Sembrava il figlio bastardo di un indio Guarani e di qualche contadina dell’altopiano sertao che avesse cercato di dimenticare la schiavitù del sistema encomendero,«mangiando il ferro», che nel loro linguaggio significava amoreggiare attraverso le sbarre di un cancello.
Reggeva il suo personaggio in modo perfetto, salvo quando, attraversando le più estese radure della giungla, allentava il controllo su se stesso.
Allora la sua pelle tendeva ad assumere delle sfumature verdi che lo confondevano con lo sfondo di foglie e piante rampicanti, tanto da dare un effetto spettrale alla camicia grigia, ai pantaloni laceri, all’immancabile cappello di paglia sfilacciato e ai sandali di cuoio grezzo con suole ricavate da vecchi copertoni.
Questi cedimenti si facevano sempre meno frequenti man mano che si allontanava dalle sorgenti del Paranà, il retroterra sertao di Goyaz, abitato in prevalenza da uomini come lui, con capelli neri con frangia e lummosi occhi scuri.
Nel momento in cui raggiunse il villaggio bandeirante, aveva acquisito un controllo quasi completo sull’effetto delle sue trasformazioni camaleontiche.
Ora era fuori della fitta vegetazione e imboccava i sentieri battuti di terra rossa che si snodavano attorno ai piccoli appezzamenti di terreno della nuova colonizzazione. A modo suo sapeva che stava per avvicinarsi a un posto di controllo bandeirante e con un gesto quasi umano toccò la cedula de graicias al sacar,il certificato di razza bianca infilato con cura sotto la camicia. Di tanto in tanto, quando gli esseri umani erano ancora lontani, si esercitava a pronunciare ad alta voce il nome che si era scelto: Antonio Raposo Tavares.
La sua voce risuonava leggermente stridula, con toni discordanti, ma sapeva che non avrebbe destato sospetti. Gli era già accaduto. Gli indios Goyaz erano famosi per le strane inflessioni della loro parlata. Anche i contadini che gli avevano offerto un tetto e del cibo la notte precedente, parlavano allo stesso modo. Quando le loro domande si erano fatte più insistenti, si era accovacciato sui gradini di una delle loro abitazioni e aveva suonato il qena,il flauto degli indiani delle Ande, che portava sempre con sé dentro una sacca di pelle. Suonare il flauto era un gesto simbolico della regione. Quando un Guarani avvicinava il flauto al naso e cominciava a suonare, voleva dire che la conversazione era finita. I contadini, alzando le spalle, si erano allontanati.
Camminando con una certa pesantezza e controllando attentamente le articolazioni delle gambe, si era trascinato nei pressi di una zona fittamente abitata. Poteva scorgere in lontananza le cime rosso scuro dei tetti e le vetrate scintillanti di una torre bandeirante con macchine volanti che atterravano e decollavano. La scena faceva stranamente pensare a un alveare.
Per un attimo si sentì sopraffatto dagli istinti che sapeva di dover padroneggiare. Quegli istinti avrebbero potuto impedirgli di superare la dura prova che lo attendeva. Si scostò dal sentiero battuto per non incrociare esseri umani e ripassò mentalmente le regole che garantivano la sua vera identità. I suoi pensieri scavarono nel più profondo del suo essere: Siamo schiavi verdi soggetti alla grande totalità.
Riprese la strada in direzione del posto di controllo bandeirante. Ora aveva assunto un’aria servile che lo aiutava a difendersi dagli sguardi fissi degli umani che gli passavano accanto. La sua specie conosceva molte caratteristiche del comportamento umano e aveva ben presto imparato che il servilismo era un ottimo camuffamento.
In quel momento il sentiero battuto lasciava il posto a una strada asfaltata a due corsie, ai lati della quale scorrevano stretti marciapiedi costruiti sopra i fossati. A sua volta questa strada, curvando, si immetteva in un’autostrada a quattro carreggiate dove persino i marciapiedi erano asfaltati. Qui le macchine terrestri e le macchine volanti erano più numerose e il flusso del traffico pedonale era aumentato.
Fino a quel momento non aveva attirato l’attenzione dei passanti. Poteva tranquillamente ignorare le occasionali occhiatine degli indigeni, mentre non si sarebbe lasciato sfuggire gli sguardi penetranti. Solo quelli infatti avrebbero rappresentato un pericolo; ma fino ad allora non ne aveva captati. L’aria servile gli faceva da scudo.
Il sole era già alto e il calore del giorno cominciava a scendere sulla terra, sollevando dai rifiuti, sparsi ai lati del sentiero, un’umidità fetida che si mescolava agli odori della traspirazione degli umani che lo circondavano. C’era una tale acidità nell’aria, che improvvisamente si trovò a pensare con nostalgia ai profumi a lui familiari del retroterra di Goyaz. E oltre agli odori della pianura c’era qualcosa nell’aria che lo riempiva di un impercettibile senso di angoscia. Era qui dove si concentravano maggiormente i veleni per insetti.
Ora gli umani erano tutti attorno a lui, vicini e incalzanti, costretti ad avanzare sempre più lentamente man mano che si avvicinavano all’ingorgo del posto di controllo.
Il movimento in avanti si arrestò.
Ora l’avanzata non era altro che un trascinarsi e fermarsi, un trascinarsi e fermarsi…
Era giunto il momento della grande prova, che ormai nessuno poteva evitare. Rimase in attesa, con la pazienza tipica di un indio. A causa del caldo soffocante, il suo respiro si era fatto più profondo. Ne regolò il ritmo con quello degli umani intorno a lui per potersi armonizzare con loro. Gli indios delle Ande non respiravano profondamente qui nelle pianure.
Si trascinava e si fermava.
Si trascinava e si fermava.
Ora poteva vedere il posto di controllo.
Severi e meticolosi bandeirantes, avvolti in mantelli bianchi con elmetti, guanti e stivali in materiale sintetico, erano allineati in doppia fila all’ombra di un camminamento di mattoni che conduceva alla città. Poteva scorgere la luce accecante del sole che illuminava la strada oltre il passaggio interno, dove la gente si precipitava una volta superata la grande prova.
La vista di quella zona libera oltre il muro suscitò in lui un’intensa inquietudine, che riuscì istantaneamente a dominare. Non era il momento di lasciarsi turbare. Ogni parte di sé doveva stare all’erta per nascondere qualsiasi moto di sofferenza.
Si trascinò e …si trovò tra le mani del primo bandeirante: un tipo alto e biondo, dalla carnagione rosea e gli occhi azzurri.
«Va’ avanti! Alla svelta!» disse.
Una mano inguantata lo condusse verso due bandeirantes ritti sul lato destro della fila.
«Nome?» chiese una voce alle sue spalle.
«Antonio Raposo Tavares», rispose con voce stridula.
«Distretto?»
«Goyaz.»
«Gli devi riservare un trattamento speciale», fece il biondo gigante. «Viene sicuramente dalla regione interna.»
Ora si trovava nelle mani dei due bandeirantes. Uno gli infilava una maschera sul viso e l’altro un sacco di plastica addosso. Dal sacco pendeva un tubo che andava a congiungersi con un’apparecchiatura posta nella strada oltre il corridoio.
«Doppia scarica!» fece uno dei bandeirantes.
Un’esalazione di gas blu gonfiò il sacco: sopraffatto dalla angosciosa necessità di aria pura, tirò un profondo e affannoso respiro attraverso la maschera.
Agonia!
Il gas gli attraversò ogni parte del corpo, provocandogli profonde fitte di dolore.
Non dobbiamo cedere, pensò, dobbiamo tenere duro.
Ma era un dolore lancinante che lo stava uccidendo. Ogni fibra del suo corpo stava per cedere.
«Adesso basta», fece il bandeirante che reggeva il sacco.
Gli sfilarono il sacco e la maschera, quindi lo sospinsero giù per il corridoio, verso la luce del sole.
«Su, alla svelta! Non ostacolare il passaggio!»
Gli era rimasto addosso l’odore del gas velenoso. Era una prova che non si aspettava. Non l’avevano preparato a quel veleno; era pronto ad affrontare le radiazioni, le vibrazioni soniche e i vecchi prodotti chimici… ma non il gas velenoso.
Come uscì nella strada, la luce del sole lo investì. Svoltò a sinistra e percorse un vicolo fiancheggiato da bancarelle di frutta dove grassi mercanti contrattavano coi clienti o se ne stavano in attesa con aria vigile dietro le loro mercanzie.
Sembrava che la frutta gli facesse cenni allettanti, promettendo rifugio ad alcune parti del suo corpo, ma il suo subconscio conosceva la vacuità di quel pensiero. Facendo appello alle poche forze che gli rimanevano, scansò un gruppetto di compratori e avanzò fra le bancarelle.
«Vuoi comprare arance fresche?» Una mano scura e untuosa gli avvicinò due arance al viso. «Arance fresche giunte dalla campagna, mai state a contatto di un insetto.»
Cercò di evitare la mano, ma l’odore delle arance era irresistibile.
Allontanatosi dalle bancarelle, svoltò in un’angusta strada laterale al termine della quale vide in lontananza, alla sua sinistra, l’allettante vegetazione dell’aperta campagna, la zona libera oltre la città.
Si diresse verso il verde, accelerando l’andatura e calcolando mentalmente il tempo che aveva ancora a disposizione. Sapeva che presto sarebbe accaduto. Aveva gli abiti intrisi di veleno, ma l’aria pura filtrava attraverso il tessuto… il pensiero di una probabile vittoria fungeva da antidoto.
Possiamo ancora farcela!
Il verde si faceva sempre più vicino, alberi e felci allineati lungo la sponda del fiume. Udì il gorgoglio dell’acqua che scorreva, respirò l’odore della terra bagnata. Vide un ponte brulicante di traffico pedonale che giungeva dalle strade confluenti.
Non c’era altra via… si unì alla calca, evitando per quanto possibile qualsiasi contatto. I legamenti delle gambe e della schiena cominciavano a cedere, sapeva che sarebbe bastato un semplice urto, un eventuale scontro per rimuovere interi lembi di pelle.
Superata la prova del ponte, vide alla sua destra un sentiero battuto che dalla strada scendeva fino al fiume. Si mosse in quella direzione, andando a sbattere contro un uomo che assieme a un altro trasportava un maiale imprigionato in una rete. Un pezzo di pelle gli si staccò dalla coscia destra e se la sentì scendere giù per la coscia, attraverso i pantaloni.
Il tizio col quale si era scontrato per poco non lasciò cadere il maiale. «Attento!» urlò.
«Maledetti ubriaconi!» fece eco il suo compagno.
I due uomini, attratti dai grugniti e dalle contorsioni del maiale, si girarono verso la bestia.
Approfittò di quell’attimo di distrazione per allontanarsi e, imboccato il sentiero battuto, si trascinò verso il fiume.
In quel punto, l’acqua ribolliva per l’effetto dell’aerazione proveniente dai filtri della chiusa, provocando una densa schiuma in superficie.
Alle sue spalle uno dei due uomini disse: «Non credo che fosse ubriaco, Carlos. Aveva la pelle secca e calda. Forse stava male».
Udì le loro parole e accelerò l’andatura. Il pezzo di pelle mimetica si era staccato del tutto ed era scivolato fino al polpaccio. I muscoli delle spalle e della schiena si smembravano, minacciando il suo equilibrio.
Il sentiero scorreva attorno a un cumulo di terriccio e, fiancheggiato da una parete di felci e cespugli, si inoltrava in una galleria. Era sicuro di trovarsi lontano dalla vista dei due uomini. Strinse i pantaloni nel punto in cui la pelle si staccava dalla gamba e attraversò lentamente la galleria.
Giunto all’uscita, scorse la sua prima ape abnorme. Era morta, essendo passata attraverso i filtri di aerazione sprovvista di difesa contro i gas velenosi. L’ape era un tipo di farfalla dalle ali iridescenti con sfumature gialle e arancione. Giaceva su una foglia verde illuminata da un raggio di sole.
Proseguì il suo lento cammino dopo essersi impresso nella memoria la forma e i colori dell’insetto. La sua specie aveva considerato le api come un possibile mezzo, tuttavia c’erano molti inconvenienti. Un’ape non poteva comunicare con gli esseri umani e questi ultimi dovevano immediatamente ascoltare la voce della ragione, altrimenti ogni sorta di vita sarebbe cessata.
Gli giunse il fruscio di qualcuno che avanzava di corsa giù per il sentiero. Passi pesanti calpestavano il terreno.
Sono inseguito?
Perché? Sono stato scoperto?
Una sensazione di panico si impadronì di lui e al tempo stesso gli procurò una nuova carica di energia. Ma era costretto a procedere sempre più lentamente. Presto la sua sarebbe stata soltanto una lenta e strisciante avanzata. I suoi occhi scrutavano fra il verde alla disperata ricerca di un nascondiglio.
Una sottile apertura oscurava la fitta parete di felci alla sua sinistra. Piccole impronte di piedi conducevano fino all’entrata… dei bambini, pensò. Si fece strada fra le felci e si trovò in un viottolo che fiancheggiava l’argine del fiume. Due aeroplanini, rossi e blu, giacevano abbandonati per terra. Barcollando, premette un piede sul terrapieno.
Il viottolo portava vicino a una parete di terriccio scuro ornata di piante rampicanti e, curvando bruscamente, terminava all’imboccatura di una caverna poco profonda. Altri giocattoli giacevano abbandonati nell’oscurità della caverna.
Si piegò sulle ginocchia e prese a strisciare fra i giocattoli verso quella sospirata frescura, quindi rimase lì ad aspettare.
D’un tratto, il rumore dei passi si fece più distinto ed egli poté udire delle voci.
«Si è diretto verso il fiume. Credi che avesse intenzione di buttarsi?»
«Chi lo sa? Sono sicuro però che stesse male.»
«Guarda qui! Qualcuno deve essere passato di qui di recente!»
Le voci gli giungevano sempre più confuse, mescolate al gorgoglio dell’acqua sottostante.
I due uomini si stavano allontanando giù per il sentiero. Non avevano scoperto il suo nascondiglio. Perché l’avevano inseguito? Sapeva di non aver fatto male a quell’uomo. Sicuramente non nutrivano sospetti nei suoi confronti.
Comunque non era il momento di fare congetture. Si armò di coraggio per portare a termine il suo compito. Mise in azione tutte le sue energie e prese a scavare il terreno. Scavò sempre più in profondità, gettando la terra alle sue spalle e fuori della caverna per simulare un crollo delle pareti. Scavò dieci metri in profondità prima di fermarsi.
La sua riserva di energie era sufficiente per lo stadio successivo. Si girò sulla schiena e cominciò a disseminare le parti morte della schiena e delle gambe deponendo l’ape regina e il suo sciame sul terriccio al di sotto della sua chitina. Dagli orifizi della coscia, fuoriusciva la secrezione bavosa, il rivestimento verde, che si sarebbe indurita in una corazza protettiva.
Aveva vinto: le parti essenziali erano sopravvissute.
Ora la cosa più importante era il tempo, circa venti giorni per poter accumulare nuove energie, affrontare la metamorfosi e disperdersi.
Presto ci sarebbero stati migliaia di esseri come lui, ognuno con il suo rivestimento mimetico e un certificato di identità; ognuno con un aspetto umano.
Tutti uguali a lui.
Ci sarebbero stati altri posti di controllo, ma non così severi; altre barriere, ma meno numerose.
Tale duplicato dell’essere umano si era dimostrato soddisfacente. La suprema integrazione della sua specie aveva scelto bene. Aveva imparato molto studiando la natura degli schiavi nell’altopiano sertao. Ma era così difficile capire le creature umane. Persino quando veniva loro concessa una libertà limitata, era quasi impossibile comunicare con loro. La loro suprema integrazione escludeva qualsiasi possibilità di contatto.
E rimaneva sempre insoluta la questione principale: come poteva una qualsiasi suprema integrazione permettere il verificarsi di una catastrofe che stava per colpire l’intero pianeta?
Com’era complicata la natura degli esseri umani, bisognava dimostrar loro… forse in modo drammatico, la condizione di schiavitù in cui si trovavano. L’ape regina si agitava fra il fresco terriccio, incitata all’azione dalle sue api guardiane. Il contatto unificativo attraversò tutte le parti del corpo alla ricerca di quelle superstiti, distribuendo forze. Questa volta avevano imparato nuovi sistemi per sfuggire all’attenzione degli esseri umani. Gli sciami successivi avrebbero fatto buon uso di questa conoscenza. Alla fine uno di loro si sarebbe messo in contatto con la città situata nei pressi del Rio delle Amazzoni, dove sembrava avesse origine la distruzione totale.
Uno di loro doveva farlo.