Davidson mise a buon frutto il registratore a nastro del maggiore Muhamed. Qualcuno doveva fare una registrazione degli avvenimenti di New Tahiti, una storia della crocefissione della Colonia Terrestre. In modo che quando le navi fossero giunte dalla Madreterra, potessero apprendere la verità. In modo che le future generazioni potessero conoscere di quanto tradimento, di quanta codardia e follia fossero capaci gli umani, e di quanto coraggio contro la sorte più avversa.
Durante i suoi momenti liberi, poco più di brevi momenti, da quando aveva assunto il comando, registrava l’intera storia del Massacro di Campo Smith, e aggiornava il resoconto per quanto riguardava New Java, e anche per l’Isola del Re e la Centrale, come meglio poteva, in base ai messaggi confusi e isterici che erano le uniche notizie che riuscisse a ottenere dal Quartier Generale della Centrale.
Ciò che era esattamente successo laggiù, nessuno l’avrebbe mai saputo: eccetto i creechie, poiché gli umani cercavano di nascondere i loro stessi tradimenti ed errori. Ma le grandi linee erano chiare, però. Una banda organizzata di creechie, guidata da Selver, era stata fatta entrare nell’Arsenale e negli hangar, e poi era stata sguinzagliata con dinamite, bombe a mano, fucili e lanciafiamme per distruggere totalmente la città e massacrare gli umani.
Era stato un lavoro organizzato da qualcuno all’interno, e il fatto che il Quartier Generale fosse stato il primo edificio a scoppiare lo dimostrava. Lyubov, naturalmente, c’era implicato… e i suoi piccoli amichetti verdi gli si erano mostrati grati esattamente come ci si poteva aspettare, tagliandogli la gola come agli altri.
Almeno, Gosse e Benton affermavano di averlo visto morto, il mattino dopo il massacro. Ma in realtà si poteva prestar fede a uno di loro? Era pressoché certo che qualsiasi umano rimasto in vita alla Centrale dopo quella notte fosse più o meno un traditore. Un traditore della propria razza.
Le donne erano tutte morte, affermavano. La cosa era abbastanza brutta, ma, quel ch’era peggio, non c’era motivo di crederlo. Era facile per i creechie prendere prigionieri nei boschi, e non c’era niente di più facile che catturare una ragazza spaventata che scappava da una città in fiamme. E i piccoli diavoli verdi non avrebbero preso prigioniera una ragazza umana per fare esperimenti su di lei?
Dio solo sapeva quante donne erano ancora vive nelle tane dei creechie, legate sottoterra in uno di quei loro buchi puzzolenti, e toccate e palpate e calpestate e svergognate dai sudici, pelosi, piccoli uomini scimmia. Non si riusciva neppure a pensarlo. Ma, per Dio, a volte occorre pensare anche alle cose da cui il pensiero si ritrae.
Un elicottero dell’Isola del Re aveva fatto scendere ai prigionieri della Centrale una ricetrasmittente, il giorno dopo il massacro, e Muhamed aveva registrato tutte le comunicazioni con la Centrale a partire da quel giorno. La più incredibile era una conversazione tra lui e il colonnello Dongh.
La prima volta in cui l’aveva ascoltata, Davidson aveva strappato il nastro dalla bobina, e l’aveva bruciato. Ora si pentiva di non averlo conservato, per la sua documentazione, come prova perfetta della totale incompetenza degli Ufficiali Comandanti, sia alla Centrale che a New Java.
Aveva ceduto al proprio sangue bollente, distruggendolo. Ma come si poteva starsene seduti ad ascoltare la registrazione del colonnello e del maggiore che discutevano la resa totale ai creechie, si accordavano di non fare rappresaglie, di non difendersi, di consegnare tutte le loro armi pesanti, di andarsi tutti a spremere insieme in un fazzoletto di terra scelta per loro dai creechie, una riserva concessa loro dai generosi conquistatori, le piccole bestie verdi.
Era incredibile. Alla lettera: incredibile.
Probabilmente il vecchio Din-Don-Dan e Mu-Muu non erano in realtà traditori intenzionali. Erano semplicemente impazziti, avevano perso coraggio. Era stato quel dannato pianeta a farglielo perdere. Occorreva una personalità molto forte, per potergli resistere.
C’era qualcosa nell’aria, probabilmente il polline di tutti quegli alberi, che agiva forse come una sorta di droga, che prendeva gli ordinari esseri umani e li faceva diventare altrettanto stupidi, altrettanto fuori contatto con la realtà, quanto i creechie. Poi, essendo così inferiori di numero, essi diventavano una facile preda per quelle scimmie.
Era un vero peccato che fosse stato necessario eliminare Muhamed, ma Mu-Muu non avrebbe mai accettato i piani di Davidson, questo era chiaro; ormai era troppo lontano dalla realtà. Chiunque, ascoltando quell’incredibile registrazione, sarebbe stato d’accordo con Davidson. Perciò era stato meglio sparargli prima che veramente si accorgesse di ciò che stava accadendo: ora nessuna vergogna avrebbe macchiato il suo nome, a differenza del nome di Dongh e degli altri ufficiali rimasti in vita alla Centrale.
Dongh non aveva più parlato alla radio negli ultimi giorni. Di solito parlava Juju Sereng, del Settore Ingegneria. Davidson un tempo frequentava Juju, e lo aveva sempre creduto un vero amico, ma ormai non ci si poteva più fidare di nessuno. E Juju era un altro asiatico.
Era davvero strano che un numero così grande di asiatici fosse sopravvissuto al Massacro di Centralville; di tutti coloro con cui aveva parlato, l’unico non asiatico era Gosse. Lì a Java, i cinquantacinque uomini fedeli che rimanevano dopo la riorganizzazione erano in prevalenza eurafricani, come lui, con qualche africano e qualche afrasiatico, ma nessun puro asiatico.
Il sangue si vede, in fin dei conti. Non potevi essere pienamente umano se non avevi nelle vene un po’ di sangue proveniente dalla Culla dell’Uomo. Comunque, questo non gli avrebbe impedito di salvare quei poveri bastardi gialli della Centrale; era solo per spiegare il loro crollo morale sotto tensione.
— Ma non capisci in che razza di pasticcio vuoi metterci, Don? — Juju Sereng aveva domandato con la sua voce piatta. — Abbiamo sottoscritto una regolare tregua con i creechie. E abbiamo ordini diretti, dalla Terra, di non interferire con i nativi e di non compiere rappresaglie.
"E poi, come diavolo potremmo fare rappresaglie? Ora che tutti i ragazzi della Terra del Re e della Centrale Meridionale sono qui, siamo pur sempre meno di duemila… e quanti ne hai con te a Java, circa sessantacinque uomini, vero? Credi davvero che duemila uomini possano vincere tre milioni di nemici intelligenti, Don?"
— Juju, bastano cinquanta uomini per farlo. È questione di volontà, di abilità, e di armi.
— Balle! Il fatto è, Don, che è stata sottoscritta una tregua. E se viene infranta, siamo spacciati. È quella tregua a tenerci a galla, ora. Forse, quando la nave tornerà da Prestno e vedrà ciò che è successo, decideranno di spazzare via i creechie. Non lo sappiamo.
"Ma sembra veramente che i creechie intendano rispettare la tregua: dopotutto si è trattato di uria loro idea, e dobbiamo rispettarla anche noi. Possono spazzarci via semplicemente in base al loro numero, in qualsiasi momento, così come hanno fatto a Centralville. Laggiù ce n’erano migliaia. Non riesci a capirlo, Don?
— Ascolta, Juju, certo che ti capisco. Se hai paura di usare i tre elicotteri che hai ancora laggiù, potresti mandarmeli qui, con qualche amico che veda le cose come le vediamo noi. Se devo liberare voialtri da solo, qualche elicottero in più mi farà certamente comodo.
— Tu non riuscirai a liberarci, tu riuscirai soltanto a incenerirci, maledetto stupido. Porta subito alla Centrale quell’ultimo elicottero; è l’ordine personale che il colonnello dà a te, come Ufficiale Comandante ad interim. Usalo per portare qui i tuoi uomini, dodici viaggi, non ti occorreranno più di quattro giorni locali. Ora, sbrigati a mettere in pratica questi ordini, e attieniti a essi.
Tac, chiusa la comunicazione… per paura di dover ancora discutere con lui.
Dapprima Davidson si preoccupò che potessero mandare i loro tre elicotteri a bombardare o cannoneggiare il Campo di New Java; lui, infatti, tecnicamente, stava disobbedendo a degli ordini, e il vecchio Dongh non sopportava gli elementi indipendenti. Bastava vedere come se l’era presa in passato con Davidson, per quella piccola rappresaglia sull’Isola Smith. L’iniziativa veniva punita.
Quello che piaceva a Din-Don-Dan era la sottomissione, come a tanti altri ufficiali. Il guaio è che la cosa può portare anche quegli ufficiali a diventare troppo docili. Davidson infine comprese, con un vero e proprio shock, che gli elicotteri non costituivano una minaccia per lui, poiché Dongh, Sereng, Gosse, perfino Benton, avevano paura di inviarli. I creechie avevano dato ordine di non far uscire gli elicotteri dalla Riserva Umana: ed essi intendevano obbedire agli ordini.
Cristo, la cosa gli faceva venire la nausea. Era tempo di agire. Ormai aspettavano da quasi due settimane. Lui aveva fatto aumentare le difese del campo; avevano rinforzato la palizzata e l’avevano ancora innalzata, in modo che nessun piccolo uomo-scimmia verde potesse salirci sopra, e quel furbo giovanotto di Aabi aveva costruito mucchi di bombe anti-uomo con i mezzi di fortuna di cui disponeva, e le aveva seminate tutt’intorno alla palizzata, in una cintura di cento metri di diametro.
Adesso era giunta l’ora di far vedere ai creechie che, anche se potevano fare il buono e il cattivo tempo con quei pecoroni della Centrale, su New Java dovevano invece affrontare dei veri uomini. Portò in quota l’elicottero, e da lì guidò una squadra appiedata di quindici uomini, fino a una conigliera dei creechie che si trovava a venticinque chilometri a sud del campo.
Aveva imparato a riconoscere dall’elicottero quei posti; ciò che li tradiva era la presenza dei frutteti; concentrazione di certi tipi di alberi, anche se non proprio piantati in filari come fanno gli umani. Era incredibile il numero di conigliere che riuscivi a vedere, una volta imparato a distinguerle. La foresta pullulava di quei luoghi.
La squadra d’assalto bruciò quella conigliera con le armi a mano; poi, nel volo di ritorno a casa, insieme con un paio dei suoi ragazzi, Davidson ne scorse un’altra, a meno di quattro chilometri dal campo. Su di essa, tanto per scrivere il proprio nome in modo che tutti potessero leggerlo, lanciò una bomba. Solo una bomba incendiaria, e neppure grossa, ma, ragazzi, come fece filare le scimmie verdi! Fece un grosso buco nella foresta, e i bordi del buco continuarono a bruciare.
Naturalmente, era quella la sua arma principale, quando si giungeva veramente a una rappresaglia di massa. L’incendio della foresta. Avrebbe potuto dare fuoco a un’intera isola, lanciando dall’elicottero bombe e napalm: bastava aspettare un mese o due, fino alla conclusione della stagione delle pioggie. E quale avrebbe dovuto bruciare? L’Isola del Re, la Smith o la Centrale? Forse per prima quella del Re, come piccolo avvertimento, poiché laggiù non erano rimasti esseri umani. Poi la Centrale, se non si fossero messi in riga.
— Che cosa stai cercando di fare? — chiese la voce della radio.
Lo fece sorridere: era così angosciata, come quella di una vecchia rapinata.
— Ma lo sai che cosa stai facendo, Davidson?
— Certo.
— Credi che riuscirai a sottomettere i creechie?
Non era Juju, questa volta; forse poteva essere quel cervellone di Gosse, o uno qualsiasi degli altri; non faceva differenza; tutti quanti sapevano solo più fare: "Bee".
— Sì, proprio così — rispose, con pacatezza, ironicamente.
— E credi che, se continuerai a bruciare villaggi, essi verranno da te per arrendersi… tre milioni di loro. Giusto?
— Potrebbe anche darsi.
— Senti, Davidson — disse la radio, dopo qualche tempo, sibilando e ronzando (usavano qualche sorta di apparecchio di emergenza, dato che avevano perso il grosso trasmettitore, insieme con quel finto ansible la cui perdita era un guadagno). — Senti, c’è qualcuno vicino a te, laggiù, con cui possiamo parlare?
— No; tutti sono molto indaffarati. Senti, noi qui ce la passiamo benissimo, ma abbiamo finito i dessert, sai, macedonia di frutta, pesche, quel tipo di roba. Alcuni dei ragazzi ne sentono molto la mancanza. E aspettavamo una spedizione di sigarette alla marijuana quando voialtri siete saltati in aria. Se mando l’elicottero, potete darci qualche scatola di dolci e di sigarette?
Pausa. — Sì, manda pure l’elicottero.
— Ottimo. Mettete la roba in una rete, e i ragazzi potranno prenderla senza atterrare. — Sogghignò.
Ci furono delle confabulazioni dalla parte della Centrale, e tutt’a un tratto il vecchio Dongh fu in linea: era la prima volta che parlava con Davidson. La sua voce aveva un timbro fioco e asmatico, in quella trasmissione piena di disturbi.
— Senti, capitano Davidson, desidero sapere se comprendi fino in fondo il tipo di provvedimento che finirò con l’essere costretto a prendere, a causa delle tue azioni su New Java. Se continuerai a disobbedire agli ordini. Cerco di ragionare con te come si fa con un soldato ragionevole e fedele. Allo scopo di assicurare la sicurezza al mio personale qui alla Centrale, presto mi troverò costretto a dire ai nativi di qui che non possiamo assumerci alcuna responsabilità per le tue azioni.
— Questo è giusto, signore.
— Ciò che cerco di renderti chiaro, è che dovremo dire loro che non possiamo impedirti di infrangere la tregua laggiù su Java. Il tuo personale laggiù è composto di sessantasei uomini, vero? Ebbene io voglio che quegli uomini giungano qui alla Centrale senza danni, per attendere con noi il ritorno della Shackleton e per mantenere unita la Colonia. Ti sei avviato su un corso d’azioni suicida, e io sono responsabile per gli uomini che hai con te.
— No, voi non lo siete, signore; lo sono io. Voi badate solo a rilassarvi. Solo quando vedrete la giungla bruciare, alzatevi e correte verso il centro di una Striscia, perché non vogliamo arrostire anche voi uomini insieme con i creechie.
— Ascolta, Davidson, ti ordino di passare immediatamente il comando al tenente Temba e di venire a fare rapporto a me, qui. — Disse la voce lamentosa e lontana, e Davidson chiuse bruscamente la comunicazione, nauseato.
Erano impazziti tutti, giocavano ancora a fare i soldatini, in piena ritirata dalla realtà. In effetti erano soltanto pochissimi gli uomini che riuscissero ad affrontare la realtà, quando le cose si facevano dure.
Come si aspettava, i locali creechie non fecero assolutamente nulla, dopo le sue incursioni nelle conigliere. L’unico modo di trattarli, come aveva sempre saputo fin dall’inizio, era quello di terrorizzarli e di non smettere mai il pugno di ferro. Se lo facevi, loro capivano chi era il padrone, e si sottomettevano.
Adesso, un mucchio di villaggi compresi in un raggio di trenta chilometri sembrava deserto quando arrivava laggiù; ma lui continuava a inviare i suoi uomini a bruciarli, ogni tre o quattro giorni.
I suoi uomini cominciavano a diventare un po’ nervosi. Aveva continuato a far compiere lavori di disboscamento, poiché questo era ciò che erano quarantotto dei cinquantacinque fedeli sopravvissuti: taglialegna. Ma sapevano che le navi da carico automatiche provenienti dalla Terra non sarebbero più scese a terra a caricare il legname: si sarebbero limitate ad arrivare e a girare in orbita, in attesa di un segnale che non giungeva.
E non valeva la pena di tagliare alberi semplicemente per il piacere di farlo; era un lavoro faticoso. Tanto valeva bruciarli.
Davidson esercitò gli uomini a squadre, elaborando tecniche per appiccare fuoco alla foresta. Il tempo era ancora troppo piovoso perché potessero combinare molto, ma l’addestramento teneva occupata la loro mente. Se soltanto avesse avuto a disposizione gli altri tre elicotteri, avrebbe potuto davvero colpire e poi scomparire…
Studiò la possibilità di un’incursione alla Centrale per liberare gli elicotteri, ma per il momento non parlò di questo piano neppure con Aabi e Temba, i suoi più stretti collaboratori. Alcuni dei ragazzi si sarebbero messi fifa al solo pensiero di un’incursione armata al loro Quartier Generale. Continuavano a parlare di: "Quando ritorneremo con gli altri". Non sapevano che quegli altri li avevano abbandonati, li avevano traditi, venduto la loro pelle ai creechie. Ma non lo disse; sarebbe stata troppo dura per loro.
Un giorno, lui, Aabi e Temba e un altro uomo sano e intelligente si sarebbero limitati a portare laggiù l’elicottero, poi tre di loro sarebbero saltati fuori con i mitra, avrebbero preso un elicottero per uno, e poi di nuovo a casa, op-là. Con quattro bei frullini per sbattere le uova. Non si può fare la frittata senza sbattere le uova. Davidson scoppiò a ridere, nell’oscurità del suo bungalow. Mantenne segreto il piano ancora per un poco, perché si sentiva solleticare piacevolmente a quel pensiero.
Un paio di settimane più tardi, avevano eliminato tutte le tane di creechie raggiungibili a piedi, e la foresta era pulita e lustra. Più nessun parassita. Nessun filo di fumo al disopra degli alberi. Nessun creechie che saltasse fuori dai cespugli e si buttasse a terra con gli occhi chiusi, aspettando di farsi calpestare. Più niente omini verdi. Solo un mucchio di alberi e varie zone bruciate. I ragazzi diventavano davvero nervosi e sgarbati; era ora di fare l’incursione per catturare gli elicotteri. Riferì una sera il suo piano ad Aabi, Temba e Post.
Nessuno di loro parlò per un minuto, poi Aabi disse: — E per quel che riguarda il carburante, capitano?
— Abbiamo sufficiente carburante.
— Non per quattro elicotteri; non durerebbe una settimana.
— Vuoi dire che resta solo una scorta di un mese per quello che abbiamo?
Aabi annuì.
— Be’, allora dobbiamo prendere anche un po’ di carburante, a quanto sembra.
— E in che modo?
— Applicatevi al problema.
Tutti si misero a guardarlo senza far niente, con un’aria stupida. La cosa gli diede fastidio. Si rivolgevano sempre a lui, per qualsiasi cosa. Lui era un capo per dono di nascita, ma gli piaceva che gli uomini sapessero anche pensare per conto proprio.
— Trova tu il modo, è il tuo tipo di lavoro, Aabi — disse, e uscì a fumarsi una sigaretta, disgustato del modo in cui tutti si comportavano, come se avessero perso il fegato. Quegli uomini non riuscivano ad affrontare la fredda, dura realtà.
Ormai erano alla fine della scorta di marijuana, e lui stesso non aveva fumato nel corso degli ultimi due giorni. Ma la sigaretta non riuscì a dargli alcuna soddisfazione. La notte era coperta e nera, umida, tiepida, con un odore come di primavera. Ngenene gli passò davanti, camminando come un pattinatore sul ghiaccio, o anzi come un robot montato su ruote; nel bel mezzo di un passo scivolante, si girò con somma lentezza e fissò lo sguardo su Davidson, che era fermo sotto il porticato del bungalow, nella poca luce proveniente dalla porta d’ingresso. Era un manovratore di seghe elettriche, un omone.
— La fonte della mia energia è collegata al Grande Generatore, non posso venire spento — disse con voce priva di inflessione, fissando Davidson.
— Torna nella tua baracca e dormici sopra! — disse Davidson, con quella sua voce simile a una sferza che nessuno disobbediva mai, e dopo un momento Ngenene si allontanò, scivolando attentamente, ponderoso e leggiadro.
Troppi suoi uomini usavano gli allucinogeni in modo sempre più pesante. Ce n’era un mucchio, ma quella roba era per boscaioli che si rilassavano la domenica, non per soldati di un piccolo avamposto abbandonato su un mondo ostile. Non avevano tempo per esilararsene, per sognare.
Era meglio chiudere a chiave le droghe. Ma alcuni dei ragazzi si sarebbero potuti spezzare. Be’, che si spezzassero pure. Non puoi fare la frittata senza spezzare le uova. Forse avrebbe potuto rimandarli alla Centrale in cambio di un po’ di carburante. Voi mi date due, tre bidoni di benzina, e io vi do due, tre corpi caldi, fedeli soldati, buoni boscaioli, esattamente il vostro tipo, solamente incamminati un po’ troppo nel paese dei sogni…
Sorrise, e stava tornando all’interno per parlare della proposta con Temba e gli altri, quando la sentinella appostata in cima al camino della segherìa lanciò un urlo.
— Stanno arrivando! — gridò con voce acutissima, come un bambino che giocasse a Neri e Rhodesiani.
Qualcun altro, dalla parte ovest della palizzata, cominciò a urlare a sua volta. Un colpo di fucile.
E arrivavano davvero. Cristo, come arrivavano. Ce n’erano migliaia, migliaia. Nessun suono, nessun rumore, fino a quell’urlo della sentinella; poi una singola fucilata; poi un’esplosione… una mina anti-uomo che scoppiava… e un’altra, una dopo l’altra e centinaia e centinaia di torce che venivano accese l’una dall’altra e venivano scagliate e volavano come razzi nell’aria nera e umida, e le pareti della palizzata che diventavano vive a forza di creechie che si riversavano, traboccavano, spingevano, sciamavano; migliaia di creechie.
Era come un esercito di ratti che Davidson aveva visto una volta, quando era bambino, nell’ultima Carestia, nelle strade di Cleveland, Ohio, dove era cresciuto. Qualcosa aveva cacciato i topi dalle loro tane, ed essi erano usciti alla luce del sole, formicolando su per le pareti: una coperta pulsante, fatta di pelo e occhi e piccole mani e denti, e lui aveva urlato per chiamare sua madre ed era scappato via come un pazzo; oppure era stato solo un sogno che aveva fatto da bambino?
Era importante mantenere il sangue freddo. L’elicottero era parcheggiato nel recinto dei creechie; era ancora completamente buio da quella parte, e lui vi giunse immediatamente. La porta era chiusa: la teneva sempre chiusa, nel caso a qualcuna delle sorelline fifone venisse l’idea di volarsene fino a Papà Din-Don-Dan in qualche notte buia. Gli parve che prendere la chiave, infilarla nella serratura e girarla nel verso giusto gli richiedesse un tempo esageratamente lungo, ma era solo questione di conservare la calma, e poi gli occorse un altro lungo tempo per correre fino all’elicottero e aprire il portello.
Ora Post e Aabi erano con lui. E infine si alzò il possente rumore dei rotori che sbattevano le uova, che coprivano tutti gli altri folli rumori, le voci acute che urlavano e stridevano e cantavano. Poi si sollevarono, e l’inferno si precipitò lontano da loro, sotto di loro: un recinto pieno di sorci, in fiamme.
— Occorre del sangue freddo per afferrare immediatamente la natura di una situazione di emergenza — disse Davidson. — Voi uomini avete pensato in fretta e agito in fretta. Ottimo lavoro. Dov’è Temba?
— Si è preso una lancia nello stomaco — disse Post.
Aabi, il pilota, sembrava voler guidare l’elicottero, e Davidson gli passò i comandi. Raggiunse a tentoni uno dei sedili posteriori, e si appoggiò allo schienale, per rilassarsi i muscoli. La foresta scorreva sotto di loro, nero sotto nero.
— Dove ti stai dirigendo, Aabi?
— Centrale.
— No. Noi non vogliamo andare alla Centrale.
— E allora dove vogliamo andare? — chiese Aabi, con una sorta di risolino femmineo. — New York? Pechino?
— Limitati a mantenere in volo l’elicottero per un po’ di tempo, Aabi, e vola in cerchio attorno al campo. Grandi cerchi. Fuori portata di udito.
— Capitano, ormai non c’è più nessun Campo New Java — disse Post, caposquadra dei boscaioli, un uomo solido, massiccio.
— Quando i creechie avranno finito di bruciare il campo, torneremo noi a bruciare i creechie. Ci devono essere quattromila creechie radunati in un posto solo, laggiù. Abbiamo sei lanciafiamme nel retro dell’elicottero. Diamo loro tempo una ventina di minuti. Poi cominciamo con il napalm e spariamo coi lanciafiamme a quelli che corrono via.
— Cristo — esclamò Aabi, con violenza — alcuni dei nostri potrebbero essere ancora laggiù, i creechie potrebbero avere fatto dei prigionieri, non lo sappiamo. Io non torno laggiù per bruciare forse degli esseri umani.
Non voltò indietro l’elicottero.
Davidson appoggiò la bocca del revolver contro la nuca di Aabi e disse: — Sì, invece, noi torniamo indietro; perciò fatti forza, bambino, e non darmi fastidio.
— In serbatoio c’è carburante sufficiente a portarci alla Centrale, capitano — disse il pilota. Continuava a cercare di allontanare la testa dal contatto della pistola, come se una mosca gli desse fastidio. — Ma quello è tutto. Tutto quello che abbiamo.
— Allora potremo fare un mucchio di giri. Volta direzione, Aabi.
— Penso che faremmo meglio ad andare alla Centrale, capitano — disse Post, con la sua voce stolida.
Il fatto che si dessero mano in questo modo contro di lui fece arrabbiare Davidson a tal punto che, voltata dall’altra parte la pistola che aveva in mano, scattò rapido come un serpente e colpì Post sopra l’orecchio con l’impugnatura. Il boscaiolo si ripiegò su se stesso come una cartolina d’auguri natalizi e rimase a sedere sulla poltroncina anteriore, con la testa tra le ginocchia e la mano penzolante.
— Volta direzione, Aabi — disse Davidson, con la frusta nella voce.
L’elicottero voltò, descrivendo un largo arco.
— Accidenti, dov’è il campo? Non ho mai pilotato questo elicottero di notte senza segnali da seguire — disse Aabi, parlando in un tono sordo e nasale, come se avesse il raffreddore.
— Dirigiti verso est e cerca di trovare l’incendio — disse Davidson, freddo e calmo.
Nessuno di loro aveva veramente del fegato, neppure Temba. Nessuno di loro gli era rimasto al fianco quando il cammino era diventato davvero duro. Presto o tardi tutti facevano lega contro di lui, perché non riuscivano ad affrontare le cose come faceva lui. I deboli cospirano contro il forte, il forte deve rimanere da solo e badare a se stesso. Semplicemente, era il modo in cui andavano le cose. Dov’era il campo?
Avrebbero dovuto scorgere le case incendiate a distanza di chilometri, in quella profonda oscurità, anche con la pioggia. Nulla compariva. Cielo grigio-nero, terreno nero. I fuochi dovevano essere spenti. Essere stati spenti. Che gli umani avessero respinto i creechie? Dopo che lui era scappato?
Il pensiero gli attraversò la mente come uno spruzzo d’acqua gelida. No, ovviamente no, non in cinquanta contro migliaia. Ma, per Dio, doveva esserci un mucchio di brandelli di creechie saltati in aria, tutt’intorno ai campi minati. Era solo perché erano arrivati così maledettamente numerosi. Nulla sarebbe stato in grado di fermarli. Lui non avrebbe potuto predisporre difese adatte.
E da dove erano arrivati? Non c’era stato alcun creechie nella foresta, in nessuno di quei paraggi, per giorni e giorni. Dovevano essersi rovesciati laggiù da qualche altra parte, da tutte le direzioni, strisciando fin lì in mezzo ai boschi, uscendo dalle loro tane come topi. Non c’era modo di fermare una massa di creechie come quella, migliaia e migliaia.
Dove diavolo era il campo? Aabi cercava di ingannarlo, sbagliava volutamente la rotta.
— Trova quel campo, Aabi — disse piano.
— Dio Cristo, è quello che cerco di fare — disse il ragazzo.
Post non si era mosso, ripiegato sul sedile accanto al pilota.
— Non può essere scomparso, ti pare, Aabi? Hai sette minuti per trovarlo.
— Trovatevelo voi — disse Aabi, con voce acuta e torva.
— Non prima che tu e Post vi siate rimessi in riga, bambino. Abbassa l’elicottero, riduci la velocità.
Dopo un minuto, Aabi disse: — Quello sembra essere il fiume.
C’era infatti un fiume, e una larga radura; ma dov’era il Campo New Java? Non si mostrò mentre si dirigevano a nord, sorvolando la radura.
— Dev’essere questo, non c’è nessun’altra grossa radura, è questo — disse Aabi, ritornando sulla zona senza alberi.
Le loro luci d’atterraggio erano accese, ma non si vedeva nulla, al di là dei tunnel delle luci; sarebbe stato meglio spegnerle. Davidson allungò una mano al disopra della spalla del pilota e spense le luci. Il buio fitto e opaco fu come un asciugamano nero sbattuto sui loro occhi.
— Dio Cristo! — urlò Aabi, e riaccese le luci, inclinò l’elicottero a sinistra e in alto, ma non abbastanza in fretta. Molti alberi si curvarono verso di loro, uscendo dalla notte, e afferrarono la macchina.
Le pale urlarono, scagliando foglie e rami, come trascinati da un ciclone, entro le chiare vie delle luci, ma i tronchi degli alberi erano assai vecchi e forti. La piccola macchina volante si tuffò, parve scuotersi e liberarsi, e cadde di lato fra gli alberi. Le luci si spensero. Il rumore cessò.
— Non mi sento troppo bene — disse Davidson.
Lo ripeté. Poi smise di dirlo, poiché non c’era nessuno a cui dirlo. Infine si accorse di non averlo assolutamente detto. Si sentiva stordito. Doveva essere stato colpito alla testa. Aabi non c’era. Dov’era? Questo era l’elicottero. Era tutto girato al contrario, ma lui era ancora seduto al suo posto. Era così buio, come essere ciechi.
Si tastò intorno, e trovò Post, inerte, ancora ripiegato, infilato tra il sedile anteriore e il cruscotto. L’elicottero tremava ogni volta che Davidson si muoveva, e lui alla fine comprese di non essere sul terreno, ma incuneato tra gli alberi, fermo laggiù come un aquilone.
La sua testa andava meglio; provava un desiderio sempre maggiore di uscire dalla carlinga nera, inclinata. Si spinse, fino al sedile del pilota e sporse fuori le gambe, si appese con le mani, ma non riuscì a toccare il terreno: solo rami, che graffiavano le sue gambe penzolanti. Infine si lasciò cadere, senza nessuna idea della distanza che lo separava dal suolo: ma non poteva resistere dentro a quella carlinga.
Fu un salto di poco più di un metro. L’urto gli scosse tutte le ossa, ma presto si sentì meglio, stando in piedi. Aveva una torcia alla cintura; ne aveva sempre una, la sera, al campo. Ma la torcia non c’era. Strano. Doveva essere caduta. Avrebbe fatto meglio a risalire sull’elicottero per prenderla. Forse l’aveva presa Aabi.
Aabi aveva intenzionalmente mandato l’elicottero a fracassarsi, aveva preso la torcia di Davidson e poi aveva cercato di allontanarsi. L’untuoso piccolo bastardo; era come tutti gli altri.
L’aria era buia e piena di umidità, e non si capiva dove si mettevano i piedi, era tutto radici, cespugli e intrichi. C’erano rumori tutt’intorno, acqua che cadeva, minuscoli fruscii, piccoli animali che ti scivolavano intorno nell’oscurità.
Avrebbe fatto meglio a risalire sull’elicottero per prendere la torcia. Ma non lo vedeva, e non sapeva come raggiungerlo. Con la punta delle dita non giungeva neppure a sfiorare la parte inferiore del portello.
C’era una luce, un fievole lumicino che si lasciava scorgere e poi scompariva fra gli alberi. Aabi aveva preso la torcia e si era allontanato per esplorare, per orientarsi, bravo ragazzo.
— Aabi! — chiamò, con un acuto bisbiglio.
I suoi piedi incontrarono qualcosa di strano, mentre si muoveva per cercare di vedere nuovamente la luce tra gli alberi. Diede un calcio all’oggetto, con gli stivali, poi abbassò una mano per toccarlo, con attenzione, poiché è poco consigliabile toccare le cose che non si possono vedere.
Un mucchio di roba umidiccia, scivolosa: come un topo morto. Ritrasse immediatamente la mano. Dopo un poco, provò a tastare in un altro punto: sotto la sua mano c’era uno stivale, poteva distinguere i lacci intrecciati. Doveva essere Aabi quello che giaceva laggiù, proprio sotto i suoi piedi.
Era stato scagliato fuori della carlinga quando l’elicottero era caduto. Be’, se lo meritava, per quel suo inganno da Giuda, cercare di ritornare alla Centrale. A Davidson non piaceva il contatto con quegli abiti che non poteva vedere e coi capelli. Si raddrizzò. C’era di nuovo la luce, interrotta dalle strisce nere di tronchi d’albero vicini e lontani, un bagliore lontano che si muoveva.
Davidson portò la mano alla fondina. Il revolver non c’era.
L’aveva in mano, nel caso Post o Aabi si opponessero. Non era più nella sua mano. Doveva essere su, nell’elicottero, insieme con la torcia.
Rimase accovacciato, immobile; poi tutt’a un tratto cominciò a correre. Non poteva vedere dove stesse andando. I tronchi d’albero lo sbattevano da una parte all’altra quando urtava contro di essi, e le radici facevano inciampare i suoi piedi.
Cadde di schianto, rovinando in mezzo ai cespugli. Messosi a quattro zampe, cercò di nascondersi. Ramoscelli neri e umidi gli graffiarono la faccia. Contorcendosi, si infilò più profondamente tra i cespugli. Il suo cervello era totalmente occupato dagli odori complessi della dissoluzione e della crescita, foglie morte, disfacimento, nuovi germogli, fronde, fiori: gli odori della notte e della primavera e dell’aria. La luce lo illuminò in pieno. Vide i creechie.
Ricordò ciò che facevano quando erano braccati, e ciò che Lyubov aveva detto sull’argomento. Si girò sulla schiena e giacque a terra con la testa rovesciata all’indietro, gli occhi chiusi. Il cuore gli balbettava nel petto.
Non accadde nulla.
Era difficile aprire gli occhi, ma infine riuscì a farlo. I creechie si limitavano a stare intorno a lui: un mucchio di creechie, dieci o venti. Avevano quelle lance che usavano per la caccia, piccole armi simili a giocattoli, ma la loro lama di ferro era affilata, potevano tagliarti benissimo le budella. Richiuse gli occhi e rimase lì sdraiato, immobile.
E nulla accadde.
Il suo cuore si calmò; gli parve di riuscire a pensare meglio. Qualcosa si agitava nel suo intimo, qualcosa che assomigliava a una risata. Per Dio, non potevano abbatterlo! Quando anche i suoi stessi uomini lo tradivano, quando l’intelligenza umana non poteva fare altro per lui, allora lui usava contro di loro i loro stessi trucchi… si fingeva morto come adesso, e faceva scattare il riflesso istintivo che impediva loro di uccidere chiunque assumesse quella posizione.
I creechie si limitavano a stare intorno a lui, mormorandosi qualcosa l’un l’altro. Non potevano fargli del male. Era come se lui fosse stato un dio.
— Davidson.
Dovette nuovamente aprire gli occhi. La torcia resinosa portata da uno dei creechie bruciava ancora, ma era diventata pallida, e la foresta era color grigiastro, adesso, non più nera come pece. Come era potuto succedere? Erano passati solamente cinque, dieci minuti. Era ancora difficile vedere, ma ormai non era più notte.
Poteva distinguere le foglie e i rami, la foresta. Poteva distinguere la faccia che lo guardava dall’alto. Non aveva colore in quell’indistinto crepuscolo dell’alba. I lineamenti sfregiati sembravano quelli di un uomo. Gli occhi erano come dei fori bui.
— Fatemi alzare — disse d’improvviso Davidson, con voce forte e roca.
Tremava dal freddo per essere rimasto steso sul terreno umido. Non poteva rimanere lì sdraiato, con Selver che lo guardava dall’alto al basso.
Selver non aveva nulla in mano, ma un mucchio di quei piccoli diavoli intorno a lui avevano non solo lance, ma anche revolver. Rubati alla sua armeria, al campo. Si alzò faticosamente in piedi. I vestiti, umidi e freddi, gli rimanevano appiccicati alle spalle e dietro le gambe, e lui non riusciva a fermare i tremori.
— Falla finita — disse Davidson. — Svelto, scat-tare!
Selver si limitò a fissarlo. Almeno, adesso doveva guardare in alto, molto in alto, per incontrare lo sguardo di Davidson.
— Vuoi che ora ti uccida? — domandò.
Aveva imparato quel modo di parlare da Lyubov, naturalmente, pensò Davidson, perfino la voce si sarebbe potuta scambiare per quella di Lyubov. Era quasi sovrannaturale.
— Sono padrone di farlo, no?
— Be’, sei stato a giacere in terra per tutta la notte nel modo che indica che desideri che ti lasciamo vivere; adesso vuoi morire?
Il dolore alla testa e allo stomaco, il suo odio per quell’orribile piccolo mostriciattolo che parlava come Lyubov e che lo aveva alla sua mercé, il dolore e l’odio si combinarono e gli rovesciarono lo stomaco: ebbe un conato e per poco non vomitò. Tremava per il freddo e la nausea. Cercò di afferrarsi al coraggio. All’improvviso fece un passo avanti e sputò in faccia a Selver.
Ci fu una piccola pausa, poi Selver, con una sorta di movimento danzante, sputò addosso a lui. E rise. E non fece alcuna mossa per uccidere Davidson. Davidson si ripulì dalle labbra lo sputo gelido.
— Vedi, capitano Davidson — disse il creechie, con quella sua voce esile e tranquilla che a Davidson faceva girare la testa e lo stomaco — siamo entrambi degli dèi, tu e io. Tu sei un dio insano, e io non sono sicuro di essere sano o no. Ma noi siamo degli dèi.
"Non ci sarà mai più un altro incontro nella foresta, simile all’incontro che si svolge ora tra noi. Noi ci portiamo l’un l’altro il tipo di doni che si portano gli dèi. Tu mi hai fatto un dono, l’uccisione dei propri simili, l’omicidio. Ora, per quanto posso, io ti faccio il dono del mio popolo, che è quello di non uccidere.
"Io penso che ciascuno di noi troverà gravoso da sopportare il dono dell’altro. Comunque, tu dovrai portarlo da solo. La tua gente di Eshsen mi dice che se ti porterò laggiù, dovranno dare un giudizio su di te e ucciderti, la loro legge vuole così. Dunque, se voglio darti la vita, non posso portarti a Eshsen con gli altri prigionieri; e non posso lasciarti a vagare nella foresta, perché fai troppo danno. E così tu sarai trattato come uno di noi che sia diventato matto. Tu sarai condotto a Rendlep, dove nessuno abita più, e lasciato là."
Davidson fissò a occhi sbarrati il creechie, non riuscì a distogliere lo sguardo da lui. Era come se avesse su di lui un potere ipnotico. Non riusciva a sopportarlo. Nessuno aveva alcun potere su di lui. Nessuno poteva ferirlo.
— Avrei dovuto romperti il collo subito, quel giorno che hai provato ad assalirmi — disse, con voce ancora roca e spessa.
— Forse sarebbe stato meglio — rispose Selver. — Ma Lyubov ha evitato che tu lo facessi. Così come ora mi impedisce di ucciderti… Tutte le uccisioni sono ormai finite. E anche l’abbattimento degli alberi. Non ci sono alberi da tagliare su Rendlep.
"Si tratta del posto che voi chiamate Isola Discarica. Il tuo popolo non ha lasciato laggiù alcun albero, e così tu non puoi fare una barca e allontanarti da essa. Non c’è molto che cresca ancora laggiù, e dunque noi dovremo portarti cibo e legna da bruciare.
"Non c’è nulla da uccidere su Rendlep. Né alberi, né persone. Mi pare un posto adatto perché tu ci viva, dato che vuoi vivere. Laggiù potresti imparare come sognare, ma più probabilmente seguirai la tua follia fino alla sua giusta fine, col tempo."
— Uccidimi adesso e piantala con queste tue maledette vanterie.
— Ucciderti? — disse Selver, e i suoi occhi, alzandosi verso quelli di Davidson, parvero brillare, infinitamente chiari e terribili, nella prima luce della foresta. — Io non posso ucciderti, Davidson. Tu sei un dio. Dovrai farlo tu stesso.
Si voltò e si allontanò, leggero e svelto, e dopo pochi passi sparì tra gli alberi grigi.
Un cappio scivolò sulla testa di Davidson e si strinse un poco intorno alla sua gola. Piccole lance si avvicinarono alla sua schiena da ogni lato. I creechie non cercarono di ferirlo. Sarebbe potuto correre via, avrebbe potuto fare un tentativo di fuga, essi non osavano ucciderlo. Le lame erano lucide, a forma di foglia, affilate come rasoi. Il cappio gli tirò leggermente il collo. Lui li seguì dove decisero di condurlo.