IL LIBRO DI DWAYANU

XVII IL GIUDIZIO DI KHALK’RU

Per due volte la notte verde aveva colmato la coppa della terra al di sotto del miraggio, mentre io banchettavo e bevevo con Lur e con le sue donne. C’erano state gare di spada e di martello, e di lotta. Erano autentici guerrieri… quelle donne! Acciaio temperato sotto pelle di seta, talvolta mi mettevano in difficoltà… per quanto fossi forte ed agile. Se i soldati di Sirk erano come quelle donne, non sarebbe stata una conquista facile.

Dalle occhiate che mi lanciavano e dalle parole bisbigliate sottovoce capivo che non mi sarei sentito solo, se Lur fosse andata a Karak. Ma non vi andò; era sempre al mio fianco, e da parte di Tibur non vennero altri messaggeri; o se vennero, io non lo seppi. Lur aveva inviato al Gran Sacerdote, in segreto, la notizia che aveva avuto ragione lui: non avevo il potere di evocare Colui che era più Grande degli Dèi; ero un impostore o un pazzo. O almeno, così mi disse lei. Non sapevo se avesse mentito a Yodin o se avesse mentito a me… e non me ne importava molto. Ero troppo occupato… a vivere.

Tuttavia, non mi chiamava più Capelli Gialli. Mi chiamava sempre Dwayanu. E tutte le sue arti d’amore — e l’Incantatrice non era una novizia — le usava per avvincermi più strettamente a lei.

Era l’alba del terzo giorno; io ero affacciato alla finestra, e osservavo i nebbiosi fuochi gemmati dei gigli luminosi che sbiadivano, le fantasime vaporose che erano schiave della cascata e si alzavano sempre più lentamente. Credevo che Lur dormisse. La sentii muoversi e mi voltai. Era seduta e mi sogguardava tra i veli rossi dei suoi capelli. In quel momento era veramente l’Incantatrice…

«Questa notte è arrivato un messaggero di Yodin. Oggi tu pregherai Khalk’ru.»

Un fremito mi scosse; il sangue mi cantò nelle orecchie. Mi sentivo sempre così, quando dovevo evocare il Dissolutore… un senso di potenza che superava anche quello dato dalla vittoria. Era diverso… un senso di potenza e d’orgoglio disumani. E insieme una collera profonda, la ribellione contro l’Essere che era il nemico della Vita. Il dèmone che si nutriva della carne e del sangue… e dell’anima della terra degli Ayjir.

Lur mi stava osservando.

«Hai paura, Dwayanu?»

Le sedetti accanto, scostai i veli dei suoi capelli.

«È per questo che hai raddoppiato i tuoi baci questa notte, Lur? Perché erano così… teneri? La tenerezza, Incantatrice, ti sta bene… ma in te è strana. Eri tu ad avere paura? Per me? Tu mi addolcisci, Lur!»

Gli occhi le balenarono, il volto le avvampò alla mia risata.

«Tu non credi che io ti ami, Dwayanu?»

«Non quanto ami il potere, Incantatrice.»

«Tu mi ami?»

«Non quanto amo il potere, Incantatrice,» risposi; e risi di nuovo.

Lei mi studiò ad occhi socchiusi. Poi disse: «A Karak si parla molto di te. Stai diventando una minaccia. Yodin rimpiange di non averti ucciso quando avrebbe potuto farlo… ma sa bene che sarebbe stato anche peggio. Tibur rimpiange di non averti ucciso quando sei uscito dal fiume… dice che non si deve più perdere tempo. Yodin ti ha proclamato falso profeta ed ha promesso che Colui che è più Grande degli Dèi ti smaschererà. Crede a ciò che gli ho detto… o forse tiene nascosta una spada. Tu…» Una vaga ironia s’insinuò nella sua voce. «Tu, che sai leggere in me tanto facilmente, di sicuro puoi leggere anche in lui e difenderti! Il popolo mormora: molti nobili chiedono che tu venga mostrato pubblicamente; ed i soldati seguirebbero con entusiasmo Dwayanu… se ti credessero veramente lui. Sono irrequieti. Corrono molte dicerie. Sei diventato immensamente… scomodo. Perciò oggi affronterai Khalk’ru.»

«Se tutto questo è vero,» dissi io, «credo che non dovrei evocare il Dissolutore per impadronirmi del potere.»

Lur sorrise.

«Non è un pensiero molto astuto. Verrai sorvegliato attentamente. Ti ucciderebbero, prima che tu avessi il tempo di radunare attorno a te una dozzina di persone. Perché no… dato che non avrebbero nulla da perdere uccidendoti? E magari, qualcosa da guadagnare. E poi… le promesse che mi hai fatto?»

Le cinsi le spalle con le braccia, la sollevai e la baciai.

«In quanto a lasciarmi uccidere… bene, avrei da dire anche la mia. Ma stavo scherzando, Lur. Io mantengo le promesse.»

Dal camminamento venne un galoppare di cavalli, un tintinnare di finimenti, il frastuono dei tamburi. Andai alla finestra. Lur balzò dal letto e mi venne accanto. Lungo il camminamento rialzato stavano arrivando cento e più cavalieri. Dalle loro lance garrivano orifiamma gialli con il simbolo nero di Khalk’ru. Si fermarono davanti al ponte levatoio aperto. Alla loro testa riconobbi Tibur, le spalle ampie coperte da un manto giallo, e il Kraken sul petto.

«Vengono per condurti al tempio. Debbo lasciarli passare.»

«E perché no?» ribattei, indifferente. «Ma non andrò a nessun tempio senza aver prima fatto colazione.»

Guardai di nuovo Tibur.

«E se devo cavalcare a fianco del Fabbro, spero che tu abbia una cotta di maglia adatta a me.»

«Tu cavalcherai al mio fianco,» disse Lur. «In quanto alle armi, potrai scegliere. Tuttavia non hai niente da temere, sulla strada del tempio… il pericolo è dentro.»

«Tu parli troppo di paura, Incantatrice,» dissi, aggrottando la fronte. «Suona il corno. Tibur può pensare che non abbia voglia di vederlo. Ed io non voglio che lo creda.»

Lur suonò il segnale per la guarnigione del ponte levatoio. Lo udii abbassarsi scricchiolando mentre facevo il bagno. Poco dopo, i cavalli scalpitarono davanti alla porta del castello. Entrò l’attendente di Lur, che si allontanò insieme a lei.

Mi vestii, tranquillamente. Mentre mi avviavo verso la grande sala, mi fermai nell’armeria. C’era una spada che avevo notato e che mi piaceva. Aveva il peso cui ero abituato: era lunga, curva, di metallo eccellente, come quelle che avevo visto nella terra degli Ayjir. La soppesai nella sinistra e ne presi una più leggera con la destra. Ricordai che qualcuno mi aveva detto di guardarmi dalla mano sinistra di Tibur… ah, sì, la soldatessa. Risi… Bene, anche Tibur doveva guardarsi da me. Presi un martello, meno pesante di quello del Fabbro… quella era la sua vanità, ma i martelli più leggeri si controllavano più agevolmente. Mi fissai all’avambraccio la forte fascia che ne reggeva la cinghia. Poi scesi incontro a Tibur.

Nell’atrio c’era una dozzina di nobili Ayjir, quasi tutti uomini. Lur era con loro. Notai che aveva piazzato le sue soldatesse in posizioni strategiche, e che erano tutte bene armate. Lo considerai una prova della sua buona fede, sebbene smentisse ciò che mi aveva detto: che non avevo pericoli da temere fino a quando fossi giunto al tempio. Non trovai nulla da eccepire nell’accoglienza di Tibur, né in quella degli altri, eccettuato uno. C’era un uomo, accanto al Fabbro, che era alto quasi come me. Aveva freddi occhi azzurri, dal singolare sguardo inespressivo che distingue l’assassino nato. Una cicatrice lo segnava dalla tempia sinistra al mento, e aveva il naso spezzato. Era quel tipo d’uomo, riflettei, che nei tempi andati io avrei mandato contro qualche tribù ribelle. C’era in lui un’arroganza che m’irritava, la repressi. Non avevo intenzione di provocare conflitti in quel momento. Non volevo destare sospetti nella mente del Fabbro. Il mio saluto a lui ed agli altri aveva quasi una sfumatura apprensiva, conciliante.

Mantenni lo stesso atteggiamento mentre facevamo colazione e bevevamo. Una volta, però, mi fu difficile. Tibur si chinò verso lo sfregiato, ridendo.

«Ti avevo detto che era più alto di te, Rascha. Lo stallone grigio è mio!»

Gli occhi azzurri mi squadrarono, e mi sentii gonfiare il petto.

«Lo stallone è tuo.»

Tibur si sporse verso di me.

«Lo chiamano Rascha lo Spaccaschiene. Dopo di me, è il più forte, a Karak. Peccato che tu debba incontrare tanto presto Colui che è più Grande degli Dèi. Un duello tra voi due meriterebbe di essere visto.»

Il mio furore crebbe a quelle parole, e la mia mano calò sulla spada: ma riuscii a trattenermi e risposi con un tono d’impazienza.

«È vero… forse si può procrastinare l’incontro…»

Lur aggrottò le sopracciglia e mi fissò, ma Tibur abboccò all’esca, con gli occhi scintillanti di malizia.

«No… c’è uno che non può attendere. Ma dopo… forse…»

La sua risata fece tremare il tavolo. Gli altri gli fecero eco. Lo sfregiato sogghignò. Per Zarda, è intollerabile! Attento, Dwayanu, così li ingannavi nei tempi andati, e così devi ingannarli adesso!

Vuotai il calice, e poi ancora un altro. Partecipai alla loro risata… come se mi chiedessi perché stavano ridendo. M’impressi però nella memoria le loro facce.


Ci avviammo a cavallo lungo il camminamento rialzato, con Lur alla mia destra, protetti da un serrato semicerchio formato dalle sue soldatesse scelte. Davanti a noi venivano Tibur e lo Spaccaschiene con una dozzina dei più forti seguaci del Fabbro. Dietro di noi la schiera con gli stendardi gialli, e poi un’altra schiera delle guardie dell’Incantatrice.

Io cavalcavo con una calcolata espressione depressa. Ogni tanto il Fabbro ed i suoi accoliti si voltavano a guardarmi. E udivo le loro risa. L’Incantatrice taceva, come me. Mi guardava di sottecchi, e ogni volta che questo avveniva io abbassavo ancora un poco la testa.

La cittadella nera grandeggiò davanti a noi. Entrammo nell’abitato. Ormai la perplessità nell’espressione di Lur si era quasi tramutata in disprezzo, e la risata del Fabbro era diventata derisoria.

Per le strade si affollavano gli abitanti di Karak. Io sospirai, finsi di fare uno sforzo per liberarmi dall’avvilimento, ma continuai a cavalcare apatico. E Lur si morse le labbra, mi si avvicinò, corrugando la fronte.

«Mi hai ingannato, Capelli Gialli? Sembri un cane bastonato!»

Girai il capo, perché non potesse vedermi in faccia. Per Luka, era difficile reprimere una risata!

Tra la folla vi erano bisbigli e mormoni. Né grida, né acclamazioni. I soldati erano dappertutto, armati di spade e di martelli, lance e le picche pronte. C’erano anche molti arcieri. Il Grande Sacerdote non era disposto a correre rischi.

E neppure io.

Non avevo intenzione di causare un massacro. E neppure di offrire a Tibur il minimo pretesto per eliminarmi, di scatenarmi contro una grandine di lance e di frecce. Lur era convinta che per me non ci fosse pericolo lungo il tragitto fino al tempio, ma nel tempio stesso. Io sapevo che la verità era esattamente l’opposto.

Quindi non fu un eroe vincitore, né un redentore, né uno splendido guerriero venuto dal passato che cavalcò attraverso Karak, quel giorno. Era un uomo insicuro di se stesso… o meglio, troppo sicuro di ciò che l’aspettava. La popolazione che aveva atteso Dwayanu lo sentiva… e mormorava o taceva. Il Fabbro se ne rallegrava. E me ne rallegravo anch’io, che ormai ero ansioso d’incontrare Khalk’ru quanto uno sposo è ansioso di incontrare la sua promessa. E non volevo correre il rischio di venire fermato da una spada o da un martello, da una lancia o da una freccia, prima d’incontrarlo.

E il cipiglio sul volto dell’Incantatrice si faceva sempre più cupo, più intensi il disprezzo ed il furore nei suoi occhi.

Aggirammo la cittadella, e prendemmo un’ampia strada che portava verso i precipizi. Procedemmo al galoppo, con gli stendardi al vento, i tamburi che rullavano. Arrivammo ad una gigantesca apertura nella parete rocciosa… avevo varcato molte volte una porta come quella! Smontai, esitando. Quasi con riluttanza, mi lasciai guidare da Tibur e da Lur oltre la soglia, in una piccola camera scavata nella pietra.

Mi lasciarono solo, senza una parola. Mi guardai intorno. C’erano gli scrigni che contenevano i paramenti cerimoniali, la fonte della purificazione, i vasi per l’unzione dell’evocatore di Khalk’ru.

La porta si aprì. Mi trovai davanti Yodin.

Aveva un’espressione di vendicativo trionfo, e compresi che aveva incontrato il Fabbro e l’Incantatrice, e che gli aveva detto del mio atteggiamento. Come una vittima che andava al Sacrificio! Bene, Lur poteva dirgli, in tutta sincerità, quello che lui sperava fosse vero. Se lei avesse avuto l’idea di tradirmi… se mi aveva tradito… ora mi credeva un bugiardo vanaglorioso, con lo stesso diritto di Tibur e degli altri. Se non mi aveva tradito, io avevo confermato la menzogna che aveva riferito a Yodin.

Dodici sacerdoti di rango inferiore entrarono, in fila, dietro di lui, abbigliati delle vesti sacre. Il Gran Sacerdote portava il camice giallo con i tentacoli avvinghiati attorno al corpo. Al pollice gli splendeva l’anello di Khalk’ru.

«Colui che è più Grande degli Dèi attende la tua preghiera, Dwayanu,» disse. «Ma prima devi sottoporti alla purificazione.»

Annuii. I sacerdoti incominciarono i riti necessari. Li subii impacciato, come se non li conoscessi, e volessi far credere di esserne esperto. La malizia crebbe negli occhi di Yodin.

I riti finirono. Yodin prese un camice identico al suo da uno degli scrigni, e me lo drappeggiò addosso. Io attesi.

«L’anello!» mi ricordò lui, sardonicamente. «Hai dimenticato che devi portare l’anello!»

Tastai la catena che avevo al collo, aprii il medaglione e mi infilai l’anello al pollice. Gli altri sacerdoti uscirono dalla camera, reggendo i tamburi. Li seguii, a fianco del Gran Sacerdote. Udii il clangore di un martello che percuoteva una grande incudine. Riconobbi la voce di Tubalka, il più vecchio degli Dèi, che aveva insegnato all’uomo come sposare il fuoco e il metallo. Era il riconoscimento, il saluto e l’omaggio di Tubalka a… Khalk’ru!

L’esaltazione abituale, l’estasi del potere tenebroso si riversarono in me. Era difficile non tradirle. Uscimmo dal corridoio, nel tempio.

Avevano trattato bene, in quel lontano sacrario, Colui che era più Grande degli Dèi! Il tempio era più ampio di quelli che avevo visto nella terra degli Ayjir. Scavato nel cuore della montagna, come dovevano essere tutte le dimore di Khalk’ru, con gli enormi pilastri squadrati che circondavano l’anfiteatro e salivano fino al soffitto perduto nelle tenebre. Vi erano lanterne di metallo lavorato, dalle quali scaturivano lisce spirali di fievole fiamma gialla. Ardevano costanti e senza far rumore: nella loro luce fioca vedevo i pilastri marciare, interminabili, quasi a perdersi nello stesso vuoto.

Dall’anfiteatro, volti innumerevoli erano levati verso di me… centinaia. Volti di donne sotto gli stendardi e le bandiere ricamate con gli stemmi dei clan, i cui uomini avevano combattuto accanto a me e dietro di me in molte battaglie sanguinose. Per gli Dèi… quant’erano pochi gli uomini, lì! Mi fissavano, quei visi di donna… donne nobili, donne cavalieri, soldatesse… Mi fissavano a centinaia… con gli azzurri occhi spietati… e non vi era né pietà né dolcezza femminile in quelle facce… Erano guerriere… Bene! E allora le avrei trattate non come donne, ma come guerriere.

Poi vidi gli arcieri piazzati sui bordi dell’anfiteatro, gli archi pronti, le frecce puntate, le corde in linea verso di me.

Era opera di Tibur? O del Sacerdote… perché non tentassi la fuga? Non mi piaceva, ma non potevo far nulla. Luka, Amabile Dea… gira la tua ruota afinché nessuna freccia venga scagliata prima che io inizi il rituale!

Mi voltai a cercare il mistico schermo che era la porta sul Vuoto di Khalk’ru. Era a cento passi da me, tanto era ampia e profonda la piattaforma di roccia. Là, la caverna era stata modellata a forma d’imbuto. Lo schermo mistico era un disco gigantesco, alto una dozzina di volte la statura di un uomo. Non era il quadrato giallolucente attraverso il quale, nei templi della Madrepatria, Khalk’ru si era reso corporeo. Per la prima volta ebbi un dubbio… questo Essere era lo stesso? Vi erano altre giustificazioni per la maligna sicurezza del Gran Sacerdote, oltre all’incredulità nei miei confronti?

Ma là, sulla superficie gialla, galleggiava il simbolo di Colui che era più Grande degli Dèi: l’enorme corpo nero pareva sospeso in un oceano sferico di spazio giallo: i suoi tentacoli si allargavano come raggi mostruosi di stelle nere, i suoi occhi spaventosi covavano il tempio, quasi che, come sempre, vedessero tutto e non vedessero nulla. Il simbolo era immutato. La marea del potere tenebroso e cosciente nel mio cervello, frenata per quell’istante, riprese a salire.

Poi vidi, tra me e lo schermo, un semicerchio di donne. Erano giovani, fiorite da poco… e già in frutto. Ne contai dodici: ciascuna era ritta nella conca poco profonda del sacrificio, cinte alla vita dai cerchi d’oro. Sulle spalle candide, sui giovani seni ricadevano i veli dei capelli color ruggine, e attraverso quei veli mi guardavano con gli occhi azzurri in cui si annidava l’orrore. Eppure, benché non potessero nascondere l’orrore nei loro occhi a me che ero così vicino, lo nascondevano a coloro che ci guardavano. Stavano entro le conche, erette, orgogliose, in atteggiamento di sfida. Erano coraggiose, quelle donne di Karak! Provai per loro la pietà di un tempo: ed il fremito dell’antica ribellione.

Al centro del semicerchio di donne pendeva una tredicesima cintura, sorretta da forti catene d’oro che pendevano dalla volta del tempio. Era vuota: i ganci erano aperti…

Il tredicesimo cerchio! Il Cerchio del Sacrificio del Guerriero! Aperto… per me!

Guardai Yodin. Stava accanto ai suoi sacerdoti, accovacciati davanti ai tamburi. Mi fissava. Tibur era sul ciglio della piattaforma, accanto all’incudine di Tubalka: stringeva nelle mani il grande martello, ed il suo volto rifletteva la stessa gioia malvagia del Gran Sacerdote. Non riuscii a scorgere l’Incantatrice.

Il Gran Sacerdote venne avanti. Parlò, nell’oscura immensità del tempio, dove stava la congregazione dei nobili.

«Ecco a voi uno che è venuto dicendo di chiamarsi… Dwayanu. Se egli è Dwayanu, allora Colui che è più Grande degli Dèi, il possente Khalk’ru, ascolterà la sua preghiera ed accetterà i Sacrifici. Ma se Khalk’ru non l’ascolterà… sarà la prova che egli ha mentito. E Khalk’ru non sarà sordo alle mie preghiere, perché l’ho sempre servito fedelmente. E allora questo impostore e mentitore penderà dal Cerchio del Guerriero perché Khalk’ru lo punisca come vorrà. Udite! È giusto? Rispondete!»

Dalle profondità del tempio giunsero le voci dei testimoni.

«Udiamo! È giusto!»

Il Gran Sacerdote si girò verso di me, come per dire qualcosa. Ma se anche ne aveva avuto l’intenzione, cambiò idea. Per tre volte levò il bastone dai campanelli d’oro e lo scosse. Per tre volte Tibur alzò il martello e percosse l’incudine di Tubalka.

Dalle profondità del tempio venne l’antico canto, l’antica supplica che Khalk’ru aveva insegnato ai nostri antenati quando ci aveva eletti tra tutti i popoli della Terra, e da allora erano trascorse molte epoche dimenticate. Lo ascoltai come se fosse una filastrocca per bambini. E gli occhi di Tibur non mi abbandonavano mai, con la mano sul martello, pronto a scagliarmelo contro per storpiarmi se avessi cercato di fuggire; e neppure lo sguardo di Yodin mi lasciava.

Il canto terminò.

Levai in fretta le mani nell’antico segno, e feci con l’anello ciò che prescriveva l’antico rituale… e nel tempio alitò quel primo soffio freddo che era il presagio della venuta di Khalk’ru!

Le facce di Yodin e di Tibur quando sentirono quel soffio! Oh, se avessi potuto guardarle! Ridi adesso, Tibur! Ma adesso non potevano fermarmi! Neppure il Fabbro avrebbe osato scagliare il martello e levare la mano per far scatenare su di me una tempesta di frecce! Neppure Yodin avrebbe ardito fermarmi…

Dimenticai tutto. Dimenticai Yodin e Tibur. Dimenticai, come dimenticavo sempre, le vittime del Sacrificio, nella tenebrosa esultanza del rituale.

La pietra gialla fremette, venne percorsa da tremiti. Divenne sottile come l’aria. Svanì.

E là dove era stata, con i neri tentacoli vibranti, il nero corpo librato che svaniva nello spazio incommensurabile, c’era Khalk’ru!

Più rapidi, più forte, rullarono i tamburi.

I tentacoli neri si contorsero, avanzando. Le donne non li vedevano. I loro occhi erano inchiodati su me… come se… come se io rappresentassi per loro una speranza che divampava nella loro disperazione! Io… che avevo evocato il loro distruttore…

I tentacoli le sfiorarono. Vidi la speranza oscurarsi e morire. I tentacoli si avvinghiarono attorno alle loro spalle, scivolarono sui loro seni. Le abbracciarono. Scesero lungo le cosce e toccarono i piedi. I tamburi incominciarono la rapida fuga verso l’alto, nel crescendo del culmine del Sacrificio.

Le grida delle donne erano stridule, sopra quel rullo. I loro corpi bianchi divennero nebbia grigia. Divennero ombre. Scomparvero… scomparvero prima che le loro grida si spegnessero. Le cinture d’oro caddero tintinnando sulla roccia…

Che succedeva? Il rituale era finito. Il Sacrificio era stato accettato. Eppure Khalk’ru era ancora librato lassù!

Ed il freddo senza vita mi avvolgeva, sorgeva intorno a me…

Un tentacolo ondeggiò, serpeggiò in avanti. Lentamente, lentamente, superò il Cerchio del Guerriero… venne più vicino… più vicino…

Si tendeva verso di me!

Sentii una voce che intonava, intonava parole più antiche di quante io ne conoscessi. Parole? Non erano parole! Erano suoni le cui radici risalivano ad un tempo in cui l’uomo non esisteva ancora.

Era Yodin… Yodin che parlava in una lingua che poteva essere stata quella dello stesso Khalk’ru, prima che esistesse la Vita!

E se ne serviva per attirare Khalk’ru su di me! Per mandarmi lungo la via percorsa dalle vittime del Sacrificio!

Balzai addosso a Yodin. L’afferrai tra le braccia e lo spinsi tra me e l’avido tentacolo. Lo sollevai e lo scagliai verso Khalk’ru. Volò attraverso il tentacolo come se fosse stata una nuvola. Urtò le catene che reggevano il Cerchio del Guerriero. Rimase aggrovigliato, penzoloni, e scivolò sopra la cintura d’oro.

Con le mani levate, mi udii gridare a Khalk’ru le stesse sillabe inumane. Allora non conoscevo il loro significato, né lo conosco adesso… né so da dove mi giungessero…

So che erano suoni quali la gola e le labbra degli uomini non erano stati destinati a profferire!

Ma Khalk’ru udì… e ascoltò. Esitò. I suoi occhi mi fissarono, imperscrutabili… fissarono me e attraverso me.

E poi il tentacolo si ripiegò all’indietro. Circondò Yodin. Un sottile stridìo… e Yodin sparì.

Il Khalk’ru vivente s’era dileguato. Giallolucente, l’oceano sferico brillò dove era stato… la figura nera vi galleggiava inerte.

Udii un tintinnio sulla roccia: l’anello di Yodin che rotolava nella conca. Balzai in avanti e lo raccolsi.

Tibur, con il martello levato a mezzo, mi fissava ritto, accanto all’incudine. Gli strappai il maglio dalla mano, gli diedi un colpo che lo fece barcollare.

Levai il maglio e frantumai l’anello di Yodin sull’incudine.

Dal tempio salì un grido tonante…

«Dwayanu!»

XVIII I LUPI DI LUR

Attraversavo a cavallo la foresta insieme all’Incantatrice. Il falcone bianco le stava appollaiato sul polso inguantato e mi perseguitava con i fissi occhi clorati. Non mi amava… il falcone di Lur. Una dozzina delle sue donne cavalcava dietro di noi. Una dozzina di mie seguaci mi difendeva le spalle. Ci seguivano da vicino. Così era nei tempi andati. Mi piaceva avere il dorso coperto. Era la mia parte più vulnerabile, sia con gli amici che con i nemici.

Gli armaiuoli mi avevano forgiato una cotta di leggera maglia metallica. L’avevo indosso; ne indossava anche Lur e la nostra scorta: eravamo tutti armati con le due spade, il lungo pugnale ed il martello. Stavamo andando a compiere una ricognizione a Sirk.

Per cinque giorni ero rimasto sul trono del Gran Sacerdote, governando Karak con l’Incantatrice e Tibur. Lur era venuta a me… pentita in quel suo modo fiero. Tibur, perduta ogni arroganza ed insolenza, aveva piegato il ginocchio, giurandomi fedeltà, protestando, ragionevolmente, che i suoi dubbi erano stati naturali. Accettai il suo impegno, con qualche riserva. Prima o poi avrei dovuto uccidere Tibur… anche se non avessi promesso la sua morte a Lur. Ma perché ucciderlo prima che cessasse di essere utile? Era uno strumento tagliente? Ebbene, se mi tagliava mentre lo maneggiavo, era esclusivamente colpa mia. Meglio un coltello affilato ed infido che uno fido e smussato.

In quanto a Lur… era dolce carne di femmina, e tenera. Ma aveva molta importanza? Non molta… per ora. C’era in me una specie di letargia, un rilassamento, mentre cavalcavo accanto a lei attraverso la foresta fragrante.

Eppure avevo ricevuto da Karak omaggi e acclamazioni, quanti bastavano per placare un orgoglio ferito. Ero l’idolo dei soldati. Quando passavo a cavallo per le strade la gente gridava di esultanza e le madri sollevavano i bambini perché mi vedessero. Ma c’erano molti che restavano in silenzio al mio passaggio, e distoglievano il capo o mi sogguardavano di sbieco, con gli occhi ombreggiati dall’odio furtivo e dalla paura.

Dara, la capitana dagli occhi arditi che mi aveva messo in guardia contro Tibur, e Naral, la fanciulla che mi aveva dato il medaglione, le avevo scelte come ufficiali della mia guardia personale. Mi erano devote, e mi divertivano. Solo quel mattino avevo parlato a Dara di coloro che mi guardavano di traverso, e le avevo chiesto il perché.

«Vuoi una risposta sincera, Signore?»

«Sempre, Dara.»

Lei disse, francamente: «Sono coloro che attendevano un Liberatore. Uno che spezzasse le catene, spalancasse le porte, portasse la libertà. Dicono che Dwayanu è solo un altro che sfama Khalk’ru. Il suo macellaio. Come Yodin. Forse non peggiore. Certamente non migliore.»

Pensai alla strana speranza che avevo visto soffocata negli occhi delle vittime del sacrificio. Anche loro avevano sperato che io fossi il Liberatore, anziché…

«Tu che ne pensi, Dara?»

«Io penso quel che pensi tu, Signore,» rispose lei. «Ma… non mi si spezzerebbe il cuore, se vedessi infrante le cinture d’oro.»

Ed io stavo pensando a quello, mentre cavalcavo a fianco di Lur, mentre il suo falcone mi odiava con quel suo sguardo implacabile. Che cos’era… Khalk’ru? Molto spesso, tanto e tanto, tanto tempo fa, me l’ero domandato. L’infinito poteva modellarsi in una forma come quella che compariva al richiamo del portatore dell’anello? O meglio… l’avrebbe fatto? Il mio impero era stato immenso… sotto il Sole e la Luna e le stelle. Eppure era una particella di polvere in un raggio di luce, in confronto all’impero dello Spirito del Vuoto. Possibile che un essere tanto grande accettasse di ridursi ad una particella?

Non c’era dubbio che il Nemico della Vita esistesse! Ma cos’era, ciò che appariva al richiamo dell’anello… il Nemico della Vita? E se non lo era… allora quel culto tenebroso valeva il suo prezzo?

Un lupo ululò. L’Incantatrice rovesciò all’indietro la testa e rispose. Il falcone spiegò le ali, stridendo. Passammo dalla foresta ad una radura aperta, pavimentata di muschio. Lur si fermò e lanciò di nuovo dalla gola il grido del lupo.

Improvvisamente, intorno a noi vi fu un cerchio di animali. Lupi bianchi, i cui ardenti occhi verdi erano fissi su Lur. Ci accerchiavano, con le rosse lingue penzolanti, le zanne lucenti. Un fruscio di zampe, e all’improvviso il cerchio di lupi raddoppiò. E altri ancora scivolarono tra gli alberi fino a quando il cerchio fu triplo, quadruplo… fino a quando vi fu un’ampia fascia di candore vivo, chiazzato dalle fiamme scarlatte delle lingue, costellato dagli smeraldi scintillanti degli occhi…

Il mio stallone tremò: sentii l’odore del suo sudore.

Lur premette le ginocchia contro i fianchi della sua cavalcatura e si spinse avanti. Lentamente, girò all’interno del cerchio di lupi bianchi. Alzò la mano; disse qualcosa. Un grande lupo si alzò e venne verso di lei. Come un cane, posò le zampe sulla sella. Lur si chinò, gli prese le ganasce tra le mani. Gli bisbigliò qualcosa. Il lupo parve ascoltarla. Tornò nel cerchio e si accosciò, fissandola. Io risi.

«Sei una donna… o un lupo, Lur?»

Lei disse: «Anch’io ho i miei seguaci, Dwayanu. Non ti sarebbe facile portarmeli via.»

Qualcosa, nel suo tono, m’indusse a fissarla intento. Era la prima volta che dimostrava risentimento, o almeno rincrescimento, per la mia popolarità. Lei evitò il mio sguardo.

Il grosso lupo alzò la testa e ululò. Il cerchio s’infranse. I lupi si dispersero, zampettando rapidi davanti a noi, come esploratori, si dileguarono nelle ombre verdi.

La foresta si diradò. Le felci giganti presero il posto degli alberi. Cominciai a udire un bizzarro sibilo. Inoltre, il clima divenne considerevolmente più caldo, e l’aria si saturò di umidità, e vapori nebbiosi aleggiarono sopra le felci. Io non vedevo piste né sentieri, ma Lur avanzava sicura, come se seguisse una strada tracciata nettamente.

Arrivammo ad un enorme gruppo di felci. Lur scese da cavallo.

«Di qui proseguiamo a piedi, Dwayanu. Non è molto lontano.»

L’imitai. La nostra truppa si fermò, senza smontare. L’Incantatrice ed io ci insinuammo tra le felci per una dozzina di passi. Il lupo procedeva guardingo proprio davanti a lei. Lur scostò le fronde. Davanti a me stava Sirk.

A destra si levava un bastione di roccia, perpendicolare, sgocciolante d’umidità, quasi del tutto privo di vegetazione, salvo piccole felci aggrappate a precari appigli. A sinistra, alla distanza di quattro tiri di frecce, c’era un bastione simile, che si levava alto nella foschia. Tra i due c’era una piattaforma pianeggiante di roccia nera. Le fondamenta lisce e scintillanti sprofondavano in un fossato ampio due tiri di giavellotto. La piattaforma era incurvata verso l’interno, e da una parete di roccia all’altra era orlata da un’unica ininterrotta fortezza.

Quello era un fossato! Alla base della parete di destra sgorgava un torrente. Sibilava e gorgogliava nello scaturire, ed il vapore che saliva ondeggiava sulla parete come un grande velo e ricadeva su di noi in una finissima pioggia di goccioline calde. L’acqua correva ribollendo lungo la base della fortezza, e se ne levavano getti di vapore e bolle immense che scoppiavano, spargendo piogge di pulviscolo scottante.

La fortezza, in sé, non era alta. Era tozza, solida: la facciata era interrotta soltanto da feritoie, verso la cima. In alto c’era un parapetto. Sopra questo, potei scorgere lo scintillare delle lance e le teste delle sentinelle. Da una parte sola c’erano delle torri: erano vicino al centro, dove il fossato bollente era più stretto. Di fronte, sull’altra sponda, c’era un molo per un ponte levatoio. Vidi il ponte, molto stretto, sollevato, sporgente tra le due torri come una lingua.

Dietro la fortezza, le pareti perpendicolari volgevano verso l’interno: tra loro c’era un varco ampio una terza parte della piattaforma della fortezza. Davanti a noi, dalla nostra parte del fiume ribollente, la scarpata era stata spogliata degli alberi e delle felci. Non offriva la minima copertura.

Avevano scelto bene la loro sede, i fuorilegge di Sirk. Nessun assediante poteva attraversare a nuoto quel fossato con i getti sibilanti di vapore e le bolle che salivano continuamente dai geyser del fondo. Né pietre né alberi potevano formare una strada rialzata da percorrere per aggredire le mura della fortezza. Da questa parte era impossibile prendere Sirk. Questo era evidente. Eppure, Sirk non poteva essere tutta lì.

Lur aveva seguito il mio sguardo, letto i miei pensieri.

«Sirk è al di là di quella gola,» e indicò il varco tra le pareti di roccia. «È una valle in cui si trovano la città, i campi, le mandrie. E non ci sono altre vie d’accesso, oltre quella porta.»

Annuii, distratto. Stavo studiando i precipizi dietro la fortezza. Mi accorsi che, a differenza dei bastioni tra cui stava la piattaforma, non erano lisci. C’erano state frane, e quelle rocce avevano formato rozze terrazze. Se fosse stato possibile arrivare a quelle terrazze… senza essere visti…

«Possiamo avvicinarci di più alla parete da cui nasce il torrente, Lur?»

Lei mi afferrò il polso, gli occhi ardenti.

«Che cosa vedi, Dwayanu?»

«Non lo so ancora, Incantatrice. Forse niente. Possiamo avvicinarci di più al torrente?»

«Vieni.»

Uscimmo dalle felci, le costeggiammo, preceduti dal lupo che camminava a zampe rigide, gli occhi e gli orecchi all’erta. L’aria diventò più calda, satura di vapori, difficile da respirare. Il sibilo si fece più forte. Strisciammo sotto le felci, bagnati fino alla pelle. Un altro passo, ed io abbassai lo sguardo sul ribollire del torrente. Mi accorsi che non scaturiva direttamente dalla parete di roccia: sgorgava dalla sua base, e il calore e le esalazioni mi diedero il capogiro. Mi strappai una striscia di stoffa dalla tunica e me l’avvolsi attorno alla bocca e al naso. Studiai la parete verticale di roccia, metro per metro. La studiai a lungo… e poi mi voltai.

«Possiamo tornare indietro, Lur.»

Lei chiese, ansiosa: «Che cosa hai visto, Dwayanu?»

Ciò che avevo visto poteva essere la fine di Sirk… ma non glielo dissi. Il pensiero non era ancora perfettamente formato. Non avevo mai avuto l’abitudine di confidare ad altri piani incompleti. Era troppo pericoloso. Il bocciolo è più delicato del fiore, e deve essere lasciato libero di svilupparsi, lontano da mani curiose o traditóri o addirittura benintenzionate. Matura il piano e mettilo alla prova; allora potrai valutare ogni cambiamento con sereno giudizio. E non ero mai stato appassionato delle consultazioni: troppi ciottoli gettati nella sorgente l’infangano. Anche per quella ragione io ero… Dwayanu. Dissi a Lur: «Non so. Mi è venuta un’idea. Ma devo valutarla.»

Lei ribatte, incollerita: «Non sono una stupida. Conosco la guerra… come conosco l’amore. Potrei aiutarti.»

Io dissi, impaziente: «Non ancora. Quando avrò fatto il mio piano, te lo rivelerò.»

Lur non parlò più fino a quando arrivammo in vista delle donne che ci attendevano: allora si rivolse a me. La sua voce era bassa, molto dolce.

«Non vuoi dirmelo? Non siamo eguali, Dwayanu?»

«No,» risposi: e lasciai a lei decidere se quella era la risposta alla prima domanda o ad entrambe.

Lur montò sul suo cavallo, e ci avviammo di nuovo attraverso la foresta.

Io pensavo, pensavo a ciò che avevo visto e a ciò che poteva significare: quando udii di nuovo l’ululato dei lupi. Era un ululato continuo, insistente. Un richiamo. L’Incantatrice alzò la testa, ascoltò, poi spronò il cavallo. Lanciai il mio all’inseguimento. Il falcone bianco agitò le ali e s’innalzò nell’aria, stridendo.

Corremmo fuori dalla foresta, su un prato coperto di fiori. In mezzo al prato c’era un omettino. I lupi lo circondavano, intrecciandogli intorno, con i loro passi, un cerchio stregato. Nell’istante in cui scorsero Lur smisero di ululare e si accosciarono. Lur frenò il cavallo, avanzò lentamente verso di loro. Intravvidi la sua faccia: era dura e feroce.

Guardai l’omettino. Era molto piccolo, doveva arrivarmi poco oltre il ginocchio, eppure era modellato in modo perfetto. Un piccolo uomo dorato con i capelli che gli scendevano sin quasi ai piedi. Uno dei Rrrllva… ne avevo studiato le immagini intessute negli arazzi, ma quello era il primo che vedevo in carne ed ossa… O no? Avevo la vaga idea di essere stato, un tempo, in stretto contatto con loro.

Il falcone bianco gli volteggiava intorno alla testa, saettando verso di lui, cercando di colpirlo con gli artigli e con il becco. L’omettino si riparava gli occhi con un braccio, mentre con l’altro cercava di scacciare il rapace. L’Incantatrice lanciò al falcone uno stridulo richiamo, e quello volò da lei. L’ometto abbassò le braccia. I suoi occhi si posarono su di me. Mi gridò qualcosa, tendendomi le braccia, come un bambino.

Nel grido e nel gesto c’era una supplica. E speranza e fiducia. Era come un bimbo spaventato che invocasse qualcuno che conosceva e di cui si fidava. Nei suoi occhi rividi la speranza che avevo visto spegnersi nello sguardo delle vittime del Sacrificio. Bene, non l’avrei visto spegnersi nello sguardo dell’ometto!

Spinsi il mio cavallo oltre quello di Lur, lo feci saltare oltre la barriera dei lupi. Mi sporsi dalla sella, raccolsi l’omettino tra le braccia. Si aggrappò a me, bisbigliando in strani suoni trillanti.

Mi volsi a guardare Lur. Aveva arrestato i cavalli al di là dei lupi.

Lei mi gridò: «Portamelo!»

L’ometto mi strinse forte, proruppe in un torrente rapido di suoni incomprensibili. Evidentemente aveva capito, e altrettanto evidentemente m’implorava di non consegnarlo all’Incantatrice.

Risi e scossi il capo guardando Lur. Vidi i suoi occhi avvampare di una furia rapida e incontrollabile. Si infuriasse pure! L’ometto sarebbe stato salvo! Piantai i calcagni nei fianchi del cavallo, superai con un altro balzo il cerchio dei lupi. Non lontano vidi lo scintillìo del fiume, e diressi il cavallo da quella parte.

L’Incantatrice lanciò un grido frenetico, rabbioso. Poi ci fu un frullo d’ali attorno alla mia testa, lo sbattere delle ali intorno alle mie orecchie. Alzai una mano. La sentii colpire il falcone, udii il rapace strillare di furore e di dolore. L’ometto si strinse più forte a me.

Una forma bianca balzò dal basso e si aggrappò per un momento al pomo della mia sella, fissandomi con gli occhi verdi, la bocca rossa sbavante. Mi diedi un’occhiata alle spalle, svelto. Il branco dei lupi mi stava piombando addosso, seguito da Lur. Il lupo spiccò un altro balzo. Ma questa volta avevo sguainato la spada. L’affondai nella gola della belva candida. Un altro spiccò un balzo, stracciandomi la tunica. Sollevai alto l’omettino con un braccio, e colpii di nuovo.

Il fiume era ormai vicino. Ero sulle sue rive. Sollevai l’omettino con entrambe le mani e lo lanciai lontano, nell’acqua.

Mi girai, con le due spade nelle mani, per fronteggiare la carica dei lupi.

Udii un altro grido di Lur. I lupi si arrestarono di colpo, così che i primi scivolarono e rotolarono. Guardai il fiume. Lontano c’era la testa dell’omettino, con i lunghi capelli che galleggiavano formando una scia: stava nuotando rapido verso la sponda opposta.

Lur mi venne accanto. Il suo viso era bianco, i suoi occhi duri come due gemme azzurre.

Disse con voce soffocata: «Perché l’hai salvato?»

Riflettei, gravemente. Risposi: «Perché non volevo vedere per due volte la speranza spegnersi negli occhi di qualcuno che ha fiducia in me.»

Lur mi scrutò con fermezza; e la furia incandescente non si placò.

«Hai spezzato un’ala al mio falcone, Dwayanu.»

«Che cosa ami di più, Incantatrice… la sua ala o i miei occhi?»

«Hai ucciso due miei lupi.»

«Due lupi… o la mia gola, Lur?»

Lei non rispose. Tornò a cavallo tra le sue donne. Ma avevo visto le lacrime nei suoi occhi, prima che si voltasse. Potevano essere di rabbia… e potevano non esserlo. Ma era la prima volta che vedevo piangere Lur.

Senza scambiarci mai una parola ritornammo a Karak: lei, vezzeggiando il falcone ferito, io ripensando a quello che avevo visto sulle pareti rocciose di Sirk.


Non ci fermammo a Karak. Provavo nostalgia della quiete e della bellezza del Lago degli Spettri. Lo dissi a Lur. Lei assentì, indifferente, perciò proseguimmo e vi arrivammo all’addensarsi del crepuscolo. Cenammo insieme, con le donne, nella grande sala. Lur aveva dimenticato il malumore. Se anche provava ancora collera verso di me, la dissimulava bene. Eravamo allegri, ed io bevvi molto vino. E più bevevo, e più diventava chiaro il mio piano per prendere Sirk. Era un buon piano. Dopo un pò, salii con Lur nella sua torre e guardai la cascata e le ondeggianti fantasime di nebbia, ed il piano divenne ancora più chiaro.

Poi la mia mente ritornò a Khalk’ru. Ci pensai a lungo. Alzai gli occhi e vidi che Lur mi stava fissando.

«A cosa pensi, Dwayanu?»

«Sto pensando che non evocherò mai più Khalk’ru.»

Lei disse lentamente, incredula: «Non puoi dire sul serio, Dwayanu!»

«Dico sul serio.»

Sbiancò in viso. Fece: «Se Khalk’ru non riceve i suoi Sacrifici, toglierà la vita a questa terra che diverrà un deserto, come la Madrepatria quando non vi furono più sacrifici.»

Io risposi: «Davvero? Questo non lo credo più. E penso che non lo creda neppure tu, Lur. Nei tempi andati c’erano terre e terre che non riconoscevano Khalk’ru, con popoli che non sacrificavano a Khalk’ru… eppure non erano deserte. Ed io so, anche se adesso non ricordo come lo so, che oggi esistono terre e terre in cui Khalk’ru non è adorato… eppure brulicano di vita. Persino qui, i Rrrllya, il Piccolo Popolo, non lo venerano. Lo odiano, almeno così mi hai detto… eppure la terra oltre il Nanbu non è meno fertile di qui.»

Lur disse: «Questo fu il mormorio che corse attraverso la Madrepatria, tanto, tanto tempo fa. Divenne più forte… e la Madrepatria fu trasformata in deserto.»

«Potrebbero esserci state altre ragioni, non la collera di Khalk’ru, Lur.»

«Quali?»

«Non so,» dissi io, «Ma tu non hai mai visto il Sole, la Luna e le stelle. Io li ho visti. E un vecchio saggio, una volta, mi disse che al di là del Sole e della Luna c’erano altri soli intorno ai quali ruotavano altre terre, e su queste c’era… la vita. Lo Spirito del Vuoto in cui ardono quei soli è troppo immane per rattrappirsi nella piccolezza di ciò che si rende manifesto a noi, in un minuscolo tempio di questo cantuccio della Terra.»

Lei rispose: «Khalk’ru è! Khalk’ru è dovunque. È nell’albero che si dissecca, nella fonte che s’inaridisce. Ogni cuore è aperto a lui. Egli lo tocca… ed ecco spuntare la noia della vita, l’odio della vita, il desiderio della morte eterna. Egli sfiora la terra e vi è sabbia arida là dove c’erano i prati; i greggi divengono sterili. Khalk’ru è.»

Riflettei su quelle parole, e pensai che erano abbastanza vere. Ma nel suo argomento c’era una lacuna.

«Non lo nego, Lur,» risposi. «Il Nemico della Vita è. Ma che cosa si presenta al richiamo del rituale dell’anello… Khalk’ru?»

«E che altro? Così ci è stato insegnato sin dai tempi più antichi.»

«Non so che altro. E sin dai tempi più antichi sono state insegnate molte cose che non reggerebbero alla prova dei fatti. Ma io non credo che ciò che compare sia Khalk’ru, Anima del Vuoto, Colui al Quale tutta la vita deve ritornare, e via discorrendo. E non credo che, se smettessimo i Sacrifici, qui la vita avrebbe fine.»

Lei rispose, con molta calma: «Ascoltami, Dwayanu. Non m’importa se ciò che appare nei Sacrifici sia Khalk’ru o no. Ciò che m’importa è questo: non voglio lasciare questa terra, e voglio che rimanga immutata. Sono stata felice, qui. Ho visto il Sole e la Luna e le stelle. Ho visto il resto della Terra, nella mia cascata. Non voglio andarci. Dove troverei un posto incantevole quanto il mio Lago degli Spettri? Se i Sacrifici finiscono, coloro che sono trattenuti qui soltanto dalla paura se ne andranno. E molti altri li seguiranno. La vecchia vita che amo finirebbe insieme ai Sacrifici… sicuramente. Perché, se viene la desolazione, saremmo costretti ad andarcene. E se non verrà, la gente capirà che noi abbiamo insegnato delle menzogne, e andrà a vedere se ciò che sta fuori di qui non è più bello. È sempre stato così. Ma qui, Dwayanu, questo non dovrà avvenire!»

Attese la mia risposta. Non risposi.

«Se tu non vuoi evocare Khalk’ru, allora perché non scegli un altro al tuo posto?»

La guardai, aspramente. Non ero ancora pronto ad arrivare a tanto. Rinunciare all’anello, con tutto il suo potere!

«C’è un’altra ragione, Dwayanu, oltre a quella che mi hai esposto. Qual è?»

Risposi, brusco: «Molti dicono che sono colui che sfama Khalk’ru. Il suo macellaio. Non mi piace. E non mi piace… vedere quello che vedo… negli occhi delle donne che gli offro.»

«Dunque è questo,» fece Lur, sprezzante. «Il sonno ti ha rammollito, Dwayanu! È meglio che tu mi confidi il tuo piano per prendere Sirk e lasciare che sia io a realizzarlo. Sei diventato troppo tenero di cuore per la guerra, credo!»

Quelle parole mi punsero sul vivo, spazzarono via tutti i miei rimorsi. Balzai in piedi, facendo rovesciare la sedia, alzai a mezzo la mano per colpirla. Lei mi fronteggiò, ardita, senza traccia di timore negli occhi. Riabbassai la mano.

«Ma non tanto tenero da piegarmi al tuo volere, Incantatrice,» dissi. «E non ridiscuto i patti conclusi. Ti ho dato Yodin. Ti darò Sirk, e tutto quello che ti ho promesso. Fino ad allora… lasciamo stare la questione dei Sacrifici. Quando dovrò darti Tibur?»

Lur mi posò le mani sulle spalle e sorrise ai miei occhi furibondi. Mi cinse il collo con le braccia e attirò le mie labbra sulle sue, calde e rosse.

«Adesso,» sussurrò, «sei davvero Dwayanu! Adesso sei colui che amo… ah, Dwayanu, se mi amassi quanto io amo te!»

Bene, in quanto a quello, io l’amavo per quanto potevo amare una donna… Dopotutto, non c’era nessun’altra come lei. La sollevai e la tenni stretta, e l’antica implacabilità, l’antico amore per la vita rifluì in me.

«Avrai Sirk! E anche Tibur, quando vorrai.»

Lei parve meditare.

«Non ancora,» disse. «Tibur è forte ed ha i suoi seguaci. Sarà utile, a Sirk, Dwayanu. Sicuramente, non prima di allora.»

«È esattamente quello che stavo pensando,» dissi. «Almeno su una cosa siamo d’accordo.»

«Beviamo del vino per festeggiare la nostra pace,» disse Lur, e chiamò le sue ancelle.

«Ma c’è un’altra cosa sulla quale siamo d’accordo.» Mi guardò in modo strano.

«Che cosa?» domandai.

«L’hai detto tu stesso,» rispose Lur… e non riuscii a farle dire altro. Passò molto tempo prima che capissi che cosa intendeva, e allora era già troppo tardi…

Il vino era buono. Ne bevvi troppo. Ma il mio piano per prendere Sirk diventava sempre più chiaro.


La mattina dopo mi svegliai molto tardi. Lur se n’era andata. Avevo dormito come se fossi stato drogato. Avevo un ricordo vaghissimo di ciò che era accaduto la notte precedente: solo che Lur ed io avevamo avuto un violento disaccordo a proposito di qualcosa. Non pensai affatto a Khalk’ru. Chiesi a Ouarda dov’era andata Lur. Mi disse che quella mattina, molto presto, era arrivata la notizia che due delle donne prescelte per il prossimo Sacrificio erano riuscite a fuggire. Lur pensava che si fossero dirette verso Sirk, e le stava inseguendo con i suoi lupi. Mi sentii irritato perché non mi aveva svegliato e non mi aveva condotto con lei. Pensai che mi sarebbe piaciuto vedere in azione quelle sue belve bianche. Erano come i grossi cani che noi usavamo nella terra degli Ayjir per rintracciare i fuggitivi.

Non andai a Karak. Trascorsi la giornata esercitandomi con le spade e nella lotta, e nuotai nel Lago degli Spettri… dopo che il mio mal di testa fu passato.

Lur ritornò quasi al cader della notte.

«Le hai prese?» domandai.

«No,» mi rispose. «Sono riuscite ad arrivare a Sirk sane e salve. Siamo arrivati appena in tempo per vederle già a metà del ponte levatoio.»

Trovai che la cosa l’avesse lasciata indifferente, ma non ci pensai più. E quella notte Lur fu gaia… e tenerissima con me. Talvolta era così tenera che mi parve di percepire un altro sentimento nei suoi baci. Mi parve che sapessero… di rammarico. E non pensai più neppure a quello.

XIX LA PRESA DI SIRK

Cavalcavo di nuovo attraverso la foresta, verso Sirk, con Lur alla mia sinistra e Tibur accanto a lei. Alle mie spalle venivano le mie due capitane, Dara e Naral. Dietro veniva Ouarda, con dodici ragazze snelle e forti, dalla pelle chiara stranamente macchiata di verde e di nero, tutte nude, eccetto una stretta cintura intorno alla vita. Poi venivano quattro dozzine di nobili, capeggiati da Rascha, l’amico di Tibur. E dietro di loro marciavano in silenzio mille delle migliori guerriere di Karak.

Era notte. Era essenziale raggiungere il limitare della foresta prima dell’ultimo terzo dell’intervallo tra la mezzanotte e l’alba. Gli zoccoli dei cavalli erano fasciati, in modo che nessun orecchio acuto potesse udirne lo scalpiccio lontano, ed i soldati marciavano in formazione aperta, senza far rumore. Erano trascorsi cinque giorni da quando avevo guardato la fortezza per la prima volta.

Erano stati cinque giorni di preparativi meticolosi e segreti. Soltanto l’Incantatrice ed il Fabbro sapevano ciò che io avevo in mente. Per quanto avessimo agito in segreto, si era sparsa la voce che ci stessimo preparando a compiere una sortita contro i Rrrllya. Io ne ero ben contento. Soltanto quando ci eravamo radunati lo stesso Rascha, o almeno così pensavo, venne a sapere che eravamo diretti verso Sirk. Era una precauzione perché non arrivasse a Sirk la notizia che poteva metterli in guardia; sapevo bene che i nostri nemici avevano molti amici a Karak… potevano averne persino tra coloro che ci stavano seguendo. La sorpresa era il fattore determinante del mio piano. Per questo motivo gli zoccoli dei cavalli erano fasciati. Pertanto procedevamo in silenzio attraverso la foresta. E perciò, quando udimmo il primo ululato dei lupi di Lur, l’Incantatrice scese da cavallo e scomparve nella luminosa oscurità verde.

Ci fermammo per attendere il suo ritorno. Nessuno parlava: gli ululati s’interruppero; Lur riapparve tra gli alberi e rimontò in sella. Come cani bene addestrati, i lupi bianchi si sparsero davanti a noi, fiutando il terreno su cui dovevamo procedere, come esploratori spietati ai quali non poteva sfuggire né una spia né chiunque, per caso, stesse andando a Sirk o venendo da Sirk in quel momento.

Io avrei voluto colpire molto prima, e mi ero irritato per il ritardo, ero stato riluttante ad esporre a Tibur il mio piano. Ma Lur mi aveva fatto osservare che, se il Fabbro doveva esserci utile per espugnare Sirk, necessariamente dovevamo fidarci di lui, e che lui sarebbe stato meno pericoloso se fosse stato informato ed entusiasta, che se fosse stato tenuto all’oscuro e si fosse insospettito. Bene, era vero. E Tibur era un combattente di prim’ordine, e aveva amici molto forti.

Perciò mi ero confidato con lui e gli avevo detto ciò che avevo osservato quando per la prima volta mi ero soffermato, a fianco di Lur, davanti al fossato bollente di Sirk: i ciurli vigorosi delle felci che si estendevano, in una linea quasi ininterrotta ed irregolare, attraverso la nera parete verticale, dalla foresta fin sopra la sorgente del geyser e sopra i parapetti. Ero convinto che rivelasse una spaccatura o una crepa nella roccia, che aveva formato un cornicione. Lungo quel cornicione, scalatori dai nervi saldi e dai piedi sicuri avrebbero potuto strisciare, arrivando non visti fino alla fortezza… E là avrebbero fatto per noi ciò che avevo in mente.

A Tibur avevano brillato gli occhi, e aveva riso come non l’avevo più sentito ridere dopo il mio giudizio di Khalk’ru. Aveva fatto un unico commento.

«Il primo anello della tua catena è il più debole, Dwayanu.»

«È vero. Ma è forgiato là dove la catena della difesa di Sirk è egualmente più debole.»

«Tuttavia… non vorrei essere il primo a doverne fare la prova.»

Nonostante la mia sfiducia, avevo provato un senso di calore nei suoi confronti, a quella sua franchezza.

«E allora ringrazia gli Dèi perché pesi troppo, Fabbro,» gli avevo detto. «Non riesco a immaginare i tuoi piedi che gareggiano con le felci nel cercare un appiglio. Altrimenti avrei scelto proprio te.»

Avevo abbassato gli occhi sullo schizzo che avevo tracciato per chiarire il mio piano.

«Dobbiamo colpire in fretta. Quanto tempo ci vorrà per prepararci, Lur?»

Avevo rialzato gli occhi in tempo per scorgere l’occhiata fulminea che quei due si erano scambiati. Se anche provai un sospetto, fu momentaneo. Lur aveva risposto in fretta.

«Per quanto riguarda i soldati, potremmo partire anche stanotte. Non so quanto tempo ci vorrà per scegliere le scalatrici. Poi dovrò metterle alla prova. E ci vorrà tempo.»

«Quanto tempo, Lur? Dobbiamo agire in fretta.»

«Tre giorni… cinque giorni… farò più presto che posso. Non sono in grado di prometterti altro.»

Avevo dovuto accontentarmi di quello.

Ed ora, cinque notti più tardi, stavamo marciando su Sirk. Nella foresta non c’era né buio né luce: una strana semioscurità in cui non eravamo altro che ombre. Le falene scintillanti volteggiavano sopra di noi: il luccichio dei fiori era la nostra torcia. Tutto, intorno a noi, esalava la fragranza della vita. Ma noi eravamo impegnati in un’impresa di morte.

Le armi dei soldati erano coperte, perché uno scintillio non ci tradisse; le punte delle lance erano verniciate di scuro… non c’erano baluginii di metallo su nessuno di noi. Sopra le tuniche dei soldati c’era la Ruota di Luka, in modo che non si confondessero gli amici con i nemici, quando fossimo arrivati dentro le mura di Sirk. Lur aveva voluto il Simbolo Nero di Khalk’ru. Io non l’avevo voluto.

Arrivammo al punto dove avevamo stabilito di abbandonare i cavalli. In silenzio, le nostre forze si separarono. Al comando di Tibur e di Rascha, gli altri si addentrarono tra gli alberi e le felci, fino all’orlo della radura di fronte al ponte levatoio.

Con l’Incantatrice e con me veniva una dozzina di nobili, Ouarda con le ragazze nude, e un centinaio di soldatesse. Ognuna di queste portava sulle spalle arco e faretra, chiusi in una custodia ben protetta. Avevano la corta ascia da combattimento, la lunga spada e il pugnale. Trasportavano la scala di corda che avevo fatto preparare, simile a quella che avevo usato tanto, tanto tempo prima per affrontare problemi del tipo di quello di Sirk… e senza i suoi aspetti più proibitivi. Trasportavano anche un’altra scala a pioli, lunga e flessibile, di legno. Io ero armato solo dell’ascia e della lunga spada, Lur e i nobili avevano i martelli e le spade.

Avanzammo furtivi verso il torrente, il cui sibilo diventava più forte ad ogni passo.

All’improvviso mi fermai ed attirai Lur a me.

«Incantatrice, sai veramente parlare con i lupi?»

«Veramente, Dwayanu.»

«Sto pensando che non sarebbe una cattiva idea distogliere gli occhi e gli orecchi da questa estremità del parapetto. Se alcuni dei tuoi lupi lottassero e ululassero e saltellassero un po’ dalla parte dell’altro bastione per divertire le sentinelle, per noi qui sarebbe un aiuto.»

Lur lanciò un richiamo sommesso, come il guaito di una lupa. Quasi istantaneamente la testa del grosso lupo che l’aveva salutata alla nostra prima cavalcata si levò accanto a lei. Il pelo gli si rizzò, nel guardarmi. Ma non emise alcun suono. L’Incantatrice si buttò in ginocchio accanto a lui, gli cinse la testa con le braccia, sussurrando. Sembrava che si parlassero. Poi, all’improvviso come era comparso, il lupo sparì. Lur si alzò, e nei suoi occhi c’era un po’ del fuoco verde di quelli del lupo.

«Le sentinelle avranno di che divertirsi.»

Sentii un leggero brivido corrermi per la schiena, perché quella era autentica stregoneria. Ma non dissi nulla, e proseguimmo. Arrivammo al punto dal quale avevo scrutato la parete verticale. Scostammo le felci e guardammo la fortezza.

Era proprio così. Alla nostra destra, a una dozzina di passi di distanza, si levava la muraglia nuda del precipizio che, continuando sopra il ruscello bollente, formava il bastione più vicino. Il folto di felci in cui eravamo acquattati la raggiungeva, e veniva rigettata indietro, alla sua base, come un’onda verde. Tra il nostro riparo ed il fossato c’era uno spazio non più ampio d’una dozzina di passi, denudato dal pulviscolo bollente che vi ricadeva. Lì le mura della fortezza non distavano più di un tiro di giavellotto. Il muro ed il parapetto toccavano la parete di roccia, ma riuscivamo a scorgerli a malapena, attraverso i densi veli di vapore. Per questo avevo detto che il nostro anello più debole era forgiato dove erano più deboli anche le difese di Sirk. In quell’angolo, infatti, non c’erano sentinelle. Con il calore, il vapore e le esalazioni del geyser, non ce n’era bisogno… o almeno così pensavano a Sirk. Come poteva venire attraversato il fossato, proprio dove c’era la sua fonte bollente? Chi poteva scalare quella parete liscia e gocciolante? Tra tutte le difese, quel punto era inespugnabile, e non era necessario guardarlo… o almeno così pensavano. Perciò quello era il punto dove attaccare… se era possibile.

Lo studiai. Per ben duecento passi non c’era neppure una sentinella. Dietro la fortezza, da qualche parte, saliva il bagliore di un fuoco. Gettava ombre frementi sulle terrazze di rocce cadute oltre le pareti dei bastioni: ed era un bene perché, se fossimo arrivati là, al riparo, anche noi saremmo apparsi come ombre. Chiamai Ouarda con un cenno, e le additai le rocce che dovevano essere la mèta delle ragazze nude. Erano vicine al precipizio, dove s’incurvava verso l’interno, oltre il parapetto, ed erano circa all’altezza di una ventina di uomini, sopra al punto in cui stavamo nascosti. Ouarda chiamò a sé le ragazze e impartì loro le istruzioni. Quelle annuirono, abbassando rapidamente lo sguardo verso il calderone del fossato, e poi levandolo verso il precipizio luccicante. Vidi che alcune di loro rabbrividivano. Bene, non potevo rimproverarle per questo!

Tornammo indietro e trovammo la base della parete. Lì le rocce offrivano appigli sufficienti per i grappini della scala. Srotolammo la scala di corda. Appoggiammo alla parete la scala di legno. Indicai il cornicione che poteva essere la chiave di Sirk, consigliai le scalatrici meglio che potevo. Sapevo che il cornicione non poteva essere molto più largo di una spanna. Eppure sopra e sotto c’erano piccoli crepacci e fessure dove potevano aggrapparsi dita e piedi, perché vi crescevano ciuffi di felci.

Ne avevano di coraggio, quelle ragazze snelle! Affrancammo alle loro cinture corde lunghe e forti, che sarebbero scivolate tra le nostre mani, mentre quelle avanzavano. Loro si scambiarono occhiate, guardando le facce ed i corpi macchiati e risero. La prima salì la scala come uno scoiattolo, trovò appigli e cominciò a spostarsi trasversalmente. Dopo un attimo era scomparsa: il verde e il nero di cui era chiazzato il suo corpo si confondevano con il nero e il verde della parete. Lentamente, lentamente, la prima corda si snodò tra le mie dita.

Un’altra la seguì, e poi altre ancora, fino a quando io ebbi sei corde tra le mani. Le altre salirono e strisciarono lungo quel sentiero periglioso: le corde erano tenute nelle mani forti dell’Incantatrice.

Era una strana pesca! Con tutta la volontà protesa per tenere fuori dall’acqua quelle ragazze-pesci! Lentamente… per gli Dèi, quanto lentamente… le corde si svolgevano tra le mie dita! Tra le dita dell’Incantatrice… lentamente… lentamente… di continuo.

Ora la prima ragazza doveva essere sopra il calderone… Ebbi una rapida visione di lei, aggrappata alla roccia bagnata, avvolta dal vapore del calderone…

Quella fune si allentò nella mia mano. Si allentò, e poi scorse così rapida da tagliarmi la pelle… si allentò ancora… uno strattone, come di un grosso pesce che guizzasse via rapido… sentii la corda spezzarsi. La ragazza era caduta! Adesso era carne che si dissolveva nel calderone!

La seconda corda si allentò e tirò e si spezzò… e anche la terza…

Erano cadute in tre!

Sussurrai a Lur: «Tre sono cadute!»

«E altre due!» disse lei. Mi accorsi che aveva gli occhi chiusi, ma le mani che stringevano le corde erano ben salde.

Cinque di quelle ragazze snelle! Ne rimanevano soltanto sette! Luka… fai girare la tua ruota!

Le rimanenti corde continuarono a svolgersi tra le mie dita, lentamente, con molte soste. Ora la quarta ragazza doveva essere ormai avanti, sopra il fossato… doveva essere sopra il parapetto… doveva essere ormai molto avanti, verso le rocce… il cuore mi batteva in gola, quasi soffocandomi.

Per gli Dèi… ne era caduta una sesta!

«Un’altra!» gemetti, rivolto a Lur.

«E un’altra!» mormorò lei, gettando via l’estremità di una delle corde.

Ne erano rimaste cinque… soltanto cinque… Luka, ti erigerò un tempio a Karak… un tempio tutto tuo, dolce dea!

Cos’era? Un leggero strattone alla corda, ripetuto due volte! Il segnale! Una era passata! Onore e ricchezze a te, agile fanciulla…

«Sono cadute tutte tranne una, Dwayanu!» bisbigliò l’Incantatrice.

Gemetti ancora e la guardai…

Ancora le due torsioni… sulla mia quinta corda!

Un’altra era al sicuro!

«La mia ultima è passata!» mormorò Lur.

Tre! Tre nascoste fra le rocce. La pesca era finita. Sirk mi aveva tolto tre quarti delle esche.

Ma Sirk era presa all’amo!

Una debolezza quale non avevo mai conosciuta mi sciolse ossa e muscoli. Il viso di Lur era bianco come il gesso, ombrato di nero sotto gli occhi sbarrati.

Bene, ora toccava a noi. Le esili fanciulle che erano precipitate presto avrebbero avuto compagnia!

Presi la corda dalle mani di Lur. Inviai il segnale. Sentii la risposta.

Recidemmo le corde e ne annodammo le estremità a funi più robuste. E quando furono ritirate, annodammo ad esse un cavo più forte.

Strisciò via… via… via…

Ora la scala… il ponte che dovevamo varcare.

Era leggera ma forte, quella scala. Intessuta abilmente in un modo che avevo escogitato tanto, tanto tempo fa. Aveva dei rampini ad ogni estremità che, una volta agganciati, non si aprivano facilmente. Fissammo l’estremità della scala alla fune. Scivolò via, allontanandosi da noi… sopra le felci… sopra l’alito rovente del calderone… oltre questo.

Invisibile in quell’alito… invisibile contro il crepuscolo verde della parete di roccia… e andava e andava e andava…

Le tre ragazze l’avevano presa! La stavano fissando. La sentii raddrizzarsi e tendersi sotto le mie mani. La tirammo, dalla nostra parte e affrancammo i grappini.

La strada per Sirk era aperta!

Mi voltai verso l’Incantatrice. Era immobile, lo sguardo lontano. Negli occhi aveva lo stesso fuoco verde dei suoi lupi. E all’improvviso, al di sopra del sibilo del torrente, udii l’ululato delle sue belve… lontano, lontano.

Lur si rilassò; abbassò la testa; mi sorrise…

«Sì… so veramente parlare ai miei lupi, Dwayanu!»

Mi accostai alla scala, ne provai la resistenza. Era forte, sicura.

«Vado io per primo, Lur. Che nessuno mi segua fino a quando non sarò dall’altra parte. Poi venite tu, Dara e Naral, per guardarmi alle spalle.»

Gli occhi di Lur lampeggiarono.

«Io ti seguo. Le tue capitane verranno dopo di me.»

Riflettei. Ebbene… facesse pure.

«Come vuoi, Lur. Ma non seguirmi fino a quando non sarò dall’altra parte. Poi di’ a Ouarda di mandare le soldatesse. Ouarda… la scala non può reggerne più di dieci per volta. Lega dei pezzi di stoffa sulle loro bocche e sulle narici, prima che partano. Conta fino a trenta, lentamente, così, prima di mandare un gruppo dietro all’altro. Legami l’ascia e la spada sulla schiena, Lur. Assicurati che tutte portino nello stesso modo le loro armi. Stai a vedere, ora, come mi servo delle mani e dei piedi.»

Saltai sulla scala, con le braccia e le gambe aperte. Cominciai ad arrampicarmi. Come un ragno. Lentamente, in modo che imparassero. La scala ondeggiava poco: l’angolazione era buona.

Poi fui sopra le felci. Poi sul ciglio del torrente. Sopra il torrente. Il vapore turbinò attorno a me. Mi nascose. L’alito caldo del geyser m’investì. Non riuscivo a vedere la scala, solo i gradini sotto di me…

Fossero rese grazie a Luka! Se ciò che mi stava davanti mi era nascosto… anch’io ero nascosto da ciò che stava davanti a me!

Attraversai il vapore. Avevo superato la parete rocciosa. Ero sopra il parapetto. Mi lasciai cadere dalla scala, tra le rocce… invisibile. Scossi la scala. Vi fu una risposta tremula. Vi era sopra un peso, adesso… un altro… e un altro…

Slacciai l’ascia e la spada…

«Dwayanu…»

Mi voltai. Erano le tre ragazze. Cominciai ad elogiarle… reprimendo il riso. Il verde e il nero si erano sciolti nel bagno di vapore, combinandosi in motivi grotteschi.

«Voi siete nobili, fanciulle! Da questo momento! Verde e nero saranno i vostri colori. Ciò che avete fatto questa notte rimarrà leggendario a lungo, in Karak.»

Guardai verso i bastioni. Tra quelli e noi c’era un pavimento liscio di roccia e di sabbia, ampio meno della metà d’un tiro di freccia. Una dozzina di soldati stava intorno al fuoco. Ce n’era un gruppo più numeroso sul parapetto, vicino alle torri del ponte. E un altro ancora, dall’altra parte del parapetto. Guardavano i lupi.

Le torri del ponte levatoio scendevano fino al pavimento di roccia. Quella di sinistra non aveva aperture, quella di destra un’ampia porta. E la porta era spalancata, non sorvegliata, a meno che i soldati raccolti intorno al fuoco fossero la sua guardia. Tra le torri scendeva una larga rampa, l’accesso alla testa del ponte.

Mi sentii toccare il braccio. Lur era accanto a me. E subito dopo sopraggiunsero le mie due capitane. Poi, una ad una, le soldatesse. Ordinai loro di tendere gli archi e di incoccare le frecce. Una ad una uscirono dall’oscurità verde, mi scivolarono accanto. Si prepararono nell’ombra delle rocce.

Una dozzina… due dozzine… un urlo tagliò come una freccia il sibilo del torrente! La scala tremò. Sussultò… s’inclinò… Ancora il grido disperato… la scala ricadde, allentata!

«Dwayanu… la scala si è spezzata? Ouarda…»

«Zitta, Lur! Può darsi che abbiano udito l’urlo. La scala non si poteva rompere…»

«Ritirala, Dwayanu… ritirala!»

Tirammo, insieme. Era pesante. La ritirammo come una rete, in fretta. E all’improvviso, non ebbe più peso. Precipitò tra le nostre mani…

Le estremità erano recise, da un colpo di coltello o d’ascia.

«Tradimento!» dissi.

«Ma tradimento… come… se Ouarda era di guardia?»

Strisciai, carponi, dietro l’ombra delle rocce.

«Dara… disperdi le soldatesse. Di’ a Naral di portarsi all’estremità più lontana. Al segnale, che scaglino le frecce. Tre sole volte. La prima, contro quelli attorno al fuoco. La seconda e la terza, contro quelli sulle mura, più vicino alle torri. Poi seguitemi. Hai capito?»

«Ho capito, Signore.»

L’ordine passò di bocca in bocca; sentii frusciare le corde degli archi.

«Siamo meno di quanto sperassi, Lur… eppure non possiamo far altro che andare sino in fondo. Ormai, non possiamo uscire da Sirk se non aprendoci un varco con la spada.»

«Lo so. È a Ouarda che sto pensando…» Le tremava la voce.

«È al sicuro. Se il tradimento fosse stato generale, avremmo sentito i rumori di un combattimento. Inutile parlare ancora, Lur. Dobbiamo muoverci in fretta. Dopo il terzo lancio di frecce, precipitiamoci alla porta della torre.»

Diedi il segnale. Le arciere si alzarono. Le loro saette volarono verso coloro che erano raccolti attorno al fuoco. Ne lasciarono vivi ben pochi. Immediatamente, su quelli che stavano intorno alle torri del ponte fischiò un secondo nugolo di frecce.

Avevano una buona mira! Quelli cadevano! Ancora…

Il fischio delle saette piumate! Il canto delle corde degli archi! Per gli Dèi… quello era vivere!

Balzai giù tra le rocce: Lur era accanto a me. Le soldatesse ci seguirono. Corremmo verso la porta della torre. L’avevamo quasi raggiunta prima che quanti stavano sul lungo parapetto si svegliassero.

Risuonarono delle grida. Squillarono le trombe, l’aria fremette del clangore di un grande gong che urlava l’allarme a Sirk addormentata. Continuammo a correre. I giavellotti piovvero su di noi, sibilarono le frecce. Dalle altre porte, lungo le mura interne, cominciarono ad uscire altre sentinelle che correvano a intercettarci.

Arrivammo alla porta della torre… e la varcammo!

Ma non tutti. Un terzo delle nostre guerriere erano cadute trafitte da giavellotti e frecce. Spingemmo la porta massiccia, la chiudemmo. Abbassammo le grosse sbarre che la bloccavano. Appena in tempo. Sulla porta cominciarono a battere i martelli delle guardie.

La camera era di pietra, enorme e spoglia. Non c’erano aperture, tranne la porta da cui eravamo entrati. Ne compresi la ragione: Sirk non aveva mai previsto di venire attaccata dall’interno. C’erano delle feritoie, in alto, che davano sopra il fossato, e piattaforme per gli arcieri. Da una parte c’erano le ruote dentate e le leve che manovravano il ponte.

Notai tutto, con una rapida occhiata. Balzai sulle leve, cominciai a smuoverle. Le ruote girarono.

Il ponte si stava abbassando!

L’Incantatrice corse sulla piattaforma degli arcieri, guardò fuori: si portò il corno alle labbra; lanciò un lungo richiamo attraverso la feritoia… il segnale per Tibur e il suo esercito.

Il martellare contro la porta era cessato. I colpi erano più forti, più regolari… ritmati. Colpi d’ariete. Il legno massiccio tremava; le sbarre scricchiolarono.

Lur mi gridò: «Il ponte è calato, Dwayanu! Tibur lo sta attraversando. Si sta facendo più chiaro. Spunta l’alba. Hanno portato i cavalli!»

Imprecai.

«Luka, mandagli abbastanza buon senso perché non attraversi il ponte a cavallo!»

«È quel che sta facendo… lui e Rascha e un pugno d’altri, soltanto… gli altri smontano… Li stanno bersagliando dalle feritoie… i giavellotti piovono su di loro. Sirk esige il suo prezzo…»

Uno scroscio tonante contro la porta. Il legno si spaccò…

Un tumulto ruggente. Urla e grida di battaglia. Un cerchio di spade contro spade ed il sibilo delle frecce. E sopra tutto quel frastuono, la risata di Tibur.

L’ariete non batteva più contro la porta.

Alzai le sbarre, con l’ascia levata, aprii il grande battente di pochissimo, sbirciai fuori.

I soldati di Karak si stavano riversando giù dalla rampa del ponte.

Spalancai la porta. I morti della fortezza giacevano numerosi alla base della torre e alla testa del ponte.

Varcai la soglia. I soldati mi videro.

«Dwayanu!» risuonò il loro grido.

Dalla fortezza venne il clangore del grande gong… che avvertiva Sirk.

Sirk non dormiva più!

XX «TSANTAWU, ADDIO!»

Oltre il varco che portava a Sirk vi fu un ronzìo, come di un alveare disturbato. Squilli di trombe e rullo di tamburi. Il clangore di gong di bronzo che rispondevano a quello che batteva dal cuore segreto della fortezza violata. E le guerriere di Karak continuarono a riversarsi dal ponte, fino a quando ebbero riempito lo spazio dietro la fortezza.

Il Fabbro girò il suo stallone, verso di me.

«Per gli Dèi, Tibur! Ben fatto!»

«Non ci saremmo riusciti senza di te, Dwayanu! Tu hai visto, tu hai capito… tu hai fatto. La nostra parte è stata minima.»

Bene, era vero. Ma in quel momento quasi trovai simpatico Tibur! Vita del mio sangue! Non era stato uno scherzo guidare quella carica attraverso il ponte. Il Fabbro era un soldato! Se mi fosse stato fedele soltanto a metà… che Khalk’ru si portasse via l’Incantatrice!

«Ripulisci la fortezza, Fabbro. Non vogliamo ricevere frecce nella schiena.»

«La stiamo ripulendo, Dwayanu.»

Con spada e lancia, con giavellotto e frecce, la fortezza venne ripulita.

Il clamore del gong bronzeo morì su di un colpo non perfettamente centrato.

Il mio stallone mi appoggiò le froge sulla spalla, soffiò delicatamente contro il mio orecchio.

«Non hai dimenticato il mio cavallo! Dammi la mano, Tibur!»

«Guida tu la carica, Dwayanu!»

Balzai in sella allo stallone. Con l’ascia levata, lo feci roteare e galoppai verso il varco. Volai come la punta di una lancia, con Tibur alla sinistra, l’Incantatrice alla destra, i nobili dietro di noi, e poi i soldati.

Ci lanciammo attraverso il portale di Sirk.

E un’ondata viva si sollevò per ributtarci indietro. I martelli volavano, le asce affondavano, i giavellotti e le lance e le frecce piumate grandmavano su di noi. Il mio cavallo barcollò e cadde, urlando, con i garretti posteriori recisi. Sentii una mano sulla spalla, che mi trascinava giù. L’Incantatrice mi sorrise. Troncò con la spada il braccio che mi traeva fra i morti. Con l’ascia e con la spada aprimmo un cerchio attorno a noi. Balzai in sella ad un cavallo grigio dal quale era caduto un nobile, trafitto dalle frecce.

Ci spingemmo avanti, contro quell’onda viva che cedette, inarcandosi attorno a noi.

Avanti e avanti! Spada, taglia; ascia, abbatti! Taglia, squarcia, trafiggi!

L’ondata che ci assaliva venne abbattuta. Superammo il varco. Sirk era davanti a noi.

Tirai le redini del cavallo. Sirk si stendeva davanti a noi… troppo invitante!

La città era annidata in un avvallamento tra nere pareti perpendicolari, lisce, inaccessibili. Il ciglio del varco era più alto dei tetti delle case, che incominciavano alla distanza di un tiro di freccia. Era una bella città. Non c’erano fortini, né cittadella; non c’erano templi né palazzi. Soltanto case di pietra, circa un migliaio, con i tetti piatti, distanti l’una dall’altra, circondate da giardini, con un’ampia strada che si snodava in mezzo, fiancheggiata dagli alberi. C’erano molti vialetti. Oltre la città, campi e campi fertili, e frutteti fiorenti.

E non c’erano file di guerrieri schierati contro di noi. La strada era aperta.

Troppo aperta!

Scorsi lo scintillìo delle armi sui tetti delle case. Vi fu il rumore delle asce, tra gli squilli di tromba e il rullo dei tamburi.

Stavano barricando l’ampia strada servendosi degli alberi, ci preparavano cento imboscate, aspettandosi che noi scendessimo in forze.

Tendevano la rete sotto gli occhi di Dwayanu!

Eppure era una buona tattica. La difesa migliore. L’avevo incontrata in molte guerre contro i barbari. Significava che dovevamo batterci ad ogni passo, casa per casa, mentre le frecce ci cercavano da ogni finestra e da ogni tetto. Avevano un comandante efficiente, lì a Sirk, per preparare una simile accoglienza con un preavviso tanto breve! Provavo rispetto per quel comandante, chiunque fosse. Aveva scelto l’unico sistema che poteva portare alla vittoria… a meno che coloro contro cui combatteva non conoscessero la contromossa.

Ed io la conoscevo: l’avevo imparata a caro prezzo.

Per quanto tempo quel comandante poteva tenere Sirk, entro i suoi mille fortini? Era sempre quello, il pericolo di un simile tipo di difesa. L’impulso travolgente di una città trafitta è avventarsi sugli invasori, come fanno le formiche e le api uscendo dai formicai e dagli alveari. Non sempre c’è un comandante abbastanza forte per impedirlo. Se ogni casa di Sirk poteva rimanere collegata all’altra, se ognuna poteva continuare ad essere una parte attiva del complesso… allora Sirk poteva essere inespugnabile. Ma quando avessero incominciato a venire isolate, una ad una? Tagliate fuori? Quando la volontà del comandante fosse stata isolata?

Allora la disperazione si insinua dovunque! Allora i combattenti vengono trascinati fuori dalla furia e dalla disperazione, come da corde. Escono… per uccidere o per venire uccisi. La muraglia si sgretola, pietra per pietra. La torta viene divorata dagli assalitori, briciola per briciola.

Divisi i nostri soldati, mandai il primo scaglione contro Sirk, in piccole squadre, con l’ordine di spargersi e di approfittare di tutti i ripari. Dovevano prendere le case della fascia più esterna, a tutti i costi, scagliando le frecce in tiri alti e curvi contro i difensori, mentre altri si aprivano la via con i martelli, dentro gli stessi edifici. Altri ancora dovevano attaccare più avanti, ma senza mai allontanarsi troppo dai loro commilitoni né dall’ampia strada che scorreva attraverso la città.

Stavo gettando una rete su Sirk, e non volevo che le sue maglie si spezzassero.

Ormai era giorno fatto.

I soldati avanzarono. Vidi le frecce volare verso l’alto e ricadere, attorcendosi le une alle altre come serpenti… udii le asce battere contro le porte…

Per Luka! Da uno dei tetti garriva una bandiera di Karak! E da un altro!

Il ronzìo di Sirk si fece più alto, più sonoro, con una nota di follìa. Sapevo che non potevano resistere a lungo a quella tattica! E conoscevo quel suono! Presto sarebbe divenuto frenetico. E poi disperato.

Non sarebbe passato molto tempo prima che si lanciassero fuori…

Tibur stava bestemmiando al mio fianco. Guardai Lur, che stava fremendo. Le soldatesse mormoravano, tirando il guinzaglio, ansiose di prendere parte al combattimento. Guardai i loro occhi azzurri, duri e freddi; le facce sotto gli elmi non erano di donne, ma di giovani guerrieri… chi vi avesse cercato la misericordia femminile avrebbe avuto un brutto risveglio!

«Per Zarda! Ma il combattimento finirà prima che noi possiamo usare le spade!»

Io risi.

«Pazienza, Tibur! La pazienza è la nostra arma più forte. E lo sarebbe anche per Sirk… se loro lo sapessero. Lascia che siano loro a perdere per primi quell’arma.»

Il tumulto crebbe. Sulla strada apparve una cinquantina di soldati di Karak, che lottavano contro un numero superiore di avversari, continuamente accresciuto da altri combattenti di Sirk che uscivano dalle stradette laterali, balzavano dai tetti e dalle finestre delle case assediate.

Era quello il momento che avevo atteso!

Impartii l’ordine. Lanciai il mio grido di battaglia. Ci avventammo su di loro. I nostri, impegnati nella scaramuccia, si fecero da parte per lasciarci passare, si confusero tra le file urlanti che ci seguivano. Squarciammo la linea dei difensori di Sirk. Quelli caddero, ma combattevano anche mentre cadevano, e molte selle dei nobili erano vuote, e molti destrieri vennero perduti prima che arrivassimo vittoriosi alla prima barricata.

Come si battevano, dietro gli alberi frettolosamente abbattuti… donne e uomini e bambini cresciuti appena abbastanza per piegare l’arco o per impugnare il coltello!

Le truppe di Karak cominciarono ad attaccarli ai fianchi; le truppe di Karak lanciavano frecce dai tetti delle case che quelli avevano abbandonato: combattevamo Sirk come Sirk aveva progettato di combattere noi. E presto coloro che ci resistevano si divisero e fuggirono, e noi superammo la barricata. Combattendo, raggiungemmo il cuore di Sirk, una grande, bellissima piazza dove cantavano le fontane e sbocciavano i fiori. Quando lasciammo quella piazza, gli spruzzi delle fontane erano cremisi e non c’erano più fiori.

Pagammo un duro prezzo, laggiù. Vennero uccisi metà dei nobili. Una lancia mi aveva colpito l’elmo e per poco non mi aveva abbattuto. A testa scoperta, cavalcavo coperto di sangue, gridando, con la spada che sgocciolava rossa. Naral e Dara erano state entrambe ferite, ma continuavano a guardarmi le spalle. L’Incantatrice e il Fabbro e il suo amico sfregiato continuavano a battersi, illesi.

Vi fu un rombo di zoccoli. Un’ondata di cavalieri si avventò su di noi. Corremmo loro incontro. Ci incastrammo come due pettini. Ci mescolammo. Lampeggiate, spade! Colpite, martelli! Fendete, asce! Adesso si combatteva a corpo a corpo, nel modo che conoscevo meglio e che più amavo!

Girammo, in un turbine folle. Lanciai un’occhiata sulla mia destra e vidi che l’Incantatrice era rimasta divisa da me. Anche Tibur era scomparso. Bene, stavano senza dubbio dando buona prova di sé… dovunque fossero.

Mulinai a destra e a sinistra con la spada. In prima fila tra coloro che ci combattevano, sopra gli elmi di Karak che turbinavano in mezzo a noi, c’era un volto scuro… un volto scuro i cui occhi neri fissavano i miei… fermamente… fermamente. A fianco di quell’uomo c’era una figura più esile, i cui limpidi occhi bruni fissavano i miei… fermamente… fermamente… Negli occhi neri c’era comprensione e angoscia. Gli occhi castani erano pieni d’odio.

Gli occhi neri e gli occhi castani fecero vibrare qualcosa di profondo, dentro di me… Stavano ridestando qualcosa… l’invocavano… qualcosa che dormiva.

Udii la mia voce gridare l’ordine d’interrompere il combattimento, ed a quel grido improvvisamente tutto il frastuono della battaglia, lì intorno, si acquietò. Sirk e Karak erano lì silenziose, sbalordite, a fissarmi. Spinsi il cavallo tra la calca, guardai profondamente in quegli occhi neri.

E mi chiesi perché avevo lasciato cadere la spada… perché stavo fermo così… e perché l’angoscia di quegli occhi mi straziava il cuore…

L’uomo dal volto scuro parlò… due parole…

«Leif!… Degataga!»

Degataga! …

Ciò che prima dormiva si destò, divampò dentro di me, mi squassò il cervello, l’artigliò… scuotendo ogni nervo…

Udii un grido… la voce dell’Incantatrice.

Un cavallo eruppe dalla cerchia dei soldati. In sella vi era Rascha, le labbra raggricciate a scoprire i denti, gli occhi freddi fissi furiosamente nei miei. Alzò il braccio. Il pugnale scintillò, affondò nel dorso dell’uomo che mi aveva chiamato… Degataga!

Mi aveva chiamato…

Dio… ma io lo conoscevo!

Tsantawu! Jim!

La cosa addormentata era completamente desta… era il mio cervello… ero io… e Dwayanu era dimenticato!

Lanciai avanti il mio cavallo.

Il braccio di Rascha si alzò per colpire di nuovo… Il cavaliere dagli occhi castani gli avventò un colpo di spada, e Jim stava cadendo, scivolando sopra la criniera del mio cavallo.

Afferrai il braccio di Rascha prima che il pugnale potesse abbassarsi ancora. Afferrai quel braccio, lo piegai all’indietro, e sentii l’osso spezzarsi. Lui ululò… come un lupo.

Un martello mi passò sibilando vicino alla testa, mancandomi di un capello. Vidi Tibur che lo ritirava con la cinghia.

Mi piegai, e sollevai Rascha dalla sella. Levò di scatto il braccio illeso, con la mano mi abbrancò alla gola. Gli afferrai il polso e gli torsi il braccio all’indietro. Lo spezzai come avevo spezzato l’altro.

Il mio cavallo scartò. Con una mano stretta intorno alla gola di Rascha, reggendolo con l’altro braccio, caddi dalla sella, trascinandolo con me. Gli caddi addosso. Mi girai, lo gettai sul mio ginocchio piegato. La mia mano gli scese dalla gola al petto. La mia gamba destra bloccò le sue.

Una rapida spinta verso l’alto… un suono come lo spezzarsi di una fascina. Lo Spaccaschiene non avrebbe più spezzato la schiena a nessuno. Era la sua ad essersi spezzata.

Balzai in piedi. Guardai il viso del cavaliere dagli occhi castani…

… Evalie! …

Gridai: «Evalie!»

All’improvviso, attorno a me la battaglia si riaccese. Evalie si girò per affrontare la carica. Vidi le grosse spalle di Tibur levarsi dietro di lei… lo vidi strapparla di sella… vidi nella sua mano sinistra un lampo di luce, che sfrecciò verso di me…

Venni scagliato da parte. Appena in tempo… e non abbastanza presto…

Sentii un colpo di striscio, alla testa. Caddi sulle ginocchia e sulle mani, accecato e stordito. Sentii ridere Tibur: mi sforzai di vincere la vertigine cieca e la nausea, mentre il sangue mi colava sul viso.

E lì accovacciato, barcollando sulle mani e sulle ginocchia, udii la marea della battaglia allontanarsi da me.

La mia testa smise di girare. La cecità stava passando. Ero ancora sulle mani e sulle ginocchia. Sotto di me c’era il corpo di un uomo… un uomo i cui occhi neri erano fissi nei miei… con comprensione… con affetto!

Sentii un tocco sulla mia spalla; alzai la testa con difficoltà. Era Dara.

«Un filo tra la vita e la morte, Signore. Bevi.»

Mi accostò alle labbra una boccetta. L’amaro liquido ardente scorse dentro di me, mi ridiede fermezza e forza. Vidi che c’era un cerchio di soldatesse intorno a me, per proteggermi… e più oltre un altro cerchio, a cavallo.

«Mi senti, Leif?… Non ho molto tempo…»

Mi scostai, m’inginocchiai.

«Jim! Jim! Oh, Dio… perché sei venuto qui? Prendi questa spada e uccidimi!»

Lui mi cercò la mano, me la strinse.

«Non fare lo stupido, Leif! Non potevi farci niente… ma devi salvare Evalie!»

«Devo salvare te, Tsantawu… portarti fuori di qui…»

«Taci e ascoltami. Sono spacciato, Leif, e lo so. La lama ha trapassato la cotta di maglia ed è entrata nei polmoni… Mi sto dissanguando… dentro… diavolo, Leif… non prendertela così… Poteva accadere in guerra… poteva accadere in qualunque altro momento… Non è colpa tua…»

Un singhiozzo mi scosse, e le lacrime si mescolarono al sangue sulla mia faccia.

«Ma l’ho ucciso, Jim… l’ho ucciso!»

«Lo so, Leif… un bel lavoro… ti ho visto… ma c’è qualcosa che ti devo dire…» Gli mancò la voce.

Gli accostai alle labbra la boccetta: lo fece rinvenire.

«Adesso… Evalie… ti odia! Devi salvarla… Leif… che ti odii o no. Ascolta. Da Sirk, attraverso il Piccolo Popolo, c’è arrivata notizia che tu volevi incontrarci qui. Fingevi di essere Dwayanu… fingevi di non ricordare nulla tranne Dwayanu… per placare i sospetti e acquisire il potere. Te ne saresti andato di nascosto… saresti venuto a Sirk, e avresti condotto la sua gente contro Karak. Avevi bisogno di me al tuo fianco… avevi bisogno di Evalie per convincere i pigmei…»

«Non ti ho mandato nessun messaggio, Jim!» gemetti.

«Lo so… adesso… Ma ci abbiamo creduto… E tu avevi salvato Sri dai lupi, e avevi sfidato l’Incantatrice…»

«Jim… quanto tempo è passato tra il salvataggio di Sri e il falso messaggio?»

«Due giorni… Che importa? Avevo detto a Evalie che cosa… avevi… Gliel’ho detto molte volte. Lei non ha capito… ma mi ha creduto sulla parola… Dammi ancora un po’ di quella roba, Leif… Sto andando…»

La pozione fiammeggiante lo rianimò di nuovo.

«Siamo arrivati a Sirk… due giorni fa… attraverso il fiume con Sri e venti pigmei… è stato facile… troppo facile… Neppure un lupo ha ululato, benché sapessi che quelle belve ci spiavano… ci seguivano… e anche gli altri. Abbiamo aspettato… poi c’è stato l’attacco… e allora ho capito che eravamo presi in trappola… Come hai superato quei geyser… vecchio mio… Lascia perdere… ma… Evalie crede che sia stato tu a mandare il messaggio… tu… un tradimento…»

Chiuse gli occhi. Le sue mani erano fredde, fredde.

«Tsantawu… fratello… tu non lo credi! Tsantawu… ti prego… parlami…»

Riaprì gli occhi: ma udivo appena la sua voce.

«Non sei Dwayanu… Leif? Né adesso… né mai più?»

«No, Tsantawu… non lasciarmi!»

«Piega… la testa… più vicino, Leif… continua a lottare… salva Evalie.»

La voce divenne più fievole.

«Addio… Degataga… non è colpa tua…»

Un’ombra del vecchio sorriso sardonico passò sul volto pallidissimo.

«Non li hai scelti tu i tuoi… maledetti… antenati!… È sfortuna… Ce la siamo… spassata… insieme… Salva… Evalie…»

Un fiotto di sangue gli sgorgò dalla bocca.

Jim era morto… era morto!

Tsantawu… non era più!

Загрузка...