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Tre giorni prima, a Nottington, Dan Farrell era riuscito finalmente a rialzarsi in piedi e si era guardato attorno. Cos’era successo? Aveva sentito uno scricchiolio sinistro seguito da un urto e dal fischio lamentoso del vapore che usciva incontrollato dalle caldaie, aveva visto un bagliore d’incendio mentre la notte risuonava di urla e gemiti. Lui però non era ferito, almeno sembrava. Probabilmente il colpo l’aveva scaraventato fuori dallo sportello aperto dello scompartimento, e lui era svenuto. Lì vicino giaceva un uomo con una brutta ferita alla testa. Un poco più in là, da un ammasso di lamiere contorte, spuntava un braccio femminile. Le unghie smaltate di rosso avevano qualcosa di incongruo. Il corpo della donna doveva essere rimasto schiacciato sotto il pesante sportello di metallo.

Dan si scostò sentendo il rumore di una brusca frenata. Due fari illuminavano la strada a duecento metri da lui, e dalla macchina scesero alcuni uomini che si avviarono di corsa verso il luogo del deragliamento reggendo alcune barelle. Altre ambulanze aspettavano con le grandi portiere spalancate.

Farrell non aveva alcuna intenzione di offrire il suo aiuto alle squadre di soccorso, perché il suo unico desiderio era di allontanarsi da quel posto, al più presto. La nave sulla quale si era fatto riservare una cabina avrebbe levato l’àncora il giorno dopo a mezzogiorno, e lui doveva assolutamente imbarcarsi. È vero che mancavano ancora dodici ore, ma non era prudente correre rischi: persa quella nave, non ce ne sarebbero state altre per parecchi giorni, ed era inutile sperare di trovar posto su un aereo: aveva provato e sapeva che tutti i posti erano già prenotati sino alla fine del mese.

Se tutto avveniva secondo i suoi calcoli, sarebbero passati alcuni giorni prima che trovassero il corpo della donna, e l’identificazione avrebbe richiesto un tempo ancora maggiore perché la polizia avrebbe dovuto affrontare un problema assai arduo. Inoltre, come poteva una eventuale inchiesta stabilire un legame tra la donna assassinata e Dan Farrell? Lui era assolutamente convinto che non sarebbe rimasto coinvolto in quella storia. Tuttavia, se alla polizia fosse venuto in mente di volerlo interrogare, lui si sarebbe trovato già da parecchio tempo negli Stati Uniti.

Dan Farrell si chiese che ora fosse. Nella caduta, il vetro e le lancette del suo orologio da polso si erano rotti. A giudicare dal numero delle persone radunate sul luogo dell’incidente, doveva essere rimasto svenuto un’ora circa. Diede un’occhiata al vagone sconquassato. Le due valigie, con tutti i suoi vestiti ridotti chissà come, erano rimaste sotto i rottami. Per fortuna nel bagaglio non c’era alcun documento attraverso il quale poter risalire al proprietario. La perdita non aveva dunque tanta importanza, e lui era abbondantemente rifornito di denaro.

Si incamminò lungo il terrapieno. Quasi subito inciampò in qualcosa di morbido, si chinò e vide una valigia di media grandezza. La raccolse meravigliandosi che potesse pesare tanto. Pensò di portarla con sé, per avere un aspetto più naturale se lì vicino ci fosse stata anche la polizia.

Incrociò alcuni uomini che correvano in direzione opposta e che gli rivolsero domande alle quali Farrell rispose a caso. Voci e richiami. Infermieri che andavano e venivano portando barelle. Su una di queste notò un uomo svenuto, la cui testa era stretta da una fasciatura di fortuna. Alla luce delle lampade Dan credette di riconoscere l’archeologo con il quale aveva avuto una conversazione al Museo Ludbury due settimane prima, ma non ne fu sicuro.

Ambulanze e altre auto erano ferme lungo la strada ferrata. Dan Farrell si diresse verso un punto dove le macchine erano più numerose e, adocchiatane una che aveva tutta l’aria di appartenere a un medico, si assicurò che la chiave fosse infilata nel cruscotto poi, dopo una rapida occhiata intorno, salì a bardo con la valigia trovata e mise in moto allontanandosi indisturbato. Per mezz’ora almeno il proprietario della macchina non si sarebbe accorto della sparizione, e in mezz’ora lui avrebbe avuto un buon vantaggio sulla polizia.

Giunto ai sobborghi di Londra, Dan Farrell abbandonò la vettura in una strada deserta, e afferrata la valigia si avviò al più vicino posteggio di taxi. Si fece portare a qualche isolato di distanza per poi cercarsi un altro taxi. Poco dopo abbandonò anche questo. Si servì di altre due auto pubbliche prima di giungere in piena City, il posto ideale per far perdere più facilmente le sue tracce.

All’alba, dopo essersi rinfrescato e messo in ordine in una toilette pubblica, entrò in un ristorante dove consumò una colazione a base di banane alla crema, due uova fritte, marmellata d’arance e tre tazze di caffè. Non appena furono messi in vendita i giornali, si affrettò ad acquistarne uno.

Scorse velocemente l’articolo dedicato al disastro di Nottington e trasse un sospiro soddisfatto nel vedere che non si faceva nessun accenno all’assassinio di una donna.

Poco più tardi, Dan salì sul treno diretto a Southampton, Qui giunto si rifornì di tutto quello che poteva servirgli per il viaggio, compreso un rasoio, una confezione di talco borato, uno spazzolino da denti, dentifricio, camicie, cravatte, calze, un paio di pigiama, una vestaglia e un orologio da polso.

Nella sua euforia comperò anche due bottiglie di Scotch e una valigia per contenere il tutto.

Un’ora prima della partenza, Dan Farrell saliva la passerella della WesternQueen, e si sistemava a bordo.


La WesternQueenera una nave moderna e lussuosa con una sola classe, di tonnellaggio inferiore a quello delle altreQueendella stessa compagnia di navigazione che attraversavano l’Atlantico in quattro giorni.

Affidato il bagaglio a uno steward, l’uomo rimase sul ponte, impaziente di veder levare l’ancora. Appoggiato al parapetto con aria indifferente, osservò gli altri passeggeri che soli o a gruppi aspettavano come lui di assistere alla partenza. Dal movimento sui ponti ebbe l’impressione che per quel viaggio la nave non fosse a pieno carico. A un tratto sussultò sentendosi fissato. Girò la testa e incontrò lo sguardo di una donna. Sentì il sangue dargli una scossa violenta, e per mascherare il proprio turbamento si cercò nelle tasche il pacchetto di sigarette. Ne accese una, e aspirò una profonda boccata prima di voltarsi ancora verso la passeggera. Gli occhi della sconosciuta erano ancora fissi su di lui.

Poteva avere venticinque o ventisei anni, stabilì Dan. Il corpo morbido e ben modellato, e tutto nel suo atteggiamento faceva pensare all’agilità di un felino. La bocca, dalle labbra carnose, aveva una piega crudele agli angoli. La faccia truccata sapientemente, era più interessante che bella. Ai lineamenti fini e delicati facevano contrasto gli occhi troppo lontani tra loro sopra gli zigomi alti. Il colore di quegli occhi era di un azzurro talmente chiaro che Dan ne fu stupito. Non aveva mai visto occhi simili, liquidi e trasparenti. La donna indossava un completo grigio molto semplice ma di taglio raffinato. Attorno al collo lasciato scoperto, spiccava una grossa catena d’oro. Ma quello che colpiva maggiormente erano i capelli: fini, morbidi e vaporosi, d’un nero ebano sul lato destro, diventavano striati d’argento nel mezzo, mentre a sinistra erano completamente bianchi, d’un bianco abbagliante. Questa particolarità le dava un’aria giovane e vecchia insieme: sembrava che in lei fossero fuse due donne diverse.Icapelli bianchi ricadevano inanellati sulle spalle, i capelli neri erano rialzati sulla fronte in una piega morbida.

Quei capelli lo affascinavano. Gettata la sigaretta, si diresse decisamente verso la bella donna sostenendone lo sguardo indagatore.

«Stupefacente!» disse quando le fu vicino. «So che non dovrebbe riguardarmi… ma, sono veri?»

«Oh, sì. Nascono così.»

Anche il suono della voce lo turbò. Era bassa e vibrante di intensità contenuta. Gli occhi di Dan scesero dai capelli agli occhi, alla bocca, al collo… Aveva un collo magnifico, che gli ricordò un’altra donna, la cui gola non palpitava più e che giaceva dove il sole non poteva raggiungerla.

La voce della sconosciuta lo distolse dai suoi pensieri.

«Qualcosa che non va? Avete scoperto qualche difetto?»

«No. Ammiravo la vostra collana. Vi sta molto bene. L’oro si accorda magnificamente con il nero e il bianco.»

Lei sorrise.

«Per essere un uomo che non si fa la barba, parlate in modo ricercato.»

Il sorriso donava calore alla sua bocca, che nel cambiamento ci guadagnava: le labbra acquistavano maggior fascino.

«Ho passato una notte e una mattina assai movimentata» rispose l’uomo. Poi, ricordando una elementare norma di galateo, aggiunse: «Mi chiamo Dan Farrell.»

«E io Joane Marsh.»

«Viaggiate sola?»

«Sì.»

«Sposata?»

Esitò un attimo prima di rispondere: «Non lo so.»

La risposta fu tanto insolita che Farrell, sbalordito, non seppe cosa dire.

«Siete sorpreso?» chiese la donna con aria candida.

«Mio Dio, sì… Di solito le donne lo sanno quando sono sposate…»

«Siete americano?»

«Sì. Sono arrivato in Inghilterra un mese fa, per affari.»

«È inspiegabile allora che il mio nome non vi abbia detto niente» commentò la ragazza. «Joane Marsh e Thomas Marsh. Non sapete?»

«Scusatemi, ma non riesco ancora a capire» rispose Dan dopo aver inutilmente interrogato la memoria.

«Sono americana anch’io» riprese lei. «Ho conosciuto Tom tre anni fa, quando è venuto a New York per affari. L’ho sposato e l’ho seguito in Inghilterra. Tom era ricchissimo, possedeva una antica fabbrica di coltelli a Sheffield, e una vasta proprietà in campagna. Un anno fa è scomparso.»

Poiché la signora Marsh non dimostrava la minima emozione, Dan si ritenne esentato dalle frasi di prammatica e si limitò a commentare: «Non è il primo caso del genere. Sigaretta?»

«Grazie» accettò la donna.

Ne accese una anche lui. Joane girò un poco la testa per soffiare il fumo, poi riprese: «Doveva andare a Parigi dove aveva appuntamento con un industriale. È scomparso proprio la vigilia della partenza. Ho offerto una ricompensa di cinquanta sterline a chiunque mi avesse fornito qualche indicazione utile per ritrovare le sue tracce, morto o vivo. La compagnia di assicurazioni ne ha aggiunto altre cinquanta, ma non è servito a niente.»

«Non è possibile un caso di amnesia?»

«Non so più cosa pensare» disse lei stringendosi nelle spalle. «Sono state fatte ricerche sia dalla polizia inglese sia da quella francese, i giornali hanno parlato di questa scomparsa per giorni e giorni. Le autorità hanno frugato la zona, metro per metro, sono stati dragati i laghi, ma tutto è risultato inutile. Certamente avrà avuto anche lui le sue relazioni extra coniugali come tutti, ma nessuno ne ha mai saputo niente. Forse è stato ucciso da un rivale che ne ha poi occultato il cadavere. O forse è ancora vivo. Oppure si è stancato del suo lavoro e della famiglia, e ha deciso di scomparire senza lasciare traccia. Non lo so. Questo è stato un anno molto difficile per me. La solitudine, le chiacchiere della gente, i sospetti degli amici. È da poco che i nostri conoscenti hanno cominciato ad accettare il fatto così com’è e a manifestarmi ancora la loro simpatia. Da tanto tempo desideravo fare un viaggio, ne sentivo il bisogno, e all’improvviso… voi.»

«Io?» Dan non capiva cosa c’entrasse lui con la storia del signor Marsh.

Lei gli si mise di fronte, la testa leggermente piegata all’indietro. Negli occhi azzurri Dan vide passare una luce così viva e pericolosa da ricordargli la scintilla elettrica che un giorno aveva visto scoccare tra l’anodo e il catodo di un apparecchio durante un esperimento dimostrativo. Si sentì a disagio sotto quello sguardo dal potere misterioso. Gli sembrava che Joane lo guardasse con strana avidità.

«Oh, sì, Dan» rispose la ragazza. «Voi mi ricordate Tom. Siete alto come lui perché anche a Tom io arrivavo appena alle spalle, gli stessi capelli sempre scompigliati, lo stesso viso ora duro ora canzonatorio. E scommetto che avete anche lo stesso peso… Ottantacinque chili, vero?»

«Ottantaquattro» precisò Dan. «Potete dire di aver indovinato, comunque.» Con un gesto disinvolto fece volare il mozzicone della sua sigaretta al di là del parapetto e aggiunse: «Che ne direste di ritrovarci alle cinque per un cocktail prima di cena?»

«Con molto piacere, Dan. Venite a prendermi nella mia cabina.»

«D’accordo, Joane. Alle cinque, allora.»

«Sono al numero trentasette.»

«Benissimo, siamo vicini. Io occupo la cinquantanove. E non pensate più al passato. Che vostro marito sia morto o che abbia perso la memoria, o che si sia allontanato di sua volontà, vi ha procurato già abbastanza dispiaceri. A lui non dovete più niente, e per me siete soltanto… Joane.»

«D’accordo» disse la ragazza con un sorriso. «A presto!»

Dan si diresse alla sua cabina senza voltarsi indietro.

Dopo essersi rasato e aver fatto una doccia fredda, si sentì meglio, ma era molto stanco. Le ultime ventiquattr’ore erano state intense di avvenimenti per lui, e non aveva dormito neppure un’ora. Si distese sul letto e quasi subito udì le sirene che annunciavano la partenza della nave. Qualche minuto, e poi l’ondeggiamento del mare.

Il viaggio era cominciato bene, si disse, pensando a Joane e ai suoi capelli incredibili. Era una donna eccezionale! Cullato dal rollio, Dan si addormentò.


Si svegliò alle cinque e un quarto. Se la fame non l’avesse svegliato, chissà fino a quando avrebbe continuato a dormire. Si vestì rapidamente rimproverandosi di essere in ritardo per l’appuntamento con Joane. Muovendosi in fretta per la cabina, urtò con il piede nella valigia non sua e si chiese cosa contenesse. Era curioso di saperlo, ma adesso non aveva tempo per guardare.

Alle cinque e mezzo bussò alla cabina trentasette.

«Entrate pure, Dan» gli rispose subito la voce della donna.

Era un vero e proprio appartamento, quello occupato da Joane. Il solo salotto era più grande di tutta la cabina di Dan, ed era ammobiliato riccamente in mogano. Alcune poltrone rallegravano l’ambiente e lo rendevano confortevole. In un angolo c’era uno spazioso divano, e accanto, un tavolino con una radio. Joane non era nel salotto. Farrell si affacciò alla camera e vide un grande letto, anch’esso in mogano, con una coperta di broccato rosa. A un lato del letto una deliziosa scrivania, e dall’altra parte una toilette con uno specchio a tre luci. Un armadio a muro, aperto, lasciava vedere il suo lussuoso e abbondante contenuto. In un angolo, alcune valigie di cuoio segnate dal monogramma J.M. Sul letto erano sparsi una vestaglia vaporosa, una camicia da notte, e un abito da sera. Tutto là dentro denotava che Joane amava il lusso e poteva concederselo.

La voce della donna lo chiamò da una porta socchiusa.

«Sì» disse lui.

«Non sono ancora pronta. Desolata di farmi aspettare, ma esco adesso dalla doccia. Farò in fretta, però, vedrete!»

Dan pensò che avrebbe a sua volta dovuto scusarsi del ritardo, ma Joane non gliene lasciò il tempo.

«Volete essere tanto gentile da cercarmi il rossetto nella borsetta?»

«Subito.»

La borsa era sulla toilette, e Dan cercò tra le mille cose che di solito una donna porta con sé. Gli capitò sotto le mani un portasigarette in oro e, fra gli altri oggetti, un vecchio ritaglio di giornale che parlava della sparizione di Thomas Marsh. L’articolo riportava la descrizione dello scomparso, e Dan si meravigliò che non fosse accompagnato da una fotografia. Finalmente trovò il rossetto e annunciò trionfalmente: «Eccolo! Cosa devo fare?»

«Portatemelo, per favore» fu la risposta.

L’americano si avvicinò alla porta del bagno, e gli parve di udire un mormorio subito interrotto.

Joane era seduta davanti a uno specchio, le braccia levate nel gesto di pettinarsi. Indossava un corto accappatoio di spugna fermato in vita da una cintura. La giacca le arrivava appena alle ginocchia e scivolando indietro lasciava del tutto scoperte le gambe bellissime. Il suo corpo era abbronzato in modo uniforme, come la faccia.

La donna si voltò leggermente verso di lui.

«Grazie, caro» disse con voce che sembrò una carezza distratta. Posò il rossetto sul ripiano di cristallo in mezzo agli altri prodotti di bellezza, poi si girò del tutto verso Dan. La scollatura dell’accappatoio rivelava l’inizio del seno ben modellato.

«Non sono molto pratica di questi aggeggi» riprese Joane porgendogli un rasoio elettrico. «Di solito uso un altro sistema» e alzò le braccia in un gesto significativo.

L’americano si sentì sconvolgere dallo stesso turbamento che l’aveva preso qualche ora prima sul ponte. Fingendo indifferenza esaminò il rasoio e lo mise in moto.

Sentiva sotto le dita il calore della pelle vibrante di vitalità, gli saliva alle narici il profumo intenso di un prodotto raffinato. Finita la depilazione di un’ascella, passò all’altra facendo girare la donna sul seggiolino mobile con una leggera pressione sulle spalle. Vide così la sorprendente divisione dei capelli sulla nuca.Idue colori non seguivano una linea diritta, ma si fondevano in tondo in modo che la parte bianca era assai più ampia: non c’era alcun dubbio che si trattasse di una colorazione naturale.

In pochi minuti Dan ebbe finito.

«Credo che così vada bene» disse staccando il rasoio.

«Io non avrei saputo fare meglio» rispose Joane saggiando con la punta delle dita la morbidezza della pelle.

«Serve altro?»

«No, grazie.»

Posando il rasoio sulla mensola, Dan osservò. «La vostra abbronzatura è perfetta.»

«Nella mia proprietà c’è un boschetto appartato, vicino a uno stagno. Ho preso lì i miei bagni di sole durante tutta l’estate.»

«E niente zone bianche?» chiese lui ironicamente.

Joane alzò la testa e incontrò nello specchio lo sguardo di Dan.

«Il viaggio è appena cominciato» rispose con tono pieno di sottintesi.

L’uomo uscì dal bagno e tornò nel salotto per permettere al suo cuore di riprendere il ritmo normale. Non riusciva a comprendere bene quella donna, non sapeva che cosa pensare della storia che gli aveva raccontato e dei suoi modi spicci. Sembrava che non le importasse niente delle convenienze e sovvertiva tutte le regole della buona creanza.

Poco dopo Joane comparve indossando una corta giacca bianca aperta su una camicetta accollata color rosa salmone. La gonna era in tessuto laminato blu chiaro.

Dan la guardò a lungo, ammirato.

«Non so come devo preferirvi» disse, «se adesso… o prima.»


Il bar della WesternQueenera quasi vuoto. La maggior parte dei passeggeri si era già trasferita in sala da pranzo, ma quelli che restavano lanciarono a Joane lunghe occhiate significative.

Si sedettero a un tavolino, e Dan ordinò per entrambi un doppio whisky.

«È già tardi» disse poi alla sua compagna. «Tra poco bisognerà andare a tavola, e io mi sento in vena di festeggiare subito il nostro incontro.»

«Anch’io, Dan» mormorò la donna. «Mi sembra di essermi svegliata da un incubo. Sono davvero felice di avervi conosciuto. Non poteva capitarmi niente di meglio!»

«Una volta rasato, beninteso!»

«Certo» disse lei ridendo. «Adesso va molto meglio. Ne avevate veramente bisogno, sapete!»

E voi no, avrebbe voluto dire Dan ripensando alla scena della stanza da bagno, invece disse solamente: «In quanto a voi, siete meravigliosa. Le altre donne sprizzano invidia da tutti i pori, e gli uomini muoiono dalla voglia di conoscervi. Siete davvero affascinante!»

Il cameriere servì loro il whisky, e Dan levò il suo bicchiere.

«Bevo al bianco e nero» esclamò. «A proposito, è così dappertutto?»

«Spetta a voi, mio caro, trovare la risposta» ribatté Joane toccando leggermente con il suo bicchiere quello del compagno.

Dan vuotò il bicchiere in un solo sorso.Igesti di Joane sembravano in sincronia coi suoi, infatti la donna posò il bicchiere vuoto nello stesso istante.

«Ottimamente» commentò Dan, e ordinò altri due whisky.

«Non so fino a che punto potrò tenervi testa» disse lei. «È la prima volta che bevo alcolici da un anno a questa parte.»

«Non è mai troppo presto per recuperare il tempo perduto.»

«Sì, voglio recuperarlo infatti. Voglio avere tutto, e subito. E con gli interessi, anche.»

Questa dichiarazione diede a Farrell una curiosa sensazione. Joane aveva messo nelle sue parole una avidità e una passione che gli suggerivano di stare in guardia, ma nello stesso tempo lo seducevano.

«Dopo tutto, questo è il vostro primo giorno di libertà» disse.

«È vero, e la cosa mi esalta.»

«Spero che la fine sarà così emozionante come il principio. Beviamo a una serata lunga e gaia.»

«E io spero che la nostra amicizia duri più a lungo, che sia per sempre.»

Dan guardò le mani che reggevano il bicchiere. Aveva dita lunghe, affusolate e nervose, e non portava fede. Mani interessanti, come tutto in lei.

«Dire sempre, è troppo» ribatté. «Diciamo fino a New York.»

«Vi fermate a New York?»

«Giusto il tempo di prendere l’aereo per Minneapolis.»

«Non mi sono mai spinta così lontano. È là che abitate?»

«A Minneapolis c’è la sede della mia ditta. È una società d’esportazione di cereali.»

«È per la vostra ditta che siete venuto in Inghilterra?»

«In parte sì. Ma avevo anche altri motivi, in particolare una visita al Museo Ludbury per consultare alcuni documenti sui metodi usati nell’Egitto dei Faraoni per macinare il grano e cuocere il pane. Abbiamo intenzione di fare una campagna pubblicitaria imperniata sulla storia del grano.»

«Il Museo di Ludbury? Ci sono andata anch’io un paio di volte con Tom. Ne avete conosciuto il conservatore? Si chiama… Vediamo se mi ricordo… Graham, mi pare.»

«Sì, lo conosco. È lui che mi ha aiutato nelle mie ricerche.»

«È un brav’uomo, se ben ricordo. Ma le donne non lo interessano molto. A proposito, non mi avete detto se siete sposato.»

«In questo momento non lo sono.»

«Lo siete stato?»

Dan si strinse nelle spalle con noncuranza dicendo: «Lei se ne è andata con un altro. Ho divorziato.»

«E non l’avete più rivista?»

«Una sola volta» rispose Dan, brusco. «Mi ha scritto, ma non mi è piaciuta la sua lettera e non le ho mai risposto. Però l’ho rivista.»

«L’avete trovata diversa?»

«Parecchio.»

«Tornereste con lei se ve lo chiedesse?»

«Gran Dio, no!» rispose Farrell, e sentì un brivido serpeggiargli lungo la schiena. Vuotò d’un fiato il suo bicchiere, e aggiunse: «Tutto questo è morto e sepolto, dimentichiamo una buona volta il passato e occupiamoci del presente.»

«Questo whisky comincia a fare effetto. Non so che cosa mi farà fare, e non me ne preoccupo.» Una piccola pausa, poi lei continuò: «Dan!»

«Sì.»

«Niente… soltanto: Dan.»

Joane distolse un attimo lo sguardo per finire il suo whisky. Dan la guardò. Non si sentiva né felice né infelice, semplicemente si lasciava andare a godere della presenza di Joane. E Joane esercitava su di lui una forza strana e sconosciuta.

«Andiamo in sala da pranzo prima che sia troppo tardi» propose. «Ho un discreto appetito. Avete intenzione di cambiarvi per la cena?»

«Avrei voluto farlo, in vostro onore, ma mi sento un po’ stordita.»

Mentre stavano uscendo dal bar, Dan si fermò al banco dicendo: «Non vi scandalizzate se ne bevo un altro?»

«In questo caso vi faccio compagnia.»

«Siete sicura che non sia troppo per voi, dopo un intero anno di astinenza?»

«Non lo credo affatto.»

Farrell ordinò due whisky lisci e si fece servire la soda a parte.

«Non so esattamente a cosa brinderò, questa volta, mia cara, ma non ho gusti particolari, purché sia per il meglio.»

«Per il meglio e per il peggio spero!» disse lei con voce sorda.

«Non riesco a capirvi» mormorò guardandola perplesso.

«Capirete…»

Un sorriso crudele affiorò sulle labbra carnose di Joane. Anzi, più che crudele, enigmatico, provocante e insieme diabolico e soddisfatto. Lui contemplò a lungo la bella bocca, poi bevve ingordamente. La ragazza si inumidì le labbra pregustando il calore piacevole dell’alcool e bevve a sua volta.

«Questo scotch è divino, caro» disse. «Io adoro bere. Devo proprio ringraziarvi per avermi procurato questo piacere.»

In sala da pranzo Joane rimase silenziosa fino all’ultima portata. A più riprese Dan sentì su di sé il peso di quegli occhi inverosimili: si sentiva studiato da uno sguardo avido e nello stesso tempo assente, lontano. Dopo una cena sontuosa, Farrell cominciò ad avvertire l’effetto dell’alcool.

Avevano appena gustato alcune meringhe glassate, con una tazza di caffè, quando Joane disse: «È meglio che vada a sdraiarmi un momento, non mi sento molto salda sulle gambe.»

Lui l’accompagnò sino alla porta della cabina, guardandola camminare con passo agile e armonioso quasi fluttuasse lungo il corridoio. La cena ottima sembrava aver addolcito il suo umore: sorrideva amabilmente.

«Siete sicura di sentirvi bene?» le chiese Dan.

«Sicurissima, mio caro» rispose ridendo. Poi: «Vi piace ballare?»

«Qualche volta. Se volete possiamo ballare questa sera. Credo che comincino alle nove.»

«Magnifico, Dan! Venite a prendermi alle nove e mezzo.»

«Con piacere, mia cara.»

Si lasciarono, e anche l’americano si ritirò nella sua cabina. Si sentiva leggermente stordito dal whisky bevuto, dal sonno pomeridiano al quale non era abituato e dal pasto abbondante, e desiderava stendersi per un paio d’ore. Stava già per sdraiarsi quando il suo sguardo cadde sulla valigia, e Farrell decise di esaminarne il contenuto per vedere se aveva avuto la mano felice. Posò la borsa sopra il letto e la aprì. Il suo contenuto lo sorprese alquanto: un piccone, una pala, un martello…

Le sue mani tremavano visibilmente quando afferrò quella roba e la lanciò dall’oblò. «Accidenti, che disdetta» brontolò fra i denti. «Se avessi pensato che questi maledetti attrezzi sarebbero venuti a ossessionarmi…»

Dalla sua valigia tolse una bottiglia e bevve una lunga sorsata di liquore. Il liquido fortissimo gli bruciò la gola. Grosse gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Buttò giù un bicchiere d’acqua per diluire l’alcool, e tornò verso la strana valigia con i nervi più a posto. Sul fondo erano rimaste solo poche cose senza alcuna importanza e un oggetto avvolto in un pezzo di tela, assai pesante. Dan tolse ogni cosa, e con qualche sforzo riuscì a far passare anche la valigia dall’oblò. Ancora quell’oggetto, e si sarebbe liberato di quel carico sinistro. Sciolse la tela e si ritrovò tra le mani una piccola statuetta verde.


Evidentemente il whisky giocava brutti scherzi alla sua vista, perché lui non riusciva a distinguere bene i contorni della figurina né a capire cosa rappresentasse. Gli pareva che cambiasse continuamente forma, e questa sensazione lo metteva a disagio. L’oggetto che teneva fra le mani emanava una strana forza: pareva che provocasse una specie di fascino ipnotico assorbendo tutta la sua attenzione, e nello stesso tempo lo impressionava per le sue misteriose qualità.

Un brivido scosse l’americano che strappandosi al suo incantamento tornò ad avvolgere la statuetta nel pezzo di tela e si avvicinò ancora una volta all’oblò. Ma, cosa strana, non riuscì a sollevare le braccia abbastanza per arrivare all’apertura. Il sudore adesso gli colava copioso dalla fronte inumidendo le guance e il mento. Decisamente il whisky l’aveva privato di tutta la sua forza, o forse era la statuetta che pesava più di quanto non gli fosse sembrato prima.

Rinunciò ai suoi tentativi, e ficcandosi l’involto sotto il braccio, uscì. Passando davanti alla cabina di Joane vide la porta aperta e la donna in piedi in atteggiamento pensoso. Non aveva nessuna voglia di fermarsi e si limitò a dirle: «Vado di fretta. Ho una cosa urgente da fare.»

Lei accennò con la testa di aver capito.

In quel momento l’involto scivolò da sotto il braccio dell’americano. Lui non fece in tempo ad afferrarlo e, sgusciando dalla tela, la statuetta piombò pesantemente al suolo. Dan fu svelto a raccoglierla e sperò ardentemente che Joane non l’avesse vista, poi, furente di collera contro quel maledetto oggetto, si allontanò in fretta senza voltarsi e salì sopraccoperta.

La notte era chiara e tiepida. Una luna rotonda e gialla come un limone splendeva alta nel cielo, verso est. La WesternQueenscivolava placida sul mare calmissimo.

Dan imprecò tra sé alla notte chiara e alla frescura dell’aria salmastra: c’erano passeggeri dappertutto. Alcuni fumavano tranquillamente appoggiati al parapetto, altri si godevano il fresco allungati sulle sedie a sdraio, altri ancora passeggiavano su e giù. Non sarebbe riuscito a gettare il piccolo pacco oltre il parapetto senza attirare l’attenzione di qualcuno. L’unico modo di passare inosservato era quello di sollevare piano la statuetta sino al punto giusto e lasciarla piombare in mare, ma non aveva forza sufficiente.

Percorse tutta la passeggiata, si inoltrò nel corridoio, esplorò ogni angolo, ma c’era gente dappertutto. Qui, marinai intenti al loro lavoro, là innamorati che si scambiavano parole dolci, e ancora ombre solitarie in contemplazione. Sempre con la statuetta sotto il braccio Dan tornò sottocoperta. A mezza strada tra l’inizio del corridoio e la sua cabina vide una porta metallica a fianco di una pompa antincendio. L’aprì. Dentro c’erano altre pompe arrotolate. Si diede una rapida occhiata intorno per accertarsi di non essere osservato, poi cacciò il pacchetto sotto il grosso rotolo, chiuse la porta e si allontanò provando un gran conforto nel non sentirsi più in possesso della orribile statuetta. Ancora più lo rassicurò il fatto di notare che la porta di Joane era chiusa. Non ci teneva affatto a farsi vedere nello stato pietoso in cui doveva averlo ridotto la tensione di quell’ora.

Rientrò in cabina e si abbandonò liberamente al tremito che lo scuoteva. Un po’ di whisky, ecco quello che ci voleva. Se ne versò un bicchiere e andò a berselo sul letto, dove rimase disteso finché non si sentì meglio. Guardando l’orologio si accorse con sorpresa che erano già le dieci. Aveva dato un appuntamento a Joane per le nove e mezzo! Accidenti, sarebbe stato di nuovo in ritardo! Lo consolò un poco l’idea che molto probabilmente anche lei non era pronta. Comunque, tardi o no, doveva prendere una buona doccia per rimettersi in sesto.

Si spogliò e preparò sul letto la biancheria pulita. Si concesse anche il lusso di una sigaretta prima di ficcarsi sotto l’acqua. Il refrigerio della doccia gli donò un senso di grande benessere e cambiò totalmente la disposizione del suo spirito, tanto che si sorprese a fischiettare una canzone. Sorrise ricordandosene il titolo: Così come mi appari questa notte. Ma improvvisamente il sorriso gli si gelò sulle labbra. L’espressione beata di piacere scomparve dalla sua faccia non appena si rese conto che quella frase poteva riferirsi a qualcun’altra oltre a Joane. Per quale malaugurato caso, tra le mille canzoni in voga, gli era venuta in mente proprio quella?

Si insaponò la faccia e il collo. Anche il profumo del sapone lo irritò: odorava di rose, un profumo troppo dolce che lui detestava. Nel magazzino dove aveva fatto gli acquisti si era limitato a chiedere al commesso il sapone più costoso pensando che la qualità andasse di pari passo con il prezzo… E adesso… Accidenti! L’odore di rose gli faceva venire in mente i fiori, e i fiori nella sua mente si associavano soltanto alle camere dei malati… o ai funerali.

Continuò a insaponarsi con energia il petto e le spalle, e intanto pensava che stava facendo terribilmente tardi. Aprì del tutto il rubinetto.

«Tom!» disse una voce.

Dan si sentì accapponare la pelle.

«Tom!» ripeté la voce.

Dan si voltò. Il getto d’acqua lo colpì in pieno sulle spalle, gli corse per tutto il corpo spruzzando intorno, ma non bastò per rallentare i battiti del suo cuore che sembrava impazzito. Joane era lì, davanti a lui, inquadrata nel vano della porta, trasfigurata da un’estasi. L’azzurro dei suoi occhi aveva acquistato lo splendore misterioso e infinito delle stelle, i capelli sparsi sulle spalle brillavano su un lato simili a un raggio di luna, ma sull’altro si addensava il nero cupo di una notte di tempesta. Affascinato, Dan fissava senza comprenderla quella bellezza stupefacente e il contrasto assoluto, irreale di quei capelli. Joane indossava una camicia da notte di seta bianca, con la vita segnata alta, stile Direttorio. La seta sembrava fondersi sopra i piccoli piedi calzati di sandali piatti che lasciavano libere le unghie ben curate e smaltate con la medesima tinta rosso sangue usata per le mani. Il busto della lunga camicia era un pizzo lavorato a larghe maglie e lasciava intravvedere il seno in netto contrasto con le pieghe castigatissime della gonna.

La donna teneva tra le braccia la statuetta.

La forma verdastra dai contorni incerti emetteva un fantomatico bagliore e vibrava contro il petto di Joane che la stringeva forte.Idue seni sembravano dotati di vita propria e si tendevano perdutamente verso il piccolo idolo.

«Tom…»

La voce era appena un mormorio dolce e diceva: «Non t’importa di essere sotto l’acqua, tra le rocce bianche e rosse, tutte intorno a te, vero? Tu non sei in collera con me perché ti ho nascosto nello stagno, vero? Sai, mi sono tuffata per spingere il barile in quel crepaccio e poi ho accumulato pietre e sabbia sull’apertura, così nessuno potrà notarla. Ma tu non sei in collera con me, vero Tom?»

«No» mormorò Dan, e stentò a riconoscere la propria voce, roca e lontana.

Le parole che Joane sussurrava avevano la magia di una favola.

«…Sapevo che non ce l’avevi con me. Per questo sono venuta ogni giorno a sedermi in riva allo stagno. Ogni giorno dell’estate, per parlare con te. E nell’inverno, quando c’è la nebbia. E poi ancora durante tutta la nuova estate. Ma per te non ci sono più stagioni… Estate… Inverno… Tutto è uguale per te, in quell’acqua profonda, nelle tenebre senza fine.»

La tensione crebbe fino a diventare insopportabile. Sotto il getto d’acqua sempre violentissimo, Dan girò su se stesso e si aggrappò freneticamente al rubinetto. La doccia cessò di colpo quando Dan si voltò di nuovo, Joane era scomparsa. L’americano sentì il tonfo della porta esterna, che si richiudeva. Afferrò una salvietta e si asciugò con furia, in preda al panico. Tutti i suoi movimenti rivelavano una emozione violenta, e lui sentiva avvicinarsi il momento in cui si sarebbe compiuta una mostruosa maledizione. Joane l’aveva forse spiato nel momento in cui nascondeva la statuetta? Aveva trovato quell’idolo malefico mentre era in preda a una crisi di sonnambulismo, o ne era stata inspiegabilmente attratta? Aveva davvero ucciso suo marito o si era immaginata di averlo fatto dopo essersi tormentata un anno sulla sua scomparsa?

Impossibile saperlo, e non era quello il momento di perdere tempo in supposizioni. Bisognava che la statuetta diabolica finisse in mare, immediatamente. L’avrebbe gettata dal parapetto del ponte anche se il suo gesto avesse avuto testimoni. Si infilò in fretta la vestaglia e le pantofole e aprì la porta che dava sul corridoio. Nessuno.

Arrivato davanti alla cabina numero trentasette, bussò. Non ricevendo risposta tentò la maniglia che cedette, e Dan entrò. Richiusa la porta con cura, rimase qualche secondo immobile in ascolto. Silenzio. Da quanto tempo Joane l’aveva lasciato? Cinque minuti? Dan si diresse verso la camera.

La camicia stile Direttorio era sulla spalliera di una poltrona, Joane si era coricata, e la coperta lasciava nude le belle spalle. Gli occhi erano chiusi e i lineamenti rilassati, ma un rosso acceso le colorava le guance.Icapelli, allargati sul guanciale, le facevano corona. Un braccio riposava lungo il corpo, l’altro era ripiegato sul petto, e le dita stringevano la statuetta verde.

Dan si chiese come lei potesse sopportarne il peso enorme, pure, la pesante immagine si sollevava e si abbassava secondo il ritmo della respirazione di Joane.

Un mormorio indistinto usciva dalle labbra quasi immobili della ragazza. Dan tese l’orecchio ma non riuscì a capire niente dell’inintelligibile susseguirsi di sillabe gutturali: N’ga n’ga rhthl’g clretl ìtst s g’lgggar…

L’americano ebbe l’impressione che una radiazione intensa emanasse dalla statuetta che vibrava e sembrava seguire, per le sue incessanti trasformazioni, uno schema ben stabilito, suggerendo l’idea di un’immensa espansione seguita da una contrazione inverosimile. Chissà se Dan sentì, provenienti dall’infinito, le parole di risposta a quel canto bizzarro? Chissà se ascoltò le sillabe impersonali come suoni portati dal mare a riecheggiare nelle smisurate caverne dello spazio?

L’americano si avvicinò lentamente al letto. Nella ridda dei suoi pensieri, nel richiamo dell’incubo, pur terrorizzato all’idea di toccare la bambola diabolica, avanzò con le mani tese.

Joane socchiuse gli occhi filtrando tra le ciglia uno sguardo allucinato che lo stregò.

«Tom» mormorò la donna.

Dan tentò di impadronirsi dell’idolo, ma le nervose dita femminili gli afferrarono i polsi con forza sovrumana. La statuetta scivolò dal seno di Joane e Dan cercò di afferrarla con la mano libera, ma la donna lo cinse al collo con l’altro braccio, attirandolo a sé.

Un rumore proveniente dal mondo esterno trasse Dan dal suo delirio, e lui si rizzò sul gomito guardandosi attorno.

«Il rasoio elettrico!» esclamò completamente frastornato.

Attraverso la porta aperta vide, sul piano di cristallo, il rasoio elettrico vibrare emettendo il suo caratteristico ronzio. Ma la spina non era innestata nella presa.

Riportò gli occhi su Joane: serrava contro un fianco la maledetta figurina le cui vibrazioni erano adesso così intense che non era più possibile distinguerne la forma. Tutto, lì intorno, sembrava avvolto dalle magiche onde verdi.

La donna levò improvvisamente la mano con un gesto convulso, e le unghie rosse gli graffiarono il petto. Il dolore lo immobilizzò, i suoi occhi guardarono affascinati le gocce di sangue che cadevano sul seno di Joane.

«Dan» gemette lei. «Oh, Dan!»


Il mercantileRawlins, che faceva rotta verso Plymouth, incrociò la WesternQueena mezzanotte circa. L’ufficiale in seconda, che appoggiato al parapetto di tribordo masticava il suo sigaro concedendosi unapausa nelgirodi ispezione, fu il solo testimonio della tragedia. Il piroscafo si allontanava verso ovest. A un tratto fu avvolto da un misterioso bagliore verde. Per un attimo la gran luce sembrò sospesa sopra la nave come una fantastica nube, poi seguirono le tenebre più fitte. Un attimo più tardi, non ci fu che il ribollire furioso del mare, verso ovest, nel punto dove la WesternQueensi era inabissata.

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