. Non avevo bisogno di quel lusso più di quanto ne avessi prima, però mi ritrovai affascinato da quel nuovo diluvio di arte e artigianato, ed ero capace di restare a fissare per ore e ore il disegno intricato dei tappeti, o a osservare come i cupi colori d’un dipinto olandese mutassero alla luce d’una lampada.
«Claudia trovava tutto questo meraviglioso, con la tranquilla soggezione dei bambini non viziati, e rimase incantata quando Lestat assoldò un pittore per trasformare le pareti della sua stanza in una foresta magica di unicorni, uccelli dorati e alberi carichi di frutta sopra ruscelli scintillanti.
«Una fila interminabile di sarte, sarti, e calzolai venne nel nostro appartamento per vestire Claudia secondo la più raffinata moda per bambini: cosicché era sempre una visione, non solo di bellezza infantile, con le sue ciglia ricurve e le splendide chiome bionde, ma di gusto, nella moda dei cappellini finemente ornati, e nei guantini di merletto, nei soprabiti e nei mantelli di velluto lucente, negli abiti con le maniche a sbuffo, d’un bianco purissimo, con fasce azzurro brillante. Lestat giocava con lei come se fosse una splendida bambola, e anch’io; e fu in seguito alle suppliche di Claudia che abbandonai il nero stinto dei miei abiti per giacche da damerino, cravatte di seta, morbidi soprabiti, guanti grigi e mantelli neri. Lestat riteneva che per i vampiri il colore migliore per tutte le occasioni fosse il nero — probabilmente l’unico principio estetico che mantenne costante — ma non era contrario a nessun eccesso di eleganza. Adorava la bella figura che facevamo, tutti e tre in palco al nuovo Teatro dell’Opera Francese o al Théàtre d’Orléans, dove andavamo il più spesso possibili; Lestat nutriva una passione per Shakespeare che mi strabiliò, sebbene spesso durante le opere sonnecchiasse, risvegliandosi appena in tempo per invitare qualche bella signora a una cena di mezzanotte in cui usava tutta la sua abilità per farla innamorare completamente di lui, e spedirla poi violentemente in paradiso o all’inferno e tornare a casa con un anello di brillanti da regalare a Claudia.
«Durante tutto questo periodo io educavo Claudia, mormorandole nelle piccole conchiglie delle orecchie che la nostra vita eterna era sprecata se non vedevamo la bellezza attorno a noi, le creazioni dei mortali in ogni luogo; incessantemente sondavo la profondità del suo sguardo immoto quando prendeva i libri che le davo, sussurrava le poesie che le insegnavo, e suonava al piano con tocco leggero ma sicuro delle sue canzoni strane. Alle volte si immergeva per ore nelle illustrazioni di un libro o mi ascoltava leggere, talmente immobile che la vista mi turbava, e dovevo posare il libro, e guardarla fissamente attraverso la stanza illuminata; allora lei si muoveva, come una bambola che prendesse vita e diceva con voce dolcissima che dovevo leggere ancora un poco.
«Poi incominciarono a succedere cose strane, perché, nonostante Claudia parlasse poco e fosse ancora la bimba paffuta dalle dita rotondette, la trovavo appoggiata al bracciolo della mia poltrona a leggere le opere di Aristotele o di Boezio o un nuovo romanzo che aveva appena attraversato l’Atlantico. Oppure a suonare brani di Mozart ascoltati soltanto la sera prima, con un orecchio infallibile e una concentrazione che la rendevano spettrale, seduta per ore e ore a scoprire la musica: la melodia, poi il basso, e infine tutto insieme. Claudia era un mistero. Era impossibile dire che cosa sapesse o non sapesse. E vederla uccidere faceva rabbrividire. Stava da sola nella piazza buia ad apettare che qualche signore o signora di buon cuore la trovasse, con uno sguardo ancora più inespressivo di quello che avevo mai veduto in Lestat. Come una bimba inebetita dalla paura sussurrava la sua invocazione d’aiuto ai suoi gentili, ammirati protettori, e quando la portavano in braccio via dalla piazza, gli incollava le braccia attorno al collo, la lingua fra i denti, e la vista offuscata da un desiderio consumante. Le sue vittime trovavano velocemente la morte, in quei primi anni, prima che Claudia imparasse a giocare con loro, a condurli al negozio delle bambole o al caffè dove le offrivano tazze fumanti di cioccolata o di tè per farle tornare il colore alle pallide guance, tazze che lei respingeva, attendendo, attendendo, come se banchettasse silenziosamente sulla loro terribile gentilezza.
«Ma a parte questo, Claudia era la mia compagna, la mia alunna; oh, le lunghe ore che passava con me, consumando sempre più velocemente la conoscenza che le offrivo, dividendo con me una pacata comprensione che non poteva includere Lestat. All’alba si coricava con me, il suo cuore pulsante contro il mio cuore, e molte volte quando la guardavo — quand’era intenta alla sua musica o a dipingere, e non sapeva che ero nella stanza — pensavo a quello che avevo vissuto con lei e con nessun altro, pensavo che l’avevo uccisa, le avevo tolto la vita, avevo bevuto fino in fondo il suo sangue in quell’abbraccio fatale prodigato a tanti altri, altri che ora marcivano nella terra umida. Ma lei viveva, viveva per gettarmi le braccia al collo, premere il suo minuscolo arco di Cupido sulle mie labbra e accostare i suoi occhi brillanti ai miei finché le nostre ciglia si toccavano e, ridendo, volteggiavamo per la stanza come presi dal valzer più sfrenato. Padre e Figlia; Innamorato e Innamorata. Ero felice che Lestat non ci invidiasse per questo, ma si limitasse a sorridere da lontano, aspettando che Claudia andasse da lui. Allora la portava fuori, in strada, e mi salutavano agitando le mani sotto la finestra, allontanandosi per dividere quello che avevano in comune: la caccia, la seduzione, l’omicidio.
«Trascorsero anni in questa maniera. Anni e anni e anni. Eppure fu solo dopo qualche tempo che mi resi conto di un fatto ovvio riguardo a Claudia. Suppongo, dall’espressione della tua faccia, che tu l’abbia già indovinato, e ti domanderai perché allora io non abbia fatto altrettanto. Posso solo dirti che il tempo non è lo stesso per me, né lo era allora per noi. Un giorno non si legava a quello seguente come in una catena rigida; piuttosto, la luna sorgeva sopra onde sciabordanti».
«Il suo corpo!» disse il ragazzo. «Non sarebbe mai cresciuta».
Il vampiro annuì. «Sarebbe stata per sempre il demone bambino» mormorò, con aria assorta. «Proprio come io sono il giovane che ero quando morii. E Lestat? Lo stesso. Ma la mente di Claudia era quella di un vampiro. Mi sforzavo di capire come stesse entrando nella maturità. Ora parlava di più, sebbene fosse sempre una persona riflessiva, capace di ascoltarmi pazientemente per ore senza interrompere. Ma sempre più il suo viso di bambola sembrava abitato da due occhi adulti totalmente consapevoli, e l’innocenza sembrava smarrita da qualche parte insieme ai giocattoli negletti e a una pazienza in qualche grado minore. C’era qualcosa di tremendamente sensuale in quel suo ciondolare sul divano con una carnicina da notte di pizzo trapunta di perle; era diventata una seduttrice misteriosa e potente, la voce chiara e dolce come sempre, ma con una risonanza femminea, una malizia che risultava sconvolgente. Stava tranquilla come d’abitudine per giorni, poi d’un tratto saltava su a farsi beffe delle previsioni di guerra di Lestat; oppure, bevendo sangue da un bicchiere di cristallo, si lamentava che non c’erano libri in casa, diceva che dovevamo procurarcene anche se avessimo dovuto rubarli e poi mi raccontava freddamente di una biblioteca di cui aveva sentito parlare, in uno splendido palazzo di Faubourg St. Marie, di una donna che collezionava libri come se fossero pietre o farfalle sotto vetro. Mi chiedeva se potevo farla entrare nella camera da letto della donna.
«In momenti come quelli ero inorridito; la sua mente era imprevedibile, inconoscibile. Ma poi si sedeva sulle mie ginocchia, mi infilava le dita nei capelli, e si metteva a sonnecchiare contro il mio cuore, sussurrandomi dolcemente che non sarei mai diventato grande come lei finché non mi fossi reso conto che uccidere era la cosa più seria, non i libri, non la musica. ‘Sempre la musica…’ mormorava. ‘Bambola, bambola’ la chiamavo. Ecco cos’era. Una bambola magica. Riso e intelligenza senza fine e il viso dalle guance rotonde, la bocca di bocciolo. ‘Lascia che ti vesta, che ti spazzoli i capelli’ le dicevo per vecchia abitudine, consapevole che mi sorrideva e mi guardava con un’espressione appena velata di noia. ‘Fai come vuoi’ mi alitava nell’orecchio mentre io mi chinavo ad allacciarle i bottoni di perle. ‘Solo, uccidi con me stanotte. Non lasci mai che ti veda quando uccidi, Louis!’
«Voleva una bara per sé, adesso, cosa che mi ferì più di quanto le lasciassi vedere. Uscii per una passeggiata dopo averle dato il mio consenso; avevo dormito con lei come se fosse parte di me per tanti anni che non riuscivo a contarli. Ma poi la trovai vicino al convento delle Orsoline, un’orfana smarrita nel buio: corse all’improvviso verso di me e mi si avvinghiò con una disperazione umana. ‘Non la voglio se ti ferisce’ mi confidò così piano che un essere umano che ci avesse abbracciato entrambi non l’avrebbe udita né avrebbe avvertito il suo respiro. ‘Starò con te sempre. Ma la devo vedere: non capisci? Una bara da bambino’.
«Dovevamo andare dal fabbricante di bare. Una commedia, anzi una tragedia in un atto: l’avrei lasciata nel salottino e in anticamera avrei confidato al falegname che lei doveva morire. Deve avere il meglio, ma non deve sapere; e il falegname, turbato dalla tragedia, doveva costruirgliela apposta, immaginandosela distesa sul raso bianco; asciugando una lacrima spuntata nonostante l’abitudine…
«‘Ma, perché, Claudia…’ la supplicai. ‘Mi ripugnava farlo, mi ripugnava giocare al gatto col topo con quell’uomo indifeso. Ma poiché l’amavo disperatamente, ve la condussi e la misi sul sofà, dove lei sedette con le mani ripiegate in grembo, il cappellino calato sugli occhi come se non sapesse che cosa stavamo sussurrando sul suo conto nel foyer. L’impresario di pompe funebri era un vecchio, raffinatissimo uomo di colore che mi prese subito da parte temendo che ‘la piccina’ potesse sentire. ‘Ma perché deve morire?’ mi supplicò, come se fossi io il dio che lo decretava. ‘Il suo cuore, non può vivere’ gli risposi, parole che assumevano per me una sfumatura particolare, una risonanza che mi turbava. L’emozione dipinta sulla sua faccia lunga, solcata da rughe profonde, mi confondeva; mi tornò alla mente qualcosa, la qualità di una luce, un gesto, un suono… una bimba che piangeva in una stanza fetida. Ora l’uomo apriva una dopo l’altra le sue lunghe stanze e mi mostrava le casse da morto; lacca nera e argento, era quella che faceva per lei. E mi trovai a salutarlo, a uscire dal negozio di pompe funebri, afferrando precipitosamente la mano di Claudia. ‘L’ordinazione è stata fatta’ le dissi. ‘Tutto questo mi fa diventar pazzo!’ Respirai l’aria fresca della strada come se fossi stato sul punto di soffocare, e vidi il suo viso privo di compassione che studiava il mio. Infilò di nuovo la sua manina guantata nella mia. ‘La voglio, Louis’ mi spiegò pazientemente.
«E una notte salì con Lestat le scale delle pompe funebri, per prendersi la bara, e lasciò l’uomo, che non si era reso conto di niente, morto, accasciato sulle pile di carte polverose della scrivania. Ed ecco la bara nella nostra stanza, dove a volte Claudia la osservava per ore, quand’era nuova, come se fosse una cosa mobile o viva, o come se le svelasse poco per volta qualche mistero, come fanno le cose che mutano. Ma non ci dormiva dentro. Dormiva con me.
«In Claudia avvennero altri cambiamenti, ma non saprei dire quando né in che successione. Non uccideva più indiscriminatamente. Ora seguiva schemi molto precisi. La povertà cominciava ad affascinarla; pregava Lestat o me di andare in carrozza attraverso il Faubourg St. Marie alle case lungo il fiume dove vivevano gli emigrati. Sembrava ossessionata dalle donne e dai bambini. Lestat mi raccontava queste cose con grande divertimento, perché io aborrivo andarci e talvolta non mi lasciavo persuadere in nessun modo. Ma lì Claudia aveva una famiglia, i cui componenti eliminò uno dopo l’altro. Ci aveva chiesto anche di penetrare nel cimitero del sobborgo di Lafayette e girovagare per le alte tombe di marmo alla ricerca di quei disperati che, non avendo altro posto dove dormire, spendono il poco che hanno in una bottiglia di vino, e si trascinano carponi in una tomba marcescente. Lestat ne era colpito, quasi commosso. Che quadro faceva di lei, la morte bambina, la chiamava; sorella morte, e dolce morte; e per me, per canzonarmi, aveva coniato un’espressione che accompagnava con un largo inchino, morte misericordiosa! e lo pronunciava come una donna che batte le mani e strilla a un eccitante pettegolezzo: ‘Oh, cielo misericordioso!’ tanto che volevo strangolarlo.
«Ma non avvenivano litigi. Ognuno stava sulle sue. Avevamo trovato delle forme di compromesso. I libri riempivano il nostro grande appartamento dal pavimento fino al soffitto, una fila dietro l’altra di volumi di pelle lucente: Claudia e io perseguivamo i nostri naturali interessi e Lestat si occupava dei suoi acquisti stravaganti. Finché lei cominciò a fare domande».
Il vampiro tacque. E il ragazzo aveva lo stesso aspetto ansioso di prima, come se pazientare gli costasse uno sforzo enorme. Ma il vampiro aveva congiunto le lunghe dita bianche come a formare un campanile, poi le aveva piegate e aveva premuto le palme l’una contro l’altra. Era come se si fosse scordato completamente del ragazzo. «Avrei dovuto saperlo» riprese, «che era inevitabile, e avrei dovuto riconoscerne le avvisaglie. Perché ero così in sintonia con lei; l’amavo così totalmente; era la mia grande compagna di ogni ora di veglia, la sola compagna che avevo, oltre alla morte. Avrei dovuto saperlo. Ma qualcosa in me era conscio di un enorme abisso di oscurità molto vicino a noi, come se fiancheggiassimo sempre un dirupo e potessimo vederlo all’improvviso ma troppo tardi, se avessimo preso la direzione sbagliata o se ci fossimo immersi troppo nei nostri pensieri. Talvolta il mondo fisico che avevo attorno mi sembrava irreale, tranne per quell’oscurità. Come se stesse per aprirsi una voragine nella terra e io potessi vedere la grande crepa inghiottire la Rue Royale, e tutti gli edifici crollare polverizzati nel frastuono. Ma la cosa peggiore di tutte è che erano trasparenti, sottili come ragnatele, come sipari di seta. Ah… mi son distratto. Cosa stavo dicendo? Che ignorai i segni che Claudia mostrava, che m’aggrappavo disperatamente alla felicità che m’aveva dato. E mi dava ancora; tutto il resto lo ignoravo. «Ma ecco quali erano i segni. Divenne fredda con Lestat. Si metteva a osservarlo fissamente per ore. Quando lui le parlava, spesso non gli rispondeva, e non era facile dire se lo faceva per disprezzo o se non sentiva. Così la nostra fragile tranquillità domestica esplose con la rabbia di Lestat. Non aveva bisogno di essere amato, ma non voleva essere ignorato; e una volta perfino le si scagliò contro, gridando che l’avrebbe schiaffeggiata, e io mi trovai nell’antipatica posizione di dover litigare con lui, come anni e anni prima che Claudia entrasse nelle nostre vite. ‘Non è più una bambina’ gli sussurrai. ‘Non so che cosa sia. E una donna’. Lo invitai a non dare troppo peso al suo atteggiamento, e lui ostentò disdegno, ignorandola a sua volta. Ma una notte rientrò agitato e mi disse che lei lo aveva seguito; sebbene si fosse rifiutata di andare con lui a uccidere, dopo l’aveva seguito. ‘Che cosa le succede!’ mi disse lanciandomi occhiate di fuoco, come se io l’avessi messa al mondo e dovessi saperlo.
«E poi una notte la nostra servitù sparì. Due cameriere tra le migliori che avevamo mai avuto, madre e figlia. Il vetturino fu mandato a casa loro e tornò dicendo che erano sparite; poi il padre venne alla nostra porta, martellandola col battente. Fece un passo indietro sul marciapiede di mattoni e mi guardò con quel grave sospetto che prima o poi s’insinuava sul volto di tutti i mortali che ci conoscevano da qualche tempo, precursore della morte, come il pallore di una febbre fatale; cercai di spiegargli che non erano state da noi, né madre né figlia, e che dovevamo metterci a cercarle.
«‘È lei!’ sibilò Lestat dall’ombra, quando chiusi il cancello. ‘Chissà che cosa ha combinato! Ci ha messo tutti quanti in pericolo. Me lo farò dire da lei!’ e risalì la scala a chiocciola del cortile pestando i piedi. Sapevo che Claudia era scivolata fuori mentre stavo al cancello, e sapevo anche qualcos’altro: un vago fetore proveniva attraverso il cortile dalla cucina chiusa, inutilizzata; un fetore che si mescolava in maniera inquietante col profumo del caprifoglio — il fetore dei cimiteri. Udii Lestat che scendeva mentre io mi avvicinavo alle persiane deformate, sigillate dalla ruggine al piccolo edificio di mattoni. Nessun cibo veniva mai preparato là dentro, nessun lavoro vi veniva fatto, perciò giaceva come una vecchia tomba di cotto sotto i viticci del caprifoglio. Le persiane si allentarono, perché i chiodi s’erano trasformati in polvere, e sentii Lestat boccheggiare quando entrammo nel buio maleodorante. Erano distese là sui mattoni, madre e figlia insieme, il braccio della madre attorno alla vita della figlia, la testa della figlia sul petto della madre, entrambe imbrattate di feci e formicolanti di insetti. La persiana ricadde indietro e si levò una grande nuvola di moscerini, che dispersi agitando le mani in preda a un disgusto convulso. Delle formiche strisciavano indisturbate sulle palpebre e sulle bocche delle due morte, e alla luce della luna riuscivo a vedere la mappa infinita tracciata da argentei sentieri di lumache. ‘Maledetta!’ esplose Lestat, e io prontamente gli afferrai il braccio e lo trattenni, raccogliendo tutta la mia forza contro di lui. ‘Cosa vuoi farle?’ insistetti. ‘Cosa puoi fare? Non è più una bambina che farà quello che le diciamo solo perché siamo noi che lo diciamo. Dobbiamo insegnarle’. «‘Lei sa!’ Si staccò da me spolverandosi la giacca. ‘Lei sa! Sono anni che sa cosa deve fare, quel che si può e non si può rischiare. Non le lascerò fare queste cose senza il mio permesso! Non lo tollererò’.
«‘Perché, tu sei il padrone di tutti noi? Questo non gliel’hai insegnato. O doveva dedurlo dalla mia tranquilla remissività? Non credo. Ormai Claudia si sente esattamente uguale a noi. Ti dico che dobbiamo ragionare con lei, istruirla a rispettare ciò che è nostro. Come dovremmo fare tutti’.
«Uscì a grandi passi, evidentemente assorto in quello che gli avevo detto, sebbene non lo volesse ammettere. E andò a riversare la sua vendetta sulla città. Ma quando ritornò, stanco e sazio, Claudia non c’era ancora. Lestat si sedette contro il bracciolo di velluto del sofà e vi distese le lunghe gambe. ‘Le hai sepolte?’ mi domandò.
«‘Ne ho disposto’ risposi. Non mi andava di raccontare neppure a me stesso che avevo bruciato i loro resti nella vecchia stufa della cucina. ‘Ma resta il padre di cui occuparci, e il fratello’ gli dissi. Temevo la sua collera. Avrei voluto trovare subito un sistema per liquidare in fretta l’intera questione. Ma Lestat mi comunicò che il padre e il fratello non c’erano più: la morte s’era presentata a cena nella loro piccola casa vicino ai bastioni e s’era fermata a rendere grazie al Signore quando avevano finito. ‘Vino’ mormorò, facendo scorrere un dito sulle labbra. ‘Tutti e due avevano bevuto troppo. Mi son trovato a battere i pali dello steccato con un bastone, cercando di cavarne un motivetto’ rise. ‘Non mi piace ubriacarmi. E a te?’ Quando mi guardò dovetti sorridergli perché il vino gli stava facendo effetto ed era alticcio; e in quel momento, in cui il suo viso aveva assunto un’espressione bonaria e ragionevole, mi protesi verso lui e gli dissi: ‘Sento i passi di Claudia per le scale. Sii buono con lei. È tutto finito’.
«Claudia entrò, con i nastri del cappellino sfatti e gli stivaletti incrostati. Li guardavo ansioso, Lestat con un ghigno sulle labbra, lei che lo ignorava, come se non ci fosse. Teneva in braccio un mazzo di crisantemi bianchi, un mazzo così grande che la faceva apparire più piccina che mai. Il cappellino le cadde all’indietro, si arrestò un istante sulle spalle, e infine atterrò sul tappeto. E ovunque sui suoi capelli d’oro vidi sparsi i petali sottili dei crisantemi. ‘Domani è la festa di Ognissanti’ disse. ‘Lo sai?’
«‘Sì’ le risposi. È il giorno in cui a New Orleans tutti i fedeli si recano al cimitero per dedicarsi alla cura delle tombe dei loro cari. Imbiancano le pareti di stucco delle tombe di famiglia, puliscono i nomi incisi nelle lastre di marmo. E infine ornano le tombe di fiori. Nel cimitero di St. Louis, che era molto vicino a casa nostra, nel quale venivano sepolte tutte le grandi famiglie della Louisiana, dov’era sepolto anche mio fratello, c’erano persino delle panchine di ferro, collocate davanti alle tombe, dove le famiglie potevano ricevere altre famiglie che venivano al cimitero con lo stesso scopo. Era una festa, a New Orleans; a dei turisti impreparati avrebbe potuto sembrare una celebrazione della morte; al contrario, era una celebrazione della vita ultraterrena. ‘Ho comprato questo da uno dei fiorai’ disse Claudia. La sua voce era soave e impenetrabile. I suoi occhi opachi e senza emozione.
«‘Per quelle due che hai lasciato in cucina!’ disse Lestat con tono feroce. Per la prima volta, Claudia si voltò verso lui, ma non rispose nulla. Lo guardò come se non l’avesse mai visto prima. Poi mosse alcuni passi nella sua direzione e lo scrutò ancora come se lo stesse esaminando. Mi feci avanti. Sentivo l’ira di lui. La freddezza di lei. Poi, guardando un po’ me e un po’ lui, Claudia domandò:
«‘Chi di voi due l’ha fatto? Chi di voi mi ha reso quello che sono?’
«Non avrei potuto essere più sorpreso di fronte a qualsiasi altra cosa avesse detto o fatto. E tuttavia era inevitabile che il suo lungo silenzio venisse interrotto in questo modo. Ma sembrava che io non la interessassi. Teneva gli occhi fissi su Lestat. ‘Tu parli di noi come se fossimo sempre esistiti così come siamo ora’ disse con voce bassa, misurata, il tono infantile tornito dalla serietà di una donna. ‘Parli di loro là fuori come di mortali, di noi come vampiri. Ma non è sempre stato così. Louis aveva una sorella mortale, lo so. C’è un ritratto di lei nel suo baule. L’ho visto che lo guardava! Lui era mortale come lei; e anch’io lo ero. Se no perché queste dimensioni, questa forma?’ Aprì le braccia e lasciò cadere i crisantemi sul pavimento. Sussurrai il suo nome. Forse cercavo di distrarla. Ma era impossibile. La tempesta era ormai prossima. Lo sguardo di Lestat ardeva di una brama, di un piacere maligno.
«‘Sei tu che ci hai fatto come siamo, vero?’ lo accusò.
«Lestat inarcò le sopracciglia fingendo meraviglia. ‘Cosa sei tu?’ le chiese. ‘E vorresti essere qualche cosa di diverso da quello che sei?’ Tirò su le ginocchia e si chinò in avanti, stringendo gli occhi. ‘Sai da quant’è? Riesci a immaginarti? Devo trovarti una strega per farti vedere quale sarebbe ora il tuo aspetto mortale se ti avessi lasciata stare?’
«Claudia indietreggiò, stette immobile un istante come se non sapesse che fare, poi andò verso la poltrona accanto al caminetto, e vi si rannicchiò come il più indifeso dei bambini. Accostò le gambe al petto, col soprabito di velluto aperto, il vestito di seta teso attorno alle ginocchia, fissando le ceneri nel camino. Ma non c’era nulla di indifeso nel suo sguardo. I suoi occhi avevano una vita indipendente, come se il corpo fosse invasato.
«‘Potresti essere morta ormai, se tu fossi mortale!’ insistette Lestat, irritato dal suo silenzio. Descrisse un cerchio con le gambe, poi piantò gli stivali sul pavimento. ‘Mi senti? Perché me lo chiedi adesso? Perché ne fai una tragedia? Hai saputo per tutta la vita d’essere un vampiro’. Proseguì dicendo le stesse identiche cose che mi aveva detto e ridetto molte volte: conosci la tua natura, uccidi, sii ciò che sei. Ma tutto questo sembrava stranamente fuori luogo. Perché Claudia non aveva scrupoli a uccidere. Lei si appoggiò allo schienale della poltrona e fece ruotare lentamente la testa fino a vedere Lestat di fronte a sé. Di nuovo lo studiò come se fosse una marionetta. ‘Sei stato tu? E come?’ domandò, stringendo le palpebre. ‘Come hai fatto?’
«‘E perché dovrei dirtelo? È il mio potere’.
«‘Perché tuo soltanto?’ chiese lei con voce di ghiaccio e occhi insensibili. ‘Come hai fatto? ‘ domandò in preda a subitanea collera.
«La tensione era spasmodica. Lestat si alzò dal divano, e io balzai in piedi immediatamente, fronteggiandolo. ‘Falla smettere!’ mi urlò. Si torse le mani. ‘Fai qualcosa! Non la sopporto più!’ Si avviò verso la porta, ma si voltò e tornando sui suoi passi si avvicinò a Claudia fino a sovrastarla, avvolgendola in un’ombra profonda. Claudia levò su di lui lo sguardo, fissandolo senza paura, muovendo gli occhi avanti e indietro sul suo viso con totale distacco. ‘Posso disfare quello che ho fatto, se voglio. Tanto a te che a lui’ le disse Lestat, puntando il dito verso di me, dall’altra parte della stanza. ‘Siate felici di quello che siete’ ghignò. ‘O vi farò in mille pezzi!’».
«Sicché, la pace della casa era distrutta, anche se c’era tranquillità. Passarono giorni senza che Claudia facesse domande, sebbene ora fosse immersa in letture sull’occulto, sulle streghe e la stregoneria, e sui vampiri. Per la maggior parte roba di fantasia. Miti, racconti, a volte solo storie romantiche dell’orrore. Ma lei leggeva tutto, fino all’alba, tanto che mi toccava andarla a prendere per portarla a dormire.
«Nel frattempo Lestat aveva assunto un maggiordomo e una cameriera e aveva portato in casa una squadra di operai per costruire una grande fontana nel cortile con una ninfa di pietra che versava acqua da una conchiglia. Si fece portare dei pesci rossi e casse di ninfee da sistemare nella fontana in modo che i fiori restassero in superficie e tremassero nell’acqua perpetuamente mossa.
«Una donna l’aveva visto uccidere in Nyades Road, la strada che portava alla città di Carrolton, e se n’era parlato sui giornali, che lo associavano a una casa infestata dagli spiriti vicino a Nyades e Melpomene, cosa che lo deliziava. Lestat fu per qualche tempo lo spettro di Nyades Road, ma a un certo punto finì nelle ultime pagine; allora compì uno spaventoso delitto in un altro luogo pubblico e rimise in moto la fantasia di New Orleans. Ma in tutto questo si portava addosso come una specie di paura. Era meditabondo, sospettoso, mi si domandava continuamente dov’era Claudia, dov’era andata, cosa stava facendo.
«‘Starà benissimo’ lo rassicuravo, sebbene lei si allontanasse sempre più da me e io ne soffrissi atrocemente, come fosse stata mia moglie. Ormai mi vedeva a malapena, come prima non vedeva Lestat, e alle volte addirittura andava via mentre le stavo parlando.
«‘Farà meglio, a stare bene!’ ringhiò con aria cattiva.
«‘E se non fosse così, cosa faresti?’ gli chiesi, più impaurito che accusatorio.
«Mi guardò coi suoi freddi occhi grigi. ‘Occupati tu di lei, Louis. Parlale!’ disse. ‘Tutto andava a meraviglia, e adesso ecco qua. Non ce n’era proprio bisogno’.
«Ma io avevo deciso di lasciare che fosse lei a venire da me, e così avvenne. Fu una sera presto, mi ero appena svegliato. La casa era buia. La vidi in piedi accanto alle porte-finestre. Indossava un vestito con le maniche a sbuffo e una fascia rosa, e stava osservando con le ciglia abbassate la ressa serale in Rue Royale. Sentivo Lestat nella sua stanza, il rumore dell’acqua che cadeva dalla brocca, il debole profumo della sua colonia che andava e veniva come il suono della musica del caffè accanto a casa nostra. ‘Non mi dirà nulla’ mormorò Claudia. Non pensavo che si fosse accorta che avevo aperto gli occhi. Andai a inginocchiarmi accanto a lei. ‘Tu me lo dirai, vero, com’è accaduto?.’
«‘È questo che vuoi davvero sapere?’ le domandai, studiandole il viso. ‘Oppure è perché è stato fatto a te… e che cosa eri prima? Non capisco cosa intendi per come, perché se vuoi dire com’è successo in modo da poterlo fare a tua volta…’
«‘Non so neanche cosa intendi’ rispose con freddezza. Poi si girò e mi appoggiò le mani sul viso. ‘Uccidi con me stasera’ mi sussurrò con la sensualità di un’amante. ‘E dimmi tutto quello che sai. Che cosa siamo noi? Perché non siamo come loro?’ Guardò giù in strada.
«‘Non conosco la risposta alle tue domande’ le dissi. Il suo viso si contrasse, come se si sforzasse di udirmi al di sopra di un rumore improvviso. Poi scosse la testa. Ma io continuai. ‘Mi domando le stesse cose che ti domandi tu. Non lo so. Come è successo a me, ti posso dire che… che è stato Lestat. Ma il vero come, non lo so!’ Il suo viso appariva ancora teso come prima, vi leggevo le prime tracce di paura, o di qualcosa di ben più grave e più profondo della paura. ‘Claudia’ le dissi, appoggiando le mie mani alle sue e premendo delicatamente le palme. ‘Lestat ha una sola cosa saggia da dirti. Non fare queste domande. Sei stata la mia compagna per innumerevoli anni nella ricerca di tutto ciò che potevo apprendere sulla vita mortale e la creazione mortale. Ora non essere la mia compagna in questa ansietà. Lui non ci può dare le risposte. E io non ne ho’.
«Vedevo che non poteva accettarlo, ma non mi sarei mai immaginato la foga convulsa, la violenza con cui per un attimo si strappò i capelli, e poi si fermò, come se quel gesto fosse inutile, stupido. Mi riempì di apprensione. Stava guardando il cielo. Era del colore del fumo, senza stelle, attraversato da nubi veloci che venivano dal fiume. Claudia ebbe un movimento improvviso delle labbra come se se le fosse morsicate, poi si voltò verso di me e, sempre sussurrando, mi disse: ‘Allora lui mi ha fatto… è stato lui… non tu!’ C’era qualcosa di così terribile nella sua espressione che mi allontanai da lei prima ancora di rendermene conto. Stavo in piedi davanti al caminetto, accendendo una candela di fronte a un grande specchio. E là, a un tratto, vidi qualcosa che mi sbigottì, qualcosa che emerse dal buio dapprima come una maschera ripugnante, poi nella sua forma tridimensionale: un teschio essiccato. Lo guardai. Odorava ancora vagamente di terra, ma era stato pulito. ‘Perché non mi rispondi?’ chiese Claudia. Udii la porta di Lestat che si apriva. Lestat usciva subito appena alzato per uccidere, o almeno per trovare la preda. Io no.
«Io lasciavo che le prime ore della sera passassero tranquille, mentre la fame cresceva in me, finché il desiderio non diventava quasi troppo forte, in modo da abbandonarmici completamente, ciecamente. Sentii di nuovo con chiarezza la domanda di Claudia che fluttuava nell’aria come l’eco di una campana… e mi sentii battere forte il cuore. ‘È stato lui a farmi così, certo! L’ha detto lui. Ma tu mi nascondi qualcosa. Qualcosa a cui lui accenna quando lo interrogo. Dice che senza te non si sarebbe potuto fare!’
«Mi accorsi che stavo fissando il teschio, eppure la ascoltavo come se quelle parole mi frustassero, mi frustassero per farmi voltare e affrontare la sferza. Mi attraversò la mente il pensiero — somigliava più a una folata di freddo che a un pensiero — che nulla doveva rimanere di me se non un teschio come quello. Mi girai e vidi, alla luce che veniva dalla strada, gli occhi di Claudia, come due fiamme scure nel viso bianco. Una bambola a cui qualcuno avesse crudelmente strappato gli occhi e avesse messo al loro posto un fuoco demoniaco. Mi trovai ad andare verso lei, sussurrando il suo nome, mentre un pensiero mi si formava sulle labbra, poi moriva. Vidi un piccolo guantino sul pavimento che sembrava fosforescente nell’ombra, e per un brevissimo istante pensai che fosse una piccola mano recisa.
«‘Cos’è che ti tormenta…?’ Si fece più vicina, guardandomi in faccia. ‘Cos’è che ti ha sempre tormentato? Perché guardi così quel teschio, quel guanto?’ Lo chiese gentilmente, ma non abbastanza. C’era un leggero calcolo nella sua voce, un distacco inaccessibile.
«‘Ho bisogno di te’ le dissi senza volerlo. ‘Non posso sopportare l’idea di perderti. Sei la sola compagna che ho nell’immortalità’.
«‘Ma sicuramente ce ne sono altri! Non possiamo essere gli unici vampiri sulla faccia della terra!’ Glielo sentivo dire come l’avevo detto io, le mie stesse parole che ora tornavano indietro sull’onda della sua coscienza, della sua ricerca. Ma non c’è sofferenza, pensai. C’è solo urgenza, un’urgenza spietata. Abbassai lo sguardo su di lei. ‘Non sei uguale a me?’ Mi guardò. ‘Tu m’hai insegnato tutto quello che so’.
«‘Lestat ti ha insegnato a uccidere.’ Presi il guanto. ‘Su, vieni… usciamo. Voglio uscire…’ Farfugliavo, cercando di farle infilare a forza i guanti. Le sollevai la grande massa di capelli ricci e la posai delicatamente sul soprabito. ‘Ma tu m’hai insegnato a vedere!’ ribattè. ‘Mi hai insegnato le parole occhi di un vampiro… M’hai insegnato a bere il mondo, ad avere fame di più di…’
«‘Non ho mai pensato così quelle parole, occhi di vampiro’ risposi. ‘Hanno un suono diverso quando le dici tu…’ Lei mi tirava, cercando di costringermi a guardarla. ‘Vieni’ le dissi, ‘ho qualcosa da mostrarti…’ E svelto la condussi in fondo al corridoio e giù per la scala a chiocciola attraverso il cortile buio. Ma non sapevo cosa dovevo mostrarle più di quanto sapessi dove stavo andando. Sentivo solo che dovevo muovere in quella direzione, obbedendo a un sublime e tragico istinto.
«Correvamo per la città nelle prime ore della notte; il cielo sopra noi, ora che le nuvole erano sparite, era viola chiaro, le stelle piccole e pallide, l’aria intorno a noi afosa e fragrante anche quando ci allontanammo da quei giardini spaziosi, verso le strade squallide e strette dove i fiori erompono dalle fessure delle pietre e l’immenso oleandro proietta gli spessi gambi cerosi dei fiori bianchi e rosa come un’erbaccia mostruosa in terreni abbandonati. Udivo lo staccato dei passi di Claudia, che mi correva accanto senza chiedermi, neppure una volta, di rallentare; alla fine si fermò, guardandomi con un’espressione infinitamente paziente sul viso, in una strada stretta e buia dove in mezzo alle facciate spagnole restavano alcune vecchie case francesi dai tetti spioventi, piccole, antiche case, con l’intonaco segnato di bolle dove si sgretolavano i mattoni sottostanti. Avevo trovato la casa con uno sforzo cieco, conscio d’aver sempre saputo dov’era e d’averla sempre evitata, d’aver sempre svoltato prima di quell’angolo senza luce, perché non volevo passare davanti alla finestra bassa dove per la prima volta avevo sentito Claudia piangere. La casa era ancora in piedi. Sprofondata ancora più in basso di quanto fosse in quei giorni, nel vicolo attraversato dalle corde incurvate della biancheria, con l’erba alta lungo le basse fondamenta, le due finestre dell’abbaino rotte e rappezzate con stracci. Toccai le imposte. ‘È qui che ti vidi la prima volta’ le dissi, pensando di dirglielo in modo che capisse, e tuttavia già sentivo il gelo delle sue occhiate, la distanza del suo sguardo. ‘T’ho sentito piangere. Eri in una stanza con tua madre. E tua madre era morta. Morta da giorni, e tu non lo sapevi. T’aggrappavi a lei, piagnucolavi… piangevi in modo straziante, e il tuo corpo era bianco, febbricitante e affamato. Cercavi di svegliarla dalla morte, l’abbracciavi cercando calore, conforto dalla paura. Era quasi mattina e…’
«Mi portai le mani alle tempie. ‘Aprii le imposte… entrai nella stanza. Provavo pena per te. Pietà. Ma… anche dell’altro’.
«Vidi le sue labbra schiudersi, i suoi occhi spalancarsi. ‘Tu… ti sei cibato di me?’ mormorò. ‘Io sono stata la tua vittima!’
«‘Sì!’ le risposi. ‘Proprio così’.
«Ci fu un istante così teso e così doloroso da essere intollerabile. Claudia rimase completamente immobile nell’ombra, con quegli occhi immensi che raccoglievano la luce, mentre un’aria calda si levava improvvisamente col rumore di un soffio leggero. Poi Claudia si voltò. Udii il ticchettio delle sue scarpine. Corse via. E corse, corse. Io restai di ghiaccio, udendo quel rumore che si faceva sempre più lontano; poi mi voltai, la paura cresceva dentro di me, enorme e insormontabile, e le corsi dietro. Era impensabile che non riuscissi a prenderla, che non la raggiungessi immediatamente per dirle che l’amavo, che dovevo averla, dovevo trattenerla, e a ogni secondo che correvo per la strada buia, era come se lei mi scivolasse lontano, goccia a goccia; il mio cuore martellava, privo di nutrimento, batteva e si ribellava contro lo sforzo. Finché a un tratto mi arrestai. Claudia si era fermata sotto un lampione, lo sguardo fisso e muto, come se non mi conoscesse. La presi con ambo le mani per il vitino sottile e la sollevai alla luce. Mi studiava, col viso contratto, voltando la testa come se non volesse guardarmi in faccia, come stornando un’opprimente sensazione di ripulsa. ‘Tu mi hai ucciso’ mormorò. ‘Tu mi hai tolto la vita!’
«‘Sì’ le dissi, abbracciandola in modo da sentire il battito del suo cuore. ‘O piuttosto, ho provato a togliertela. A berla fino in fondo. Ma tu avevi un cuore come nessun altro che avessi mai sentito, un cuore che batteva e batteva finché dovetti lasciarti andare, dovetti gettarti via da me per paura che mi accelerassi il polso fino a farmi morire. E fu Lestat a scoprirmi; Louis il sentimentale, il babbeo, che banchetta con una bimba dai capelli d’oro, una Santa Innocente, una ragazzina. Lestat venne a prenderti all’ospedale dove t’avevano ricoverata, e io non sapevo cosa intendesse fare se non insegnarmi qual era la mia natura. Prendila, completa l’opera, mi disse. E io sentii di nuovo quella passione per te. Oh, lo so che ora ti ho perso per sempre. Te lo leggo negli occhi! Mi guardi come guardi i mortali, dall’alto, da una zona di fredda autosufficienza che non posso capire. Ma lo feci. Di nuovo provavo per te questa vile, insopportabile brama del tuo cuore martellante, di questa guancia, di questa pelle. Eri rosea e fragrante come sono i bambini mortali, dolce col sapore pungente del sale e della polvere. Ti abbracciai ancora, ti presi ancora. E quando pensai che il tuo cuore m’avrebbe ucciso e che non me ne importava, lui ci separò, si tagliò le vene del polso e te le offrì perché tu ne bevessi. E tu bevesti. Bevesti fino quasi a prosciugarlo, lo lasciasti che barcollava. Ormai tu eri un vampiro, e quella stessa notte tu bevesti il sangue di un umano, e da allora tutte le notti’.
«Il suo viso non era cambiato. La carne era come cera di candele color avorio; solo gli occhi tradivano la vita. Non avevo altro da dirle. La misi giù. ‘Ho preso la tua vita’ le dissi. ‘Lui te l’ha restituita’.
«‘E così è’ mormorò lei. ‘E vi odio tutti e due!’»
Il vampiro tacque.
«Ma perché gliel’ha detto?» domandò il ragazzo dopo una pausa rispettosa.
«Come potevo non dirglielo?» Il vampiro sollevò lo sguardo con un’espressione di moderato stupore. «Doveva saperlo. Doveva rendersi conto della situazione. Non era come se Lestat l’avesse presa nel pieno della vita come aveva preso con me. Io l’avevo colpita. Sarebbe morta! Non ci sarebbe stata per lei nessuna vita mortale. Ma che differenza fa? Per tutti noi morire è solo questione di anni. Così l’unica cosa che lei vide più nitidamente fu solo quello che sanno tutti gli uomini: che la morte verrà inevitabilmente, a meno di scegliere… questo!» Aprì le sue bianche mani e si osservò le palme.
«E la perse? Claudia se ne andò?»
«Andarsene! E dove sarebbe andata? Era una bambina non più grande di così. Chi le avrebbe dato asilo? Avrebbe potuto trovarsi una tomba, come i vampiri delle leggende, e stare tra i vermi e le formiche di giorno e di notte infestare qualche piccolo cimitero e i suoi dintorni? Ma non è per questo che non andò. C’era qualcosa in lei di profondamente affine a me. Quella stessa cosa che c’era anche in Lestat. Non potevamo tollerare di vivere soli! Avevamo bisogno della nostra piccola compagnia! Una landa selvaggia di mortali ci circondava, brancolanti, ciechi, oppressi dai pensieri, spose e sposi della morte.
«‘Uniti dall’odio!’ mi disse dopo con calma. La trovai presso il focolare vuoto, che staccava i fiorellini da un lungo stelo di lavanda. Ero talmente sollevato nel vederla lì che avrei fatto e detto qualunque cosa. E quando la sentii chiedermi a voce bassa se le avrei raccontato tutto quello che sapevo, lo feci con gioia. Tutto il resto era niente in confronto a quel vecchio segreto, al fatto che io avevo preteso la sua vita. Le parlai di me come ne ho parlato con te, le dissi come Lestat venne da me e che cosa successe la notte che la portò via da quel piccolo ospedale. Non faceva domande e solo di tanto in tanto sollevava lo sguardo dai fiori. E poi, quando il racconto fu finito e io fissavo ancora quel teschio orrendo, ascoltavo il rumore delicato dei petali che scivolavano sul suo vestito e sentivo nelle membra e nello spirito un cupo tormento, lei mi disse: ‘Io non ti disprezzo!’ Mi risvegliai. Scivolò giù dall’alto cuscino rotondo di damasco e venne verso di me, coperta dal profumo dei fiori, coi petali in mano. ‘È questa la fragranza dei fanciulli mortali?’ sussurrò. ‘Louis. Amore’. Ricordo che l’abbracciai e seppellii la testa nel suo piccolo petto, stringendole forte le spalle da uccellino, mentre le sue manine mi penetravano nei capelli, calmandomi, stringendomi. ‘Sono stata mortale per te’ disse, e quando alzai gli occhi la vidi sorridere; ma la dolcezza sulle sue labbra era evanescente, e un attimo dopo il suo sguardo mi aveva oltrepassato, come quello di chi cerca di sentire una musica fievole, ma importante. ‘Mi hai dato il tuo bacio immortale’ disse, ma non a me, a se stessa. ‘Mi hai amato con la tua natura di vampiro’.
«‘Ti amo ora con la mia natura umana, se mai l’ho avuta’ le risposi.
«‘Ah, sì…’ rispose sempre meditabonda. ‘Sì, ed è questo il tuo errore, per questo il tuo viso era infelice quando dissi, come fanno gli uomini: Ti odio, e per questo mi guardi come ora mi guardi. Natura umana. Io non ho nessuna natura umana. E nessuna storiella del cadavere di una madre o di stanze d’albergo dove i bambini apprendono la mostruosità può darmela. Io non ne ho. I tuoi occhi si fanno freddi di paura quando te lo dico. Eppure io parlo la tua stessa lingua. Ho la tua stessa passione per la verità. Il tuo bisogno di spingere l’ago della mente fino al cuore del problema, come il becco del colibrì, che sbatte le ali così selvaggio e veloce che i mortali potrebbero pensare che non abbia zampette, che non possa mai posarsi, ma solo andare di cerca in cerca, sempre bramando quel cuore. Io sono la tua anima di vampiro più di quanto lo sia tu stesso. E adesso il sonno di sessantacinque anni è finito’.
«Il sonno di sessantacinque anni è finito! Glielo sentii dire senza poterci credere, senza voler credere che sapesse e volesse dire esattamente quello che aveva detto. Perché erano passati esattamente quegli anni dalla notte in cui cercai di lasciare Lestat e non ci riuscii, e, innamorandomi di lei, dimenticai il mio cervello pulsante, le mie terribili domande. E adesso lei aveva quelle terribili domande sulle labbra e doveva sapere. Si diresse lentamente verso il centro della stanza e sparpagliò tutt’intorno la lavanda accartocciata. Spezzò il fragile stelo e se lo portò alle labbra. Continuò: ‘Allora lui mi ha fatto… perché fossi la tua compagna. Nessuna catena avrebbe potuto trattenerti nella tua solitudine, e lui non poteva darti nulla. A me non da nulla… una volta lo trovavo affascinante. Mi piaceva come camminava, come batteva il selciato col bastone da passeggio, come mi prendeva in braccio facendomi volteggiare in aria. E l’abbandono con cui uccideva, che era lo stesso che provavo io. Ma non lo trovo più affascinante. E tu non l’hai mai fatto. Siamo stati i suoi burattini, tu e io; tu che sei rimasto per prenderti cura di lui, e io la tua compagna salvatrice. È ora di farla finita, Louis. È ora di lasciarlo’.
«Ora di lasciarlo.
«Non ci avevo pensato, non l’avevo sognato più da tanto tempo. Avevo finito per abituarmi a lui, come a una condizione della vita stessa. Udii un insieme confuso di suoni, il che voleva dire che che lui era entrato in cortile e presto sarebbe stato sulle scale posteriori. E pensai a quello che provavo sempre quando lo sentivo arrivare, una vaga ansietà, un vago bisogno. E poi il pensiero d’essere libero da lui per sempre mi travolse, come una freschezza che avevo scordato, onde e onde di acqua fresca. Ero in piedi e sussurrai a Claudia che lui stava arrivando.
«‘Lo so’ sorrise. ‘L’ho sentito quando ha svoltato l’angolo laggiù’.
«‘Ma non ci permetterà mai di partire’ mormorai, sebbene avessi afferrato il profondo significato delle sue parole; i suoi sensi di vampiro erano acuti. Stava en guarde magnificamente. ‘Ma tu non lo conosci se pensi che ci lascerà andare’ le dissi, allarmato dalla sua sicurezza. ‘Non lo permetterà’.
«E lei, sempre sorridendo, rispose: ‘Oh… davvero?’»
«Decidemmo di organizzarci. Immediatamente. La notte seguente venne il mio agente, lamentandosi come al solito perché doveva parlare di affari alla luce di una sola misera candela, e ricevette i miei ordini espliciti per una traversata dell’oceano. Claudia e io volevamo andare in Europa, con la prima nave disponibile; poco importava per quale porto. La cosa fondamentale era che con noi viaggiasse una grande cassa, che bisognava trasportare con attenzione da casa nostra durante il giorno e sistemarla a bordo, non nella stiva, ma nella nostra cabina. E poi c’erano le disposizioni per Lestat. Avevo stabilito di lasciargli le rendite di diversi negozi e case di città e di una piccola società di costruzioni che operava in Faubourg Marigny. Firmai tutto senza indugio. Volevo comprare la nostra libertà: convincere Lestat che volevamo soltanto fare un viaggio insieme e che lui poteva continuare a vivere nello stile al quale era abituato: avrebbe avuto denaro suo e non si sarebbe dovuto rivolgere a me per nulla. Per tutti questi anni, dal punto di vista finanziario, era dipeso da me. Certo, esigeva i suoi quattrini come se io fossi soltanto il suo banchiere e mi ringraziava con le parole più sgradevoli che trovava; ma detestava questa dipendenza. Speravo di sviare il suo sospetto giocando sulla sua avidità. Ma, convinto che Lestat sapesse leggere ogni emozione sul mio viso, ero più che impaurito. Non credevo che sarebbe stato possibile sfuggirgli. Capisci? Mi comportavo come se ci credessi, ma non era vero.
«Claudia, frattanto, giocava col fuoco, e la sua serenità mi sconvolgeva, quando leggeva i suoi libri sui vampiri o faceva domande a Lestat. Restava imperturbabile di fronte alle sue esplosioni caustiche, spesso ripetendogli la stessa domanda diverse volte in forma differente e considerando attentamente quelle poche informazioni che lui si lasciava involontariamente sfuggire. ‘Che vampiro ti ha fatto quello che sei?’ chiedeva senza alzare lo sguardo dal libro, le palpebre abbassate sotto la furia degli attacchi di Lestat. ‘Perché non parli mai di lui?’ continuava, come se le sue violente obiezioni fossero acqua fresca. Sembrava indifferente alla sua irritazione.
«‘Siete due ingordi, ecco cosa siete!’ esclamò Lestat la notte seguente camminando avanti e indietro nel buio al centro della stanza e rivolgendo uno sguardo vendicativo a Claudia, che era ben sistemata nel suo angolo, in mezzo al cerchio di fiammelle delle candele, circondata da pile di libri. ‘L’immortalità non vi basta! No, voi volete guardare in bocca al caval donato di Dio! Potrei offrirla a qualunque persona giù in strada, e farebbe salti di gioia…’
«‘E tu? Hai fatto salti di gioia?’ chiese Claudia piano, muovendo appena le labbra.
«‘…voi invece, voi vorreste conoscerne la ragione. Non la volete più? Posso darvi la morte più facilmente di quanto non vi abbia dato la vita!’ Si volse a me, mentre la fragile fiamma delle candele proiettava su di me la sua ombra. Creava un alone intorno ai suoi capelli biondi e, a parte gli zigomi luccicanti, gli lasciava il viso buio. ‘Volete la morte?’
«‘La coscienza non è la morte’ mormorò lei.
«‘Rispondete! Volete la morte?’
«‘E tu dispensi tutte queste cose. Provengono da te. Vita e morte!’ sussurrò, schernendolo.
«‘Già’ disse lui, ‘proprio così.’
«‘Tu non sai niente’ ribatté Claudia gravemente, con una voce così bassa che il minimo rumore della strada l’avrebbe coperta, si sarebbe portato via le sue parole, così che mi ritrovai a sforzarmi per sentirla, seduto in poltrona, con la testa appoggiata allo schienale. ‘E supponiamo che il vampiro che ha fatto te non sapesse niente, e il vampiro prima di lui non sapesse niente, e così indietro, il nulla che deriva dal nulla, finché non c’è che il nulla! E noi dobbiamo vivere con la coscienza che non c’è alcuna coscienza!’
«‘Sì!’ gridò lui improvvisamente, le mani tese, la voce sfumata da un sentimento diverso dall’ira.
«Rimasero in silenzio. Lui si voltò, lentamente, come se avessi fatto qualche movimento che l’aveva allarmato, come se mi stessi alzando dietro di lui. Mi ricordò il modo in cui si voltano gli umani quando sentono il mio respiro contro il loro e sanno in un istante che invece di essere completamente soli… quel momento di terribile sospetto prima che mi vedano in faccia e boccheggino. Adesso mi stava guardando, e io riuscivo a stento a vedere le sue labbra muoversi. E poi lo avvertii. Aveva paura. Lestat aveva paura.
«Claudia lo guardava sempre con la stessa fissità, senza manifestare alcuna emozione o pensiero.
«‘Sei tu che l’hai contagiata…’ mormorò Lestat.
«Strofinò un fiammifero con un rumore secco e accese le candele sulla mensola del caminetto, sollevò i paralumi anneriti e fece il giro della stanza illuminandola; poi si fermò in piedi con le spalle alla mensola di marmo e gettò lo sguardo da una luce all’altra, come se avessero riportato un po’ di pace. ‘Io esco’ annunciò.
«Non appena Lestat fu in strada, Claudia si alzò; si fermò all’improvviso nel centro della stanza e si stirò, la piccola schiena ad arco, le braccia protese verso l’alto coi pugnetti serrati, chiudendo stretti stretti gli occhi per un momento e poi spalancandoli, come se si stesse risvegliando da un sogno. C’era qualcosa di osceno nel suo gesto; la stanza sembrava vibrare della paura di Lestat, echeggiare la sua ultima frase. Tutto ciò esigeva l’attenzione di Claudia. Io dovevo essermi involontariamente ritratto da lei, perché venne accanto al bracciolo della mia poltrona e premette il palmo della mano sul mio libro, un libro che non leggevo da ore. ‘Esci con me’.
«‘Avevi ragione. Non sa niente. Non ha niente da dirci’ le sussurrai.
«‘Hai mai creduto veramente che l’avesse?’ mi domandò sempre con un filo di voce. ‘Troveremo altri della nostra specie, in Europa centrale. Ce ne sono tanti che le storie, inventate o vere, riempiono interi volumi. Sono convinta che tutti i vampiri vengono da lì; sempre che provengano da qualche parte. Siamo rimasti fin troppo con lui. Vieni con me. Lascia che sia la carne a insegnare alla mente’.
«Credo d’aver provato un fremito di gioia quando disse queste parole: Lascia che sia la carne a insegnare alla mente. ‘Metti via i libri e uccidi’ mi sussurrava. La seguii giù per le scale, attraverso il cortile e per uno stretto vicolo fino a un’altra strada. Poi si voltò con le braccia tese verso di me perché la sollevassi e la portassi in braccio, sebbene naturalmente non fosse stanca; voleva solo essere vicina al mio orecchio, aggrapparmisi al collo. ‘Non gli ho detto niente dei nostri progetti, del viaggio, del denaro’ le dicevo, consapevole che c’era qualcosa in lei che era al di là di me, mentre guidava i miei passi misurati, leggera come una piuma tra le mie braccia.
«‘Ha ucciso l’altro vampiro’ disse.
«‘No, perché dici questo?’ le domandai. Ma non era quello che aveva detto che mi turbava, che agitava la mia anima come fosse una pozza d’acqua che anela a tornare calma. Avevo la sensazione che mi stesse portando lentamente verso qualcosa, come se fosse il pilota della nostra lenta passeggiata per la strada buia. ‘Perché adesso lo so’ rispose con fermezza. ‘Il vampiro l’aveva reso suo schiavo, e lui non voleva, più di quanto io vorrei essere schiava, e perciò lo uccise. Lo uccise prima di sapere quello che avrebbe potuto sapere, poi, colto dal panico, ti ha fatto schiavo. E tu sei stato il suo schiavo’.
«‘Mai veramente…’ le sussurrai. Sentivo la sua guancia contro la mia tempia: era fredda e aveva bisogno di uccidere. ‘Non uno schiavo, solo una specie di insensato complice’ confessai a lei e a me stesso. Sentivo la febbre di uccidere che saliva in me, un nodo di fame dentro, un battito violento nelle terapie, come se le vene si contraessero e il mio corpo diventasse una mappa di vasi torturati.
«‘No, schiavo’ insistette lei, sempre con la stessa voce grave e monotona, come se pensasse ad alta voce e le parole fossero rivelazioni, tessere di un mosaico. ‘E sarò io a liberare tutti e due’.
«Mi arrestai. La sua mano mi indicò di proseguire. Camminavamo per il lungo e ampio viale che costeggia la cattedrale, verso le luci di Jackson Square; l’acqua scorreva rapida nel rigagnolo al centro del viale, argentea al chiaro di luna. Claudia disse: ‘Io lo ucciderò’.
«Restai immobile alla fine del viale. Sentii che si divincolava fra le mie braccia cercando di scendere, quasi infastidita che per liberarsi da me le occorresse il mio aiuto. La deposi sul marciapiede di pietra. Le dissi di no, scossi la testa. Provai di nuovo la sensazione che gli edifici attorno a me — il Cabildo, la cattedrale, gli appartamenti sulla piazza — fossero solo illusori scenari di seta e che improvvisamente si sarebbero spalancati, strappati da un orribile vento in quella terra che era la realtà. ‘Claudia’ ansimai, scostandomi da lei.
«‘E perché non ucciderlo!’ esclamò ora, con voce più forte, prima argentina e infine stridula. ‘Non so che farmene di lui! Non mi dà nulla! Tranne una sofferenza che non sopporto!’
«‘E se lui non sapesse che farsene di noi?’ le ribattei. Ma la mia veemenza era falsa. Impotente. Ormai Claudia era lontana da me, con le piccole spalle dritte e decise, il passo rapido, come una ragazzina che, quando esce la domenica coi genitori, vuole camminare avanti e finge di essere sola. ‘Claudia!’ la chiamai, raggiungendola in un attimo. Protesi le mani per cingerle la vita sottile e la sentii rigida come acciaio. ‘Claudia, non puoi ucciderlo’ mormorai. Indietreggiò, saltellando, battendo i tacchi sulle pietre, e uscì sulla strada aperta. Un calesse ci sorpassò, con un’improvvisa ondata di risa, lo scalpitio dei cavalli, lo stridore delle ruote di legno. La strada tornò di colpo silenziosa. Trovai Claudia ferma accanto al cancello di Jackson Square, aggrappata alle sbarre di ferro battuto. M’accostai a lei. ‘Non m’importa quello che senti, quello che dici, non puoi volerlo uccidere’ le dissi.
«‘E perché no? Pensi che sia così forte?’ domandò con gli occhi fissi sulla statua della piazza, due immense pozze di luce.
«‘È più forte di quanto tu non pensi! Più forte di quanto ti sogni! In che modo intendi ucciderlo? Non puoi misurare la sua abilità. Tu non sai!’ la supplicavo, ma vedevo che restava completamente immobile, come un bambino che osserva affascinato la vetrina di un negozio di giocattoli. La lingua le si mosse a un tratto tra i denti e le toccò il labbro inferiore con un guizzo che mi procurò una leggera scossa in tutto il corpo. Sentii il sapore del sangue. Qualcosa di palpabile e disperato nelle mani. Avevo voglia di uccidere. Fiutavo e udivo esseri umani sul sentiero della piazza, che si muovevano attorno al mercato, lungo l’argine. Stavo per afferrarla, per costringerla a guardarmi, per scuoterla, se necessario, per farmi ascoltare, quando lei si voltò verso di me coi suoi grandi occhi liquidi. ‘Ti amo, Louis’ mormorò.
«‘Allora ascoltami, Claudia, ti prego’ le risposi abbracciandola, improvvisamente scosso da uno scorrere di sussurri lì accanto, l’articolazione lenta, crescente, del discorso umano sopra l’impasto di suoni notturni. ‘Se provi a ucciderlo, ti distruggerà. Non esiste un metodo sicuro per farlo. Tu non lo conosci. Mettendoti contro lui perderai tutto. Claudia, non lo sopporterei’.
«C’era un sorriso appena percettibile sulle sue labbra. ‘No, Louis’ mormorò, ‘lo posso uccidere. E voglio dirti un’altra cosa, ora, un segreto tra me e te’.
«Scossi la testa ma lei si strinse ancor più a me, abbassando le palpebre così che le sue lunghe ciglia quasi le sfioravano la rotondità delle guance. ‘Il segreto, Louis, è che lo voglio uccidere. Mi piacerà! ‘
«M’inginocchiai accanto a lei, senza parlare, e i suoi occhi mi studiavano come spesso avevano fatto in passato; infine disse: ‘Uccido umani tutte le notti. Li seduco, li attiro a me, con brama insaziabile, una costante, infinita ricerca di qualcosa… di qualcosa, non so che cosa…’ Si portò le dita alla bocca e si premette le labbra, la bocca dischiusa in modo che potevo vedere lo scintillio dei suoi denti. ‘E non m’importa nulla di loro — da dove vengono, dove vorrebbero andare. Ma lui lo odio! Lo voglio morto e l’avrò. Mi piacerà’.
«‘Ma Claudia, Lestat non è mortale. Non c’è malattia che possa toccarlo. L’età non ha alcun potere su di lui. Tu minacci una vita che potrebbe durare fino alla fine del mondo!’
«‘Ah, sì, è proprio questo!’ disse con un tono di timore reverenziale. ‘Una vita che avrebbe potuto durare per secoli. Che sangue, che potere! Credi che assorbirò anche il suo potere quando l’avrò ucciso?’
«Ero furioso. Mi alzai e le voltai le spalle. Sentivo il sussurrare di umani vicino a me. Parlavano del padre e della figlia, di uno spettacolo abituale di dedizione amorosa. Mi resi conto che parlavano di noi.
«‘Non è necessario’ le dissi. ‘Va al di là di ogni bisogno, di ogni buon senso, di ogni…’
«‘Di ogni che cosa? Umanità? È un assassino!’ sibilò. ‘Un predatore solitario!’ Ripeté quell’espressione in tono ironico. ‘Non interferire con me e non cercare di sapere il momento che sceglierò, non provare a metterti fra di noi…’ Sollevò la mano per zittirmi e afferrò la mia in una morsa d’acciaio, affondando le piccole dita nella mia carne tesa, torturata. ‘Se lo farai, sarò distrutta per colpa tua. Non mi scoraggiare’.
«Poi sparì, in un turbine di nastri e di scarpette ticchettanti. Io mi voltai, senza badare a dove andavo, desiderando che la città mi inghiottisse, ormai conscio che la fame era prossima a travolgermi la ragione. Ero quasi riluttante a porvi fine. Avevo bisogno di lasciare che la brama, l’eccitazione, mi oscurassero completamente la coscienza; continuavo a pensare a uccidere, camminando lentamente su per una strada e giù per un’altra, muovendomi inesorabilmente verso il delitto e ripetendomi: è un filo che mi tira per il labirinto. Non sono io che tiro il filo. È il filo che tira me… Infine mi fermai in Rue Conti ad ascoltare un monotono fragore, un suono familiare. Erano gli schermidori nel salone di sopra, che avanzavano sul pavimento di legno incavato, avanti, indietro ancora, veloci, tra l’argenteo stridore delle lame. Stavo fermo contro il muro, da dove potevo vederli attraverso le alte e nude finestre, giovani che duellano a notte tarda, il braccio destro sospeso come quello d’un ballerino, grazia che avanza verso la morte, grazia che si slancia in stoccate dirette al cuore, immagini del giovane Frenière che ora spinge innanzi la lama d’argento, e ora ne viene trascinato all’inferno. Qualcuno era sceso in strada per la stretta scala di legno: un ragazzo giovane, così giovane che le sue guance erano lisce e paffute come quelle di un bambino, il suo viso roseo e imporporato per la scherma, e da sotto l’elegante cappotto grigio e la camicia increspata veniva un odore dolce di colonia e sale. Sentii il suo calore mentre usciva dalla luce fioca delle scale. Rideva fra sé, parlava da solo quasi impercettibilmente; i capelli castani gli ricadevano sugli occhi e lui scuoteva la testa, quel sussurro cresceva, poi si spegneva. Si fermò bruscamente. Mi fissò, le palpebre gli tremarono e rise precipitosamente, nervosamente. ‘Scusate!’ disse allora in francese. ‘Mi avete fatto trasalire!’ E poi, come si mosse per fare un inchino cerimoniale e forse per girarmi intorno, si bloccò, immobile, il viso arrossato inondato dallo spavento. Vedevo il suo cuore battere nella carne rosea delle sue guance, sentivo l’odorè che emanava il suo corpo giovane, teso, per l’improvviso sudore.
«‘M’avete visto alla luce del lampione’ gli dissi. ‘E il mio viso vi è parso la maschera della morte…’
«Le sue labbra si schiusero, i suoi denti si toccarono, e involontariamente annuì, con gli occhi stupefatti.
«‘Andatevene!’ gli dissi. ‘Presto!’».
Il vampiro fece una pausa, poi si mosse come se volesse continuare. Invece stirò le lunghe gambe sotto il tavolo e, appoggiandosi indietro, si premette le mani sulla testa come a esercitare una forte pressione sulle tempie.
Il ragazzo, che si era raggomitolato e si serrava le braccia con le mani, si rilassò lentamente. Diede un’occhiata ai nastri e poi di nuovo al vampiro. «Ma lei uccise qualcuno quella notte» disse.
«Ogni notte».
«Allora perché lo lasciò andare?»
«Non lo so» rispose il vampiro, ma non col tono di chi veramente non lo sa, ma piuttosto di chi preferisce lasciar perdere. «Hai l’aria stanca» continuò. «E infreddolita».
«Non importa» rispose subito il ragazzo. «In questa stanza fa un po’ freddo, ma non m’importa. Lei non ha freddo, vero?»
«No». Il vampiro sorrise, poi una muta risata gli scosse le spalle.
Ci fu un momento in cui il vampiro sembrò riflettere e il ragazzo studiare il volto del vampiro. Lo sguardo del vampiro si spostò sull’orologio del ragazzo.
«Claudia non ci riuscì, vero?» chiese il ragazzo a voce bassa.
«Tu che ne pensi?» ribatté il vampiro. S’era adagiato sulla sedia. Guardava assorto il ragazzo.
«Che fu… come ha detto lei, distrutta» rispose il ragazzo; sembrava che le parole che stava dicendo lo facessero soffrire, tanto che deglutì dopo aver pronunciato la parola distrutta. «E lo fu?»
«Non credi che fosse in grado di ucciderlo?»
«Ma lui era così potente. Lo ha detto anche lei che non era mai riuscito a sapere quali poteri avesse, quali segreti conoscesse. Come poteva Claudia sapere anche soltanto come fare a ucciderlo? Come tentò?»
Il vampiro guardò il ragazzo a lungo, con una espressione così indecifrabile che quello dovette distogliere lo sguardo, come se gli occhi del vampiro fossero luci accecanti. «Perché non bevi un po’ dalla bottiglia che hai in tasca?» domandò il vampiro. «Ti riscalderà».
«Oh, quella…» disse il ragazzo. «Stavo per farlo. Solo…»
Il vampiro rise. «Non pensavi che fosse educato!» suggerì, e inaspettatamente si battè una mano sulla coscia.
«È vero» il ragazzo alzò le spalle sorridendo ed estrasse dalla tasca della giacca la bottiglietta, svitò il tappo dorato e bevve una sorsata. Alzò la bottiglia guardando il vampiro.
«No» il vampiro sorrise e sollevò la mano per declinare l’offerta.
Poi tornò serio e, riaccomodatosi, riprese.
«Lestat aveva un amico musicista in Rue Dumaine. L’avevamo visto a un concerto in casa di una certa Madame LeClaire, che abitava nella stessa strada, a quel tempo un indirizzo estremamente alla moda; questa Madame LeClaire, con la quale fra l’altro Lestat occasionalmente si divertiva, aveva trovato una stanza al musicista in un altro palazzo lì vicino, dove Lestat si recava spesso in visita. Ti ho detto che giocava con le sue vittime, faceva amicizia e le seduceva fino a ottenere la loro fiducia, la loro simpatia, e perfino il loro amore, prima di ucciderle. E così apparentemente giocava con questo ragazzo, sebbene la loro amicizia fosse durata più a lungo di ogni altra. Il giovane componeva della buona musica, e spesso Lestat portava a casa composizioni appena scritte per suonarle sul pianoforte a coda del salotto. Il ragazzo aveva un grande talento, ma si capiva che la sua musica non avrebbe avuto successo commerciale, perché era troppo inquietante. Lestat gli dava del denaro e passava una sera dopo l’altra con lui, portandolo spesso in ristoranti che il ragazzo non si sarebbe mai potuto permettere, e gli comprava tutta la carta e le penne di cui aveva bisogno per scrivere la sua musica.
«Non avrei saputo dire se si fosse veramente affezionato a un mortale a dispetto di se stesso o se fossero tutte mosse in vista d’un tradimento e d’una crudeltà particolarmente grandiosi. Diverse volte aveva annunciato a me e a Claudia che usciva per andare a uccidere il ragazzo, ma non l’aveva fatto. E naturalmente non avevo mai chiesto cosa provasse per il suo amico, perché la risposta non valeva tutto lo scompiglio che la mia domanda avrebbe suscitato. Lestat incantato da un mortale! Avrebbe con ogni probabilità distrutto tutti i mobili del salotto dalla rabbia.
«La notte seguente — dopo quella che t’ho appena descritto — mi irritò terribilmente chiedendomi d’accompagnarlo all’appartamento del ragazzo. Era decisamente cordiale, in uno di quei momenti di buon umore in cui desiderava la mia compagnia. Il divertimento riusciva a tirargli fuori anche questo. Se aveva voglia di vedere una buona commedia, o un’opera, o un balletto, mi voleva sempre portare con sé. Credo d’aver visto il Macbeth con lui una quindicina di volte. Andavamo a tutte le rappresentazioni, persino a quelle dei dilettanti, poi tornava a casa a grandi passi ripetendomi le battute e persino gridando ai passanti, col dito puntato: ‘Domani e domani e domani!’ tanto che questi lo schivavano pensando che fosse ubriaco. Ma questa effervescenza forsennata era destinata a svanire in un istante; solo una parola o due che denotassero un sentimento affettuoso da parte mia, o qualcosa che suggerisse che trovavo piacevole la sua compagnia, potevano bandire per mesi simili manifestazioni. O persino per anni. Ma quella volta egli venne da me in questo stato d’animo e mi chiese di andare alla stanza del ragazzo. Nella sua insistenza, giunse al punto di tirarmi per il braccio. Io, cupo, catatonico, gli fornii qualche miserabile scusa: non riuscivo a pensare ad altro che a Claudia, al mio agente, al disastro imminente. Lo avvertivo nell’aria e mi domandavo se anche lui non lo sentisse. Infine raccolse un libro da terra e me lo tirò addosso, gridando: ‘Leggiti le tue maledette poesie, allora! Fesserie!’ E uscì di corsa.
«Tutto questo mi turbava. Non posso dirti quanto. Avrei preferito fosse freddo, impassibile, irrecuperabile. Decisi di supplicare Claudia di rinunciare. Mi sentivo impotente e disperatamente esausto. Ma la porta di Claudia era rimasta chiusa finché lei non era uscita di casa e riuscii a intravederla per un istante soltanto mentre Lestat stava ancora blaterando, una visione di merletti e di soave bellezza, che scivolava nel soprabito; ancora maniche a sbuffo e un nastro viola sul petto, le calze di pizzo bianco che apparivano sotto l’orlo dell’abitino e le bianche scarpette immacolate. Mi gettò un’occhiata gelida e uscì.
«Quando più tardi ritornai, sazio e per qualche tempo troppo indolente perché i miei stessi pensieri riuscissero a turbarmi, incominciai pian piano a intuire che si trattava di quella notte. Avrebbe tentato quella notte.
«Non so spiegarti come facessi a saperlo. C’era qualcosa nell’appartamento che mi turbava, mi allarmava. Claudia si muoveva nel salotto sul retro, dietro porte chiuse. E mi parve di udire un’altra voce che veniva di là, un sussurro. Claudia non portava mai nessuno nel nostro appartamento, nessuno lo faceva eccetto Lestat, che ci portava le sue donne di strada. Ma sapevo che c’era qualcuno, anche se non sentivo né odori decisi, né suoni particolari. Poi riconobbi nell’aria aromi di cibi e di bevande. E c’erano crisantemi nel vaso d’argento sul pianoforte a coda: fiori che per Claudia significavano morte.
«Lestat rincasò, cantando qualcosa sottovoce, e battendo il tempo con il bastone da passeggio contro la ringhiera della scala. Percorse il lungo salone, col viso imporporato dal sangue, le labbra rosa, e depose la sua musica sul pianoforte. ‘L’ho ucciso o non l’ho ucciso?’ Mi domandò puntando il dito. ‘Tu cosa dici?’
«‘Io dico di no’ risposi con voce torpida. ‘Perché m’hai invitato a venire con te, e non mi avresti mai invitato per dividere quella preda’.
«‘Vero, ma…! Avrei potuto ucciderlo per rabbia. Perché non sei voluto venire con me!’ ribatté e alzò la ribalta della tastiera. Avrebbe potuto continuare così fino all’alba. Era euforico. Lo guardavo sfogliare velocemente la musica e pensavo: può morire? Può davvero morire? E lei vuole veramente farlo? Ci fu un momento in cui avrei voluto andare da lei e dirle che dovevamo abbandonare ogni cosa, anche il viaggio che avevamo in progetto, e continuare a vivere come prima. Ma ora avevo la precisa sensazione che non ci fosse più modo di tirarsi indietro. Fin dal giorno in cui Claudia aveva cominciato a fargli delle domande, tutto questo — qualunque cosa dovesse essere — era diventato inevitabile. E mi sentivo un peso addosso che mi teneva inchiodato alla poltrona.
«Lestat suonò due accordi. Aveva un’immensa estensione e anche in vita avrebbe potuto essere un eccellente pianista. Ma suonava senza sentimento; restava sempre estraneo alla musica, che faceva uscire dal pianoforte come per magia, grazie ai suoi straordinari sensi e al suo controllo di vampiro; la musica non passava attraverso di lui, non era attinta dal suo profondo. ‘Allora, l’ho ucciso?’ mi domandò di nuovo.
«‘No, non l’hai ucciso’ ripetei, anche se avrei potuto dire il contrario con altrettanta facilità. Ero concentrato nel tentativo di mantenere una maschera impassibile sul mio viso.
«‘Hai ragione. Non l’ho fatto’ disse. ‘Mi eccita stare vicino a lui, pensare continuamente: posso ucciderlo e l’ucciderò, ma non adesso. E poi lasciarlo e trovare qualcun altro che gli somigli il più possibile. Se avesse dei fratelli… be’, li ucciderei uno per uno. Tutti i membri della famiglia soccomberebbero a una febbre misteriosa che prosciuga completamente il sangue dai loro corpi!’ disse, imitando il tono di un imbonitore. ‘Claudia ha una predilezione per le famiglie. A proposito di famiglie, immagino che ti sia giunta voce. Pare che casa Frenière sia infestata dagli spettri; non riescono a tenere un sorvegliante e gli schiavi scappano’».
«Questo era un argomento di cui non desideravo particolarmente sentir parlare. Babette era morta giovane, pazza; l’avevano rinchiusa per impedirle di errare verso le rovine di Pointe du Lac, dove, insisteva, aveva visto il diavolo e doveva trovarlo; ne avevo sentito parlare in frammenti di pettegolezzi. Poi vidi gli annunci funebri. Spesso avevo pensato di andare da lei per cercare di rimediare in qualche modo a quello che avevo fatto; e altre volte avevo pensato che tutto si sarebbe aggiustato da sé; ma ora, con questa mia nuova vita di quotidiani omicidi notturni, non sentivo più quell’attaccamento che avevo provato per lei o per mia sorella o per qualunque altro mortale. E osservavo la tragedia come uno spettatore dalla balconata di un teatro, che di tanto in tanto si commuove, ma mai abbastanza da saltare la ringhiera per unirsi agli attori sul palcoscenico.
«‘Non parlare di lei’ dissi.
«‘Benissimo. Io parlavo della piantagione. Non di lei. Lei! La tua innamorata, la tua diletta’. Mi sorrise. ‘Vedi, alla fin fine l’ho avuta vinta io, no? Ma ti stavo raccontando del mio giovane amico e di come…’
«‘Vorrei che tu suonassi quella musica’ gli dissi in tono dolce, discreto, ma il più possibile persuasivo. A volte funzionava. Se gli chiedevo qualcosa nella maniera giusta, mi accontentava. Ed è quello che fece allora: con un piccolo brontolio, come per dire: ‘Che stupido sei!’ incominciò a suonare. Sentii aprirsi le porte del salotto in fondo e i passi di Claudia in anticamera. Non venire, Claudia, pensavo; vattene prima che ci distrugga tutti. Ma lei si avvicinava senza esitare, finché fu davanti allo specchio dell’anticamera. Sentii che apriva il cassetto del tavolino, e poi il fruscio dei suoi capelli sotto la spazzola. S’era messa un profumo floreale. Mi voltai lentamente per trovarmela di fronte quando apparve nel vano della porta, ancora tutta in bianco, e attraversò silenziosamente il tappeto verso il piano. Si mise accanto alla tastiera, con le mani ripiegate sul legno, il mento appoggiato sulle mani, gli occhi fissi su Lestat.
«Vedevo il profilo di lui e più in là il faccino di lei, rivolto all’insù, che lo guardava. ‘Be’, e adesso?’ disse Lestat, voltando la pagina e lasciando cadere la mano sulla coscia. ‘Mi irriti! La tua sola presenza mi irrita!’ I suoi occhi si muovevano sul foglio.
«‘Davvero?’ fece lei con il tono più dolce di cui era capace.
«‘Sì, davvero. E ti dirò di più. Ho incontrato qualcuno che sarebbe un vampiro molto migliore di te’.
«Ciò mi sbalordì. Ma non ci fu bisogno che lo incitassi a continuare. ‘Capisci cosa voglio dire?’ le chiese.
«‘Dovrei spaventarmi?’ domandò lei.
«‘Sei viziata, perché sei figlia unica’ rispose Lestat. ‘Hai bisogno di un fratello. O meglio, io ho bisogno di un fratello. Sono stufo di voi due. Avidi, opprimenti vampiri che tormentate le nostre stesse esistenze. Non mi piace!’
«‘Suppongo che potremo popolare il mondo di vampiri, noi tre’ disse Claudia.
«‘Tu credi!’ rise Lestat, con un tono di trionfo nella voce. ‘Credi di poterlo fare? Suppongo che Louis ti abbia detto come si fa o come lui pensa che si faccia. Voi non ne avete il potere. Nessuno di voi due’.
«Questo parve turbarla. Qualcosa che non aveva previsto. Lo studiava. Vedevo che non gli credeva completamente.
«‘E che cosa ti ha dato questo potere?’ domandò dolcemente, ma con un’ombra di sarcasmo.
«‘Questa, mia cara, è una di quelle cose che probabilmente non saprai mai. Perché persino l’Erebo in cui viviamo deve avere la sua aristocrazia’.
«‘Sei un bugiardo’ fece lei con un risatina. E come lui sfiorò i tasti con le dita, aggiunse: ‘Però sconvolgi i miei piani’.
«‘1 tuoi piani?’ domandò lui.
«‘Ero venuta a far pace con te, anche se sei il padre delle menzogne. Tu sei mio padre. Voglio far pace con te. Voglio che tutto torni com’era’.
«Adesso era lui a non crederle. Mi gettò un’occhiata, poi la guardò. ‘Si può fare; solo, smettila di farmi domande, di seguirmi e di cercare in ogni vicolo altri vampiri. Non ce ne sono! Qui è dove vivi e dove devi restare!’ In quel momento apparve a disagio, come se aver alzato la voce l’avesse confuso. ‘Io mi prendo cura di te. Non hai bisogno di niente’.
«‘E tu non sai niente, ecco perché non sopporti le mie domande. È tutto chiaro. Perciò facciamo la pace, visto che non c’è nient’altro da fare. Ho un regalo per te’.
«‘Spero sia una bella donna con gli attributi che tu non avrai mai’ le disse, squadrandola dall’alto in basso. Il viso di Claudia cambiò. Sembrò quasi che avesse perso un po’ il controllo, cosa che non le avevo mai visto fare. Ma poi si limitò a scuotere la testa, allungò una manina rotondetta e gli tirò la manica.
«‘Guarda che dicevo sul serio. Sono stanca di litigare con te. L’inferno è odio, gente che vive assieme in eterno odio. Noi non siamo all’inferno. Puoi accettare o no il mio regalo; non m’importa. Non conta. Ma finiamola con questa storia, prima che Louis, disgustato, ci lasci tutti e due’. Lo invitò a lasciare il piano, abbassando di nuovo la ribalta di legno sulla tastiera, girandolo sullo sgabello finché gli occhi di Lestat la seguirono fino alla porta.
«‘Non stai scherzando? Un regalo, cosa vuoi dire, un regalo?’
«‘Non ti sei nutrito abbastanza, lo vedo dal tuo colore, dai tuoi occhi. Non hai mai mangiato abbastanza a quest’ora. Diciamo che posso donarti un momento prezioso. Lasciate che i fanciulli vengano a me’ sussurrò, e disparve. Lestat mi guardò. Io non dissi nulla; ero come narcotizzato. Gli vedevo la curiosità, il sospetto dipinti sul volto. La seguì giù per le scale. E poi lo udii emettere un lungo gemito, un miscuglio perfetto di fame e di concupiscenza.
Quando raggiunsi la porta, era chinato sul divano. C’erano due ragazzini, accoccolati tra i morbidi cuscini di velluto, abbandonati completamente al sonno come solo i bambini possono, con le boccucce rosee aperte e i faccini rotondi perfettamente distesi. Avevano la pelle umida, brillante, e i ricci del più scuro dei due erano leggermente bagnati e appiccicati sulla fronte. Vidi subito dai loro abiti, miseri e identici, che si trattava di due orfanelli. E avevano divorato il pasto preparato per loro nelle nostre migliori porcellane. La tovaglia era macchiata di vino e tra le forchette e i piatti sporchi c’era una bottiglietta piena a metà. Però nella stanza c’era un odore che non mi piaceva. Mi feci più vicino per osservare meglio i due che dormivano e vidi le gole nude ma intatte. Lestat sprofondò nel divano accanto al bambino più scuro; era di gran lunga il più bello. Avrebbe potuto essere dipinto sulla cupola d’una cattedrale. Non avrà avuto più di sette anni e possedeva quella bellezza che non appartiene a nessun sesso, ma è degli angeli. Lestat gli fece scorrere delicatamente la mano sulla pallida gola, poi gli toccò le labbra seriche. Emise un sospiro che tradiva ancora quel desiderio consumante, quella dolce, dolorosa anticipazione. ‘Oh… Claudia…’ sospirò. ‘Hai superato te stessa. Dove li hai trovati?’
«Lei non rispose. S’era allontanata e stava seduta in una poltrona scura, appoggiata a due grandi cuscini, con le gambe diritte sul cuscino rotondo e i piedini tesi in modo che non si vedeva il fondo delle scarpette bianche, ma il collo ricurvo e i laccetti stretti e delicati. Guardava Lestat. ‘Ubriachi di acquavite’ disse. ‘Appena un goccio!’ e indicò la tavola. ‘Ho pensato a te quando li ho visti… ho pensato: se divido questa cosa con lui, persino lui perdonerà’.
«Le sue lusinghe l’avevano eccitato. La guardò, allungò la mano e le afferrò la caviglia dai bianchi merletti. ‘Tesoro!’ le sussurrò e rise, ma subito tacque, come se non volesse svegliare i bimbi condannati. Le accennò, con fare intimo, seducente: ‘Vieni a sederti vicino a lui. Tu prendi lui e io prendo questo. Vieni’. Quando lei passò e si rannicchiò accanto all’altro fanciullo, lui l’abbracciò. Smosse i capelli umidi del ragazzo, gli passò le dita sulle palpebre tondeggianti e sulle ciglia. Poi posò tutta la mano sul viso del ragazzo e gli tastò le tempie, le guance e la mascella, palpando quella pura carne. S’era dimenticato di Claudia e di me, ma ritirò la mano e stette immobile per un momento, come se il suo desiderio gli desse le vertigini. Levò gli occhi al soffitto, poi li abbassò su quel perfetto banchetto. Girò lentamente la testa del ragazzo contro lo schienale del sofà; per un attimo le sopracciglia del ragazzo si contrassero, e un gemito gli sfuggì dalle labbra. «Gli occhi di Claudia erano fissi su Lestat, anche quando sollevò la mano sinistra e, slacciando lentamente i bottoni dell’abito del bambino che giaceva accanto a lei, l’infilò nella camicetta ruvida, accarezzando la carne nuda. Lestat fece la stessa cosa, ma a un tratto fu come se la sua mano avesse una vita indipendente e gli portasse il braccio dentro la camicia e attorno al petto del ragazzo in uno stretto abbraccio; Lestat scivolò giù dai cuscini del divano in ginocchio sul pavimento, le braccia serrate intorno al corpo del ragazzo, attirandolo a sé in modo da sprofondare il viso nel suo collo. Fece scorrere le labbra sul collo, sul petto e sul minuscolo capezzolo e poi, infilata l’altra mano nella camicia aperta, cingendo irrimediabilmente il ragazzo con entrambe le braccia, lo sollevò e gli affondò i denti nella gola. La testa del ragazzo ricadde all’indietro, i riccioli si scompigliarono, e ancora una volta gli sfuggì un piccolo gemito e gli tremarono le palpebre — ma non si aprirono mai. E Lestat si inginocchiò, premendo il ragazzo contro di sé, succhiando forte, con la schiena inarcata e rigida, il corpo che dondolava avanti e indietro come se lo cullasse, seguendo con lunghi gemiti il ritmo della lenta oscillazione, finché all’improvviso tutto il suo corpo si contrasse e le sue mani parvero cercare una maniera per spingere via il ragazzo, quasi fosse questo, nel suo sonno inerme, ad aggrapparsi a Lestat; infine abbracciò nuovamente il ragazzo, lo adagiò sui cuscini, succhiando più piano, con un rumore oramai quasi impercettibile.
«Si staccò. Le sue mani spinsero giù il ragazzo. Rimase lì in ginocchio, con la testa gettata indietro e i biondi capelli ondulati scomposti e scarmigliati. Poi si accasciò lentamente sul pavimento, voltandosi, con la schiena contro una gamba del divano. ‘Ah… Dio…’ mormorò, la testa all’indietro, le palpebre semichiuse. Vidi il rossore inondargli le guance, poi le mani. Una mano era appoggiata su un ginocchio piegato, tremante, poi si fermò.
«Claudia non s’era mossa. Era seduta accanto al ragazzo incolume come un angelo del Botticelli. Il corpo dell’altro era già sfiorito, il collo uno stelo spezzato, la testa pesante che ricadeva nel cuscino disegnando un angolo innaturale, l’angolo della morte.
«Ma qualcosa non andava. Lestat fissava il soffitto. Vedevo la sua lingua fra i denti. Era troppo immobile e pareva che la lingua cercasse di uscirgli dalla bocca, di superare la barriera dei denti e toccare le labbra. Sembrò rabbrividire, le spalle scosse da un tremito convulso… e poi si rilassò pesantemente; ma non si mosse. Un velo era calato sui suoi chiari occhi grigi. Fissava il soffitto. Poi emise un suono. Venni avanti dalla penombra dell’anticamera, ma Claudia, con un sibilo acuto, mi intimò: ‘Indietro!’
«‘Louis…’ diceva lui. Adesso lo sentivo… ‘Louis… Louis…’
«‘Non ti piace, Lestat?’ gli chiese Claudia.
«‘C’è qualcosa che non va’ ansimò Lestat, spalancando gli occhi come se il solo fatto di parlare gli costasse uno sforzo colossale. Non riusciva a muoversi. Lo vedevo. Non riusciva a fare il minimo movimento. ‘Claudia!’ ansimò di nuovo, ruotando gli occhi verso di lei.
«‘Non ti piace il sangue dei bambini?’ gli chiese Claudia piano.
«‘Louis…’ mormorò Lestat, sollevando finalmente la testa solo per un attimo. Gli ricadde sul divano. ‘Louis, è… è assenzio! Troppo assenzio!’ boccheggiò. ‘Mi ha avvelenato. Mi ha avvelenato, Louis…’ Cercò di alzare una mano. M’avvicinai ancora, tra me e lui c’era il tavolo.
«‘Stai indietro!’ ripeté Claudia. Scivolò giù dal divano e si avvicinò a lui, scrutando il suo viso come lui aveva scrutato quello del bambino. ‘Assenzio, Padre’ confermò, ‘e laudano!’
«‘Demonio!… Louis… mettimi nella mia bara’. Cercò invano di alzarsi. ‘Mettimi nella mia bara!’ La sua voce era roca, si udiva a mala pena. La mano tremò, si sollevò, e ricadde.
«‘Ti metterò io nella tua bara, Padre’ gli disse lei come se volesse consolarlo. ‘Ti ci metterò dentro per sempre’. E da sotto i cuscini del divano estrasse un coltello da cucina.
«‘Claudia! Non farlo!’ le gridai. Ma lei mi fulminò con lo sguardo, con una virulenza che non avevo mai visto in lei, e mentre io restavo paralizzato, gli squarciò la gola. Lestat lanciò un urlo acuto, ma soffocato. ‘Dio!’ gridò. ‘Dio!’
«Il sangue gli sgorgò dalla gola, scorrendo sullo sparato della camicia, sulla giacca. Fluiva copiosamente come mai potrebbe accadere a un essere umano, tutto il sangue di cui si era riempito, prima del bambino e col bambino; e continuava a girare la testa, contorcendosi, allargando la ferita ribollente. Claudia gli affondò il coltello nel petto e lui stramazzò in avanti, con la bocca spalancata, le zanne scoperte, e le mani che si slanciavano convulsamente verso il coltello, tremavano intorno al manico e poi scivolavano via. Alzò lo sguardo su di me, mentre i capelli gli cadevano sugli occhi. ‘Louis! Louis!’ boccheggiò ancora una volta e cadde di lato sul tappeto. Claudia restò immobile a guardarlo. Il sangue scorreva da ogni parte come acqua. Lestat gemeva, cercava di alzarsi, con un braccio bloccato sotto il torace e l’altro che spingeva contro il pavimento. Ed ecco, improvvisamente, con un balzo, Claudia gli fu addosso, e stringendogli il collo con ambo le braccia lo azzannò. ‘Louis, Louis’ invocò Lestat più volte ansimando, divincolandosi, cercando disperatamente di scrollarsela di dosso; ma lei lo cavalcava, il corpo sollevato dalle spalle di lui, su e giù, su e giù, su e giù, finché lo lasciò; si allontanò, le mani alle labbra, lo sguardo momentaneamente annebbiato, poi limpido. Io mi voltai di spalle: il mio corpo era scosso da ciò che avevo visto, non potevo guardare un secondo di più. ‘Louis!’ mi chiamò Claudia; ma io scossi la testa. Per un momento, mi parve che tutta la casa oscillasse. Lei insistette: ‘Guarda che gli sta succedendo!’
«Lestat non si muoveva più. Ora giaceva supino, e tutto il suo corpo si stava inaridendo, disseccandosi completamente, la pelle diventava spessa e rugosa, e così bianca che vi si vedevano le vene attraverso. Boccheggiavo, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo, perfino quando si incominciò a intravedere la forma delle ossa, le labbra si ritirarono dai denti, e la carne del naso si seccò lasciando due fori spalancati. Ma gli occhi, quelli restavano uguali, fissi al soffitto, folli, con le iridi che danzavano da un angolo all’altro, anche quando la carne gli aderì alle ossa, ormai nient’altro che un involucro di pergamena, e i vestiti pendettero vuoti e cascanti da quello scheletro ch’era rimasto di lui. Finalmente le iridi gli ruotarono all’insù, e il bianco degli occhi si spense. Quella cosa giacque immobile. Una grande massa di capelli biondi ondulati, una giacca, un paio di stivali lucidi; questo orrore era stato Lestat, e io lo fissavo impotente.
«Per un tempo interminabile Claudia restò in piedi, immobile. Il sangue aveva inzuppato il tappeto, oscurandone le ghirlande di fiori. Brillava viscoso e nero sul parquet. Le aveva macchiato il vestito, le scarpe bianche, la guancia. Se la pulì con un fazzolettino sgualcito, diede un colpo alle macchie orribili del vestito, poi disse: ‘Louis, devi aiutarmi a portarlo fuori di qui!’
«‘No!’ le risposi. Le avevo girato le spalle, a lei e al cadavere ai suoi piedi.
«‘Sei pazzo, Louis? Non può restare qui!’ insisté. ‘E i ragazzi. Devi aiutarmi! L’altro è morto per l’assenzio! Louis!’
«Sapevo che era vero, necessario; eppure mi sembrava impossibile.
«Dovette pungolarmi, e quasi guidare ogni mio passo per tutto il tragitto. Trovammo la stufa della cucina ancora piena delle ossa della madre e della figlia che lei aveva ucciso — una pericolosa negligenza, uno stupido errore. Le raschiò via, le ficcò in un sacco, e se lo trascinò sulle pietre del cortile fino alla carrozza. Attaccai io stesso il cavallo, liberandomi del vetturino ubriaco, e guidai velocemente fuori città, in direzione di Bayou St. Jean, verso l’oscura palude che si stendeva fino al lago Pontchartrain. Claudia sedeva accanto a me, in silenzio, e viaggiavamo senza sosta, finché passammo i cancelli illuminati a gas delle poche case di campagna, la strada pavimentata divenne una carreggiata piena di solchi, e la palude apparve al nostro fianco da ambo i lati, una grande parete di cipressi e rampicanti che sembrava impenetrabile. Sentivo il fetore del letame, udivo il fruscio degli animali.
«Claudia aveva avvolto il corpo di Lestat in un lenzuolo prima che io osassi anche solo toccarlo, e poi, con mio orrore, lo aveva cosparso di crisantemi dal lungo stelo. Aveva un profumo dolce e funereo quando lo sollevai dalla carrozza per l’ultima volta. Era quasi senza peso e cascante, come fosse fatto di nodi e di corde, quando me lo caricai sulle spalle e scesi nell’acqua scura; l’acqua mi riempiva gli stivali, mentre i miei piedi cercavano una via nella melma sottostante, lontano dal punto dove avevo deposto i due ragazzi. Entrai sempre più nell’acqua, con i resti di Lestat, sebbene non sapessi perché. Poi quando a malapena potei scorgere la pallida traccia della strada e il cielo che s’avvicinava pericolosamente all’alba, lasciai scivolare il suo corpo dalle mie braccia nell’acqua. Rimasi, sconvolto, a guardare la sagoma amorfa del lenzuolo bianco sotto la viscida superficie. L’intontimento che m’aveva protetto da quando la carrozza aveva lasciato Rue Royale minacciava di svanire e di lasciarmi improvvisamente senza pelle, a guardare, a pensare: ‘Questo è Lestat. Questo è tutto ciò che resta della trasformazione e del mistero, morto, sparito in una tenebra eterna’. Sentii un improvviso richiamo, come se una forza mi spingesse ad andare giù con lui, a scendere nell’acqua nera per non fare più ritorno. Era così distinto e così forte che, in confronto, l’articolazione della voce sarebbe sembrata soltanto un mormorio. Parlava senza alcuna lingua, e diceva: ‘Sai cosa devi fare: scendi nell’oscurità. Falla finita’.
«Ma in quel momento udii la voce di Claudia. Mi chiamava per nome. Mi voltai, e, attraverso l’intrico dei rampicanti, la vidi distante e piccina, come una fiamma bianca sulla debole luminescenza della strada lastricata.
«Quella mattina, nell’intimità della bara, mi cinse con le braccia, premette la testa contro il mio petto sussurrandomi che mi amava, che ora ci eravamo liberati di Lestat per sempre. ‘Ti amo, Louis’ ripeteva, finché, chiudendo il coperchio, il buio scese su di noi e pietosamente annullò ogni coscienza.
«Quando mi destai, stava trafficando tra le cose di Lestat. Un’invettiva silenziosa, controllata, ma piena d’ira feroce. Vuotò il contenuto degli stipi, i cassetti sul tappeto, estrasse una giacca dopo l’altra dai suoi armadi, rovesciando le tasche, gettando via monete, biglietti di teatro, frammenti e foglietti di carta. Mi fermai sulla porta della stanza, attonito, guardandola. Vidi la bara di Lestat, ricoperta di mucchi di sciarpe e pezzi di tappezzeria. Sentii un bisogno irresistibile di aprirla, sognai di vederlo lì dentro. ‘Niente!’ esclamò Claudia disgustata. Ficcò gli abiti nel caminetto. ‘Non un indizio di dove abitava, di chi l’ha fatto vampiro! Neanche un briciolo’. Mi guardò come per cercare solidarietà, ma io le voltai le spalle. Non potevo guardarla. Ritornai nella camera da letto che tenevo per me, quella stanza piena dei miei libri e delle poche cose che avevo conservato di mia madre e di mia sorella, e mi sedetti sul letto. Sentivo che Claudia stava sulla porta, ma non volevo guardarla. ‘Meritava di morire!’ mi disse.
«‘In questo caso anche noi meritiamo di morire. Allo stesso modo. Ogni notte della nostra vita’ ribattei. ‘Stai lontana da me’. Era come se le mie parole fossero i miei pensieri, e la mia mente solo informe confusione. ‘Baderò a te perché tu non puoi farlo. Ma non ti voglio vicina. Dormi nella cassa che ti sei comprata. Non venirmi vicino’.
«‘Ti avevo detto che l’avrei fatto. Te l’avevo detto…’ Mai la sua voce era suonata così fragile, così simile a una piccola campana di vetro. Sbigottito ma impassibile, alzai lo sguardo su di lei. Non sembrava nemmeno il suo viso. Mai nessuno aveva modellato una simile agitazione sul volto di una bambola. ‘Louis, te l’avevo detto!’ ripeté con le labbra tremanti. ‘L’ho fatto per noi, perché fossimo liberi’. Non potevo sopportare la sua vista. La sua bellezza, la sua apparente innocenza, e quella terribile agitazione. La oltrepassai, forse spingendola indietro, non so. Avevo quasi raggiunto la balaustra delle scale quando udii uno strano suono.
«Mai, in tutti quegli anni della nostra vita insieme avevo udito quel suono, mai, da quella notte in cui, tanto tempo prima, l’avevo trovata per la prima volta, una bambina mortale, aggrappata alla madre. Claudia piangeva!
«Mi richiamò indietro, contro la mia volontà. Eppure quel pianto appariva così inconsapevole, così disperato, come se lei non volesse essere sentita da nessuno, oppure non le importasse che venisse udito dal mondo intero. La trovai raggomitolata sul mio letto, dove spesso mi sedevo a leggere, il corpo scosso dai singhiozzi. Quel suono era terribile, più profondo, più straziante di quanto fosse stato il suo pianto mortale. Mi sedetti lentamente, delicatamente, accanto a lei e le posai una mano sulla spalla: lei alzò la testa, spaventata, gli occhi spalancati, la bocca tremante; il volto era macchiato di lacrime, lacrime leggermente tinte di sangue. I suoi occhi ne erano colmi, e il lieve tocco di rosso le aveva colorato la manina. Non sembrava vederlo, esserne consapevole. Si scostò i capelli dalla fronte. Il suo corpo fu scosso allora da un lungo, basso, implorante singhiozzo. ‘Louis… se perdo te, io non ho più nulla’ sussurrò. ‘Vorrei tornare indietro per riaverti. Ma non posso disfare quel che ho fatto’. Mi buttò le braccia al collo, abbarbicandosi al mio corpo, singhiozzando sul mio cuore. Le mie mani erano restie a toccarla, ma si mossero, come se io non potessi controllarle, per abbracciarla, per stringerla, per accarezzarle i capelli. ‘Non posso vivere senza di te…’ mormorava. ‘Preferirei morire che vivere senza te. Vorrei morire com’è morto lui. Non posso sopportare che mi guardi come hai fatto, non posso sopportare che non mi ami!’ I suoi singhiozzi erano più violenti, più amari, finché mi chinai e le baciai il collo e le guance morbide. Prugne d’inverno, prugne d’un bosco incantato, dove il frutto non cade mai dal ramo, dove i fiori non avvizziscono e non muoiono mai. ‘Sì, sì, mia cara…’ le dissi. ‘Sì, sì, mio amore…’ cullandola lentamente, dolcemente, nelle mie braccia, finché s’appisolò, mormorando che saremmo stati eternamente felici, per sempre liberi da Lestat, che iniziava la grande avventura della nostra vita.
«La grande avventura della nostra vita. Che cosa significa morire quando si può vivere fino alla fine del mondo? E che cos’è ‘la fine del mondo’, se non un modo di dire, perché chi sa anche soltanto cos’è il mondo stesso? Ormai ho già vissuto due secoli e ho visto le illusioni dell’uno completamente distrutte dall’altro, sono stato eternamente giovane ed eternamente vecchio, senza possedere illusioni, vivendo attimo per attimo come un orologio d’argento che batte nel vuoto: il quadrante dipinto, le lancette delicatamente intagliate, che nessuno guarda, e che non guardano nessuno, illuminate da una luce che non era luce, come la luce alla quale Dio creò il mondo prima di aver creato la luce. Tic-tac, tic-tac, tic-tac, la precisione dell’orologio, in una stanza vasta come l’universo.
«Vagavo di nuovo per le strade — Claudia se n’era andata a uccidere per conto suo — col profumo dei suoi capelli e del suo abito ancora sulla punta delle dita, e il mio sguardo mi precedeva come il pallido lume di una lanterna. Mi ritrovai presso la cattedrale. Che significa morire quando si può vivere fino alla fine del mondo? Pensai alla morte di mio fratello, all’incenso e al rosario. Provai il desiderio improvviso di essere in quella camera ardente, di sentire il suono delle voci delle donne crescere e diminuire con l’Ave Maria, il rumore metallico dei grani del rosario, l’odore della cera. Ricordavo quel pianto. Era palpabile, come se fosse ieri, appena dietro la porta. Mi vidi correre veloce per un corridoio e spingere la porta delicatamente.
«La grande facciata della cattedrale si ergeva come una massa scura dall’altra parte della piazza, ma le porte erano aperte, e vedevo una luce morbida e tremula all’interno. Era sabato sera, presto, e la gente andava a confessarsi per la messa e la comunione di domenica. Le candele ardevano fioche nei candelieri, in fondo alla navata, l’altare emergeva in lontananza dalle ombre, carico di fiori bianchi. Era qui, nella vecchia chiesa, che avevano portato mio fratello per il servizio funebre.Mi resi conto che da allora non ero più stato in questo posto, che mai più avevo salito i gradini di pietra, attraversato il portico, varcato le porte.
«Non avevo alcun timore. Semmai, forse desideravo che succedesse qualcosa, che tremassero le pietre al mio passaggio nell’atrio ombroso, quando vidi il tabernacolo lontano sull’altare. Mi ricordai d’esser passato di lì una volta che le finestre splendevano e il suono dei canti si riversava in Jackson Square. Quella volta avevo esitato, domandandomi se ci fosse qualcosa che Lestat non m’aveva mai rivelato, qualcosa che avrebbe potuto distruggermi se fossi entrato. Avevo avuto l’impulso d’entrare, ma l’avevo allontanato dalla mia mente, sottraendomi alla seduzione di quelle porte aperte, di quell’unica voce che nasceva da una moltitudine di persone. Avevo preso qualcosa per Claudia, una bambola vestita da sposa che avevo rubato dalla vetrina buia di un negozio di giocattoli e avevo sistemato in una grande scatola con nastri e carta velina. Una bambola per Claudia. Mi ricordai di com’ero corso via con la bambola, sentendo dietro di me le gravi vibrazioni dell’organo, con gli occhi ancora socchiusi per l’abbacinante splendore delle candele.
«Ripensai a quel momento; al timore che mi aveva suscitato la sola vista dell’altare, il suono del Pange Lingua. E pensai ancora, insistentemente, a mio fratello. Vedevo la bara avanzare ondeggiando nella navata centrale e dietro la processione dei dolenti. Non provavo alcuna paura. Come ho detto, credo semmai di aver sentito la nostalgia di un po’ di paura, di un motivo per temere, mentre camminavo lentamente lungo le scure pareti di pietra. L’aria era fredda e umida sebbene fosse estate. Mi tornò in mente la bambola di Claudia. Dov’era finita? Claudia ci aveva giocato per anni. Improvvisamente mi vidi cercare quella bambola, una ricerca implacabile e insensata, come si cerca qualcosa in un incubo, tra porte che non si aprono e cassetti che non si chiudono, lottando continuamente contro la stessa cosa, senza senso, senza sapere perché quello sforzo appaia così disperato, perché la vista improvvisa di una poltrona con uno scialle buttato sopra riempia l’animo di orrore.
«Entrai nella cattedrale. Una donna uscì dal confessionale e oltrepassò la lunga fila di quelli che aspettavano. Un uomo, che doveva confessarsi dopo di lei, non si mosse; i miei occhi, sensibili anche in quella condizione di vulnerabilità, lo notarono, e mi voltai per guardarlo. Mi stava fissando. Rapidamente gli voltai le spalle. Lo udii entrare nel confessionale e chiudere la porta. Risalii la navata e poi, più per sfinimento che per convinzione, mi sedetti su una panca vuota. M’ero quasi genuflesso per antica abitudine. Sembrava che il mio animo fosse confuso e tormentato come quello di qualunque mortale. Chiusi gli occhi per un istante e cercai di scacciare ogni pensiero. Ascolta e vedi, dissi a me stesso. E con questo atto di volontà, i miei sensi emersero dal tormento. Tutt’intorno a me nell’oscurità udivo il bisbiglio delle preghiere, il lievissimo scatto dei grani del rosario; il sospiro sommesso della donna che ora si inginocchiava alla Dodicesima Stazione. Dal mare di panche di legno giungeva un puzzo di ratti. Un ratto gironzolava dalle parti dell’altare. Un ratto sul grande altare laterale di legno intagliato della Vergine Maria. I candelieri dorati brillavano, un opulento crisantemo bianco si piegò all’improvviso sullo stelo, le goccioline brillavano sui suoi petali fitti, un’aspra fragranza saliva da un gruppo di vasi, dagli altari, dalle statue di Vergini, di Cristi e di santi. Fissavo le statue; all’improvviso fui colto dall’ossessione di quei profili senza vita, di quegli occhi fissi, di quelle mani vuote, di quelle pieghe congelate. Il mio corpo ebbe una convulsione così violenta che mi ritrovai accasciato in avanti, con le mani sulla panca davanti a me. Era un cimitero di forme morte, di effigi funeree e di angeli di pietra. Alzai lo sguardo e mi vidi, in una visione quasi tangibile, salire i gradini dell’altare, aprire il piccolo, sacro tabernacolo, protendere mani mostruose per afferrare il ciborio consacrato, prendere il Corpo di Cristo e spargere per tutto il tappeto le Sue bianche ostie; e poi camminarci sopra, su e giù davanti all’altare, dando la Santa Comunione alla polvere. Allora m’alzai dalla panca e rimasi lì a contemplare questa visione. Ne conoscevo perfettamente il significato.
«Dio non viveva in questa chiesa; queste statue erano l’immagine del nulla. In quella cattedrale, io ero il soprannaturale, la sola cosa immortale e cosciente che si trovasse sotto quel tetto! Solitudine. Solitudine al limite della follia. La cattedrale crollò nella mia visione; i santi s’inclinarono e caddero. I ratti mangiarono la Santa Eucarestia e si accoccolarono sulle soglie. Un ratto solitario con un’enorme coda tirò e rosicchiò la tovaglia marcia dell’altare finché i candelieri caddero e rotolarono sulle pietre coperte di fanghiglia. Io rimanevo in piedi. Intatto. Non morto, mi protendevo per prendere la mano di stucco della Vergine, la vedevo rompersi nella mia mano, così che stringevo nel palmo quella mano che si sbriciolava, riducendola in polvere con la pressione del mio pollice.
«E poi, improvvisamente, tra le rovine, per la porta aperta attraverso la quale vedevo deserto in ogni direzione, persino il grande fiume immobile e irto di relitti di navi incrostate, vidi giungere un corteo funebre, una processione di uomini e donne pallidi e bianchi, di mostri con gli occhi scintillanti e gli abiti neri fluttuanti, la bara che procedeva con fracasso sulle ruote di legno, i topi che correvano veloci sul marmo rotto e deformato, la processione che avanzava; vidi Claudia nel corteo, con gli occhi fissi dietro un sottile velo nero, una mano guantata che stringeva un nero libro di preghiere, l’altra mano sulla bara accanto a lei. E là, ora, in quella bara, sotto un coperchio di vetro, vidi con mio orrore lo scheletro di Lestat, la pelle raggrinzita ormai incollata al tessuto stesso delle ossa, gli occhi nulla più che orbite, i capelli biondi sparsi sul raso bianco.
«Il corteo si arrestò. I dolenti si allontanarono, riempiendo senza un rumore le panche polverose; Claudia si voltò col libro in mano, lo aprì e si tolse il velo nero dal viso, tenendo gli occhi fissi su me. ‘E tu sarai maledetto sulla terra’ bisbigliò, e il suo bisbiglio cresceva, echeggiava tra le rovine. ‘Sarai maledetto sulla terra, che ha aperto la sua bocca e ricevuto il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando l’avrai lavorata, essa non ti darà i suoi frutti: tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra… e chiunque ti ucciderà avrà castigo sette volte maggiore’.
«La chiamai, urlai, un urlo che saliva dalle profondità del mio essere come una grande forza nera che eruttava dalle labbra e contro la mia volontà faceva oscillare il mio corpo. Terribili sospiri si alzavano dai dolenti, un brusio sempre più forte, quando mi voltai me li vidi tutti intorno che mi spingevano nella navata, contro i fianchi della bara, così che, voltandomi di nuovo per riprendere l’equilibrio, mi ritrovai con entrambe le mani su di essa. E vidi… non già i resti di Lestat, ma il corpo del mio mortale fratello. Scese la quiete, come un velo su tutte le cose che ne dissolvesse le forme sotto le sue mute pieghe. Là c’era mio fratello, biondo, giovane e bello com’era in vita, reale e caldo per me ora com’era stato per anni e anni, come non ero mai più riuscito a ricordarlo, tanto perfettamente era ricreato, in ogni particolare. I capelli biondi scostati dalla fronte, gli occhi chiusi come se dormisse, le dita levigate attorno al crocifisso sul petto, le labbra così rosee e seriche che a fatica riuscivo a non toccare. E non appena allungai la mano per tastare la morbidezza della sua pelle, la visione cessò.
«Ero seduto immobile nella cattedrale, sabato notte; l’odore dei ceri saturava l’aria immota, la donna della Via Crucis era sparita e l’oscurità s’addensava: dietro me, davanti a me, e ora sopra di me. Apparve un ragazzo nella tunica nera di un chierico, con un lungo spegnimoccoli su un’asta dorata: infilava il piccolo imbuto su una candela, poi su un’altra e un’altra ancora. Ero stupefatto. Mi lanciò un’occhiata e distolse subito lo sguardo, come per non disturbare un uomo immerso nella preghiera. Poi, mentre il chierico procedeva verso un altro candeliere, sentii una mano sulla mia spalla.
«Il fatto che due uomini mi potessero passare così vicino senza che io li sentissi, senza neppure che me ne preoccupassi, mi fece registrare in qualche luogo della mia mente che ero in pericolo, ma non vi badai. Levai lo sguardo e vidi un prete dai capelli grigi. ‘Volete confessarvi?’ domandò. ‘Stavo per chiudere la chiesa’. Socchiuse gli occhi dietro gli spessi occhiali. L’unica luce veniva ora dai lumini rossi che ardevano davanti ai santi; le ombre danzavano sulle alte pareti. ‘Voi siete preoccupato, non è vero? Posso aiutarvi?’
«‘È troppo tardi, troppo tardi’ gli sussurrai, alzandomi per andare. Lui si scostò, ancora evidentemente ignaro che ci fosse qualcosa in me che doveva allarmarlo, e disse cortesemente, per rassicurarmi: ‘No, è ancora presto. Volete entrare nel confessionale?’
«Per un attimo rimasi a fissarlo. Fui tentato di sorridere. E poi decisi di farlo. Ma già mentre lo seguivo lungo la navata, nelle ombre del vestibolo, sapevo che sarebbe stata una pazzia senza scopo. Ciononostante, mi inginocchiai nella piccola cabina di legno, con le mani giunte sull’inginocchiatoio intanto che lui si sedeva nella cabina accanto e faceva scorrere il pannello per mostrarmi l’incerto contorno del suo profilo. Lo fissai per un istante. Poi dissi, alzando la mano per fare il segno della croce: ‘Beneditemi, padre, perché ho peccato, ho peccato così spesso e così a lungo che non so come cambiare, né come confessare davanti a Dio ciò che ho fatto’.
«‘Figliolo, Dio è infinito nella sua capacità di perdonare’ mi sussurrò. ‘Parlate a lui come meglio sapete e a cuore aperto’.
«‘Omicidi, padre, una morte dopo l’altra. La donna che morì due notti fa in Jackson Square la uccisi io, e migliaia di altri prima di lei, uno o due per notte, padre, per settant’anni. Ho percorso le strade di New Orleans come il Macabro Mietitore e mi sono nutrito di vite umane per la mia stessa sopravvivenza. Io non sono mortale, padre, ma immortale e dannato, come gli angeli cacciati da Dio nell’inferno. Sono un vampiro’.
«Il prete si voltò. ‘Cosa sarebbe questo, una specie di gioco? Uno scherzo? Vi approfittate di un vecchio!’ proruppe. Tirò indietro il pannello con un colpo secco. Aprii in fretta la porta e uscii per vederlo, in piedi. ‘Giovanotto, non avete alcun timore di Dio? Sapete cosa significa la parola sacrilegio?’ Mi guardava con ira. Mi avvicinai a lui lentamente, molto lentamente, e in un primo momento si limitò a fissarmi, furente. Poi, confuso, fece un passo indietro. La chiesa era vuota, deserta, nera, il sacrestano se n’era andato e le candele gettavano una luce spettrale solo sugli altari lontani. Intrecciavano una ghirlanda di morbide fibre dorate intorno alla sua testa grigia e al suo volto. ‘Allora non vi è misericordia!’ esclamai e improvvisamente gli strinsi le spalle in una morsa, in una stretta soprannaturale dalla quale non aveva speranza di liberarsi, e me lo portai vicino, sotto al mio viso. ‘Vedete cosa sono? Perché, se Dio esiste, mi tollera? E voi parlate di sacrilegio!’ Mi piantò le unghie nelle mani, cercando di divincolarsi, mentre il breviario gli cadeva al suolo e il rosario tintinnava tra le pieghe della sua veste. Avrebbe avuto più speranza se avesse combattuto contro le statue animate dei santi. Dischiusi le labbra e gli mostrai i miei denti mortiferi. ‘Perché Lui tollera che io viva!’ gridai. La sua faccia, la sua paura, il suo disprezzo, la sua ira, mi rendevano furioso. Erano gli stessi che avevo visto in Babette. Mi sibilò, in preda a un panico mortale: ‘Lasciami! Demonio!’
«Lo lasciai andare, osservandolo con sinistro piacere dimenarsi e percorrere la navata centrale come se si facesse strada tra la neve. Poi lo raggiunsi, in un secondo l’avevo circondato con le braccia protese e il mio mantello l’aveva precipitato nell’oscurità mentre ancora le sue gambe si agitavano. Mi malediva, invocando Dio sull’altare. Lo agguantai proprio sui gradini sotto la balaustra della comunione, lo trascinai in ginocchio e lo voltai perché mi guardasse in faccia, poi gli affondai i denti nel collo».
Il vampiro si fermò.
Qualche momento prima, il ragazzo aveva fatto per accendersi una sigaretta. Adesso era rimasto, coi fiammiferi in una mano e la sigaretta nell’altra, come un manichino, a fissare il vampiro. Il vampiro guardava il pavimento. Si voltò improvvisamente, prese la bustina di fiammiferi dalla mano del ragazzo, ne accese uno e glielo porse. Il ragazzo abbassò la sigaretta sulla fiamma, aspirò il fumo e lo buttò fuori immediatamente. Stappò la bottiglia e bevve una lunga sorsata, continuando a guardare il vampiro.
Attese paziente che il vampiro fosse pronto per ricominciare.
«Dalla mia infanzia non avevo conservato alcun ricordo dell’Europa. Nemmeno il viaggio in America. Il fatto che ci fossi nato era un’idea astratta. Eppure esercitava su di me un influsso potente, come la Francia su un abitante delle colonie. Parlavo e leggevo il francese, ricordavo di aver aspettato con ansia i resoconti della Rivoluzione e d’aver letto le cronache dei giornali parigini sulle vittorie di Napoleone. Ricordo la rabbia che provai quando vendette la Louisiana agli Stati Uniti. Non so per quanto tempo sia vissuto in me il francese mortale. Certamente a quell’epoca era già sparito, ma mi restava quel grande desiderio di vedere l’Europa e di conoscerla, che non derivava solo dallo studio della letteratura e della filosofia, ma dalla sensazione di aver ricevuto dall’Europa una impronta più profonda e più precisa degli altri americani. Ero un creolo che voleva vedere il posto dove tutto era cominciato.
«Rivolsi i miei pensieri a questo. A liberare i miei armadi e bauli di ogni cosa che non fosse essenziale. E poco era essenziale per me. Gran parte di quella roba avrebbe potuto restare nella casa di città, alla quale ero certo che avrei fatto ritorno presto o tardi, se non altro per trasferire le mie cose in un’altra e cominciare una nuova vita a New Orleans. Non concepivo la possibilità di abbandonarla per sempre. Non l’avrei mai fatto. Ma concentrai i miei pensieri e i miei desideri sull’Europa.
«Si fece strada nella mia mente il pensiero che avrei potuto vedere il mondo, se lo volevo. Come diceva Claudia, ero libero.
«Nel frattempo, Claudia aveva fatto un piano. Per prima cosa dovevamo senz’altro andare in Europa centrale, dove sembrava che i vampiri fossero più diffusi. Era sicura che là avremmo trovato qualche cosa di istruttivo, che ci avrebbe spiegato le nostre origini. Sembrava anelare a qualcosa di più che a delle risposte: alla comunione con la sua specie. Non parlava d’altro. ‘La mia specie’ e lo diceva con un tono diverso da quello che avrei potuto usare io. Mi faceva sentire l’abisso che ci separava. Nei primi anni della nostra vita insieme avevo pensato che fosse come Lestat, imbevuta del suo istinto di predatore, anche se in tutto il resto condivideva i miei gusti. Ora sapevo che era meno umana di noi due, molto meno umana di quanto sia io sia Lestat ci saremmo mai potuti sognare. Non aveva niente che la legasse alla sensibilità propria dell’esistenza umana. Forse questo spiegava perché — nonostante tutte le cose che avevo fatto o mancato di fare — mi restasse attaccata. Io non ero della sua sua specie. Ero solo la cosa che più si avvicinava».
«Ma non sarebbe stato possibile» intervenne improvvisamente il ragazzo, «insegnarle i sentimenti del cuore umano così come le aveva insegnato tutto il resto?»
«A che scopo?» chiese il vampiro con sincerità. «Perché potesse soffrire come soffrivo io? Ti concedo che avrei dovuto insegnarle qualcosa per vincere il suo desiderio di uccidere Lestat. Nel mio interesse, avrei dovuto farlo. Ma vedi, non c’era niente in cui avessi la minima fede. Una volta caduto dalla grazia, non credevo in niente».
Il ragazzo annuì. «Non volevo interromperla. Stava arrivando a qualcosa».
«Solo al fatto che, rivolgendo i miei pensieri all’Europa, mi era possibile dimenticare quanto era accaduto a Lestat. E anche il pensiero degli altri vampiri mi incuriosiva. Non avevo mai dubitato neppure per un istante dell’esistenza di Dio. Solo, ero perduto. Andavo alla deriva, creatura soprannaturale, per un mondo naturale.
«Ma ci capitò un’altra cosa prima che partissimo per l’Europa. Anzi, molte cose. Tutto cominciò col musicista. Era venuto a cercarmi la sera che ero andato alla cattedrale, lasciando detto che sarebbe ritornato la notte seguente. Avevo mandato via la servitù ed ero sceso io stesso a riceverlo. Fui subito colpito dal suo aspetto.
«Era molto più magro di come me lo ricordavo e molto più pallido, con un luccicore umidiccio sul viso che faceva pensare avesse la febbre. Ed era assolutamente disperato. Quando gli dissi che Lestat era partito, in un primo momento rifiutò di credermi e insisté che se fosse partito gli avrebbe sicuramente lasciato un messaggio, qualcosa. E poi andò via per Rue Royale, parlando tra sé e sé, come se non si accorgesse della gente attorno. Lo raggiunsi sotto un lampione. ‘Ti ha lasciato qualcosa, in effetti’ gli dissi, mettendo mano velocemente al portafogli. Non sapevo quanto denaro c’era dentro, ma avevo deciso di darlo a lui. Erano parecchie centinaia di dollari. Glieli misi nelle mani, così magre che vidi pulsare le vene azzurre sotto la pelle umida. Il musicista sembrava esultante, ma mi resi conto che la questione andava al di là del denaro. ‘Allora ha parlato di me, vi ha detto di darmi questo!’ disse, aggrappandovisi come a un relitto. ‘Deve avervi detto qualcos’altro!’ Mi fissò con occhi enfiati, tormentati. Non gli risposi subito, perché in quel momento avevo notato due ferite circolari sul suo collo. Due segni rossi simili a graffi, sulla destra, appena sopra il colletto sudicio. Il danaro gli ballava in mano; non badava al traffico della strada, alla gente che ci passava vicino. ‘Mettetelo via’ bisbigliai. ‘Certo, ha parlato di voi, ha detto che era importante che continuaste con la vostra musica’.
«Mi fissò come s’aspettasse qualcos’altro. ‘Sì? E non ha detto altro?’ mi domandò. Non sapevo che dirgli. Avrei inventato qualunque cosa pur di dargli conforto, e anche di tenermelo lontano. Mi era penoso parlare di Lestat; le parole evaporavano sulle mie labbra. E quelle punture mi sbalordivano. Non riuscivo a capire. Gli stavo raccontando delle trottole: che Lestat gli augurava ogni bene, che aveva dovuto prendere un vaporetto per St. Louis, che sarebbe ritornato, che la guerra era imminente e che aveva degli affari laggiù… il ragazzo seguiva ansioso ogni mia parola, come se non gli bastasse mai e volesse arrivare in fretta alla cosa che gli premeva. Tremava; il sudore sgorgava fresco dalla sua fronte mentre lui continuava a insistere. A un tratto si morse violentemente le labbra e sbottò: ‘Ma perché se n’è andato!’ come a significare che nessuna di queste cose gli bastava.
«‘Di che si tratta?’ gli domandai. ‘Che cosa vi occorreva da lui? Sono certo che lui vorrebbe che io…’
«‘Era mio amico!’ mi aggredì improvvisamente, e la voce gli si spezzò per l’ira repressa.
«‘Voi non state bene’ ribattei. ‘Avete bisogno di riposo. C’è qualcosa…’ puntai il dito, attento a ogni suo movimento ‘…sulla vostra gola’. Non sapeva neppure che cosa volessi dire. Le sue dita cercarono quel punto, lo trovarono, lo sfregarono.
«‘Che cosa importa? Non so. Gli insetti, sono dappertutto’ rispose, allontanandosi da me. ‘Ha detto altro?’
«L’osservai a lungo risalire la Rue Royale: una figura isterica, smilza, vestita di nero stinto, a cui il grosso della folla cedeva il passo.
«Raccontai subito a Claudia delle ferite sulla sua gola.
«Era la nostra ultima notte a New Orleans. Il giorno dopo ci saremmo imbarcati sulla nave poco prima di mezzanotte per salpare il mattino presto. Eravamo d’accordo che saremmo usciti assieme. Era ansiosa, e c’era qualcosa di estremamente triste nella sua espressione, qualcosa che non se n’era più andato da quando aveva pianto. ‘Che cosa possono voler dire?’ domandò ‘Che si è cibato del ragazzo mentre quello dormiva, che il ragazzo gliel’ha permesso? Non riesco a immaginare…’
«‘Sì, dev’essere andata così’. Ma ero incerto. Ricordai quello che aveva detto Lestat a Claudia, che conosceva un ragazzo che sarebbe stato un vampiro migliore di lei. Aveva deciso di farlo? Aveva deciso di creare un altro di noi?
«‘Ormai non ha importanza, Louis’ mi rammentò Claudia. Dovevamo dire addio a New Orleans. Ci stavamo allontanando dalla folla di Rue Royale. I miei sensi erano avidi di ciò che mi circondava e mi ci calavo, riluttante ad ammettere che era l’ultima notte.
«La vecchia città francese era quasi completamente bruciata molto tempo prima e l’architettura di quell’epoca era, com’è adesso, spagnola, il che significava che, mentre percorrevamo la strada strettissima dove un calesse doveva fermarsi per lasciarne passare un altro, superavamo pareti imbiancate e cancelli che rivelavano lontani paradisi di cortili illuminati come il nostro, e ciascuno di essi sembrava mantenere una simile promessa, possedere un simile mistero sensuale. Grandi banani carezzavano le verande dei cortili interni, masse di felci e di fiori affollavano l’ingresso degli atri. Sopra, nell’oscurità, delle figure sedevano al balcone, con la schiena rivolta alle porte aperte, e le voci abbassate e lo sventolio dei ventagli appena udibile nella dolce brezza del fiume; lungo le pareti crescevano così densi il glicine e la passiflora che li sfioravamo quando passavamo o ci arrestavamo per staccare una rosa luminescente o i viticci del caprifoglio. Attraverso le alte finestre, scorgevamo spesso il gioco della luce delle candele sui soffitti di stucco riccamente ornati e spesso la ghirlanda splendente, iridescente d’un lampadario di cristallo. A volte appariva alla ringhiera una figura vestita da sera, tra lo scintillio dei gioielli sulla gola e una ventata di profumo che aggiungeva un aroma inebriante ed evanescente al profumo dei fiori nell’aria.
«Avevamo le nostre strade, i nostri giardini, i nostri angoli preferiti, ma inevitabilmente ci spingemmo fino alla periferia della città vecchia e all’inizio della palude. Una fila interminabile di carrozze ci passò accanto, diretta da Bayou Road a teatro o all’opera. Ma ormai le luci della città erano dietro di noi, e il miscuglio dei suoi profumi era sommerso dal denso odore del marciume della palude. La vista degli alberi alti, oscillanti, dai grossi rami ornati di muschio, m’aveva fatto pensare a Lestat, nauseandomi. Pensavo a lui come al corpo di mio fratello. Lo vedevo completamente sommerso tra le radici del cipresso e della quercia, quella ripugnante forma avvizzita avvolta nel lenzuolo bianco. Mi domandavo se le creature delle tenebre lo fuggissero, sapendo istintivamente che quella cosa disseccata e scricchiolante laggiù era maligna e virulenta, oppure se gli formicolassero intorno nell’acqua fetida, staccandogli dalle ossa l’antica carne inaridita.
«Voltai le spalle alla palude, incamminandomi di nuovo verso il cuore della città vecchia, e sentii la delicata stretta della mano di Claudia che cercava di confortarmi. Aveva colto un bouquet di fiori freschi dai muri dei giardini e lo teneva schiacciato sul corpino del suo abito giallo, affondando il viso nel profumo. Mi sussurrò, così lieve che dovetti avvicinare l’orecchio alla sua bocca: ‘Louis, tu sei angosciato, ma conosci il rimedio. Lascia che la carne… lascia che la carne istruisca la mente’. Mi lasciò andare la mano, e io la osservai allontanarsi da me, voltandosi ancora una volta per sussurrare lo stesso ordine. ‘Dimenticalo. Lascia che la carne istruisca la mente…’ Mi ricordai il libro di poesie che tenevo in mano quando mi disse per la prima volta queste parole e rividi i versi sulla pagina:
Rosse eran le labbra, lo sguardo forte,
gialle come l’oro le chiome torte,
bianca la pelle qual lebbra fatale,
l’Incubo era lei, vita-nella-morte,
che fredda addensa il sangue del mortale.
«Mi sorrideva dall’angolo lontano: un pezzetto di seta gialla che balenò per un attimo nel buio e poi scomparve. La mia compagna, la mia compagna per l’eternità.
«Svoltai in Rue Dumaine, passando accanto a finestre buie. Una lampada si spegneva lentamente dietro un’ampia tenda di pizzo pesante, l’ombra del disegno sul mattone si allargava e impallidiva, svanendo poi nell’oscurità. Proseguii, avvicinandomi alla casa di Madame LeClair, udendo il suono debole ma acuto dei violini che usciva dal salotto al primo piano e la sottile risata metallica degli ospiti. Mi fermai dall’altra parte della strada, nell’ombra, a osservare un gruppetto che s’aggirava per le stanze illuminate; un ospite passò da una finestra a un’altra e a un’altra ancora, con un calice colmo di pallido vino color limone, il viso rivolto alla luna, come se cercasse di vedere qualcosa da una migliore posizione e alla fine l’avesse trovata presso quell’ultima finestra, scostando lo scuro tendaggio.
«Di fronte a me, sulla parete di mattoni, si aprì una porta, e una luce rischiarò l’atrio in fondo. Attraversai lentamente la stretta strada e incontrai i densi aromi della cucina che riempivano l’aria al di là del cancello. L’odore un po’ nauseante della carne che cuoce. Entrai nell’atrio. Qualcuno aveva appena attraversato veloce il cortile e aveva chiuso una porta sul retro. Ma poi vidi un’altra figura. Presso il focolare della cucina, una negra snella con un turbante lucente attorno alla testa, dai lineamenti delicatamente cesellati, che riluceva alla fiamma come una statuetta di diorite. Rimestava il contenuto della pentola. Riconobbi il dolce profumo delle spezie e delle foglie fresche di maggiorana e d’alloro; ma poi, in una vampata, mi giunse l’odore disgustoso della carne cotta, del sangue e delle fibre che si corrompevano nei fluidi bollenti. Mi avvicinai e la vidi deporre il lungo cucchiaio di ferro e mettersi le mani sui fianchi rotondi e generosi, mentre la bianca fascia del grembiule le accentuava la vita piccola, sottile. I sughi della pentola schiumarono sul bordo e caddero picchiettando sui carboni ardenti. Mi giunse l’odore oscuro della ragazza, il suo fosco profumo aromatico, più forte della strana mistura nella pentola, stuzzicante. Mi avvicinai e mi arrestai contro una parete di rampicanti. Di sopra, i flebili violini attaccarono un valzer; le assi del pavimento scricchiolavano sotto i piedi delle coppie danzanti. Il gelsomino attaccato alla parete mi circondò e poi si ritirò come l’acqua che abbandona la spiaggia dilavata; di nuovo percepii il profumo salato della ragazza. Era ormai sulla porta della cucina, il lungo collo nero piegato con grazia mentre guardava nell’ombra sotto la finestra illuminata. ‘Monsieur!’ chiamò, e uscì nel raggio di luce gialla, che cadde sui suoi grandi seni rotondi e sulle lunghe braccia lustre e setose, infine sulla fredda bellezza del suo viso affilato. ‘Cercate la festa, monsieur? È di sopra…’
«‘No, cara, non cercavo la festa’ le risposi, emergendo dall’ombra. ‘Cercavo te’».
«Quando mi svegliai la notte seguente tutto era pronto: il baule col vestiario spedito sulla nave insieme a una cassa che conteneva una bara; la servitù licenziata; i mobili coperti di drappi bianchi. La vista dei biglietti, di varie note d’accredito e di altre carte tutte sistemate in un piatto portafogli nero, portò il viaggio alla luce splendente della realtà. Avrei rinunciato a uccidere se fosse stato possibile, perciò mi dedicai subito alla caccia e in maniera sbrigativa, come Claudia. Si avvicinava l’ora della partenza ed ero solo nell’appartamento ad aspettarla. Era via da troppo tempo per il mio nervosismo. Temevo per lei — anche se era in grado di incantare quasi chiunque per farsi aiutare, se si fosse trovata troppo lontana da casa, e molte volte aveva persuaso degli estranei a portarla fino alla porta di casa, da papà, che si profondeva in ringraziamenti a chi gli aveva riportato la figlia smarrita.
«Quando finalmente la vidi arrivare di corsa, pensai, chiudendo il libro, che si fosse scordata dell’ora, che credesse fosse più tardi di quanto non fosse. Secondo il mio orologio ci restava un’ora. Ma come raggiunse la porta, vidi che mi sbagliavo. ‘Louis, le porte!’ ansimò senza fiato, la mano sul cuore. La seguii in corridoio e, obbedendo ai suoi segni disperati, chiusi le porte che davano sulla veranda. ‘Che c’è?’ le domandai. ‘Che t’è successo?’ Ora stava chiudendo le finestre sul davanti, le alte porte-finestre degli stretti balconi che davano sulla strada. Alzò lo schermo della lampada e spense veloce la fiamma: la stanza piombò nel buio, poi si illuminò gradualmente della luce della strada. Claudia si fermò ansante, con la mano sul petto, poi mi cercò e mi tirò vicino a sé accanto alla finestra.
«‘Qualcuno m’ha seguito’ mi sussurrò. ‘Me lo sentivo dietro, un isolato dopo l’altro. All’inizio ho pensato che non fosse niente!’ Si fermò per prendere fiato, il viso impallidito nella luce bluastra delle finestre di fronte. ‘Louis, era il musicista’ bisbigliò.
«‘Che t’importa? Deve averti visto con Lestat’.
«‘Louis, è quaggiù. Guarda dalla finestra. Cerca di vederlo’. Sembrava sconvolta, quasi impaurita. Come se non volesse farsi vedere sulla soglia. Uscii sul balcone, pur continuando a tenerle la mano: stava in piedi accanto alla tenda e me la stringeva così forte che pensai che temesse per me. Erano le undici e Rue Royale a quell’ora era tranquilla: i negozi chiusi, il traffico del teatro appena finito. Una porta sbatté da qualche parte sulla destra e vidi uscire un uomo e una donna che si diressero in fretta verso l’angolo: il viso della donna era nascosto sotto un enorme cappello bianco. I loro passi si allontanavano. Non vedevo e non sentivo nessuno. Mi giungeva solo il respiro affannato di Claudia. Qualcosa, all’interno della casa, si mosse; trasalii… ma era solo il fruscio degli uccelli: ce n’eravamo scordati. Ma Claudia si spaventò molto più di me e si precipitò al mio fianco. ‘Non c’è nessuno, Claudia…’ le bisbigliai.
«In quell’istante vidi il musicista.
«Era rimasto nel vano della porta d’un negozio d’arredamento, talmente immobile che non m’ero accorto della sua presenza, e suppongo che fosse ciò che voleva, perché levò il viso in alto, verso di me, e rifulse nel buio come una luce bianca. Delusione e angoscia erano completamente spariti dai suoi rigidi lineamenti; i suoi grandi occhi scuri mi scrutavano dalla carne bianca. Era diventato un vampiro.
«‘Lo vedo’ le sussurrai muovendo il meno possibile le labbra, gli occhi fissi su quelli di lui. La sentii avvicinarsi, le mani le tremavano, il cuore le batteva nel palmo della mano. Come lo vide, emise un singulto. Ma nello stesso momento qualcosa mi raggelò. Avevo udito un passo nell’atrio di sotto. Sentii cigolare i cardini del cancello. E poi ancora quel passo, deciso, sonoro, echeggiante sotto la volta del viale d’ingresso, familiare. E ora saliva per la scala a chiocciola. Un grido sottile sfuggì dalle labbra di Claudia, che subito lo contenne con la mano. Il vampiro sulla porta del negozio d’arredamento non si era mosso. E io conoscevo il passo sulle scale. Conoscevo il passo sulla veranda. Era Lestat. Lestat che strattonava violentemente la porta, vi pestava i pugni, la strappava, quasi volesse scardinarla dalla parete. Claudia indietreggiò fino all’angolo più lontano della stanza, piegata su se stessa come se avesse ricevuto un colpo, spostando freneticamente gli occhi dalla figura in strada a me. Il rumore dei colpi sulla porta era sempre più forte. E poi udii la sua voce. ‘Louis!’ Mi chiamò. ‘Louis!’ tuonò da dietro la porta. Poi, il fragore dei vetri infranti nel salotto sul retro. E la serratura che girava dall’interno. Afferrai la lampada, strofinai con forza un fiammifero e lo spezzai nell’agitazione, poi riuscii ad accendere la fiamma e impugnai come un’arma il piccolo vaso di cherosene. ‘Togliti dalla finestra. Chiudila’ le ordinai. Lei obbedì, come se quell’ordine chiaro, esplicito, la sollevasse da un parossismo di paura. ‘E adesso accendi le altre lampade, subito’. La sentii piangere mentre accendeva il fiammifero. Lestat avanzava nel corridoio.
«E poi fu sulla porta. Boccheggiai, e credo di aver fatto diversi passi all’indietro, quando lo vidi. Sentivo i singhiozzi di Claudia. Non c’era dubbio: era Lestat, risanato e integro, che indugiava sulla porta, la testa in avanti e gli occhi gonfi, come se fosse ubriaco e avesse bisogno di reggersi allo stipite per evitare di cascare a capofitto nella stanza. La sua pelle era una massa di cicatrici, un velo ripugnante sulla carne ferita, come se ogni ruga della sua ‘morte’ avesse lasciato il segno. Era bruciacchiato e marchiato come dai colpi vibrati a caso con un attizzatoio incandescente, e i suoi occhi grigi, un tempo limpidi, adesso erano iniettati di sangue.
«‘Stai indietro… per amor di Dio…’ sussurrai. ‘Te la scaglierò contro. Ti brucerò’ lo avvertii. E nello stesso istante udii un rumore a sinistra, qualcosa che grattava, raschiava contro la facciata della casa. Era l’altro. Vidi le sue mani sul balcone di ferro battuto. Claudia lanciò un grido acuto quando il giovane vampiro si buttò con tutto il suo peso contro la porta a vetri.
«Non posso dirti tutto quello che accadde poi. Mi è impossibile riferire esattamente come andarono le cose. Ricordo di aver lanciato la lampada contro Lestat; si frantumò ai suoi piedi e subito le fiamme si levarono dal tappeto. Io avevo in mano una torcia, un grande viluppo di tessuto che avevo strappato dal divano e acceso nelle fiamme. Ma prima avevo lottato con lui, contro la sua grande forza, colpendolo selvaggiamente a pugni e a calci. E da qualche parte, sullo sfondo, udivo le grida di terrore di Claudia. L’altra lampada s’era rotta. Le tende alle finestre bruciavano. Ricordo Lestat con gli abiti che puzzavano di cherosene, che cercava di spegnere le fiamme. Era maldestro, malato, incapace di tenersi in equilibrio; eppure quando mi prese nella sua stretta, dovetti persino lacerargli le dita coi denti per liberarmene. C’era del rumore che cresceva nella strada, grida, e il rintocco di campane. La stanza s’era trasformata in un inferno, e io vidi, in una vampata di luce, Claudia combattere contro il vampiro in erba. Lui non riusciva a metterle le mani addosso, come un umano maldestro che insegua un uccello. Ricordo di aver rotolato nelle fiamme con Lestat, di aver sentito il calore soffocante sul mio viso, di aver visto le fiamme sulla sua schiena quando finii sotto di lui. Poi Claudia emerse da quella confusione e lo colpì ripetutamente con l’attizzatoio, finché lui mollò la presa e io mi allontanai carponi. Vidi l’attizzatoio scendere ripetutamente su di lui e Claudia ringhiare con la violenza cieca d’un animale. Lestat si teneva la mano, una smorfia di dolore sul volto. E sul tappeto fumante giaceva l’altro, il sangue che gli sgorgava dalla testa.
«Non ricordo chiaramente cosa accadde dopo. Credo di averle tolto l’attizzatoio di mano e d’aver assestato a Lestat un colpo deciso su un lato della testa. Ricordo che mi sembrò inarrestabile, invulnerabile. Intanto le fiamme mi stavano bruciando i vestiti e avevano raggiunto il leggerissimo abito di Claudia; l’afferrai e corsi per il corridoio, cercando di soffocare le fiamme col corpo. Ricordo d’essermi tolto la giacca e di averla sbattuta sulle fiamme, una volta all’aria aperta, e uomini che mi passavano accanto e si precipitavano su per le scale. Una gran folla si riversò in cortile e qualcuno salì sul tetto spiovente della cucina di mattoni. Io tenevo Claudia in braccio e correvo via da tutti loro ignorando le domande, aprendomi un varco fra di loro a spallate, costringendo la folla ad aprirsi. E infine fui libero, con lei, col suo respiro affannoso e i suoi singhiozzi nell’orecchio; corsi alla cieca per Rue Royale, svoltai nella prima viuzza, e corsi e corsi, finché non ci furono altri rumori al di fuori dei miei passi. E il respiro di Claudia. E là ci fermammo, un uomo e una bambina, scottati e doloranti, che respiravano profondamente nella quiete della notte.