Come sono inclini a comportamenti incoerenti, questi umani, pensò il Cervello. Persino di fronte a pressioni terribili, litigano, amoreggiano e danno troppa importanza a frivolezze.
I messaggi giunsero attraverso la pioggia e la luce del sole che si alternavano all’esterno della caverna. Adesso non c’era più alcuna esitazione nelle direttive del Cervello; la decisione essenziale era stata presa: «Catturate oppure uccidete i tre umani nella gola del fiume; risparmiate le teste ‘in vivo’, se è possibile».
Ciononostante i rapporti continuavano ad affluire perché il Cervello aveva ordinato: «Tenetemi informato sulle loro conversazioni».
Tutto quel parlare di Dio, pensava il Cervello. È possibile che un essere del genere esista?
E il Cervello rifletté che senza dubbio le doti naturali degli umani implicavano un alone di grandezza che esaltava la banalità delle loro azioni.
È possibile che la banalità sia una specie di codice? si domandava il Cervello. Ma come può essere…? A meno che in quella incoerenza emotiva, in quei discorsi su Dio ci sia molto di più di quello che appare in superficie.
Il Cervello aveva cominciato a muoversi nel campo della razionalità come un pragmatista ateo. Ma adesso nei suoi calcoli cominciavano a farsi strada alcuni dubbi, e il Cervello classificava il dubbio tra le emozioni.
Eppure devono essere fermati, pensò il Cervello. Devono essere fermati a tutti i costi. Il problema è troppo importante… anche per questo affascinante terzetto. Se sono ormai perduti, cercherò di piangerli.
Rhin aveva la sensazione di trovarsi in un serbatorio surriscaldato, al centro del quale galleggiava la capsula. La cabina era diventata una cella infernale: l’afa mista a umidità le toglieva il respiro. La sensazione sgocciolante della traspirazione, l’odore dei corpi troppo vicini, l’onnipresente tanfo di muffa, tutto questo la logorava e la tormentava fino al limite della sopportazione. Non si udiva alcun animale muoversi e gridare dalle sponde che scorrevano di fianco a loro.
Soltanto un occasionale insetto volteggiante sulla loro rotta le riportò alla memoria le creature nascoste nelle ombre della giungla.
Se non fosse per gli insetti, pensò. Maledetti insetti! E il calore… maledetto calore!
D’un tratto fu colta da un attacco isterico e si mise a urlare: «Non si può fare qualcosa?» Cominciò a ridere come una folle.
Joao la prese per le spalle e la scosse finché lei si abbandonò a una crisi di pianto.
«Vi prego, vi prego, fate qualcosa», supplicava.
Joao le parlò con voce controllata, nel tentativo di darle conforto. «Cerca di calmarti, Rhin.»
«Quei dannati insetti», disse lei.
La voce di Chen-Lhu la rimproverò dal fondo della cabina. «Fammi il piacere di non dimenticare, dottor Kelly, che sei un entomologo.»
«Forse per questo mi sento il cervello pieno di mosche», disse lei. Trovò la sua battuta divertente e ricominciò a ridere. Una scossa del braccio di Joao la fece smettere. Lei gli prese le mani e disse: «Va meglio, adesso, molto meglio. È colpa del caldo».
Joao la guardò negli occhi. «Sei sicura?»
«Sì.» Si liberò della stretta delle sue braccia, si sedette in un angolo e guardò fuori del finestrino.
Lo scorrere veloce delle sponde attirava il suo sguardo in modo ipnotico: due movimenti che si fondevano. Era come il tempo (l’immediato passato mai completamente dimenticato, nessun punto fisso da cui inizia il futuro), tutto quanto mescolato in un unico silenzioso passaggio, in un unico periodo ininterrotto.
Come mai ho scelto questa professione? si domandava.
Come in risposta alla sua domanda, le si proiettò nella memoria l’intera sequenza di un fatto accadutole durante la fanciullezza e in seguito dimenticato. Aveva sei anni ed era il periodo che suo padre aveva trascorso nell’America occidentale per scrivere un libro su Johannes Kelpius. Avevano abitato in una vecchia casa di mattoni, le cui mura erano piene di nidi di formiche alate. Suo padre aveva mandato a chiamare un uomo tuttofare per bruciare i nidi, e lei si era messa in disparte a osservare. Ricordava l’odore acuto del cherosene, l’improvvisa fiammata gialla nella luce del sole seguita da nuvole di fumo nero e il vortice di insetti svolazzanti dalle ali color ambra che la avviluppava, freneticamente.
Era corsa a rifugiarsi in casa, urlando, mentre le creature alate le strisciavano intorno, le si aggrappavano addosso. In casa qualcuno l’aveva presa e portata a viva forza nella stanza da bagno e una voce piena d’ira le aveva ordinato: «Togliti quegli insetti di dosso! Che idea, portarli dentro casa. Vedi di non lasciarne uno solo sul pavimento. Uccidili e gettali nel gabinetto».
Per un momento che le era sembrato eterno, aveva urlato e battuto i pugni sulla porta chiusa a chiave. «Non moriranno! Non moriranno!»
Rhin scosse il capo per scacciare quel ricordo. «Non moriranno», bisbigliò.
«Che cosa?» chiese Joao.
«Niente», rispose lei. «Che ora è?»
«Presto sarà buio.»
Rhin teneva lo sguardo fisso sui litorali che scorrevano, alberi di felci e palme, con l’acqua alta che cominciava a riversarsi attorno ai tronchi. Ma il fiume era ampio e la corrente ancora veloce. Nella luce solare che filtrava attraverso i rami, le parve di vedere dei battiti di ali, dei movimenti rapidi e leggeri. Uccelli, si augurò. Ovunque si trovassero, le cose si muovevano così rapidamente che le pareva di vederle solo dopo che se ne erano andate.
A oriente, dense nuvole scure si ammassavano all’orizzonte e lampi silenziosi guizzavano nel cielo. Dopo un lungo intervallo, giunse il rombo del tuono, un martellare sordo e continuato.
La pesantezza dell’attesa era sospesa sul fiume e sulla giungla. Le correnti strisciavano attorno alla capsula come serpenti, un movimento melmoso, scuro e vellutato, che sospingeva i galleggianti: una spinta e una curva… una spinta, una giravolta e una curva.
È l’attesa, pensò Rhin. Gli occhi le si riempirono di lacrime.
«Qualcosa non va, mia cara?» chiese Chen-Lhu.
La sua prima reazione fu di scoppiare a ridere, ma non volle lasciarsi trascinare dall’isterismo. «Sei proprio un figlio di puttana», disse. «Qualcosa che non va!»
«Ahhh, vedo che non hai abbandonato il tuo spirito combattivo», osservò Chen-Lhu.
L’ombra grigia e luminosa di una nuvola passò sopra la capsula smorzando tutti i contrasti di colore.
Joao osservava una riga di pioggia emergere dall’acqua sollevata dalle raffiche del vento. Lampi continuavano a guizzare a intervalli. Il rombo del tuono divenne più forte, più distinto e fece spaventare un gruppetto di scimmie urlatrici che giocavano sulla sponda sinistra. Le loro grida riecheggiarono attraverso il fiume.
Sull’acqua stava calando l’oscurità. Per un attimo, le nuvole si aprirono a occidente, rivelando un lembo di cielo color turchese scuro che sfumava rapidamente dal giallo in un viola intenso come quello del mantello di un vescovo. L’acqua del fiume sembrava olio scuro. Nuvole si abbassavano sul tramonto e, in lontananza, il cielo era squarciato dai rapidi bagliori delle saette.
La pioggia cominciò a ticchettare senza sosta sulla calotta, avvolgendo le sponde in un velo di nebbia color grigio rosato. Poi le tenebre scesero sulla scena.
«Ho paura!» bisbigliò Rhin. «Oh, Dio, che paura!»
Joao non aveva più parole per confortarla. Il loro mondo, quello che stavano vivendo, non aveva più senso; tutto si era trasformato in un flusso primordiale, indistinguibile dal fiume stesso.
Il gracidio delle rane interruppe il silenzio della notte. Udirono l’acqua sibilare attraverso i canneti. Neppure il più pallido chiarore lunare penetrava attraverso l’oscurità nuvolosa del cielo. Poi a poco a poco i versi delle rane e i sibili dell’acqua cessarono. La capsula e i tre passeggeri ritornarono in un mondo in cui l’incessante picchiettare della pioggia era interrotto dal lieve sciabordio dell’acqua che sbatteva contro i galleggianti.
«Che strana sensazione, sentirsi inseguiti», disse Chen-Lhu.
Joao rimase colpito da queste parole, come se fossero giunte da una fonte immateriale. Cercò di ricordarsi l’aspetto del cinese, ma nessuna immagine prese forma nella sua mente. Si sforzò di fare un commento, ma tutto ciò che riuscì a dire fu: «Non siamo ancora morti».
Grazie, Johnny, pensò Chen-Lhu. Avevo bisogno che mi dicesse una qualsiasi banalità per prefigurarmi il dopo. Borbottò sommessamente tra sé, pensando: La paura è il tributo pagato dalla consapevolezza. Non esiste debolezza nella paura… solo nel dimostrarla. Il bene, il male… è tutto molto soggettivo, sia con una religione sia senza.
«Credo che dovremmo ancorarci», disse Rhin. «Che cosa accadrebbe se ci imbattesimo nelle rapide durante la notte, prima di potercene accorgere? Chi può udire qualcosa col rumore della pioggia?»
«Ha ragione», approvò Chen-Lhu.
«Va lei a gettare il rampino, Travis?» chiese Joao.
Non c’è debolezza nella paura, solo nel dimostrarla, pensò Chen-Lhu. Cercò di figurarsi che cosa potesse esserci là fuori nel buio… forse una di quelle creature che avevano visto sulla spiaggia. Chen-Lhu si rese conto che anche pochi secondi di incertezza lo avrebbero tradito.
«Penso», disse Joao, «che sia molto più pericoloso aprire il portello di notte che non lasciarsi trasportare… e rimanere in ascolto».
«Ci sono sempre le luci delle ali», disse Chen-Lhu. «Cioè, se sentiamo qualche rumore sospetto, possiamo individuare da dove proviene.» Mentre parlava si rendeva conto della vacuità delle sue parole. Sentì un calore fluido increspargli le vene ed esplodere in una serie di pulsazioni ritmiche.
Eppure l’ignoto rimaneva là fuori, un luogo pieno di gratificante tranquillità, di una lucentezza saldamente fissata nella memoria anche in quella oscurità.
La paura fa cadere qualsiasi finzione, pensò Chen-Lhu. Sono stato disonesto con me stesso.
Era come se quel pensiero lo scagliasse improvvisamente dietro un angolo, dove verificare la sua immagine morale come riflessa in uno specchio. E lui era contemporaneamente se stesso e la sua immagine morale. Quell’improvvisa consapevolezza gli fece balenare nella mente certi ricordi del suo passato che danzavano e ondeggiavano come pezzi di stoffa staccati dal telaio: realtà e illusione nella stessa stoffa.
Poi la sensazione scomparve, lasciandolo spossato e tremante e con un terribile senso di perdita. È una ritardata reazione al veleno degli insetti, pensò.
«Oscar Wilde era un emerito somaro», affermò Rhin. «La vita di qualcuno compensa la morte di qualcun altro. Il coraggio non c’entra.»
Persino Rhin mi difende, pensò Chen-Lhu. Il pensiero lo riempì d’ira. «Oh, anime semplici, timorate di Dio», disse con ironia. «Tutti voi che pregate: ‘Padre Nostro che sei nei cieli’. Non ci sarebbe un dio senza l’uomo! E dio non saprebbe di esistere se non fosse per l’uomo! Se ci fosse veramente un dio… questo universo sarebbe il suo errore.» Tacque, sorpreso di ritrovarsi ansimante come dopo un enorme sforzo.
Come in risposta dal cielo, uno scroscio di pioggia batté contro la calotta, poi a poco a poco si spense e riprese l’incessante martellio delle gocce.
«Ecco… ha parlato l’ateo», disse Rhin.
Joao scrutò nell’oscurità, da dove proveniva la voce, sentendosi d’un tratto in collera con Rhin per ciò che aveva detto. Quello sfogo, che aveva fatto apparire Chen-Lhu nudo e indifeso, avrebbe dovuto essere ignorato anziché sottolineato con un commento. Capì che le sue parole erano servite soltanto a metterlo ancora più in difficoltà.
Il pensiero gli riportò alla mente un fatto accaduto durante una vacanza con un compagno d’università nell’Oregon orientale. Stavano cacciando una quaglia lungo una staccionata, quando i bracchi pezzati di uno dei suoi ospiti erano balzati su un’altura lanciandosi all’inseguimento di uno sparuto coyote. Il coyote, avvistato il cacciatore, aveva svoltato a sinistra rimanendo intrappolato in un angolo della staccionata.
In quell’angolo, il coyote, simbolo di codardia, aveva aggredito i cani mordendoli e graffiandoli fino a indurii a fuggire con la coda tra le gambe. Joao, impaurito, era rimasto a osservare la scena lasciandosi scappare l’animale.
Nel ricordare quella scena, il giovane capì che racchiudeva il problema di Chen-Lhu. Qualcosa o qualcuno ha intrappolato quell’uomo in un angolo, pensò.
«Adesso vorrei dormire», disse Chen-Lhu. «Svegliatemi a mezzanotte. E, per favore, non distraetevi e rimanete in ascolto.»
Va’ al diavolo, disse fra sé Rhin. E scavalcò il sedile per gettarsi tra le braccia di Joao, incurante del rumore che faceva.
«Dobbiamo schierare sotto le rapide una parte delle nostre forze», ordinò il Cervello, «nel caso che gli umani sfuggano alla rete come in precedenza. Questa volta non devono avere scampo». E qui il Cervello sottolineò il simbolo della minaccia alla sopravvivenza del superalveare per incitare i messaggeri e i gruppi di azione alla estrema vigilanza e aggressività.
«Istruite accuratamente coloro che si dimostrano i meno implacabili», ordinò il Cervello. «Se il veicolo riesce a sfuggire alla nostra rete e a superare le rapide, tutti e tre gli umani devono essere soppressi.»
I messaggeri dalle ali dorate danzarono la loro conferma sul soffitto, quindi svolazzarono fuori della caverna nella luce grigia che precedeva il calare della notte.
Questi tre umani sono dei personaggi interessanti, persino istruttivi, pensò il Cervello, ma adesso devono morire. Abbiamo altri umani, dopo tutto… e le emozioni non devono figurare fra le necessità razionali.
Ma questi pensieri non fecero altro che aumentare gli stimoli emotivi che il Cervello aveva da poco assimilato e allarmarono gli insetti infermieri, sempre pronti a rimediare alle insolite domande del loro assistito.
Subito dopo il Cervello allontanò il pensiero dei tre umani sul fiume e cominciò a preoccuparsi della sorte dei simulacri rimasti al di là delle barriere.
La radio non aveva trasmesso la notizia della scoperta dei simulacri… ma ciò, in realtà, non significava nulla. Simili notizie dovevano essere taciute. I simulacri sarebbero riapparsi solo dopo essere stati individuati dai loro simili e avvertiti (e ciò doveva essere fatto al più presto). Il pericolo era grande e non rimaneva molto tempo.
L’agitazione del Cervello fece accorrere i suoi assistenti che prontamente gli somministrarono dei narcotici. Il Cervello cadde in un dormiveglia letargico e sognò di essersi trasformato in una creatura simile agli umani e di percorrere un sentiero immaginario con un fucile in mano.
Persino in sogno il Cervello si agitò per tema che il «gioco» gli sfuggisse. E poiché qui gli insetti infermieri non potevano soccorrerlo, l’agitazione del Cervello continuò.
Joao si svegliò all’alba e trovò il fiume avvolto in un manto di nebbia. Si sentiva le membra rigide e intorpidite e i suoi pensieri erano confusi a causa di una fastidiosa sensazione, sfocata come la nebbia sul fiume. Il cielo aveva il colore del platino.
Emerse in lontananza un’isola celata dal velo spettrale della nebbia. La capsula, trasportata dalla corrente, si mosse velocemente superando cataste di tronchi, cespugli sommersi ed erba piegata a valle che vibrava con la corrente.
Joao si accorse che la capsula si inclinava sul fianco destro. Sapeva di dover uscire a pompare il galleggiante e sapeva di aver sufficiente energia per fare quel lavoro, ma non riusciva a trovare la forza per muoversi.
«Quando ha cessato di piovere?» risuonò la voce di Rhin.
Chen-Lhu rispose dal fondo della cabina: «Appena prima dell’alba». Diede alcuni colpi di tosse, poi disse: «Ancora nessuna traccia dei nostri amici, non è vero?»
«Ci stiamo inclinando a destra», osservò Rhin.
«Me ne sono accorto», fece Chen-Lhu. «Vado fuori io, Johnny. Credo che si debba introdurre il tubo della bombola nel galleggiante e azionare l’impugnatura a leva.»
Dentro di sé Joao gli fu grato per essersi offerto di compiere quel lavoro.
«Allora, Johnny?»
«Sì… è tutto quello che deve fare», rispose il giovane. «Il foro d’ispezione del galleggiante è provvisto di una semplice chiusura a scatto.» Si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Udì Chen-Lhu uscire dal portello.
Rhin guardò Joao e notò sul suo volto i segni della stanchezza. Gli occhi chiusi cerchiati di scuro sembravano le orbite di un teschio.
Il mio ultimo amante, pensò. Morte.
Il pensiero la confuse e si meravigliò di non provare alcun sentimento verso l’uomo che durante la notte l’aveva amata con passione. Una tristezza post coitum si era impadronita di lei e adesso Joao era semplicemente una particella della realtà che la circondava; dopo averla sfiorata per puro caso, si era fermato a dividere con lei un momento di esplosiva intensità.
Non c’era amore in quel pensiero.
Nemmeno odio.
I suoi sentimenti adesso erano asessuati e clinici come al solito. Il rapporto durante la notte era stata una reciproca esperienza, ma il mattino l’aveva trasformato in qualcosa di insipido.
Si volse e seguì con lo sguardo la corrente del fiume.
La nebbia stava dileguandosi. Intravide, a circa due chilometri di distanza, la nera superficie di una roccia lavica che torreggiava sulla giungla simile a una nave fantasma.
Udì il risucchio dell’aria nella pompa e notò che la posizione della capsula si stava gradualmente riequilibrando.
Poco dopo Chen-Lhu riapparve portando nella cabina un soffio d’aria umida e fredda. «È quasi freddo, là fuori», disse. «Che cosa dice l’altimetro, Johnny?»
Joao si alzò e guardò il cruscotto. «Seicento e otto metri.»
«Secondo lei, quanta strada abbiamo fatto?»
Joao alzò le spalle e rimase in silenzio.
«Circa centocinquanta chilometri?» chiese Chen-Lhu.
Joao guardò gli argini inondati che scorrevano veloci, la corrente che lambiva nodose, orrende radici. Si accorse di avere fame. Cercò i pacchetti delle razioni, le distribuì ai suoi compagni, quindi mangiò avidamente.
Una cortina di pioggia sferzò il parabrezza. La capsula sbandò e s’inclinò. Un’altra raffica di vento la scosse. Poi riprese la sua rotta attraversando file di piccole onde sollevate dal vento. La spessa cortina di pioggia cancellava sulle sponde tutti i colori della vegetazione. Il vento cessò completamente, ma la pioggia continuava a cadere così pesantemente che le gocce sembravano dondolare e danzare in senso orizzontale.
Un breve tratto di spiaggia chiazzata di graniti sfrecciò davanti agli occhi di Joao come uno scenario surreale. In quel punto il fiume sembrava largo almeno un chilometro; la sua superficie scura e melmosa, turgida e ondulata, era cosparsa di cortecce di alberi, grovigli di arbusti e tronchi galleggianti.
D’un tratto la capsula barcollò. I galleggianti sbatterono, urtarono contro qualcosa sott’acqua e Joao trattenne il respiro nel timore che la riparazione cedesse.
«Secche?» chiese Chen-Lhu.
Spuntò alla loro sinistra un ceppo di legno che, trasportato dalla corrente, roteava e s’inabissava come una cosa vivente.
Rhin bisbigliò: «Il galleggiante…»
«Sembra che regga», disse Joao.
Un calabrone verde si posò sul parabrezza, agitò le antenne verso di loro e volò via.
«Qualunque cosa ci accada, suscita il loro interesse», disse Chen-Lhu.
«Quel troncone laggiù… non credi che…» fece Rhin.
«Sono pronto a credere qualsiasi cosa», replicò Chen-Lhu.
Rhin chiuse gli occhi e mormorò: «Li odio! Li odio!»
La pioggia stava gradualmente diminuendo. Poche gocce spruzzavano qua e là la superficie del fiume e tamburellavano sulla calotta.
Rhin aprì gli occhi e vide strisce di cielo limpido apparire e scomparire dietro le nuvole. «Si sta schiarendo?» chiese.
«Che differenza fa?» disse Chen-Lhu.
Lo sguardo di Joao vagava sull’erba piatta e bagnata di una radura apparsa alla loro sinistra. Dove finiva l’erba, spuntava la parete umida e verde della giungla.
Una figura fluttuante emerse dalla giungla a circa duecento metri di distanza; continuò ad agitarsi e a fare cenni finché scomparve dalla vista.
«Che cos’era?» chiese Rhin con una nota isterica nella voce.
Nonostante la distanza, a Joao parve che quella figura assomigliasse al Padre. «Vierho?» mormorò.
«Aveva il suo aspetto», rispose Chen-Lhu. «Non pensa…»
«Non penso nulla!»
Ah, pensò Chen-Lhu. Il nostro amico bandeirante sta per crollare.
«Sento un rumore», disse Rhin. «Sembra quello delle rapide.»
Joao tese l’orecchio. Gli giunse un rombo lontano. «Probabilmente è il vento che soffia tra gli alberi», spiegò, pur sapendo che non si trattava del vento.
«Sono le rapide», affermò Chen-Lhu. «Vedete quella rupe, laggiù?»
Continuarono a fissare davanti a loro finché raffiche di vento avvolsero la rupe con un velo di pioggia. Violenti scrosci di pioggia sferzavano i fianchi della capsula, si riversavano sulla calotta. Il vento cessò rapidamente, così com’era sorto e la corrente sospinse la capsula in avanti, attraverso un sibilo di pioggia. Poco dopo anche la pioggia cessò e la liscia superficie del fiume, che nascondeva una segreta turbolenza, si distese come un’esposizione di tavole su uno specchio.
La capsula divenne per Chen-Lhu un minuscolo giocattolo rimpicciolito come per magia e smarrito in un’immensa distesa d’acqua.
Al di sopra di tutto si ergeva la nera facciata della rupe, più reale ogni secondo che passava.
Chen-Lhu mosse lentamente il capo da una parte e dall’altra, angosciato al pensiero di ciò che li aspettava sotto quella rupe. Aveva la sensazione di galleggiare in una cavità piena d’aria umida che prosciugava la vita dal suo corpo. L’aria trasportava un odore di materia organica, l’umido ammucchiarsi di vita e di morte sul suolo della foresta che fiancheggiava il fiume. Odori putridi lo assalirono; ciascuno trasportava il suo messaggio: «Sono laggiù… in attesa».
«La capsula… non potrebbe volare, adesso?» chiese Chen-Lhu.
«Non credo di riuscire a sollevarla dal fiume», rispose Joao. Si asciugò il sudore dalla fronte, chiuse gli occhi e come in un incubo rivisse l’intero viaggio fino a quel momento. I suoi occhi si riaprirono di scatto.
Un silenzio stagnante era sceso sulla cabina.
Il rumore delle rapide era sempre più distinto, ma ancora non si vedeva il ribollire dell’acqua bianca.
In una curva del fiume, uno stormo di tucani dal becco dorato si sollevò da una fila di palme simile a una nuvola furiosa, riempiendo l’aria di strane grida. Poi scomparve e il rumore delle rapide rimase. Si profilava in lontananza la sagoma scura della rupe.
«Abbiamo cinque o sei minuti di autonomia… forse», disse Joao. «Credo che dovremo affrontare quella curva a motore spento.»
«D’accordo», approvò Chen-Lhu e si allacciò la cintura di sicurezza.
Udito il rumore, Rhin allacciò la sua.
Joao trovò ai suoi lati i fermagli della cintura e li fece scattare al loro posto, quindi esaminò attentamente il cruscotto. Mentre pensava alla delicata manovra che doveva compiere, le sue mani cominciarono a tremare. L’ho già fatta due volte, si disse. Ma quel pensiero non gli diede conforto. Sapeva di essere allo stremo delle forze fisiche… e morali.
Dove il corso del fiume curvava, una lieve increspatura della corrente si stese a ventaglio dalla sponda sinistra. L’acqua in quel punto mandava bagliori accecanti.
Joao alzò lo sguardo e vide strisce di cielo azzurro attraversare le nuvole. Respirò profondamente, premette il bottone di avviamento e cominciò a contare.
La spia luminosa lampeggiò.
Joao allentò la manetta del gas. I motori scoppiettarono, poi si accesero con un rombo uniforme. La capsula cominciò ad acquistare velocità barcollando lungo la rotta ondulata. Strani rumori provenivano dal galleggiante di destra.
Non riuscirò mai a sollevarla, pensò Joao. Si sentiva come in preda alla febbre e solo vagamente padrone dei suoi sensi.
La capsula prese a muoversi pigramente e rumorosamente attorno alla curva… e là, a non più di un chilometro di distanza, si ergeva la scura parete di roccia lavica. Il fiume scorreva attraverso una fenditura che sembrava prodotta da un’ascia gigantesca. Neri spuntoni di roccia comprimevano l’acqua alla base in un ribollio tumultuoso.
«Geeesù», mormorò Joao.
Rhin gli afferrò un braccio. «Torna indietro! Devi tornare indietro.»
«Non è possibile», disse il giovane. «Non c’è altra via d’uscita.» Eppure, la sua mano posata sulla leva del gas, esitava. Che cosa doveva fare? Premere in avanti e rischiare l’esplosione della capsula? Non aveva scelta. Nel baratro, poteva vedere le onde infrangersi contro invisibili rocce sollevando nell’aria spruzzi bianchi e dorati. Con un movimento convulso, premette a fondo la leva. Il rombo dei motori a razzo soffocò il rumore dell’acqua.
Joao pregava mentalmente che il galleggiante reggesse.
D’un tratto la capsula si sollevò dalla rotta e prese a sfiorare la superficie dell’acqua più veloce, sempre più veloce. In quell’attimo, Joao notò un movimento da una parte e dall’altra del baratro. Qualcosa simile a un serpente grondante d’acqua era sospeso sull’entrata della gola.
«Un’altra rete!» urlò Rhin.
Joao guardò la rete con distacco, come una cosa immaginaria, cosciente di non poterla evitare. La capsula, trasportata da un vortice, andò a scivolare in un bacino d’acqua scura e lucente da cui si elevava lo sbarramento della rete. Attraverso le fitte maglie scorse l’acqua incresparsi di ondate sempre più alte che si frangevano in flussi e riflussi all’interno del baratro.
La capsula andò a sbattere violentemente contro la rete, la tirò strappandola, sfilacciandola. Appena il muso della capsula s’inclinò verso il basso, Joao, trattenuto dalla cintura di sicurezza, si sentì proiettare in avanti. Sentì lo schienale del sedile sbattergli contro i fianchi. Suoni fragorosi, simili a stridori, lacerazioni, gorgoglii, furono seguiti da un improvviso cedimento.
I motori si fermarono di botto, ingolfati o impossibilitati ad aspirare benzina. La cabina fu invasa dalla violenza dell’acqua.
Joao si aggrappò alla cloche e si guardò in giro. La capsula galleggiava quasi a fior d’acqua roteando su se stessa. Gli sembrava che il mondo gli girasse intorno… scure pareti, la linea verde della giungla, la schiuma dell’acqua in tumulto.
La capsula, sospinta verso destra da una corrente in pendenza, andò a schiantarsi contro il primo contrafforte a strapiombo sul torrente. Un forte rumore, come di uno strappo provocato da un oggetto metallico, si mescolò al frastuono che rimbombava nel baratro.
Rhin urlò qualcosa che venne inghiottito dal boato dell’acqua.
Con un balzo, la capsula si staccò dalla parete rocciosa, piroettò, imprigionata tra due esplosioni di ondate contrarie. I galleggianti, risucchiati dalla spirale di un vortice, furono colpiti lateralmente, sollevati, inclinati, imprigionati in un movimento frenetico.
Poi, simile al suono provocato da un’ondata ciclopica che s’infrange sugli scogli dell’oceano, si udì un rombo assordante e prolungato. Joao intravide un enorme scoglio che affiorava dall’acqua. La capsula andò a sbattere contro l’isolotto di roccia e rimbalzò indietro. Joao, sganciato dalla cintura di sicurezza, si trovò riverso sul pavimento tra le braccia di Rhin. Con la mano destra si aggrappò alla base della cloche. Sopra di lui la calotta si accartocciava; inebetito, la seguì con lo sguardo, mentre si staccava e scompariva tra i flutti. Vide l’ala sinistra sfasciarsi contro lo scoglio. La capsula fece una brusca piroetta, rivelando uno squarcio di cielo offuscato e un’altra oscura parete.
Joao pensò: non ce la faremo mai. Nulla può sopravvivere a questa catastrofe.
Sentì che Rhin gli cingeva la vita con entrambe le braccia e, in preda al terrore, implorava: «Ti prego, falla fermare, falla fermare».
Vide il muso della capsula sollevarsi e abbassarsi, acqua schiumosa attraversare l’apertura prima ricoperta dalla calotta. Vide un fucile a gas balzare nel fiume attraverso l’apertura e si sentì sempre più schiacciato fra i sedili e il cruscotto. Gli dolevano le dita della mano che stringeva la cloche. Un movimento brusco della capsula gli fece voltare il capo e vide le braccia di Chen-Lhu avvinte al suo schienale.
Il cinese sentiva il rumore come una diretta pressione sui suoi nervi che superava ogni limite di sopportazione, un ritmo incontrollabile che penetrava nel suo essere dominandolo: una dissonanza assordante divenuta discorde nei contrappunti, un maelstrom stridente, scricchiolante, grattante. Aveva la sensazione di essere diventato un ricettore visivo, uditivo, sensitivo, privo di qualsiasi altra funzione.
Rhin premette il viso contro il petto di Joao. Tutto ciò che percepiva era l’odore del corpo di lui e l’incessante movimento. Sentiva la capsula sollevarsi… su… su… precipitare, girare, roteare. Su. Giù. Su. Giù. Su. Giù. Su. Giù. Come il movimento frenetico di un rapporto sessuale.
Joao era proteso a percepire immagini: immagini intense e terrificanti. Guardava fisso nel vuoto attraverso un foro che non c’era; le immagini gli apparivano confuse: la corrente impetuosa che aziona un mulino, una scura cavità d’acqua, solidi spruzzi, umide ombre verdi lungo un dirupo. Sentiva la mano paralizzata. Le spalle gli dolevano.
Un colpo d’onda melmosa simile alla corazza di una tartaruga, rotolò di fronte all’apertura della cabina. Joao sentì la capsula slittare su quella massa viscosa con un movimento che gli dava l’illusione di essere trasportato dolcemente sulla superficie dell’acqua. Vide il fiume scomparire dietro sé.
Non ce la fa più, si disse.
Il muso della capsula si stava inabissando sempre più. Joao si aggrappò al cruscotto e vide la cresta verde scura di un’onda sollevare il troncone di un’ala… su… su… su.
La capsula andò a sbattere contro l’onda.
Acqua e verde oscurità si riversarono nella cabina, come una cascata. Giunse uno stridio di metallo. La coda della capsula si abbassò con violenza sull’acqua e Joao, proiettato verso l’alto, poté vedere la pallida luce del mattino. A fatica, tentò di raggiungere il sedile, trascinandosi dietro Rhin. Vide Chen-Lhu ancora abbracciato al sedile, e l’acqua che si riversava nella cabina dalla fiancata squarciata. La capsula fu sommersa da una massa di acqua tumultuosa e la coda si schiantò contro gli scogli.
Un raggio di sole accecante!
Joao si volse, semiabbagliato da quella luce e guardò la gola del fiume attraverso lo spazio prima occupato dai motori. Il rumore rombante dell’acqua, la violenza delle onde gli fecero pensare: Come abbiamo fatto a resistere finora?
Sentì l’acqua alle caviglie, si volse di scatto aspettandosi di vedere un’altra serie di rapide; si accorse invece che la capsula era stata trasportata in un ampio specchio d’acqua scura che assorbiva la turbolenza della gola rivelando in superficie solo bollicine scintillanti e i solchi delle correnti dei ruscelli convergenti.
La capsula rollò con violenza. Joao barcollò nell’acqua aggrappandosi al bordo della cabina di fronte a ciò che rimaneva dell’ala destra e che ora galleggiava a pelo d’acqua.
La voce stranamente pacata di Rhin ruppe il silenzio. «Non sarebbe meglio uscire? Stiamo affondando.»
Joao cercò di scuotersi di dosso la sua sensazione di distacco, abbassò lo sguardo e la vide seduta al suo posto. Udì Chen-Lhu che cercava a stento di alzarsi tossendo; lo vide emergere dietro di lei.
Giunse un gorgoglio e un rumore metallico e l’ala destra si inclinò sotto la superficie.
Con uno strano senso di euforia, Joao si rese conto che tutti e tre erano ancora vivi… ma la capsula era distrutta. A quel pensiero fu nuovamente assalito dall’angoscia.
«L’abbiamo pagata cara questa corsa», disse Chen-Lhu, «ma siamo ormai arrivati al capolinea».
«Davvero?» brontolò Joao. Si sentì ribollire dall’ira e toccò la tasca che conteneva il vecchio schioppo di Vierho. Quel gesto istintivo, insensato lo fece sorridere.
Come si può pensare di uccidere quelle cose con questo aggeggio? disse fra sé.
«Joao?» chiamò Rhin.
«Sì.» Le fece un cenno col capo, si volse, uscì dalla cabina e rimase in equilibrio sul bordo della capsula a studiare i dintorni. Fu investito da un soffio d’aria umida proveniente dalla gola.
«Questa cosa non rimarrà a galla ancora per molto», osservò Chen-Lhu. Si volse per guardare il baratro, improvvisamente riluttante ad accettare la realtà.
«Potrei nuotare fino a quel punto laggiù», disse Rhin. «E voi due?»
Chen-Lhu si volse ancora e vide nello specchio d’acqua una striscia di terra scura che si protendeva per circa un centinaio di metri sul fiume: un fragile tentacolo, formato di giunchi e fango, sospeso sull’acqua; sullo sfondo, un’alta parete di alberi. Lunghe impronte di animali striscianti spiccavano nel fango.
Tracce di coccodrilli, pensò Chen-Lhu.
«Ho visto tracce di coccodrilli», disse Joao. «È meglio restare nella cabina finché ci è possibile.»
Rhin si sentì assalire dal terrore. «Rimarrà a galla ancora per molto?» bisbigliò.
«Sì, se non facciamo alcun movimento», rispose Joao. «Probabilmente è rimasta dell’aria sotto di noi, forse dentro l’ala e il galleggiante di sinistra.»
«Nessuna traccia di… ‘loro’, qui», disse Rhin.
«Arriveranno fra poco», dichiarò Chen-Lhu, sorpreso dal tono di noncuranza della sua stessa voce.
Joao scrutò la piccola penisola.
La capsula prima fu portata al largo dalla corrente, poi risospinta da un vortice verso riva finché solo pochi metri separarono la punta dell’ala, parzialmente sommersa, dalla spiaggia melmosa.
Dove sono quei dannati coccodrilli? si domandò Joao.
«Non è possibile avvicinarsi di più», fece notare Chen-Lhu.
Joao annuì e disse: «Tu va’ avanti, Rhin. Rimani sull’ala finché puoi, ti seguiamo immediatamente». Mise una mano sulla pistola che aveva in tasca e l’aiutò con l’altra mano.
Rhin scivolò sull’ala che si inclinò ancora più giù finché toccò il fondo melmoso.
Chen-Lhu la seguì dicendo: «Andiamo!»
A guado attraversarono il breve tratto di fiume che li separava dalla spiaggia, affondando i piedi nella melma. Joao sentì odore di carburante e vide macchie d’olio che si disegnavano a spirale sull’acqua. Raggiunse l’argine di giunchi e fango e si sedette accanto a Rhin e Chen-Lhu. Fissò lo sguardo sulla giungla.
«Sarebbe possibile ragionare con loro?» chiese Chen-Lhu.
Joao sollevò il fucile a gas e disse: «Questo è l’unico argomento che abbiamo». Si assicurò che il caricatore fosse pieno e si volse a guardare ciò che rimaneva della capsula. Giaceva parzialmente sommersa con l’ala ancorata nella melma e lambita dalla corrente che sciabordava attraverso i fori della cabina.
«Pensa che dovremmo tentare di recuperare le armi dalla capsula?» chiese Chen-Lhu. «A che scopo? Tanto non ci muoveremo da qui.»
Ha ragione, pensò Joao. Si accorse che Rhin, alle parole di Chen-Lhu, era stata colta da un fremito incontrollabile e le cinse le spalle con un braccio finché il fremito cessò.
«Che simpatica scena domestica», esclamò Chen-Lhu guardandoli, e pensò: Sono l’unica moneta che posseggo, forse i nostri amici saranno disposti a trattare… loro due in cambio della mia salvezza.
Rhin si sentì di nuovo calma. Il braccio di Joao che la cingeva, il suo silenzio le avevano dato sicurezza.
È come un abbraccio paterno, pensò.
Chen-Lhu tossì, Rhin lo guardò.
«Johnny», disse Chen-Lhu. «Mi dia il fucile, mi serve per coprirla mentre va a recuperare altre armi dalla cabina.»
«L’ha detto lei stesso», obiettò Joao. «A che scopo?»
Rhin si liberò dalle braccia di Joao, improvvisamente terrorizzata dallo sguardo di Chen-Lhu.
«Mi dia il fucile», ripeté Chen-Lhu con voce piatta.
Che differenza fa? si domandò Joao. Guardò Chen-Lhu dritto negli occhi e vi colse un lampo di ferocia. Buon Dio! Che cosa gli ha preso? Rimase sconvolto dall’influsso malefico del suo sguardo, reso più torvo dal taglio allungato degli occhi.
Chen-Lhu sferrò un calcio nel braccio sinistro di Joao e il fucile fu scagliato per aria.
Joao sentì il braccio semiparalizzato e istintivamente arretrò nella posizione di difesa dello judo brasiliano. Quasi accecato dal dolore, fece un balzo da un lato per schivare un altro calcio.
«Rhin, il fucile», urlò Chen-Lhu.
La mente di Rhin si rifiutò per un momento di funzionare. Scosse il capo, guardò il punto in cui era caduto il fucile. Era là, con la canna rivolta verso il cielo e il calcio conficcato nel suolo fangoso. Il fucile? si chiese. Ebbene sì, a questo punto me ne servirò per fermare un uomo. Afferrò il fucile, lo sollevò ancora col fango attaccato al calcio e lo puntò sui due uomini, saltellando di qua e di là come in una danza magica.
Chen-Lhu balzò all’indietro e si chinò.
Joao si drizzò stringendosi il braccio dolorante.
«D’accordo, Rhin», fece Chen-Lhu. «Fallo fuori.»
Provando orrore di se stessa, Rhin vide la canna del fucile spostarsi bruscamente su Joao.
Quest’ultimo fece per sfilare la pistola di tasca, ma si fermò. Dentro di sé non sentiva altro che vuoto e disperazione. Se vuole uccidermi, che faccia pure, pensò.
Rhin digrignò i denti e puntò il fucile questa volta su Chen-Lhu.
«Rhin», esclamò il cinese muovendosi verso di lei.
Figlio di puttana! pensò lei e premette il grilletto.
Un potente getto di veleno mescolato al contenuto della capsula di butile, investì Chen-Lhu in pieno viso facendolo barcollare. Si dibatté nel vano tentativo di liberarsi dalla massa appiccicosa; cadde a terra rotolando e dibattendosi sempre più, man mano che il butile si condensava. Poi i suoi movimenti divennero più lenti: un sussulto, una pausa, un sussulto.
Rhin rimase in piedi col fucile puntato su Chen-Lhu finché ebbe svuotato il caricatore, poi si liberò dell’arma.
Chen-Lhu fu scosso dall’ultimo spasmodico sussulto, quindi giacque immobile. Nessun tratto del suo viso era visibile, era soltanto una massa appiccicosa grigio-nero-arancione.
Rhin si ritrovò ansimante e cercò di respirare profondamente senza riuscirvi.
Joao le si avvicinò e lei vide che aveva la pistola in mano. Il braccio sinistro gli penzolava inerte lungo il fianco.
«Il tuo braccio», disse Rhin.
«Rotto», confermò lui. «Guarda fra gli alberi.»
Si volse nella direzione indicata e vide rapidi movimenti nell’ombra. Un soffio di vento agitava le foglie e la sagoma di un indiano apparve di fronte alla giungla, come il prodotto di una stregoneria. Gli occhi color ebano luccicavano di quella luce sfaccettata, sotto una frangia tagliata dritta. Il volto era striato di rosso. Piume scarlatte di pappagallo spuntavano da un legaccio che gli stringeva il muscolo del braccio sinistro. Indossava un indumento lacero e una sacca di pelle di scimmia gli pendeva dalla vita.
Alla vista di quel simulacro, Rhin fece un balzo nel passato, ricordando la spirale di formiche alate della sua fanciullezza e la nuvola grigia e fluttuante che aveva inghiottito il campo dell’OIE. Si volse verso Joao supplicando: «Joao… Johnny, ti prego, ti prego, uccidimi. Non lasciare che mi prendano».
Joao desiderava fuggire, ma i muscoli si rifiutavavano di obbedire.
«Se mi ami», supplicava lei. «Ti prego.»
Non poté resistere al tono implorante della sua voce. Il revolver si sollevò come di sua spontanea volontà con la canna rivolta verso di lei.
«Ti amo, Joao», sussurrò Rhin e chiuse gli occhi.
Joao si ritrovò con gli occhi pieni di lacrime. Vedeva il suo volto attraverso un velo di pianto. Devo, pensò. Che Dio mi aiuti, devo farlo. In preda a una violenta agitazione, premette il grilletto.
Il colpo esplose e la pistola rinculò nelle sue mani.
Rhin balzò all’indietro come spinta da una mano gigantesca. Fece mezzo giro su se stessa e tuffò il volto nella melma.
Joao si volse di scatto incapace di guardare e fissò la pistola che aveva in mano. Alcuni movimenti fra gli alberi attirarono il suo sguardo. Si asciugò le lacrime e vide una fila di creature che si trascinavano fuori della foresta. C’erano i due indiani sertao che l’avevano rapito assieme a suo padre… altri indiani delle foreste… il simulacro di Thome, uno dei suoi uomini… un altro uomo magro e avvolto in un abito scuro, coi capelli di un bianco lucente.
Persino mio padre, pensò. Hanno simulato persino mio padre!
Sollevò la pistola e se la puntò al cuore. Non provava rabbia, soltanto un immenso dolore mentre premeva il grilletto.
L’oscurità si abbatté su di lui.