CAPITOLO SESTO

Le volute disegnate dalla danza degli insetti sul sof­fitto della caverna erano molto gradite al Cervello. Ammirava quei giochi di colori e quei movimenti mentre ne leggeva il messaggio: «Rapporto pervenu­to da ascoltatori appostati nella savana; risponde­re».

Il Cervello lanciò segnali affinché la danza pro­seguisse.

«Tre umani si preparano a fuggire su un picco­lo veicolo», danzarono gli insetti. «Il veicolo non volerà. Cercheranno scampo navigando sul fiume. Che cosa dobbiamo fare?»

Il Cervello indugiò per valutare i dati ricevuti. Gli umani accerchiati erano stati dodici giorni sot­to diretto controllo. Avevano fornito molte informa­zioni sulle loro reazioni provocate dallo stress. Quelle informazioni ampliavano i dati ottenuti dal­lo studio più accurato sugli indigeni. Il sistema per immobilizzare e uccidere gli umani diventava ogni giorno più semplice. Il problema non era tanto come ucciderli ma come comunicare con loro in assenza di timore e di stress da ambo le parti.

Alcuni di loro, come il vecchio dall’aria imponente, avanzavano proposte e suggerimenti e sembravano ragionevoli… ma ci si poteva fidare? Quello era il punto chiave.

Il Cervello sentì un impellente bisogno di dati ef­fettivi sugli umani in modo da controllarli senza che questi si accorgessero di essere osservati. Infatti la scoperta degli appostamenti di ascolto sparsi nella zona Verde aveva sollevato una frenetica attività da parte degli uomini. Avevano usato nuovi tipi di vi­brazioni soniche e nuovi veleni, intensificato i con­trolli alle barriere e rinforzato gli attacchi nelle zone Rosse.

Ma c’era un’altra fonte di preoccupazione: l’ignoto destino di quattro unità penetrate nelle barriere pri­ma della catastrofe di Bahia.

Solo una era ritornata; il suo rapporto era stato: «Siamo diventati dodici. Sei si sono staccati dal gruppo per accerchiare la zona nella quale abbiamo catturato i due capi umani. Di loro non si hanno notizie. Un’unità è stata distrutta. Quattro si sono decomposte per riprodurre altri di noi».

L’eventuale scoperta di quelle quattro unità si ri­velerebbe disastrosa in questo momento, rifletté il Cervello.

Quando sarebbero apparsi i simulacri umani? Di­pendeva dalle condizioni atmosferiche e dalla tem­peratura del luogo, dalla disponibilità di cibo, dai prodotti chimici, dall’umidità. La sola unità che aveva fatto ritorno non era a conoscenza della sorte delle altre quattro.

Dobbiamo trovarle! pensò il Cervello.

I problemi che potevano sorgere da un’azione fuo­ri del suo controllo lo sgomentavano. I simulacri erano un errore. Molte unità simili fra loro avreb­bero attirato l’attenzione, il che si sarebbe rivelato disastroso.

Il fatto che i simulacri fossero inoffensivi, pro­grammati in modo da esercitare una violenza li­mitata non aveva significato nell’attuale circostanza. Che volessero soltanto il permesso di parlare e ragio­nare con i capi umani… ora questo piano serviva a creare solo del pathos.

Il Cervello ripensò con amarezza alle parole del­l’umano di nome Chen-Lhu: «Sconfitta… suolo ste­rile». Questo Chen-Lhu aveva suggerito un sistema per risolvere il problema che avevano in comune, ma quali erano le sue vere intenzioni? Ci si poteva fidare?

Il Cervello interruppe quei pensieri e diresse una domanda al suo sciame: «Quali umani cercheran­no di mettersi in salvo?» Sapeva che era necessario porre particolare attenzione a ogni dettaglio.

L’orientamento dell’alveare tendeva a ignorare i dati individuali. Questa inclinazione era stata l’ori­gine degli errori commessi con i simulacri umani.

Sapeva che all’apparenza il suo problema sem­brava semplice. Ma un’analisi profonda faceva sor­gere le complicazioni delle pressioni emotive. Emo­zioni! Emozioni! La ragione aveva così tante bar­riere da superare!

I messaggeri avevano verificato i dati ricevuti da­gli appostamenti di ascolto, e ora ne riportavano i nomi: «Rhin Kelly, la regina nascosta, e gli uma­ni di nome Chen-Lhu e Joao Martinho».

Martinho, pensò il Cervello, l’umano giunto con l’altra metà dell’aerocarro. Ciò dimostrava la com­plicata affinità del suo alveare con quello degli umani. Poteva esistere un valore in quel rapporto.

Gli insetti, allevati con un coefficiente ripetitivo atto a garantire contatti, rinnovarono la loro pre­cedente domanda.

«Che tipo di contrattacco è richiesto?»

«Messaggio a tutte le unità», fece il Cervello. «Ai tre del veicolo sarà permesso di mettersi in salvo nel fiume. Esercitate una certa resistenza in modo che la nostra opposizione alla fuga sia evidente. De­vono essere seguiti da gruppi di azione in grado di sbarazzarsi di loro qualora si riveli necessario. Non appena i tre avranno raggiunto il fiume, soppri­mete quelli che rimangono.»

Le unità dei messaggeri si raggrupparono sopra il Cervello per imprimere il messaggio con motivi di danza. Decollarono in gruppi compatti, lancian­dosi attraverso l’imboccatura della caverna.

Per pochi minuti il Cervello rimase ad ammirare i colori, quindi allentò gli impulsi sensoriali e si ac­cinse a valutare il problema della prevalente in­compatibilità delle proteine.

Dobbiamo produrre immediati e logici vantaggi che gli umani non possano fare a meno di ricono­scere, pensò il Cervello. Se siamo in grado di dimo­strare la drammaticità di tali vantaggi, riusciremo ancora a far capir loro che l’interdipendenza si svi­luppa in senso circolare, è una matassa imbrogliata, una questione di vita o di morte.

Hanno bisogno di noi e noi di loro… ma l’obbligo di fornire le prove è esclusivamente nostro. E se dovessimo fallire, allora questo sarebbe veramente suolo sterile.


«Presto sarà buio, capo», disse Vierho. «Allora te ne andrai.» Aprì la calotta della capsula e si sporse all’interno.

Joao si trovava a un passo dietro di lui, ancora debole e tormentato da fitte lancinanti alla gamba sinistra causate dal trattamento energetico cui si era sottoposto.

«Ho sistemato viveri e altri rifornimenti d’emer­genza qui sotto il sedile, capo. Ho riempito anche il cassone del retro. Hai a disposizione due fucili a gas con venti caricatori supplementari e una cara­bina. Mi dispiace, ma per la carabina sono rimaste poche munizioni. Sotto l’altro sedile c’è una dozzi­na di bombe schiumogene e là nell’angolo ho fissa­to una serie di bombole a spruzzo. Sono cariche al massimo.» Vierho si drizzò e lanciò un’occhiata alle tende, quindi aggiunse a voce bassa: «Capo, non mi fido del dottor Chen-Lhu. L’ho sentito parlare, quando credeva di morire. Ho l’impressione che…»

«È un rischio che dobbiamo correre», lo rassi­curò Joao. «Senti, vorrei che tu o uno degli altri prendeste il mio posto.»

«Non ne voglio più sentir parlare, capo.» Vierho abbassò nuovamente il tono della voce. «Capo, cammina vicino a me, come se stessimo per salu­tarci.»

Joao esitò un attimo, quindi gli si accostò. Sentì qualcosa di metallico e di pesante scivolargli nella tasca dell’uniforme e sussurrò: «Che cos’è?»

«Apparteneva alla mia bisnonna. È una rivoltel­la, una Magnum 475. Ha cinque pallottole nel ca­ricatore e qui ne ho un’altra dozzina. Non è quello che si dice un’arma ultramoderna, ma contro gli uomini fa ancora il suo dovere.»

Joao commosso deglutì, mentre gli occhi gli si inumidivano di lacrime. Tutti gli Irmandades sape­vano che il Padre si portava sempre dietro quel vec­chio schioppo e che per nessuna ragione al mondo se ne sarebbe mai privato. Il fatto che lo facesse ora significava che era convinto di morire lì.

«Che Dio ti protegga, capo.»

Joao si volse e guardò verso il fiume che scorre­va a cinquecento metri dalla savana. Riusciva a mala pena a intravedere la spiaggia che si estendeva oltre la sponda opposta e la fitta vegetazione illu­minata dai raggi del sole pomeridiano. Laggiù la giungla si elevava in ondate di colori, i suoi marcati contorni spiccavano nella luce uniforme. Varietà di colori che, da un verde scuro lungo la fascia inferiore, sfumavano in un verde salvia in quella supe­riore, intramezzato da chiazze gialle, rosse e ocra. Al di sopra di quelle foglie mosse da una leggera brezza, torreggiava un albero candello pieno di nidi di pipistrelli che facevano tremare i rametti più sottili. A sinistra, un groviglio di liane oscurava una parete di alberi mata-polo.

«La capsula ha solo quindici minuti di autono­mia?» chiese Joao.

«Forse qualcosa di più, capo.»

Se contiamo solo sulla corrente del fiume non ce la faremo mai, pensò Joao.

«Capo, a volte spira un forte vento lungo il fiu­me», fece Vierho.

Maledizione, non si aspetterà che noi andiamo in acqua con quell’aggeggio, pensò Joao. Fissò Vierho e notò sul suo viso tracce di profonda stanchezza.

«Quel vento potrebbe causarvi seri inconvenien­ti, quindi ho utilizzato un gancio della capsula per costruire un aggeggio che stia sotto il pelo del­l’acqua e funga da draga. Si chiama ancora marina e manterrà il muso della capsula contro vento.»

«Ottima idea, Padre.»

E si domandava: Perché recitiamo questa farsa? Siamo tutti destinati a morire qui… qui o sotto le acque del fiume.

Un fiume che si estendeva per sette od ottocento chilometri, con rapide, baratri, cascate, e la stagio­ne delle piogge era imminente. Presto si sarebbe trasformato in un inferno torrenziale. E se anche si fossero salvati, c’erano sempre i nuovi tipi di in­setti, le creature che spruzzavano acido e veleni so­fisticati.

«È meglio che tu stesso gli dia un’altra occhiata, capo», così dicendo Vierho indicò la capsula.

Sì, ha ragione, servirà a distrarmi, a non farmi pensare, considerò Joao. C’era già stato una volta, ma un’altra occhiata non sarebbe stata inutile. Do­po tutto le loro vite dipendevano da quell’aggeggio… almeno per il momento.

Le nostre vite!

Forse c’era una via di scampo, almeno un barlu­me di speranza. In fondo quella era la capsula di un aerocarro della giungla, poteva esser chiusa ermeticamente ed era studiata in modo da affrontare qualsiasi assalto.

Non devo lasciarmi trasportare da inutili speran­ze, pensò.

Tuttavia, si avviò verso la capsula… tutto era pos­sibile.

La vernice bianca della carrozzeria era stata ri­pulita dalle macchie, dalle strisce e dalle incrosta­zioni d’acido. I pattini galleggianti, che normalmen­te si estendevano oltre il muso arrotondato della capsula, erano stati piegati a mano e saldati. For­mavano un basso gradino che portava alle semiali e all’interno della cabina. L’intera capsula era lunga circa cinque metri e mezzo, compresi i due metri del motore a razzo. Il blocco motore, che era inse­rito nella sezione sganciabile dell’aerocarro, era staccato ai due lati. La capsula, anch’essa divisa in sezioni trasversali, era di forma ovale, costituita da due superfici a mezza luna che si aprivano nella paratia posteriore della cabina. La mezza luna di sinistra era un intrico di morsetti serrafili che una volta collegavano la capsula all’aerocarro. La parte destra era chiusa ermeticamente per mezzo di un portello che ora conduceva alla cabina e a uno dei pattini galleggianti.

Joao controllò il portello, si accertò che i morset­ti fossero ben collegati e lanciò un’occhiata al pat­tino galleggiante di destra. Notò che uno squarcio laterale era stato rappezzato con tessuto e butile.

Avvertendo un forte odore di benzina, si chinò e controllò il fondo del serbatoio. Vierho aveva pompato fuori la benzina, tappato il foro all’esterno con una sostanza chimica e all’interno con un pro­dotto a spray, quindi aveva travasato la benzina nel serbatoio.

«Dovrebbe reggere se non subisce urti», osservò Vierho.

Joao annuì, si arrampicò sull’ala sinistra e guar­dò giù nella cabina. L’abitacolo, di circa due metri quadrati e alto due metri e mezzo, comprendeva due sedili di comando e in coda dei cassoni imbot­titi. I finestrini anteriori guardavano sul muso af­fusolato della capsula. Quelli laterali finivano all’al­tezza delle ali sulla parte frontale e si allargavano in coda. Un pannello trasparente di materiale pla­stico magnetico scorreva sopra il compartimento posteriore.

Joao si calò sul sedile di comando di sinistra e prese a controllare i comandi a mano. Notò che erano piuttosto lenti. Nel cruscotto erano stati in­stallati un nuovo indicatore di carburante e un al­tro bottone di avviamento, entrambi contrassegnati da rozze etichette scritte a mano.

«Ho dovuto utilizzare i pezzi che avevo a dispo­sizione, capo. Non c’era molto, ma se non fosse sta­to per l’incoscienza di quelli dell’OIE…»

«Hmm?» fece Joao in tono assente mentre pro­seguiva l’ispezione.

«Quando hanno abbandonato l’autocarro, hanno preso le tende. Io personalmente avrei preso un maggior numero di armi. Comunque dalle tende ho potuto ricavare le funi e le toppe per le ripara­zioni.»

Joao ultimò la verifica dell’indicatore di carbu­rante. «Nel sistema di alimentazione non ci sono le valvole automatiche», disse.

«Non si potevano riparare, capo… in ogni caso non hai molta benzina a disposizione.»

«A sufficienza per mandarci tutti all’inferno…. se non si riesce a controllare.»

«È per questo che ho messo lì quel grosso pul­sante, capo. Te l’ho detto. Va acceso e spento con rapidi scatti, non ci sono problemi.»

«A meno che, per sbaglio, dovessi aspirare troppa benzina.»

«Guarda là sotto, capo: quel pezzetto di legno fa da interruttore. L’ho collaudato con dei conteni­tori infilati sotto il dispositivo di iniezione. Non avrai un’imbarcazione molto veloce… ma piuttosto che niente.»

«Quindici minuti», rifletté Joao.

«È solo un’ipotesi, capo.»

«Lo so, forse basta per centocinquanta chilome­tri se tutto funziona come crédiamo; altrimenti cen­tocinquanta metri… e salteremo per aria.»

«Centocinquanta chilometri», aggiunse Vierho, «non ti bastano nemmeno per essere a metà stra­da dalla civiltà.»

«Non ci sono dubbi.»

«Allora, è tutto pronto?» tuonò Chen-Lhu la cui voce aveva un tono di falsa cordialità.

Joao guardò in basso e vide che l’uomo, appoggia­to all’ala di sinistra, era curvo e aveva un aspetto sofferente. Ebbe il sospetto che quella non fosse altro che una sofferenza simulata.

È stato il primo a riprendersi, pensò, anche se ci ha messo molto a rimettersi in forze. Ma… era in fin di vita. Forse lavoro troppo di immaginazione.

«È pronto o no?» insistette Chen-Lhu.

«Spero di sì», rispose Joao.

«Corriamo dei rischi?»

«Sarà come fare una passeggiatina domenicale», disse Joao in tono ironico.

«Dobbiamo salire a bordo subito?»

Joao volse lo sguardo verso le ombre che si al­lungavano dietro le tende, una varietà di sfumature arancione riflesse dai raggi del sole. Si accorse di respirare faticosamente, senza dubbio la tensione nervosa gli stava giocando brutti scherzi. Provò a tirare un respiro profondo e fu pervaso da una improvvisa calma; certo non era del tutto rilassato, ma libero da qualsiasi sensazione di timore.

Fu Vierho a rispondere: «Fra una ventina di mi­nuti circa, dottore.» Posò una mano sulla spalla di Joao. «Capo, che le mie preghiere ti accompa­gnino.»

«Sei sicuro di non voler prendere il mio posto?»

«Non è più il caso di discuterne, capo.»

Rhin Kelly uscì dalla sua tenda con una borsetta in mano, si diresse verso di loro e andò a mettersi di fianco a Chen-Lhu.

«Fra venti minuti, mia cara», le annunziò lui.

«Non credo di avere diritto a un posto là den­tro», disse Rhin. «Forse è più giusto che un al­tro…»

«Ormai è deciso così», tagliò corto Chen-Lhu quasi con rabbia. È incosciente, pensò, che cosa le salta in mente? «Nessuno ti permetterà di rimane­re qui.» Inoltre, mia cara Rhin, posso aver biso­gno di te per influenzare quel brasiliano. Joao Martinho dovrà essere manipolato con estrema attenzione, e a volte una donna ci riesce meglio di un uomo.

«Rimango del mio parere.»

Chen-Lhu si volse verso Joao. «Forse può convin­cerla lei, Johnny. Sono certo che non vorrà lasciar­la qui.»

Qui o là, non fa molta differenza, pensò Joao, ma disse: «Come ha già detto, la decisione è ormai pre­sa. Ora fareste meglio a salire a bordo e ad allac­ciarvi le cinture di sicurezza.»

«Dove dobbiamo sistemarci?» chiese Chen-Lhu.

«Lei è più pesante, quindi si metta dietro», con­sigliò Joao. «Sarà improbabile che io riesca a de­collare prima di urtare contro la superficie del fiu­me, ma, se così fosse, preferirei che il muso della capsula fosse rivolto verso l’alto.»

«Anch’io devo prendere posto dietro?» chiese Rhin e si rese conto di aver inconsciamento aderi­to alla loro decisione. Perché no, pensò fra sé, non immaginando di dividere il pessimismo di Joao.

«Capo!»

Joao si avvicinò a Vierho che aveva appena finito di controllare i galleggianti.

Rhin e Chen-Lhu intanto si erano diretti verso la fiancata di destra e stavano salendo a bordo.

«Come ti sembra?»

«Ti consiglio di tenere il galleggiante di destra più sollevato rispetto all’altro», fece Vierho. «Avre­sti maggiori probabilità di farcela.»

«Va bene. Manderemo soccorsi non appena pos­sibile», disse Joao ma, pronunciando quelle parole, si rese conto della loro vacuità.

«Certo, capo.» Vierho indietreggiò e preparò un lanciabombe.

Gli altri uscirono dalle tende carichi di armi e cominciarono a sistemarle nel veicolo.

Niente addii, pensò Joao. Sì, è la cosa migliore. Deve sembrare una partenza come le altre, una nor­male routine.

«Rhin, che cosa c’è dentro quella borsa?» chiese Chen-Lhu.

«Oggetti personali… e…», si interruppe, in preda alla commozione, «alcuni di loro mi hanno dato delle lettere da consegnare».

«Ah», fece Chen-Lhu, «un pizzico di sentimenta­lismo che si adatta alla situazione».

«Che cosa c’è che non va?» chiese Rhin con stizza.

«Niente, proprio niente.»

Vierho si diresse nuovamente verso l’estremità dell’ala. «Allora d’accordo, capo: appena ci dai il se­gnale di partenza, formiamo una barriera schiumo­gena lungo tutto il percorso. Dovrebbe tenerli lon­tani quel lasso di tempo che ti occorre per rag­giungere il fiume. Inoltre servirà a rendere il prato più scivoloso.»

Joao annuì e prese a ripassare mentalmente la routine di volo. Nemmeno uno degli interruttori era al suo posto. Il bottone d’avviamento a sinistra anziché a destra, la manetta del gas sporgeva dal cruscotto anziché dal pavimento fra i due sedili. Regolò le alette di compensazione e gli alettoni.

Sulla savana era calato il silenzio che anticipa­va la notte. Il prato che si estendeva davanti a loro era simile a un mare verde. Il fiume, in quel punto, era largo solo una cinquantina di metri: una super­ficie molto limitata, su cui ammarare se la capsula si fosse staccata da terra troppo velocemente. Joao sapeva che a quella latitudine e altitudine l’oscurità non era completa. Avrebbe dovuto scegliere il mo­mento adatto: un minimo di luce per il lancio attra­verso la savana e… sufficiente oscurità per proteg­gerli fino al momento dell’impatto sulle acque del fiume.

In balia di quei maledetti insetti per un raggio di quindici metri, pensò Joao. Dovrò farcela solo su una piccola striscia in mezzo al fiume, se attac­cheranno da riva. E Dio solo sa in quanti altri mo­di possono attaccarci… creature volanti, acquatiche.

«Tenetevi pronti con i fucili a gas non appena siamo in salvo sul fiume», disse. «Nel vederci fug­gire usciranno tutti insieme all’attacco.»

«D’accordo», fece Chen-Lhu. «I fucili sono in questo cassone, vero?»

«Esatto.»

Joao abbassò la calotta e la chiuse ermeticamente.

«In questo tipo di capsula, i portelli si chiudono a scatto automatico, per mezzo di morsetti. Si vedono anche là dietro, di fianco ai finestrini poste­riori.»

«Sistema molto ingegnoso», osservò Chen-Lhu.

«È un’idea di Vierho. È stata adottata in tutte le altre capsule.» Così dicendo volse lo sguardo verso Vierho e lo salutò con un gesto della mano. Questi si allontanò e ritornò al lanciabombe.

Joao accese le luci di atterraggio della capsula.

A quel segnale, tutti i suoi uomini fecero scattare le bombe schiumogene che andarono a ricadere lun­go tutto il percorso che avrebbe compiuto la capsula.

Joao premette il bottone d’avviamento; la spia di sicurezza si accese. Contò tre secondi, la luce si af­fievolì e si spense. Bene, pensò, e spinse a fondo la manetta del gas.

Un boato assordante si alzò dai motori a razzo e, ancor prima che Joao riuscisse ad azionare i freni, la capsula fu catapultata fuori della fossa perimetrale in direzione del fiume. Con un senso di violenta emo­zione, si rese conto di essere sospeso per aria. Tut­tavia aveva l’impressione di non riuscire a controlla­re la capsula; tendeva a oscillare in coda… i galleg­gianti facevano troppa resistenza. Non erano studia­ti per rimanere fuori durante il volo.

Ma non era il momento di pensarci. Joao virò e puntò in direzione di una striscia d’acqua ai margi­ni della quale la savana si fondeva con la giungla. In quel punto il fiume era più profondo, più largo e scorreva verso le colline che si stagliavano sullo sfondo. Quello era il punto più adatto. I galleggianti toccarono il pelo dell’acqua con un rimbalzo mor­bido… Su, giù… spruzzando acqua da entrambi i la­ti… più piano, sempre più piano.

Il muso si abbassò.

Fu solo allora che Joao si ricordò di non poggiare troppo sul galleggiante di destra.

La capsula stava ancora avanzando, ma avvicinan­dosi sempre più alla costa.

Joao trattenne il respiro nella speranza che la ri­parazione reggesse; si aspettava che da un momento all’altro la fiancata destra andasse a sbattere contro la superficie dell’acqua.

La capsula rimase in equilibrio.

«Ce l’abbiamo fatta?» chiese Rhin. «Siamo fuori pericolo?»

«Credo di sì», rispose Joao.

Chen-Lhu gli passò i fucili a gas e disse: «Li abbia­mo colti di sorpresa. Ah, ah! Guardate là dietro!»

Joao si girò quel tanto che la cintura di sicurezza gli permetteva, e guardò oltre la savana. Nel punto in cui si trovavano le tende fluttuava una nuvola grigia da cui uscivano strane protuberanze che si alzavano e si abbassavano.

Fu pervaso da un brivido agghiacciante, quando si rese conto che quella nuvola era formata da miliardi di insetti che si riversavano sull’accampamento.

Un improvviso risucchio colse di sorpresa la cap­sula facendola virare fuori del campo visivo della scena. Joao assecondò il movimento per sottrarsi a quella vista che non poteva più sopportare. Per un attimo la superficie dell’acqua davanti a lui brillò di un bagliore arancione, poi il buio della notte assorbì la scena. Il cielo assunse toni argentei riflessi da una sottile fetta di luna.

Vierho, pensò Joao. Thome… Ramon…

Gli occhi gli si riempirono di lacrime.

«Oh, mio Dio!» esclamò Rhin.

«Dio, già!» le fece eco Chen-Lhu con rabbia. «Un altro modo per definire i meccanismi del fato!»

Rhin nascose il volto fra le mani. Aveva la sensa­zione di prender parte alle prove di un dramma co­smico, un dramma senza copione o recitazione, sen­za parole o musica, e di cui non conosceva la sua parte.

Dio è brasiliano, pensò Joao, ricordando un vec­chio detto del suo paese: Di notte, Dio perdona i peccati commessi dai brasiliani durante il giorno.

E Vierho diceva sempre: «Confida nella Vergine Maria e vai».

Non avrei potuto aiutarli, pensò, il rischio era trop­po grande.

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