2 Selver

Ogni tinta della ruggine e del tramonto, rossi marrone e verdi pallidi, cangiava interminabilmente nelle lunghe foglie agitate dal vento. Le radici dei salici ramati, spesse e nodose, erano color verde muschio in prossimità dell’acqua corrente, che, come il vento, si muoveva con lentezza, con molti ritorni e pause apparenti, trattenuta da rocce, radici, foglie cadute e fronde pendenti.

Nessun cammino era netto, nessuna luce era ininterrotta nella foresta. Nel vento, nell’acqua, nella luce del giorno e in quella delle stelle sempre s’infilavano la foglia e il ramo, il tronco e la radice, il chiaroscuro, la complessità. Brevi percorsi correvano sotto i rami intorno ai tronchi, sulle radici: non procedevano diritti, bensì cedevano a ogni ostacolo, tortuosi come nervi.

Il terreno non era asciutto e solido, ma umido ed elastico, prodotto dalla collaborazione degli organismi viventi con la lunga complicata morte delle foglie e degli alberi; e da quel ricco cimitero crescevano sia alberi di trenta metri, sia minuscoli funghi che spuntavano in cerchi larghi poco più di un centimetro.

L’odore dell’aria era sottile, vario e dolce. La distanza a cui poteva giungere lo sguardo non era mai molta, a meno che non si guardasse in alto, fra i rami, e non si scorgessero le stelle. Nulla era puro, secco, arido, netto. Le rivelazioni mancavano all’appello.

Non esisteva la visione di tutte le cose nello stesso tempo: non c’erano certezze. Le tinte della ruggine e del tramonto continuavano a cangiare sulle foglie pendenti dei salici ramati, e non avresti neppure potuto dire se le foglie dei salici erano di un bruno tendente al rosso, o di un rosso tendente al verde, o verdi.

Selver giunse a un sentiero accanto all’acqua, camminando lentamente e spesso incespicando nelle radici di salice. Scorse un vecchio, intento a sognare, e si fermò. Il vecchio lo fissò, tra le lunghe foglie dei salici, e lo vide nei suoi sogni.

— Posso venire nella tua Loggia, Padron Sognatore? Vengo da assai lontano.

Il vecchio continuò a rimanere seduto, senza muoversi. Dopo un poco, Selver si accoccolò sui calcagni, a lato del sentiero, accanto al torrente. La sua testa si chinò, poiché era esausto e doveva dormire. Camminava da cinque giorni.

— Appartieni al tempo del sogno o a quello del mondo? — gli chiese infine il vecchio.

— Al tempo del mondo.

— Vieni con me, allora.

Il vecchio si alzò rapidamente e accompagnò Selver lungo il sentiero tortuoso che portava dal boschetto di salici alle regioni più asciutte, più buie, della quercia e del biancospino.

— Ti avevo scambiato per un dio — disse, mentre lo precedeva di un passo. — E mi pareva di averti già visto, forse in sogno.

— Non certamente nel tempo del mondo. Vengo da Sornol, non sono mai stato qui prima d’ora.

— Questa città è Cadast. Io sono Coro Mena. Del Biancospino.

— Selver è il mio nome. Del Frassino.

— Ci sono persone del Frassino tra di noi, sia uomini che donne. E anche dei tuoi clan di matrimonio, Betulla e Agrifoglio; non abbiamo donne del Melo. Ma tu non sei venuto qui per una moglie, vero?

— Mia moglie è morta — disse Selver.

Giunsero alla Loggia degli Uomini, posta in una piccola altura, in mezzo a un campo di giovani querce. Si chinarono e strisciarono entro la galleria d’ingresso. All’interno, illuminato dalla luce del fuoco, il vecchio si alzò in piedi, ma Selver rimase curvo sulle mani e le ginocchia, incapace di alzarsi. Ora che soccorsi e conforto erano vicini, il corpo che lui aveva eccessivamente sforzato non voleva andare oltre. Si stese a terra, i suoi occhi si chiusero; Selver scivolò, con sollievo e gratitudine, nella grande oscurità.

Gli uomini della Loggia di Cadast si presero cura di lui, e il loro guaritore giunse a prendersi cura della ferita che aveva al braccio destro. Nella notte, Coro Mena e il guaritore Torber sedettero accanto al fuoco. Quasi tutti gli altri uomini erano con le mogli, quella notte; c’era solo un paio di sognatori apprendisti, sulle panche, ed entrambi si erano presto addormentati.

— Non so che cosa possa procurare a un uomo cicatrici come quelle che ha sulla faccia — disse il guaritore — per non parlare poi di una ferita come quella che ha al braccio. Una ferita davvero strana.

— Ed è una strana macchina, quella che recava alla cintura — disse Coro Mena.

— L’ho vista e non l’ho vista.

— L’ho messa sotto la sua panca. Sembra ferro lucidato, ma non mi pare un manufatto prodotto da uomini.

— Viene da Sornol, ti ha detto.

Entrambi rimasero in silenzio per un certo tempo. Coro Mena sentì una paura irragionevole premere su di lui, e scivolò nel sogno per trovare la ragione della paura: era un uomo anziano, adepto da lungo tempo.

Fece un sogno in cui camminavano i giganti, pesanti e terribili. Le loro membra asciutte e scagliose erano fasciate di stoffe; i loro occhi erano piccoli e chiari, come perline di stagno. Dietro di loro strisciavano grandi oggetti semoventi, fatti di ferro lucidato. Gli alberi cadevano a terra davanti a quelli.

Dagli alberi che cadevano uscì un uomo, di corsa, gridando forte, con il sangue alla bocca. Il sentiero su cui correva era l’ingresso della Loggia di Cadast.

— Be’, non ci sono dubbi — disse Coro Mena, uscendo dal sogno. — È venuto da oltremare, direttamente da Sornol, oppure è venuto a piedi dalla costa di Kelme Deva, sulla nostra stessa terra. I giganti sono in entrambi quei luoghi, dicono i viaggiatori.

— Lo seguiranno — disse Torber. Nessuno rispose alla domanda, che non era una domanda, ma la formulazione di una possibilità.

— Tu hai visto i giganti una volta, Coro?

— Una sola volta — disse il vecchio.

Sognò; e a volte, essendo molto vecchio e non più forte come un tempo, scivolò nel sonno per qualche periodo. Venne il giorno, trascorse il mezzodì. All’esterno della Loggia una squadra di cacciatori partì, con i bambini che cinguettavano, le donne che parlavano con voci simili all’acqua corrente. Una voce più asciutta chiamò Coro Mena, dalla porta. Lui strisciò fuori, nella luce della sera. All’esterno c’era sua sorella, che fiutava con piacere il vento aromatico, ma che non per questo pareva meno preoccupata.

— Lo straniero si è destato, Coro? — chiese la donna.

— Non ancora. Torber si occupa di lui.

— Dobbiamo ascoltare la sua storia.

— Non dubito che presto si sveglierà.

Ebor Dendep si accigliò. Donna-capo di Cadast, era preoccupata per il suo popolo; ma non osava chiedere di disturbare un uomo ferito, né voleva offendere i Sognatori facendo valere il suo diritto di entrare nella loro Loggia.

— Non puoi svegliarlo, Coro? — domandò infine. — E se lui fosse… inseguito?

Coro non poteva guidare le emozioni della sorella con le stesse redini delle sue, ma le avvertiva bene; l’ansia di lei lo pungeva.

— Se Torber darà il permesso, lo farò — disse.

— Cerca di conoscere le notizie da lui portate, presto. Mi spiace che non sia una donna e che non possa parlare in modo assennato…

Lo straniero, intanto, si era destato e giaceva febbricitante nella semioscurità della Loggia. I sogni non controllati della malattia si muovevano nei suoi occhi. Si rizzò a sedere, comunque, e parlò in modo composto. E mentre Coro Mena lo ascoltava, le sue ossa parevano volersi rattrappire dentro di lui, cercando di sottrarsi a quella terribile storia, a quella nuova cosa.

— Ero Selver Thele, quando abitavo a Eshreth in Sornol. La mia città fu distrutta dagli umani quando essi tagliarono gli alberi di quella regione. Io fui uno di coloro che furono costretti a servirli, insieme con mia moglie Thele.

"Lei venne violentata da uno di loro e morì. Io attaccai l’umano che l’aveva uccisa. Lui mi avrebbe ucciso, a quel punto, ma un altro di loro mi salvò e mi liberò.

"Io lasciai Sornol, dove adesso nessuna città è al sicuro dagli umani, e giunsi qui all’Isola del Nord, e andai a vivere sulla costa di Kelme Deva, nei Boschi Rossi. Infine vi giunsero gli umani e cominciarono a tagliare il mondo. Distrussero una città, laggiù: Penle. Catturarono un centinaio di uomini e donne e li costrinsero a servirli, e a vivere nei recinti.

"Io non venni preso. Andai con altri che erano scappati da Penle e che si erano rifugiati nelle paludi a nord di Kelme Deva. A volte, la notte, mi recavo tra gli uomini chiusi nei recinti degli umani. E gli uomini dei recinti mi dissero che c’era quello. Quello che avevo cercato di uccidere.

"All’inizio pensai di provarci nuovamente; oppure di liberare la gente chiusa nei recinti. Ma sempre vedevo cadere gli alberi, e il mondo aprirsi sotto le lame e venire abbandonato a marcire. Gli uomini sarebbero potuti scappare, ma le donne erano chiuse in modo più sicuro e non avrebbero potuto farlo, e cominciavano a morire.

"Io parlai con le persone che si nascondevano nella palude. Eravamo tutti molto spaventati e molto adirati, e non avevamo modo di dare la libertà alla nostra paura e alla nostra collera. Così, alla fine, dopo lunghi discorsi, lungo sognare, e dopo aver fatto un piano, uscimmo alla luce del giorno e uccidemmo gli umani di Kelme Deva con frecce e lance da caccia e bruciammo la loro città e le loro macchine. Non lasciammo nulla. Ma quell’umano si era allontanato. Ritornò indietro da solo. Io cantai su di lui, e lo lasciai andare."

Selver tacque.

— E poi? — bisbigliò Coro Mena.

— Poi giunse da Sornol una nave volante, e ci diede la caccia nella foresta, ma non trovò alcuno. Così appiccarono fuoco alla foresta; ma piovve, e causarono pochi danni. La maggior parte delle persone liberate dai recinti e delle altre è andata più lontano, a nord e a est, verso le Colline di Holle, perché temevano che giungessero molti umani a darci la caccia. Io viaggiai da solo. Gli umani mi conoscono, sapete; riconoscono la mia faccia, e questo mi spaventa, e spaventa coloro che stanno con me.

— Che cos’è la tua ferita? — chiese Torber.

— Quell’umano mi ha colpito con il loro tipo di armi; ma io l’ho cantato a terra e l’ho lasciato andare.

— Da solo hai messo a terra un gigante? — chiese Torber con un sorriso feroce, augurandosi di poter credere.

— Non ero solo. Ero con tre cacciatori e avevo in mano la pistola del gigante… questa.

Torber si ritrasse istintivamente dall’oggetto.

Per un certo tempo, nessuno di loro parlò. Infine Coro Mena disse: — Ciò che tu ci racconti è molto nero, e la strada scende sempre più in basso. Sei un Sognatore della tua Loggia?

— Lo ero. Non esiste più una Loggia di Eshreth.

— Sono tutte una; parliamo l’Antica Lingua insieme. Tra i salici di Asta tu mi hai parlato la prima volta, chiamandomi Padron Sognatore. E io lo sono. Tu sogni, Selver?

— Raramente, oggi — rispose Selver, obbediente al catechismo, e chinò la faccia febbricitante e segnata di cicatrici.

— Da sveglio?

— Da sveglio.

— E sogni bene?

— Non bene.

— E tieni il sogno fra le tue mani?

— Sì.

— Lo intessi e gli dai forma, lo dirigi e lo segui, lo inizi e lo termini a volontà?

— A volte; non sempre.

— E puoi percorrere la strada presa dal tuo sogno?

— A volte. A volte ho timore di farlo.

— E chi non l’ha? Non sei del tutto malvagio, Selver.

— No, lo sono del tutto — disse Selver. — In me non resta nulla di buono. — E cominciò a tremare.

Torber gli diede da bere la linfa di salice e gli ordinò di sdraiarsi. Coro Mena doveva ancora rivolgergli la domanda della donna-capo; la rivolse con riluttanza, inginocchiato accanto all’uomo malato: — I giganti, gli "umani", come tu li chiami, seguiranno le tue tracce, Selver?

— Non ho lasciato tracce. Nessuno mi ha visto tra Kelme Deva e questo luogo, sei giorni di cammino. Ma non è questo il pericolo. — Si sforzò di rimettersi a sedere. — Ascolta, ascolta. Tu non vedi il pericolo. E come potresti vederlo? Tu non hai fatto quello che ho fatto io, non ne hai mai sognato: far morire duecento persone. Gli umani non seguiranno me, ma forse ci seguiranno tutti. Ci daranno la caccia, come fanno i cacciatori con i conigli. È questo il pericolo. Possono volerci uccidere. Uccidere tutti, tutti gli uomini.

— Sdraiati…

— No, non sto delirando, questi sono veri fatti e veri sogni. C’erano duecento umani a Kelme Deva, e sono morti. Li abbiamo uccisi noi. Li abbiamo uccisi come se non fossero uomini. Essi non si rivolteranno e non faranno lo stesso? Hanno ucciso i nostri uno alla volta, ma adesso ci uccideranno come uccidono gli alberi: a cento e cento e cento.

— Stai calmo — disse Torber. — Queste cose succedono nel sogno della febbre, Selver. Non succedono nel mondo.

— Il mondo è sempre nuovo — disse Coro Mena — per vecchie che siano le sue radici. Selver, come sono, queste creature? Hanno l’aspetto di uomini e parlano come uomini, ma non sono uomini?

— Non lo so. Gli uomini non si uccidono tra loro, se non nella pazzia. C’è qualche bestia che uccide individui della sua stessa specie? Solo gli insetti. Questi umani ci uccidono con la leggerezza con cui noi uccidiamo i serpenti. Colui che ha insegnato a me, mi ha detto che si uccidono tra loro, in dispute, e anche in gruppi, come formiche che lottano. Io questo non l’ho visto. Ma so che non risparmiano colui che chieda la vita. Non esitano a colpire un collo chino, l’ho visto io! In loro c’è il desiderio di uccidere, e dunque mi è parso giusto metterli a morte.

— E tutti i sogni degli uomini — disse Coro Mena, seduto a gambe incrociate nell’oscurità — cambieranno. Non saranno più gli stessi. Io non camminerò più per il sentiero che ieri ho percorso con te, il sentiero che sale dal boschetto di salici e su cui ho camminato per tutta la mia vita. È cambiato. Tu hai camminato su di quello, ed esso è cambiato profondamente.

"Prima di questo giorno, la cosa che dovevamo fare era la cosa giusta da farsi; la strada che dovevamo percorrere era la strada giusta e ci conduceva a casa. Dov’è adesso la nostra casa? Poiché tu hai fatto ciò che dovevi fare, e non era il giusto. Hai ucciso degli uomini. Io li vidi, cinque anni fa, nella Valle di Lemgan, dove erano giunti con una nave volante; mi nascosi e osservai i giganti, sei di numero, e li vidi parlare, e guardare le rocce e le piante, e cuocere il cibo. Sono uomini. Ma tu sei vissuto tra loro; dimmi, Selver, sognano?"

— Come i bambini, nel sonno.

— Non hanno addestramento?

— No. A volte parlano dei loro sogni, e i guaritori cercano di usarli per la cura, ma nessuno di loro è addestrato, o ha qualche abilità nel sognare. Lyubov, che ha insegnato a me, mi comprendeva quando gli mostravo come sognare, eppure, nonostante ciò, continuava a chiamare "reale" il tempo del mondo e "irreale" il tempo del sogno, come se ci fosse differenza tra i due.

— Tu hai fatto ciò che dovevi fare — ripeté Coro Mena, dopo un silenzio. I suoi occhi incontrarono quelli di Selver, attraverso le ombre. La tensione disperata si allentò nella faccia di Selver; la sua bocca sfregiata si rilassò; si appoggiò sulla schiena senza dire altro. In breve si addormentò.

— È un dio — disse Coro Mena.

Torber annuì, accettando quasi con sollievo il giudizio del vecchio.

— Ma non è come gli altri. Non è come l’Inseguitore, e neppure come l’Amico che non ha volto, o la Donna delle Foglie di Pioppo, che cammina nella foresta dei sogni. E non è il Guardaporta, né il Serpente. Né il Suonatore di Lira, né lo Scultore o il Cacciatore, sebbene scenda nel tempo del mondo al pari di quelli. Possiamo aver sognato di Selver in questi ultimi anni, ma non lo sogneremo più; ha lasciato il tempo del sogno. Viene nella foresta, dalla foresta, dove le foglie cadono, dove gli alberi cadono: un dio che conosce la morte, un dio che uccide e che a sua volta non rinasce.


La donna-capo ascoltò i rapporti di Coro Mena e le sue profezie, e agì. Mise in allarme la città di Cadast, assicurandosi che ogni famiglia fosse pronta a partire, con qualche pacco di cibo, con barelle pronte per i vecchi e i malati. Inviò giovani donne in esplorazione a sud e a est per avere notizie degli umani. Tenne continuamente intorno alla città un gruppo di cacciatori armati: gli altri uscirono, come sempre, ogni notte.

È quando Selver si fu maggiormente ristabilito, gli chiese di uscire dalla Loggia per raccontare la sua storia: di come gli umani uccidessero e facessero schiava la gente di Sornol, e abbattessero le foreste; di come la gente di Kelme Deva avesse ucciso gli umani. Costrinse le donne e i non-sognatori, che non comprendevano queste cose, ad ascoltare nuovamente, finché non capirono, e ne furono atterriti.

Ebor Dendep era una donna pratica. Quando un Grande Sognatore, suo fratello, le aveva detto che Selver era un dio, un cambiatore, un ponte tra le realtà, lei gli aveva creduto e aveva agito. Era responsabilità del Sognatore quella di essere attento, di essere certo che il proprio giudizio fosse vero. La responsabilità di lei era poi quella di raccogliere quel giudizio e di agire in merito. L’uno vedeva ciò che doveva essere fatto; l’altra provvedeva a che fosse fatto.

— Tutte le città della foresta devono udire — disse Coro Mena.

E dunque la donna-capo diramò le sue giovani corriere, e le donne-capo di altre città ascoltarono, e mandarono le proprie corriere. L’ammazzamento a Kelme Deva e il nome di Selver percorsero tutta l’Isola del Nord e si spinsero oltremare ad altre terre, di bocca in bocca, o per scritto; non molto velocemente, poiché il Popolo della Foresta non aveva messaggeri se non quelli che andavano a piedi; ma velocemente quant’era necessario.

Non c’era una sola nazione, sulle Quaranta Terre del mondo. C’erano più linguaggi che Terre, e ciascuno aveva un differente dialetto in ogni città che lo parlava; c’erano infinite ramificazioni di maniere, morale, costumi, arti; i tipi fisici differivano per ciascuna delle cinque Grandi Terre. La gente di Sornol era alta, e pallida, ed era costituita di grandi mercanti; la gente di Rieshwel era bassa, e laggiù molti avevano il pelo nero, e mangiavano le scimmie; e così di seguito.

Ma il clima variava poco, e la foresta pochissimo, e il mare niente affatto. La curiosità, le rotte commerciali regolari e la necessità di trovare un marito o una moglie dell’Albero adatto mantenevano un agile movimento di persone tra le città e le terre, e perciò c’erano talune somiglianze tra tutti, salvo che tra gli estremi più remoti, le semileggendarie isole barbariche di Lontano Oriente e Sud.

In tutte le Quaranta Terre, le donne governavano città e villaggi, e quasi ogni città aveva una Loggia degli Uomini. All’interno delle Logge i Sognatori parlavano una vecchia lingua, che variava poco da una terra all’altra. Raramente veniva appresa dalle donne o dagli uomini che, restando cacciatori, pescatori, tessitori, costruttori, sognavano solamente i piccoli sogni, al di fuori della Loggia.

Quasi tutti gli scritti erano nella lingua della Loggia: quando le donne-capo inviavano ragazze veloci a portare messaggi, le lettere andavano da una Loggia all’altra, e venivano tradotte dai Sognatori alle Anziane Donne, così come avveniva per gli altri documenti, dicerie, problemi, miti e sogni. Ed erano sempre le Anziane Donne a scegliere se credere o no.


Selver era in una piccola stanza a Eshsen. La porta non era chiusa a chiave, ma Selver sapeva che se l’avesse aperta ne sarebbe venuto qualcosa di male. Finché l’avesse tenuta chiusa, tutto sarebbe stato a posto. Ma c’erano dei giovani alberi, un frutteto composto di arboscelli piantati davanti alla casa; non erano alberi di melo o di noce, ma di qualche altra razza, e lui non ricordava di che razza fossero. Uscì dalla stanza per accertarsene. Erano tutti sparsi sul terreno, spezzati e sradicati. Raccolse il ramo argenteo di uno degli alberi, e dall’estremità spezzata cadde una goccia di sangue. No, non qui, non un’altra volta, Thele, disse. Oh, Thele, vieni a me prima della tua morte! Ma lei non venne.

Laggiù c’era solo la sua morte, la betulla spezzata, la porta spalancata. Selver si volse indietro e ritornò rapidamente nella casa, scoprendo che era costruita al disopra del suolo, come una casa degli umani, ed era molto alta e piena di luce. Al di là dell’altra porta, all’altro capo della stanza dal soffitto alto, c’era la lunga strada della città degli umani: Centrale.

Selver aveva la pistola nella cintura. Se Davidson fosse giunto, avrebbe potuto sparargli. Attese, fermo sulla soglia della porta aperta, e si guardò intorno, alla luce del sole. Davidson giunse: era enorme, correva così velocemente che Selver non riusciva a tenerlo entro il mirino dell’arma, mentre passava follemente da una parte all’altra dell’ampia strada, molto veloce, sempre più vicino.

La pistola pesava. Selver fece fuoco, ma dall’arma non uscì alcun fuoco, e lui, in preda alla rabbia e alla disperazione, gettò via la pistola e con essa il sogno.

Disgustato e depresso, sbuffò e scosse il capo.

— Un sogno cattivo? — s’informò Ebor Dendep.

— Sono tutti cattivi, e tutti uguali — rispose; ma la profonda inquietudine e lo sconforto si allentarono un poco, con quella risposta.

La fredda luce del sole mattutino scendeva variegata e lanceolata tra le foglie sottili e i rami del boschetto di betulle di Cadast. Laggiù sedeva la donna-capo, e intrecciava un cestino di felci nere, poiché amava tenere in attività le dita, mentre Selver giaceva accanto a lei nel mezzo-sogno e nel sogno.

Selver era a Cadast già da quindici giorni, e la sua ferita guariva bene. Dormiva ancora molto, ma per la prima volta in molti mesi aveva ripreso a sognare da sveglio, regolarmente, e non una sola volta o due nell’arco di un giorno e di una notte, ma con quella vera pulsazione, quel ritmo del sognare che deve salire e scendere da dieci a quattordici volte nel ciclo di un giorno.

Per cattivi che fossero i suoi sogni, pieni di terrore e di vergogna, lui li accoglieva con gioia. Aveva temuto di essere ormai isolato dalle proprie radici, di essersi spinto troppo avanti nella landa morta dell’azione per poter ancora ritrovare la via del ritorno alle sorgenti della realtà. Ora, sebbene quell’acqua fosse molto amara, Selver ritornava a berne.

Poco dopo, atterrò nuovamente Davidson, tra le ceneri dell’accampamento bruciato, e, invece di cantare su di lui, questa volta lo colpì sulla bocca con una pietra. I denti di Davidson si spaccarono, e il sangue prese a scorrere tra le schegge bianche.

Il sogno era utile… un chiaro appagamento di desiderio… ma lui lo fermò a quel punto, poiché lo aveva già sognato molte volte, sia prima di incontrare Davidson tra le ceneri di Kelme Deva, sia dopo di allora. In quel sogno non c’era altro che un sollievo immediato. Una goccia di acqua priva di gusto. Mentre invece gli occorreva il gusto amaro. Doveva ritornare subito indietro, non a Kelme Deva, ma alla lunga, terribile strada nella città straniera chiamata Centrale, dove aveva attaccato la Morte ed era stato sconfitto.

Ebor Dendep canticchiava, mentre lavorava. Le sue mani sottili, la cui lanugine verde di seta si inargentava per l’età, intrecciavano steli neri di felce sopra e sotto, rapidamente e senza mai sbagliare. La donna cantava una canzone che parlava di raccogliere le felci, una canzone da bambine: "Raccolgo le felci, mi chiedo se lui tornerà…"

La sua voce debole e anziana trillava come il canto di un grillo. Il sole tremolò fra le foglie di betulle. Selver appoggiò la testa fra le braccia.

Il boschetto di betulle era pressappoco nel centro della città di Cadast. Da esso si dipartivano otto sentieri che procedevano con strette curve in mezzo agli alberi. Nell’aria c’era un’idea di fumo di legna; là dove i rami si assottigliavano al margine sud del boschetto, si vedeva salire il fumo dal comignolo di una casa, simile a un pezzo di filo azzurro che si dipanasse tra le foglie. E se si guardava attentamente tra le querce e gli altri alberi, si potevano scorgere i tetti delle abitazioni, che sporgevano di mezzo metro dal suolo: ce n’erano tra i cento e i duecento, era molto difficile contarli.

Le case di tronchi d’albero sprofondavano per tre quarti, ed erano accomodate tra le radici degli alberi come tane di tasso. I solai di travicelli erano ricoperti da un tetto di piccoli rami, aghi di pino, canne, terricci. Erano isolanti, impermeabili, quasi invisibili.

La foresta e la comunità di ottocento persone continuavano a occuparsi delle proprie faccende tutt’intorno al boschetto di betulle dove Ebor Dendep sedeva a costruirsi un cestino di felci. Un uccello, in mezzo alle fronde sopra la sua testa, disse: "Ti-whit", dolcemente.

C’erano più rumori di persone del normale, poiché cinquanta o sessanta stranieri, in prevalenza giovani, erano approdati nella città nel corso degli ultimi giorni, attirati dalla presenza di Selver. Alcuni provenivano da altre città del Nord, alcuni appartenevano al gruppo che aveva compiuto l’ammazzamento a Kelme Deva con lui; avevano seguito le voci che dicevano di seguirlo.

Eppure, le voci che gridavano qui e là e le chiacchiere delle donne che facevano il bagno o dei bambini che giocavano accanto al fiume erano meno forti del canto degli uccelli mattutini, del ronzio degli insetti e del sub-rumore della foresta vivente, di cui la città era solo uno degli elementi.

Una ragazza giunse sveltamente: una giovane cacciatrice del colore delle pallide foglie di betulla.

— Messaggio dalla costa meridionale, Madre — disse. — La corriera è alla Loggia delle Donne.

— Mandala qui dopo che avrà mangiato — disse piano la donna-capo. — Ss, Tolbar, non vedi che dorme?

La ragazza si chinò a raccogliere una larga foglia di tabacco selvatico, e la depose gentilmente sugli occhi di Selver, che erano stati colpiti da un raggio del sole sempre più alto.

Selver giaceva con le mani semiaperte e la sua faccia sfregiata e ferita voltata verso l’alto, vulnerabile e sciocco, un Grande Sognatore colto dal sonno come un bambino. Ma Ebor Dendep osservava soprattutto la faccia della ragazza. In quella luce irregolare, brillava di pietà e di terrore, di adorazione.

Tolbar si allontanò di corsa. In seguito giunsero due delle Anziane Donne, insieme con la messaggera, muovendosi silenziosamente in fila, lungo il sentiero maculato dal sole. Ebor Dendep alzò la mano, godendosi il silenzio. La messaggera si stese immediatamente a terra e si riposò; il suo pelo verde screziato di marrone era impolverato e sudato: aveva corso a lungo, e in fretta. Le Anziane Donne si misero a sedere in chiazze di luce, e non si mossero più. Sedevano come due vecchie pietre grigie e verdi, con occhi luminosi e vivi.

Selver, lottando con un sogno portato dal sonno, che sfuggiva al suo controllo, lanciò un urlo, come per una grande paura, e si destò.

Si recò a bere al ruscello; quando tornò indietro, era seguito da sei o sette di coloro che sempre lo seguivano. La donna-capo depose a terra il lavoro non ancora finito e disse: — Ora, che tu sia la benvenuta, corriera, e parla.

La corriera si alzò in piedi, chinò la testa a Ebor Dendep e riferì il suo messaggio: — Io vengo da Trethat. Le mie parole vengono da Sorbron Deva, e prima da marinai dello Stretto, e prima ancora da Broter in Sornol. Esse sono per le orecchie di tutto Cadast, ma devono essere dette all’uomo chiamato Selver che è nato del Frassino a Eshreth. Ecco le parole: "Ci sono nuovi giganti nella grande città dei giganti di Sornol, e molti di questi nuovi giganti sono femmine. La gialla nave di fuoco va su e poi giù nel luogo che era chiamato Peha. È noto in Sornol che Selver di Eshreth ha bruciato la città dei giganti a Kelme Deva. I grandi sognatori fra gli Esuli di Broter hanno sognato giganti più numerosi degli alberi delle Quaranta Terre". Queste sono le parole del messaggio che io reco.

Dopo la recitazione cantilenante, tutti rimasero in silenzio. L’uccello, poco distante, disse: "Whit-whit?" senza troppa convinzione.

— Questo è un tempo del mondo veramente brutto — disse una delle Anziane Donne, strofinandosi un ginocchio reumatico.

Un uccello grigio prese il volo da un’ampia quercia che contrassegnava il margine settentrionale della città, e s’innalzò in cerchi, facendo trasportare dalle correnti ascensionali del mattino le sue ali pigre. C’era sempre un albero-posatoio di quei nibbi grigi nei pressi di una città; essi costituivano il servizio di nettezza urbana.

Un ragazzino piccolo e grassoccio attraversò di corsa il boschetto delle betulle, inseguito da una sorella leggermente più grande: entrambi strillavano con voci minute come quelle dei pipistrelli. Il ragazzino cadde a terra e si mise a piangere, la bambina lo aiutò ad alzarsi e gli asciugò le lacrime con una larga foglia. Poi si allontanarono nella foresta, tenendosi per mano.

— C’era uno, chiamato Lyubov — disse Selver alla donna-capo. — Ho parlato di lui a Coro Mena, ma non a te. Quando quell’altro stava per uccidermi, fu Lyubov a salvarmi. Fu Lyubov che mi curò e mi mise in libertà. Lui desiderava sapere di noi; e io gli dicevo ciò che mi chiedeva, e anche lui rispondeva alle mie domande. Una volta gli chiesi come la sua razza potesse sopravvivere, dato che aveva così poche donne. Lui disse che nel luogo da cui provengono, metà della razza è composta di donne; ma gli uomini non volevano portare le donne nelle Quaranta Terre finché non avessero preparato un posto adatto a loro.

— Finché gli uomini non avessero preparato un posto adatto alle donne? Oh, be’! Allora avranno un bell’aspettare — disse Ebor Dendep. — Sono come la gente del Sogno dell’Olmo, che viene avanti rinculando, con la testa voltata a fronteggiare ciò che c’è dietro. Trasformano la foresta in una spiaggia arida — (la sua lingua non aveva alcuna parola che significasse "deserto") — e questo lo chiamano preparare le cose per le donne? Avrebbero dovuto mandare le donne per prime. O forse presso di loro sono le donne a compiere il Grande Sogno, chi lo sa? Sono arretrati, Selver. Sono pazzi.

— Un popolo intero non può essere pazzo.

— Ma si limitano a sognare nel sonno, hai detto; se vogliono sognare quando sono svegli, prendono dei veleni, e così i sogni escono di controllo, hai detto! Potrebbe un popolo essere più folle? Essi non distinguono il tempo del sogno dal tempo del mondo, non più di quanto lo distingua un bambino. Forse, quando uccidono un albero, pensano che ritornerà ancora in vita!

Selver scosse la testa. Parlava ancora con la donna-capo, come se fossero soli nel boschetto di betulle, con una voce calma ed esitante, quasi sonnolenta: — No, capiscono la morte molto bene… Certo, non vedono alla nostra maniera, ma hanno conoscenze maggiori delle nostre, e capiscono meglio di noi certi generi di cose. Lyubov capiva quasi sempre ciò che gli dicevo. Molto di ciò che diceva a me, invece, io non lo capivo.

"Non era il linguaggio a impedirmi la comprensione; io conosco la sua lingua, e lui ha appreso la nostra; abbiamo fatto uno scritto delle due lingue insieme. Eppure, c’erano cose che diceva senza che io riuscissi mai a capirle. Diceva che gli umani provengono dall’esterno della foresta. Questo è abbastanza chiaro. Diceva che vogliono la foresta: gli alberi per il legno, la terra per piantarvi erbe."

La voce di Selver, per quanto ancora pacata, aveva acquistato risonanza; le persone tra gli alberi argentei erano in ascolto.

— Anche questo è chiaro, per quelli di noi che li hanno visti abbattere il mondo. Lyubov diceva che gli umani sono uomini come noi, che siamo davvero parenti, consanguinei, forse, più del Cervo Rosso con quello Grigio. Disse che provengono da un altro posto che non è la foresta; là gli alberi sono tutti tagliati; ha un sole, non il nostro sole, che è una stella.

"Tutto questo, come capite, non mi era molto chiaro. Io ripeto le sue parole, ma non so che cosa significhino. Comunque, ciò ha poca importanza. È chiaro che vogliono per sé la nostra foresta. Sono alti il doppio della nostra altezza, hanno armi che superano come portata le nostre, e di molto; lanciafiamme; navi volanti. Adesso hanno portato altre donne, e avranno dei figli.

"Ci sono forse duemila, forse tremila di loro, oggi come oggi, in maggioranza su Sornol. Ma se aspetteremo la durata di una vita o due, si moltiplicheranno; il loro numero raddoppierà, e raddoppierà ancora. Essi uccidono uomini e donne; non risparmiano coloro che chiedono la vita. Non sono capaci di cantare in gara. Hanno lasciato le proprie radici alle loro spalle, forse in quell’altra foresta da cui sono giunti, la foresta senza alberi.

"Per questo prendono veleni per dare libertà ai sogni che hanno dentro di sé, ma ciò non fa che renderli ubriachi o malati. Nessuno può dire con certezza se siano o non siano uomini, se siano o non siano pazzi, ma questo non importa. Occorre costringerli a lasciare la foresta, poiché sono dannosi. Se non vorranno andarsene, occorre cacciarli dalle Terre col fuoco, così come occorre scacciare col fuoco, dai solchi delle città, i nidi delle formiche nocive.

"Se aspetteremo, saremo noi quelli che saranno cacciati via col fumo e poi bruciati. Essi possono calpestarci come noi calpestiamo le formiche. Una volta ho visto una donna… e ciò accadde quando bruciarono la mia città, Eshreth… che si era buttata sul terreno davanti a un umano per chiedergli la propria vita, e lui le montò con i piedi sulla schiena e le ruppe la spina dorsale, e poi l’allontanò con un calcio, come se fosse un serpente morto.

"L’ho visto con i miei occhi. Se gli umani sono uomini, essi, o per loro natura o perché nessuno glielo insegna, sono uomini incapaci di sognare e di agire come uomini. Pertanto si aggirano nel loro tormento, uccidono e distruggono, spinti dagli dei del loro interno; dei che essi non vogliono mettere in libertà, e che invece cercano di sradicare e di negare. Se sono uomini, allora, poiché hanno negato i loro stessi dei, sono uomini malvagi, che hanno paura di scorgere le proprie facce nel buio. Donna-capo di Cadast, ascoltami." Selver si alzò alto e brusco tra le donne sedute.

— È tempo, ritengo, che io ritorni alla mia terra, a Sornol, a coloro che sono in esilio e a coloro che sono in schiavitù. Di’ a ciascuna persona che abbia sognato di una città che brucia di seguirmi a Broter.

Si inchinò a Ebor Dendep e lasciò il boschetto di betulle, camminando ancora zoppo, con il braccio bendato; eppure c’era una sveltezza nel suo passo, un’inclinazione della sua testa, che lo faceva parere più integro di qualsiasi altro uomo. I giovani seguirono tranquillamente i suoi passi.

— Chi è quell’uomo? — domandò la corriera di Trethat, seguendolo con lo sguardo.

— L’uomo a cui era diretto il tuo messaggio, Selver di Eshreth, un dio tra noi. Hai mai visto un dio prima d’ora, figlia?

— Quando avevo dieci anni, il Suonatore di Lira è venuto nella nostra città.

— Il Vecchio Ertel, sì. Era del mio Albero, e veniva dalle Valli del Nord, come me. Be’, ora hai visto un secondo dio, e maggiore dell’altro. Parla di lui alla tua gente, a Trethat.

— Che dio è, Madre?

— Un nuovo dio — disse Ebor Dendep con la sua voce secca e vecchia. — Il figlio dell’incendio della foresta, il fratello dell’assassinato. È colui che non rinasce. Ora vai, andate tutte, andate alla Loggia. Pensate a coloro che partiranno con Selver, pensate a dar loro del cibo da portare con sé. Lasciatemi sola per un poco. Sono piena di presentimenti come uno stupido vecchio maschio, devo sognare…

Coro Mena accompagnò Selver, quella notte, fino al punto dove s’erano visti all’inizio, sotto i salici ramati, accanto al ruscello. Molte persone intendevano seguire Selver a sud: in tutto una sessantina. Molta gente non aveva mai visto muoversi tutto insieme un gruppo così numeroso. Avrebbero destato molta sensazione, e così avrebbero chiamato a sé numerosi altri, nel loro tragitto verso il punto di attraversamento del mare per Sornol. Selver aveva fatto valere il suo diritto di Sognatore a rimanere in solitudine per quella notte. Partiva da solo. I suoi seguaci l’avrebbero raggiunto il mattino; e da allora, confuso nell’azione e nella folla, avrebbe avuto poco tempo per il moto lento e profondo dei grandi sogni.

— Qui ci siamo incontrati — disse il vecchio, fermandosi tra le fronde arcuate, tra i veli di foglie pendenti — e qui ci separiamo. Questo verrà chiamato Boschetto di Selver, senza dubbio, dalla gente che percorrerà nel futuro i nostri sentieri.

Selver non disse nulla per qualche tempo, e rimase immobile come un albero; le foglie inquiete intorno a lui incupirono il loro argento quando le nubi si addensarono sopra le stelle.

— Tu sei sicuro di me, più di me stesso — rispose infine, voce nel buio.

— Sì, sono sicuro, Selver… il sognare mi è stato insegnato assai bene, e inoltre sono vecchio. Ormai sogno ben poco per me stesso. Perché dovrei farlo? Poco mi è nuovo. E ciò che desideravo dalla vita l’ho avuto; anche di più. Ho avuto l’intera mia vita. Giorni quante le foglie della foresta. Ormai sono un tronco vecchio e cavo, solo le radici sopravvivono. E così sogno solamente le cose che sognano tutti. Non ho visioni e non ho desideri.

"Io vedo ciò che è. Io vedo maturare il frutto sul ramo. Da quattro anni continua a maturare quel frutto di un albero profondamente piantato. Tutti noi abbiamo paura da quattro anni, anche noi che abitiamo lontano dalle città degli umani e abbiamo solamente scorto le loro forme da un nascondiglio, o visto le loro navi volare su di noi, o osservato i luoghi morti dove essi hanno abbattuto il mondo, oppure udito semplici narrazioni di questi fatti. Siamo tutti spaventati.

"I bambini si destano nel sonno, piangendo a causa dei giganti; le donne non sono più disposte a partire per i loro viaggi di commercio; gli uomini delle Logge non riescono più a cantare. Il frutto della paura sta maturando. E io ti vedo intento a raccoglierlo. Tu sei il mietitore. Ogni cosa che noi non desideriamo vedere, tu l’hai conosciuta: esilio, vergogna, dolore, il tetto e le pareti del mondo cadute, la madre morta nella disperazione, i figli privi di insegnamenti, privi di carezze…

"Questo è un nuovo tempo del mondo: un tempo cattivo. E tu l’hai sofferto fino in fondo. Tu ti sei spinto più avanti. E nel punto più lontano, alla fine del cammino buio, laggiù cresce l’Albero; laggiù il frutto matura; ora tu alzi il braccio, Selver, ora tu lo cogli. E il mondo cambia interamente, quando un uomo stringe nella mano il frutto di quell’albero, le cui radici sono più profonde di quelle della foresta. Gli uomini lo riconosceranno. E riconosceranno te, così come ti abbiamo riconosciuto noi.

"Non occorre un vecchio o un Grande Sognatore per riconoscere un dio! Là dove tu vai, i fuochi bruciano; solo il cieco non può vederlo. Ma ascolta, Selver, questo è ciò che io vedo e che altri forse non vedono, questo è il motivo per il quale ti ho voluto bene: avevo sognato di te prima che ci incontrassimo qui. Tu camminavi su un sentiero, e dietro di te crescevano i giovani alberi, la quercia e la betulla, il salice e l’agrifoglio, l’abete e il pino, l’ontano e l’olmo, il frassino di bianco fiorito, tutti i soffitti e le pareti del mondo, per sempre rinnovati. E ora addio, caro dio e figlio; vai sano."

La notte divenne più buia mentre Selver camminava, finché anche i suoi occhi adatti alla visione notturna non riuscirono a scorgere altro che masse e piani di nero. Cominciò a piovere. Non aveva percorso più di poche miglia da Cadast quando si vide costretto ad accendere una torcia, o a fermarsi. Scelse di fermarsi, e a tentoni trovò un posto fra le radici di un grande castagno. Laggiù si sedette, appoggiando la schiena contro l’ampio, contorto ceppo che pareva ancora trattenere in sé un poco di tepore diurno.

La fine pioggerellina, cadendo invisibile nell’oscurità, tamburellava sulle foglie sopra di lui, sulle sue braccia e il collo e la testa protetti dalla fitta peluria sottile come seta, sulla terra e sulle felci e sulle piante del sottobosco che spuntavano accanto a lui, su tutte le foglie della foresta, vicine e lontane. Selver continuò a sedere, tranquillo al pari del gufo grigio ch’era posato su un ramo sopra di lui, senza dormire, con gli occhi spalancati sull’oscurità piovosa.

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