IL LIBRO DELL’INCANTATRICE

XIII KARAK

Ebbi abbastanza buon senso da alzare le mani sopra la testa, e così piombai a piedi in avanti. I pigmei che mi stavano abbrancati alle gambe lo resero più facile. Quando toccai l’acqua affondai, affondai. Secondo una credenza comune, quando un uomo sta per annegare tutta la sua vita gli passa davanti in pochi secondi, come un film girato a ritroso. Non so se è vero; ma so che mentre sprofondavo e poi risalivo nelle acque del Nanbu, pensai più rapidamente di quanto avessi mai fatto in vita mia.

Innanzi tutto, mi resi conto che Evalie aveva ordinato di scaraventarmi dal ponte. E questo mi accese di un furore incandescente. Perché non aveva aspettato, perché non mi aveva dato la possibilità di spiegare quell’anello? Poi pensai a tutte le occasioni che avevo avuto… e non ne avevo mai approfittato. Poi pensai che i pigmei non avevano avuto nessuna intenzione di aspettare, e che Evalie aveva fermato le loro lance e le loro frecce e mi aveva offerto una possibilità di salvarmi, per quanto labile. Pensai che era stata una pazzia fare balenare l’anello in quel particolare momento, e non potei biasimare i pigmei, se mi avevano creduto un emissario di Khalk’ru. E rividi la disperazione negli occhi di Evalie, e la mia rabbia svanì in una disperazione quasi altrettanto intensa.

Poi, accademicamente, mi venne l’idea che il gioco di Tibur con il martello spiegava la faccenda dell’antico dio nordico Thor e del suo martello Mjolnir, il Frantumatore, che ritornava sempre nella sua mano quando egli lo scagliava. Per renderla più miracolosa, gli scaldi avevano omesso il particolare pratico della lunga cinghia: quello era un altro nesso tra gli uiguri o Ayjir e gli Asi… Ne avrei parlato a Jim. E poi ricordai che non potevo tornare da Jim a parlargli di quello o di altri argomenti, perché certamente i pigmei mi stavano aspettando, e altrettanto sicuramente mi avrebbero ricacciato tra le sanguisughe, anche se fossi riuscito a raggiungere la sponda del Nanbu dalla loro parte. A quel pensiero mi coprii di sudore freddo, ammesso che questo possa avvenire ad un uomo completamente immerso nell’acqua. Avrei preferito morire ucciso dalle lance e dalle frecce del Piccolo Popolo, persino dal martello di Tibur, piuttosto che essere dissanguato da quelle ventose.

Proprio in quel momento irruppi alla superficie del Nanbu, mi dibattei nell’acqua per un momento, schiarendomi gli occhi, e vidi il dorso rosso e viscido di una sanguisuga scivolare verso di me, a meno di sei metri di distanza. Lanciai intorno uno sguardo disperato. La corrente era rapida e mi aveva trasportato per parecchie centinaia di metri a valle del ponte. E mi trascinava dalla parte di Karak, che sembrava distare circa centocinquanta metri. Mi voltai ad affrontare la sanguisuga. Avanzava lentamente, come se fosse sicura di prendermi. Decisi di immergermi e di passarle sotto, cercando di arrivare a riva… se non ce n’erano altre…

Udii un grido cinguettante. Sri saettò davanti a me. Alzò un braccio e indicò Karak. Evidentemente, cercava di dirmi che dovevo raggiungerla il più presto possibile. M’ero dimenticato di lui: solo un bagliore di collera perché si era unito ai miei aggressori. Adesso compresi che ero stato ingiusto nei suoi confronti. Nuotò diritto verso la grande sanguisuga e le diede una pacca sulla bocca. L’animale si piegò verso di lui, gli diede addirittura una musata. Non aspettai altro: nuotai con tutta la rapidità consentitami dagli stivali in direzione della riva.

Non fu una nuotata piacevole, no! L’acqua brulicava di dorsi rossi e viscidi. Senza dubbio, fu soltanto Sri a salvarmi. Tornò indietro in fretta, e nuotò in cerchio più volte attorno a me, mentre io nuotavo pesantemente: e scacciò le sanguisughe.

Toccai terra, e m’inerpicai sopra le rocce, al sicuro sul greto. Il pigmeo dorato mi lanciò un ultimo richiamo. Non potei sentire ciò che disse. Rimasi in piedi ad ansimare per riprendere fiato, e lo vidi guizzare nell’acqua bianca come un giallo pesce volante: una dozzina di rosse schiene limacciose scivolarono nella sua scia.

Alzai gli occhi verso il Ponte Nansur. Dalla parte del Piccolo Popolo, l’estremità ed i parapetti erano affollati di pigmei che mi osservavano. L’altra parte era vuota. Mi guardai intorno. Ero nell’ombra delle mura della cittadella nera. Si levavano lisce, inespugnabili, per trenta metri. Fra me e quelle mura c’era un ampio spiazzo, simile a quello su cui erano usciti Tibur e l’Incantatrice dopo aver varcato la porta di bronzo. Era orlato da tozze case di pietra, ad un solo piano; c’erano molti alberelli fioriti. Dietro quelle case ve ne erano altre, più grandi, più pretenziose, meno affollate. Più vicino, parte dello spiazzo era occupata da un mercato all’aperto.

Dalle case e dal mercato dozzine di persone si riversarono nella mia direzione. Venivano a passo svelto ma in silenzio, senza chiamarsi l’una con l’altra, senza farsi segnali… intente a fissarmi. Cercai la mia pistola automatica e bestemmiai, ricordando che non la portavo più da parecchi giorni. Qualcosa mi lampeggiò in mano…

L’anello di Khalk’ru! Dovevo essermelo infilato al pollice quando i pigmei mi avevano assalito. Bene, era stato l’anello a portarmi lì. Sicuramente, l’effetto su questa gente non doveva essere inferiore a quello che aveva avuto su coloro che mi avevano fronteggiato attraverso lo squarcio nel ponte. Comunque, non avevo altro. Lo girai, in modo che la pietra rimanesse nascosta all’interno della mano.

Adesso erano vicini: erano soprattutto donne, ragazze e bambine. Indossavano tutte indumenti molto simili: un camice che arrivava loro alle ginocchia e lasciava scoperto il seno sinistro. Senza eccezioni avevano capelli rossi ed occhi azzurri, carnagioni biancolatte e rosachiaro, ed erano tutte alte, forti, magnifiche. Sembravano fanciulle e madri vichinghe giunte ad accogliere il ritorno di una nave da una lunga scorreria sul mare. Le bambine erano piccoli angeli dagli occhi azzurri. Vidi gli uomini; non erano molti: una dozzina circa. Anche loro avevano i capelli rossi e gli occhi azzurri. I più vecchi portavano corte barbe, i più giovani avevano il volto rasato. Non erano molto più alti delle donne, in media. Nessuno di loro, uomini o donne, era più alto di me: li superavo tutti di almeno mezza testa. Non avevano armi.

Si fermarono a pochi metri da me, guardandomi in silenzio. I loro sguardi mi scrutarono, e si fermarono sui miei capelli gialli.

Vi fu un trambusto dietro alla folla. Una dozzina di donne si fecero largo e si diressero verso di me. Indossavano gonnellini; portavano spade corte alle cinture, ed in mano stringevano giavellotti: a differenza delle altre, avevano i seni coperti. Mi circondarono con i giavellotti levati, così vicine che le punte quasi mi toccavano.

Gli occhi azzurri e luminosi della comandante erano arditi, più degni di un soldato che di una donna.

«Lo straniero dai capelli gialli! Oggi Luka ci sorride!»

La donna che le stava accanto si tese a bisbigliarle qualcosa, ed io afferrai le parole.

«Tibur ce lo pagherebbe più di Lur.»

La comandante scosse il capo.

«Troppo pericoloso. La ricompensa di Lur ce la godremo più a lungo.»

Mi scrutò, con molta franchezza.

«È una vergogna sprecarlo,» disse.

«Lur non lo sprecherà,» rispose l’altra, cinicamente.

La comandante mi spinse con il giavellotto, indicando le mura della cittadella.

«Avanti, Capelli Gialli,» disse. «È un peccato che tu non possa capirmi. Altrimenti ti direi qualcosa per il tuo bene… A pagamento, s’intende.»

Mi sorrise, mi sospinse di nuovo. Provai l’impulso di sogghignare: sembrava proprio un sergente, un duro che avevo conosciuto in guerra. Invece le parlai in tono severo.

«Fai venire qui Lur con una degna scorta, o donna dalla lingua che rivaleggia con le bacchette del tamburo.»

Lei mi guardò a bocca aperta, e si lasciò sfuggire dalle mani il giavellotto. Evidentemente, sebbene fosse stato dato l’allarme per me, non si era risaputo che sapevo parlare l’uiguro.

«Fai venire qui Lur, immediatamente,» dissi io. «Altrimenti, per Khalk’ru…»

Non completai la frase. Girai l’anello e alzai la mano.

La folla lanciò un gemito di terrore. Caddero tutti in ginocchio, a capo chino. La soldatessa si sbiancò in viso, e insieme alle sue compagne s’inginocchiò davanti a me. Poi si sentì uno stridore di sbarre. Un immenso blocco di pietra si aprì nelle mura della cittadella, non molto lontano.

Da quell’apertura, come chiamata dalle mie parole, uscì a cavallo l’Incantatrice; Tibur le stava a fianco, e dietro di loro veniva il drappello che mi aveva osservato dal Ponte Nansur.

Si fermarono a fissare la folla inginocchiata. Poi T’ibur spronò il cavallo; l’Incantatrice tese una mano e lo fermò. Si parlarono. La soldatessa mi toccò un piede.

«Permettici di alzarci, o Signore,» disse. Annuii, e lei balzò ritta, con un ordine alle sue donne. Mi accerchiarono di nuovo. Lessi la paura ed una supplica negli occhi della comandante, e le sorrisi.

«Non temere. Non ho sentito niente,» bisbigliai.

«Allora hai un’amica in Dara,» mormorò lei. «Per Luka… ci bollirebbero, per quello che abbiamo detto!»

«Non ho sentito niente,» ripetei.

«Favore per favore,» sussurrò lei. «Sorveglia la mano sinistra di Tibur, se dovessi batterti con lui.»

Il drappello si era mosso: avanzò lentamente verso di noi. Quando fu più vicino, vidi che il viso di Tibur era aggrottato, e che si controllava con grande fatica. Arrestò il cavallo al limitare della folla. S’infuriò; per un attimo pensai che stesse per travolgere tutta quella gente.

«In piedi, porci!» ruggì. «Da quando Karak s’inginocchia davanti a qualcuno, eccettuati i suoi sovrani?»

La gente si alzò, si ammucchiò spaventata mentre il drappello passava. Io levai lo sguardo verso l’Incantatrice e il Ridente.

Tibur mi lanciò uno sguardo fulminante, cercando con la mano il martello; i due uomini robusti che l’avevano fiancheggiato sul ponte si spinsero adagio verso di me, con le lunghe spade sguainate. L’Incantatrice non disse nulla, studiandomi intenta eppure con una certa cinica impersonalità che mi sembrò inquietante; evidentemente non aveva ancora idee precise sul mio conto, e aspettava una parola od una mossa da parte mia per decidersi. La situazione non mi piaceva molto. Se fossimo arrivati ad una zuffa, avrei avuto scarse possibilità contro tre uomini a cavallo, per non parlare delle donne. Avevo la sensazione che l’Incantatrice non volesse vedermi ucciso subito, ma forse sarebbe arrivata troppo tardi in mio soccorso… e a parte questo non avevo nessuna intenzione di essere malmenato, legato e trascinato a Karak come prigioniero.

E poi, cominciavo a provare un rovente, irragionevole risentimento verso quella gente che osava sbarrarmi il passo, osava impedirmi di andare dove volevo: era un’arroganza appena desta… un fremere di ricordi misteriosi che mi avevano ossessionato da quando portavo l’anello di Khalk’ru…

Ebbene, quei ricordi mi erano stati utili sul Ponte Nansur, quando Tibur mi aveva lanciato contro il martello… e che cosa mi aveva detto Jim…? Di lasciar fare a Dwayanu quando mi trovavo di fronte all’Incan tattice… ebbene, facesse pure… era l’unico modo… il più ardimentoso… il vecchio modo…

Fu come se sentissi le parole!

Spalancai la mente ai ricordi o… a Dwayanu!

Vi fu, nel mio cervello, una piccola scossa tintinnante, e poi il gonfiarsi di un’ondata che si avventava verso quella coscienza che era Leif Langdon. Riuscii a respingerla prima che sommergesse completamente quella coscienza. Si ritirò, riluttante… ma non di molto. Non importava, purché non mi travolgesse… Spinsi da parte le soldatesse e mossi verso Tibur. Un riflesso di quanto era accaduto doveva essersi impresso sul mio volto, doveva avermi cambiato. Il dubbio s’insinuò negli occhi dell’Incantatrice; Tibur lasciò cadere la mano dal martello e fece rinculare il cavallo. Parlai, e la mia voce collerica risuonò estranea alle mie stesse orecchie.

«Dov’è il mio cavallo? Dove sono le mie armi? Dove sono il mio stendardo e i miei lanceri? Perché i tamburi e le trombe tacciono? È questo il modo in cui viene accolto Dwayanu quando giunge ad una città degli Ayjir? Per Zarda, è intollerabile!»

Fu l’Incantatrice a parlare, con un tono beffardo nella voce limpida e profonda, ed io intuii che in qualche modo avevo perduto quel po’ di presa che prima avevo avuto su di lei.

«Arresta la tua mano, Tibur! Parlerò io a… Dwayanu. E tu… se sei Dwayanu, non puoi biasimarci. È passato tanto, tanto tempo dall’ultima volta che occhi umani si sono posati su di te… e mai in questa terra. Quindi, come potevamo conoscerti? E quando ti abbiamo visto la prima volta, i piccoli cani gialli ti hanno indotto a fuggire da noi. E quando ti abbiamo visto la seconda volta, i piccoli cani gialli ti hanno fatto fuggire verso di noi. Se non ti abbiamo ricevuto come è dovuto a Dwayanu in una città degli Ayjir, è pur vero che nessuna città degli Ayjir è mai stata visitata da Dwayanu in questo modo.»

Ebbene, era perfettamente vero: un ragionamento ammirevole, lucido e tutto il resto. Quella parte di me che era Leif Langdon e che era impegnata in una lotta disperata per conservare la supremazia, lo riconobbe. Eppure la collera irragionevole crebbe. Alzai l’anello di Khalk’ru.

«Forse non conoscerete Dwayanu… ma conoscete questo!»

«Io so che l’hai tu,» disse l’Incantatrice, con calma. «Ma non so come l’hai avuto. Da solo, non dimostra nulla.»

Tibur si sporse, sogghignando.

«Dicci da dove vieni. Sei un rampollo di Sirk?»

Dalla folla si levò un brusìo. L’Incantatrice si protese, aggrottando le sopracciglia. La sentii mormorare, quasi con disprezzo: «La forza tu non l’hai mai avuta nel cervello, Tibur!»

Comunque io gli risposi.

«Io vengo,» dissi aspro, «dalla Madrepatria degli Ayjir, dalla terra che vomitò i tuoi tremanti antenati, rospo rosso!»

Scoccai uno sguardo all’Incantatrice; la mia risposta l’aveva scossa. La vidi irrigidirsi: i suoi occhi di fiordaliso si spalancarono e si oscurarono, le labbra rosse si schiusero; le sue donne si chinarono l’una verso l’altra, bisbigliando, mentre il brusio della folla cresceva.

«Tu menti!» ruggì Tibur. «Non c’è vita nella Madrepatria. Non c’è vita al di fuori di qui. Khalk’ru ha succhiato la terra privandola della vita. Tranne qui. Tu menti!»

Abbassò la mano sul martello.

E all’improvviso vidi rosso; tutto il mondo si dissolse in una nebbia rossa. Il cavallo dell’uomo più vicino era un nobile animale. L’avevo osservato… era uno stallone roano, forte quanto quello nero che mi aveva portato via dall’oasi del Gobi. Alzai la mano, gli afferrai il muso e lo costrinsi a piegare le ginocchia. Colto alla sprovvista, il suo cavaliere fu disarcionato, caprioleggiò sopra la testa del cavallo e mi cadde ai piedi. Si rialzò come un gatto, e fece per avventare un affondo con la spada. Gli afferrai il braccio prima che potesse colpire, sferrai un pugno con la sinistra. Lo centrai alla mascella: rovesciò la testa all’indietro e cadde. Agguantai la spada e balzai in groppa al cavallo che si stava rialzando. Prima che Tibur potesse muoversi, gli avevo già accostato alla gola la punta della spada.

«Fermo! Ammetto che tu sei Dwayanu! Trattieni la tua mano!»

Era la voce dell’Incantatrice, bassa, quasi un sussurro.

Io risi. Premetti più forte la punta della spada contro la gola di Tibur.

«Sono Dwayanu? Oppure un rampollo di Sirk?»

«Tu sei… Dwayanu!» ringhiò quello.

Risi ancora.

«Io sono Dwayanu! Allora guidami a Karak per fare ammenda della tua insolenza, Tibur!»

Gli scostai la spada dalla gola.

Sì, la scostai… e per tutti gli dei pazzeschi della mia mente pazza, vorrei che in quel momento gliel’avessi invece piantata in gola!

Ma non lo feci; e quell’occasione passò. Parlai all’Incantatrice.

«Cavalca alla mia destra: e Tibur ci preceda.»

L’uomo che io avevo abbattuto s’era rialzato, e barcollava malfermo sulle gambe. Lur parlò ad una delle sue donne che smontò da cavallo e con l’aiuto dell’altro seguace di Tibur lo fece salire in sella.

Attraversammo lo spiazzo, ed entrammo nella cittadella nera.

XIV NELLA CITTADELLA NERA

Le sbarre che fermavano la porta scesero con un tonfo alle nostre spalle. Il passaggio attraverso le mura era ampio e lungo, fiancheggiato da soldati, quasi tutte donne. Mi guardavano: erano ben disciplinati, perché tacquero, salutandoci con le spade sguainate.

Uscimmo in una piazza immensa, circondata dalla torreggiante roccia nera della cittadella. Era pavimentata di lastre di pietra, e dovevano esserci circa cinquecento soldati, quasi tutte donne, e tutti forti, con occhi azzurri e capelli rossi. La piazza era quadrata, e misurava almeno quattrocento metri per lato. Di fronte al punto da cui eravamo entrati, c’era un gruppo di persone a cavallo, della stessa categoria di quelle che ci seguivano, o almeno così mi parve. Erano raccolte intorno ad un portale, all’estremità opposta della piazza: ci avviammo al trotto verso di loro.

Circa a un terzo del percorso, passammo accanto a una fossa circolare, ampia una trentina di metri, in cui l’acqua bolliva e gorgogliava, esalando vapori. Una sorgente calda, pensai: potevo sentirne il respiro. Era cinta da strette colonne di pietra: da ognuna di queste sporgeva un braccio trasversale, come fossero forche, e da ogni braccio pendevano catene sottili. Quel posto aveva un’aria malaugurante, indefinibile. Non mi piaceva affatto. Un riflesso di quel pensiero dovette balenare sul mio volto, perché Tibur parlò, in tono blando.

«Il nostro pentolone.»

«Non deve essere facile attingervi il brodo,» dissi. Pensai che avesse scherzato.

«Ah… ma la carne che si cuoce qui non è del tipo che noi mangiamo,» rispose Tibur, in tono ancora più blando. E scoppiò in una risata ruggente.

Provai un senso di nausea, quando compresi il significato. Era la torturata carne umana quella che le catene dovevano reggere, abbassandola lentamente verso quel calderone diabolico. Mi limitai però ad annuire, indifferente, e proseguii.

L’Incantatrice non aveva fatto caso a noi: china la testa color ruggine, era immersa nei suoi pensieri, anche se di tanto in tanto mi lanciava occhiate oblique. Ci fermammo davanti al portale. Lei fece un segnale a coloro che aspettavano lì: una dozzina di fanciulle e di donne dai capelli rossi ed una mezza dozzina di uomini. Quelli smontarono. L’Incantatrice si sporse verso di me e bisbigliò:

«Gira l’anello in modo che il sigillo sia coperto.»

Le obbedii, senza fare domande.

Arrivammo al portale e guardai il gruppo in attesa. Le donne indossavano la tunica che lasciava scoperto un seno, e calzoni ampi legati alle caviglie; portavano alte cinture con appese due spade, una lunga e una corta. Gli uomini indossavano bluse sciolte, e calzoni eguali: dalle loro cinture, accanto alle spade, pendevano martelli come quello del Fabbro, ma più piccoli. Le donne che si erano radunate attorno a me quando ero uscito dal Nanbu erano senz’altro belle, ma queste erano molto più attraenti, più splendide, con un’aria aristocratica che le altre non avevano. Mi scrutavano sfacciatamente come avevano fatto la soldatessa e la sua luogotenente: i loro sguardi si posarono sui miei capelli gialli e vi rimasero, come stregati. Su tutti i loro volti c’era quella stessa ombra di crudeltà latente nella bocca amorosa di Lur.

«Smontiamo,» disse l’Incantatrice. «Andiamo dove potremo… conoscerci meglio.»

Annuii di nuovo, indifferente. Avevo pensato di aver commesso un gesto imprudente avventurandomi da solo tra quella gente; ma avevo pensato anche che non avrei potuto fare null’altro, se non andare a Sirk, e non sapevo neppure dove fosse; e se mi ci fossi provato sarei stato un fuorilegge braccato su entrambe le sponde del bianco Nanbu. La parte di me che era Leif Langdon pensava a questo… ma la parte di me che era Dwayanu pensava in modo completamente diverso. Soffiava sul fuoco dell’implacabilità e dell’arroganza che mi avevano condotto fin lì indenne; bisbigliava che nessuno degli Ayjir aveva il diritto di farmi domande o di sbarrarmi la via, sussurrava con insistenza crescente che avrebbero dovuto ricevermi abbassando gli stendardi, tra rulli di tamburi e fanfare di trombe. La parte di me che era Leif Langdon rispondeva che non potevo far altro che continuare così, perché quello era il gioco da giocare, la linea da seguire, l’unica via. E quell’altra parte, gli antichi ricordi, il risveglio di Dwayanu, la suggestione postipnotica del vecchio sacerdote del Gobi, chiedeva impaziente perché dovevo dubitare anche di me stesso, e insisteva che non era un gioco, bensì la verità. E diceva che avrebbe tollerato ancora per poco l’insolenza di quei cani degenerati della Grande Razza… e la mia viltà!

Perciò balzai da cavallo, e guardai con arroganza, dall’alto in basso, i visi levati verso di me, poiché ero alto almeno una decina di centimetri più del più alto di loro. Lur mi sfiorò il braccio. Tra lei e Tibur varcai il portale ed entrai nella cittadella nera.

Attraversammo un immenso vestibolo, fiocamente illuminato dalle feritoie che si aprivano nella roccia levigata. Passammo davanti a numerosi gruppi di soldatesse che ci salutarono in silenzio, e incrociammo molti corridoi trasversali. Finalmente ci trovammo davanti ad una grande porta vigilata da sentinelle: Lur e Tibur congedarono le loro scorte. La porta si aprì, lentamente: entrammo e si richiuse dietro di noi.

La prima cosa che vidi fu il Kraken.

Si stendeva su una parete della camera in cui eravamo entrati. Il cuore mi balzò in petto quando lo vidi, e per un istante provai l’impulso quasi incontrollabile di voltarmi e di fuggire. Poi mi accorsi che si trattava soltanto di un mosaico incastonato nella pietra nera. O meglio, il campo giallo su cui spiccava era un mosaico, e la Piovra Nera era stata intagliata nella superficie del muro. Gli insondabili occhi di giaietto mi guardavano, con quel riflesso di profonda malvagità che i pigmei dorati avevano saputo imitare così perfettamente nel simbolo prigioniero nel loro tempio.

Qualcosa si mosse, accanto al Kraken. Sotto un cappuccio nero, una faccia si sporse a guardarmi. In un primo istante pensai che fosse il vecchio sacerdote del Gobi, ma poi mi accorsi che quell’uomo non era tanto vecchio, che i suoi occhi erano di un azzurro chiaro più intenso, e che il volto non aveva rughe, era freddo, bianco ed inespressivo, quasi scolpito nel marmo. Allora ricordai ciò che mi aveva detto Evalie, e capii che doveva essere Yodin, il Gran Sacerdote. Era assiso su di un seggio simile ad un trono, dietro una tavola lunga e bassa, dove stavano rotoli simili ai papiri egizi e cilindri di metallo rosso che immaginai fossero le custodie. Alla sua destra ed alla sua sinistra c’erano altri due troni.

L’uomo alzò una mano bianca ed esile e mi fece un cenno.

«Vieni a me… tu che dici di chiamarti Dwayanu.»

La voce era fredda e spassionata quanto il volto, ma cerimoniosa. Mi sembrò di udire il vecchio sacerdote, quando mi aveva chiamato a sé. Mi accostai, più nello spirito di chi accontenta qualcuno non eguale a lui, che per obbedienza. Era esattamente quello che provavo. Il sacerdote dovette intuire il mio pensiero, poiché scorsi un’ombra di collera passargli sul viso. Mi scrutò.

«Mi hanno detto che tu hai un certo anello.»

Con la stessa certezza di accontentare un individuo un po’ inferiore, girai il castone dell’anello del Kraken e tesi la mano verso di lui. Guardò l’anello, e la faccia bianca perse l’impassibilità. Si frugò nella cintura e ne trasse un astuccio, dal quale tolse un altro anello che posò accanto al mio. Vidi che era un po’ meno grande, e che la montatura non era identica. L’uomo studiò i due gioielli, poi con un respiro sibilante mi afferrò le mani e le girò, scrutandone le palme. Le lasciò ricadere, e si appoggiò alla spalliera del tronetto.

«Perché sei venuto da noi?» mi chiese.

M’invase un’ondata d’irritazione.

«Dwayanu deve forse stare in piedi come un semplice messaggero per venire interrogato?» chiesi, aspro.

Girai intorno al tavolo e mi lasciai cadere su uno dei seggi.

«Si faccia portare da bere, perché ho sete. Fino a quando la mia sete non sarà placata, non parlerò.»

Un lieve rossore gli chiazzò la faccia bianca; e Tibur emise un ringhio. Mi stava guardando ferocemente, con il volto avvampato; l’Incantatrice era ritta, lo sguardo intento su di me, non più beffardo: l’interesse si era intensificato. Mi resi conto che il trono da me usurpato era quello di Tibur. Risi.

«Stai in guardia, Tibur!» dissi. «Questo può essere un presagio!»

Il Gran Sacerdote intervenne, placido.

«Se egli è veramente Dwayanu, Tibur, allora nessun onore è troppo grande per lui. Fai portare del vino.»

L’occhiata che il Fabbro lanciò a Yodin mi sembrò interrogativa. Forse anche l’Incantatrice pensava lo stesso. Si affrettò a parlare.

«Provvederò io.»

Tornò alla porta, l’aprì e impartì l’ordine ad una guardia. Attese, mentre noi restavamo in silenzio. Pensai a molte cose. Pensai, per esempio, che non mi piaceva l’occhiata scambiata tra Yodin e Tibur, e che mentre potevo fidarmi di Lur, per il momento… lei avrebbe dovuto bere per prima, quando avrebbero portato il vino. E pensai che avrei detto loro ben poco del modo in cui ero giunto alla Terra Oscurata. E pensai a Jim… e pensai ad Evalie. Mi fece dolere il cuore, e provai la solitudine dell’incubo; e poi sentii il fiero disprezzo dell’altra parte di me, la sentii dibattersi nei ceppi in cui l’avevo posta. Poi giunse il vino.

L’Incantatrice portò alla tavola la caraffa e il calice e me li posò davanti. Versò il vino giallo nel calice e me lo porse. Le sorrisi.

«Prima beve la coppiera,» dissi. «Così era nei tempi andati, Lur. Ed io amo le vecchie tradizioni.»

Tibur si morse il labbro e si tirò la barba, ma Lur prese il calice e lo vuotò. Io lo riempii e lo levai verso Tibur. Provavo il desiderio malizioso di farmi beffe del Fabbro.

«Tu lo avresti fatto se fossi stato il coppiere, Tibur?» gli chiesi, e bevvi.

Il vino era squisito! Mi formicolò nel sangue, ed io sentii l’implacabilità inebriante sussultare in me, come una sferzata. Riempii di nuovo il calice, e lo gettai via.

«Vieni, Lur, e siedi con noi,» dissi. «Tibur, unisciti a noi.»

L’Incantatrice prese posto in silenzio sul terzo trono. Tibur mi sorvegliava: scorsi un’espressione nuova nei suoi occhi, un po’ del furtivo interesse che avevo sorpreso in quelli di Lur. Il sacerdote dal viso bianco guardava lontano. Mi accorsi che tutti e tre erano immersi nei propri pensieri, e che Tibur cominciava a sentirsi a disagio. Quando mi rispose la sua voce aveva perduto ogni truculenza.

«Molto bene… Dwayanu!» disse. Sollevò una panca e l’accostò alla tavola; sedette dove poteva osservare le nostre facce.

«Risponderò alla tua domanda.» Mi rivolsi a Yodin. «Sono venuto qui chiamato da Khalk’ru.»

«È strano,» disse Yodin, «che io, Grande Sacerdote di Khalk’ru, non sapessi niente di questa chiamata.»

«Non ne conosco la ragione,» ribattei, disinvolto. «Chiedilo a colui che servi.»

Yodin rifletté.

«Dwayanu visse molto, molto tempo fa,» disse. «Prima…»

«Prima del Sacrilegio. È vero.» Bevvi un altro sorso di vino. «E tuttavia… sono qui.»

Per la prima volta la sua voce perse fermezza.

«Tu… tu sai del Sacrilegio!» Mi strinse il polso tra le dita. «Uomo, chiunque tu sia… da dove vieni?»

«Io vengo,» risposi, «dalla Madrepatria.»

Le dita si strinsero intorno al mio polso. Le sue parole riecheggiarono quelle di Tibur.

«La Madrepatria è una terra morta. Khalk’ru, nella sua collera, ne ha distrutto la vita. Non vi è vita se non qui, dove Khalk’ru ascolta i suoi servi e permette che la vita esista.»

Non lo credeva: lo capii dall’occhiata involontaria che aveva lanciato all’Incantatrice e al Fabbro. E non lo credevano neppure loro.

«La Madrepatria,» dissi io, «è solo ossa sbiancate. Le sue città giacciono coperte da sudari di sabbia. I suoi fiumi non hanno acque, e tra le loro sponde scorre soltanto la sabbia sospinta da venti aridi. Tuttavia vi è ancora la vita nella Madrepatria, e sebbene l’antico sangue sia contaminato… scorre ancora. E Khalk’ru è ancora adoralo e temuto, nel luogo da cui provengo… e in altre terre la vita si riproduce come ha sempre fatto.»

Versai altro vino. Era un buon vino, quello. Aveva l’effetto di accrescere la mia temerarietà… di rendere più forte Dwayanu… bene, io era in una situazione difficile, quindi facesse pure…

«Mostrami il luogo dal quale sei venuto.» Il Gran Sacerdote parlò in fretta. Mi diede una tavoletta di cera ed uno stilo. Tracciai i contorni dell’Asia settentrionale e dell’Alaska. Indicai il Gobi e, approssimativamente, l’ubicazione dell’oasi, e la posizione della Terra Oscurata.

Tibur si alzò per guardare; le loro tre teste si piegarono sulla mappa. Il sacerdote frugò tra i rotoli, ne scelse uno: lo confrontarono con la tavoletta. Sembrava una mappa: la costa settentrionale, però, era sbagliata. Vi era tracciata una linea che sembrava una strada. Sopra e sotto stavano vari simboli. Mi chiesi se quello era il percorso compiuto dalla Vecchia Razza durante la fuga dal Gobi.

Finalmente rialzarono la testa; negli occhi del sacerdote c’era turbamento, apprensione collerica in quelli di Tibur, ma gli occhi dell’Incantatrice erano sereni e imperturbati… come se lei avesse preso una decisione e sapesse esattamente che cosa avrebbe fatto.

«È la Madrepatria!» esclamò il sacerdote. «Dimmi… viene di lì anche lo straniero dai capelli neri che è fuggito con te attraverso il fiume e che ti ha visto gettare da Nansur?»

C’era troppa malizia in quella domanda: cominciavo a detestare Yodin.

«No,» risposi. «Lui viene da una vecchia terra dei Rrrllya.»

Le mie parole fecero scattare in piedi il sacerdote; Tibur imprecò incredulo. E persino l’Incantatrice fu strappata alla sua serenità.

«Un’altra terra… dei Rrrllya! Ma non è possibile,» bisbigliò Yodin.

«Eppure è così,» dissi io.

Ricadde sul seggio e rifletté a lungo.

«È tuo amico?»

«È mio fratello, per l’antico rito di sangue della sua gente.»

«Potrebbe raggiungerti qui?»

«Verrebbe se lo mandassi a chiamare. Ma non lo farò. Non ancora. Lui sta bene dov’è.»

Mi pentii di averlo detto, nello stesso momento in cui parlai. Perché, non lo sapevo. Ma sarei stato disposto a dare molto, pur di poter ritirare quelle parole.

Il sacerdote continuò a tacere.

«Tu ci hai detto cose molto strane,» fece, alla fine. «E sei venuto a noi in modo strano… per essere Dwayanu. Non ti dispiace se ci consultiamo per un po’?»

Guardai la caraffa. Era ancora semipiena. Mi piaceva quel vino… soprattutto perché attenuava il dolore che provavo per Evalie.

«Parlate pure per quanto volete,» risposi, condiscendente. I tre andarono in un angolo della stanza. Mi versai un altro calice, e poi un altro. Dimenticai Evalie. Cominciavo a pensare che me la sarei spassata. Avrei voluto che ci fosse Jim con me, ma rimpiangevo di aver detto che lui sarebbe venuto se lo avessi fatto chiamare. E poi bevvi un altro calice e dimenticai Jim. Sì, mi stavo divertendo moltissimo… bene, non appena avessi scatenato un po’ di più Dwayanu… mi sarei divertito parecchio… Avevo sonno… Mi chiesi cosa avrebbe detto il vecchio Barr, se avesse potuto essere lì con me…

Mi riscossi con un sussulto. Il Gran Sacerdote era al mio fianco, e parlava. Avevo la vaga idea che mi stesse parlando da un po’, ma non ricordavo cosa avesse detto. Avevo anche l’idea che qualcuno mi avesse toccato il pollice. Era ripiegato ostinatamente contro il palmo della mano, così forte che la pietra aveva illividito la carne. L’effetto del vino era completamente svanito. Mi guardai intorno. Tibur e l’Incantatrice se n’erano andati. Perché non li avevo visti uscire? Avevo dormito? Studiai la faccia di Yodin. Aveva un’espressione tesa, sbigottita; eppure intuivo una soddisfazione profonda. Era un’espressione bizzarramente composita. E non mi piaceva.

«Gli altri sono andati a organizzarti una degna accoglienza,» disse lui. «A prepararti un alloggio ed abiti adeguati.»

«Come Dwayanu?» chiesi.

«Non ancora,» rispose Yodin, urbanamente. «Ma come ospite onorato. L’altra è una questione troppo seria per decidere senza un’ulteriore prova.»

«Quale prova?»

Mi guardò un lungo istante, prima di rispondere.

«Se Khalk’ru apparirà alla tua preghiera!»

A quelle parole mi sentii scuotere da un lieve brivido. Yodin mi scrutava così attentamente che dovette notarlo.

«Frena l’impazienza.» La sua voce era di miele freddo. «Non dovrai attendere a lungo. Fino ad allora, probabilmente, non ti vedrò. Nel frattempo… ho una richiesta da farti.»

«Quale?» domandai.

«Non portare apertamente l’anello di Khalk’ru… se non quando, naturalmente, ti sembrerà necessario.»

Era la stessa cosa che mi aveva chiesto Lur. Eppure dozzine di persone mi avevano visto con l’anello, e molte altre dovevano sapere che l’avevo. Yodin intuì la mia indecisione.

«È un oggetto sacro,» disse. «Non sapevo che ne esistesse un altro, fino a quando mi è stato annunciato che tu l’avevi mostrato sul Nansur. Non è bene sminuire le cose sacre. Io non porto il mio se non quando lo ritengo… necessario.»

Mi chiesi in quali circostanze Yodin lo considerava… necessario. E mi augurai fervidamente di sapere in che occasioni sarebbe stato utile a me. I suoi occhi mi scrutavano, e sperai che non avesse intuito quel pensiero.

«Non vedo ragioni per declinare la tua richiesta,» dissi. Mi sfilai l’anello dal pollice e lo riposi nella tasca della cintura.

«Ne ero sicuro,» mormorò lui.

Un gong suonò, leggermente. Yodin premette un lato del tavolo, e la porta si aprì. Tre giovani abbigliati con i camici dei popolani entrarono e si fermarono umilmente, in attesa.

«Sono i tuoi servitori. Ti condurranno al tuo alloggio,» disse Yodin. Chinò la testa. Io uscii con i tre giovani Ayjir. Alla porta c’era una guardia d’una dozzina di donne, con una giovane capitana dagli occhi arditi. Mi salutarono impeccabilmente. Ci avviammo per il corridoio, poi girammo in un altro. Mi voltai indietro.

Giusto in tempo per vedere l’Incantatrice che entrava furtiva nella camera del Gran Sacerdote.

Arrivammo ad un’altra porta sorvegliata. La spalancarono ed io entrai, seguito dai tre giovani.

«Anche noi siamo al tuo servizio, Signore,» disse la capitana dagli occhi arditi. «Se desideri qualcosa, chiamami con questo. Staremo accanto alla porta.»

Mi consegnò un piccolo gong di giada, salutò di nuovo e uscì a passo di marcia.

La stanza aveva un aspetto stranamente familiare. Poi mi accorsi che era molto simile a quella in cui mi avevano condotto nell’oasi. Vi erano gli stessi strani sgabelli, le stesse sedie di metallo, lo stesso divano ampio e basso, gli arazzi alle pareti, i tappeti sul pavimento. Ma qui non c’erano segni di decadenza. Alcuni arazzi, certo, erano scoloriti dal tempo, ma in modo squisito; non erano laceri e sbrindellati. Gli altri erano splendidamente intessuti, ma sembravano appena usciti dal telaio. Le antiche tappezzerie erano ornate delle stesse scene di caccia e di guerra dei logori drappi dell’oasi; in una di esse il Ponte Nansur s’inarcava intatto, un’altra rappresentava una battaglia con i pigmei, un’altra ancora una scena della foresta, fantasticamente incantevole… con i lupi bianchi di Lur che si aggiravano furtivi tra gli alberi. Ebbi la sensazione che ci fosse qualcosa fuori posto. Cercai e cercai, prima di scoprire di cosa si trattava. Nella camera dell’oasi c’erano state le armi del suo antico padrone, spade e lance, elmo e scudo. In quella stanza, invece, non c’erano armi. Ricordai che avevo portato la spada del seguace di Tibur dentro alla stanza del sacerdote. Ma adesso non l’avevo più.

Cominciai a provare un senso d’inquietudine. Mi girai verso i tre giovani Ayjir, cominciando a sbottonarmi la camicia. Quelli si fecero avanti in silenzio e cominciarono a svestirmi. All’improvviso provai una sete divorante.

«Portami dell’acqua,» dissi ad uno dei giovani. Quello non mi badò neppure.

«Portami dell’acqua,» dissi ancora, pensando che non mi avesse udito. «Ho sete.»

Quello continuò tranquillo a sfilarmi uno stivale. Gli toccai la spalla.

«Portami dell’acqua da bere,» dissi con enfasi.

Lui mi sorrise, aprì la bocca e indicò. Non aveva lingua. Si additò le orecchie. Capii: mi stava spiegando che era sordo e muto. Indicai i suoi due compagni. Annuì.

La mia inquietudine s’intensificò. Era un’usanza generale dei signori di Karak: quei tre erano stati ridotti così non solo per servire in silenzio ma anche per non udire ciò che dicevano certi ospiti? Ospiti… o prigionieri?

Battei il gong con un dito. Subito la porta si aprì, e comparve la capitana, in atto di saluto.

«Ho sete,» dissi. «Portami dell’acqua.»

Per tutta risposta attraversò la stanza e scostò uno dei tendaggi: dietro stava un’alcova ampia e profonda. Nel pavimento c’era una vasca in cui scorreva dell’acqua pura, e accanto un bacino di porfido dal quale scaturiva un getto, come una piccola fonte. La donna prese un calice da una nicchia, lo riempì sotto il getto e me lo porse. L’acqua era fredda e scintillante.

«C’è altro, Signore?» domandò. Io scossi il capo, e lei se ne andò.

Tornai ad affidarmi alle premure dei tre sordomuti. Mi tolsero il resto degli abiti e cominciarono a massaggiarmi con un olio leggero e volatile. La mia mente, intanto, aveva preso a funzionare intensamente. Per prima cosa, il dolore al palmo della mano continuava a ricordarmi l’impressione che qualcuno avesse cercato di sfilarmi l’anello dal pollice. In secondo luogo, più ci pensavo e più ero sicuro che prima che mi svegliassi, o che uscissi dallo stordimento o dall’ebrezza, il sacerdote dalla faccia bianca mi aveva parlato molto a lungo, interrogandomi, sondando la mia mente obnubilata. E in terzo luogo, avevo perduto quasi interamente quel magnifico sprezzo delle conseguenze che tanto aveva contribuito a portarmi fin lì… Anzi, ero troppo Leif Langdon e troppo poco Dwayanu. Che cosa aveva inteso fare il sacerdote, parlandomi e interrogandomi… ed io, cosa avevo detto?

Mi strappai alle mani dei massaggiatori, corsi dov’erano i miei calzoni e frugai nella cintura. L’anello c’era. Cercai la mia vecchia borsa. Era sparita. Suonai il gong. Arrivò la capitana. Io ero nudo, ma non avevo affatto l’impressione di trovarmi di fronte ad una donna.

«Ascoltami,» dissi. «Portami del vino. E porta anche un astuccio robusto, abbastanza grande per contenere un anello. E porta una solida catena per appendermi al collo l’astuccio. Hai capito?»

«Sarà fatto, Signore,» disse lei. Non tardò molto a tornare. Posò la caraffa che aveva portato e si frugò nella blusa. Ne trasse un grosso medaglione appeso a una catena metallica, lo apri.

«Questo può andare, Signore?»

Le voltai le spalle e infilai nel medaglione l’anello di Khalk’ru. Andava benissimo.

«Ottimamente,» le dissi. «Ma non ho nulla da darti in cambio.»

La capitana rise.

«È una ricompensa sufficiente averti visto, Signore,» disse, senza ambiguità, e se ne andò. Mi appesi il medaglione al collo. Mi versai un calice di vino, poi un altro. Tornai dai massaggiatori e cominciai a sentirmi meglio. Bevvi mentre mi facevano il bagno, bevvi mentre mi pareggiavano i capelli e mi radevano. E più bevevo e più veniva a galla Dwayanu, freddamente infuriato e risentito.

La mia antipatia per Yodin crebbe. Non diminuì quando i tre mi abbigliarono. Mi misero indosso una sottoveste di seta. La coprirono con una magnifica tunica gialla intessuta di fili metallici azzurri; mi rivestirono le gambe con gli ampi calzoni della stessa stoffa; mi affibbiarono alla vita un’alta cintura costellata di gemme, mi allacciarono ai piedi sandali di morbida pelle dorata. Mi avevano rasato; poi mi spazzolarono e acconciarono i capelli, che avevano tagliato all’altezza della nuca.

Quando loro ebbero terminato con me, io avevo finito il vino. Ero un po’ ubriaco, e desideravo esserlo di più, e non ero in vena di ammettere scherzi. Suonai il gong per chiamare la capitana. Volevo altro vino, e volevo sapere quando, dove e come avrei mangiato. La porta si aprì, ma non fu la capitana che entrò.

Fu l’Incantatrice.

XV IL LAGO DEGLI SPETTRI

Lur si soffermò, con le rosse labbra socchiuse, e mi guardò. Era chiaramente sbalordita dalla trasformazione che gli indumenti degli Ayjir e le cure dei sordomuti avevano operato nella figura sgocciolante e inzaccherata che s’era trascinata sulla riva del fiume non molto tempo prima. Le brillarono gli occhi, un colorito roseo più intenso le chiazzò le guance. Si avvicinò.

«Dwayanu… vieni con me?»

La guardai e risi.

«E perché no, Lur? Ma quale è il motivo?»

Lei mormorò: «Sei in pericolo… che tu sia Dwayanu o che non lo sia. Ho convinto Yodin a farti rimanere con me fino a quando andrai al tempio. Con me sarai al sicuro… fino ad allora.»

«E perché fai questo per me, Lur?»

Non rispose: si limitò a posarmi una mano sulla spalla e mi guardò con gli occhi azzurri inteneriti, sebbene il buon senso mi dicesse che la sua sollecitudine aveva motivi diversi da un’improvvisa passione per me, quel tocco e quello sguardo mi fecero scorrere il sangue nelle vene, e mi fu difficile controllare la voce e parlare.

«Verrò con te, Lur.»

Si avvicinò alla porta e l’aprì.

«Guarda, il mantello e il berretto.» Tornò da me portando un manto nero che mi gettò sulle spalle e mi allacciò al collo; mi calcò sui capelli gialli un berretto aderente simile a quello frigio sotto al quale nascose le ciocche che erano rimaste fuori. A parte la statura, sembravo un qualunque Ayjir di Karak.

«Dobbiamo affrettarci, Dwayanu.»

«Sono pronto. Aspetta…»

Andai dov’erano i miei vecchi vestiti e li arrotolai intorno agli stivali. Dopotutto… potevo averne bisogno. L’Incantatrice non fece commenti, aprì la porta: uscimmo. La capitana e la sua guardia erano nel corridoio, insieme ad una mezza dozzina delle donne di Lur: erano creature splendide. Poi notai che tutte indossavano una leggera cotta di maglia e, oltre alle due spade, portavano un martello da lancio. Anche Lur era armata allo stesso modo. Evidentemente si aspettavano qualche guaio, da me o da altri: e in ogni caso, non ne ero entusiasta.

«Dammi la tua spada,» dissi bruscamente alla capitana. Quella esitò.

«Dagliela,» disse Lur.

Soppesai l’arma in mano: non era pesante quanto avrei voluto, ma era pur sempre una spada. Me la infilai nella cintura, e ressi con il braccio sinistro il fardello dei vecchi abiti, sotto il mantello. Ci avviammo per il corridoio, lasciando la guardia alla porta.

Percorremmo solo un centinaio di metri, poi entrammo in una stanzetta spoglia. Non avevamo incontrato nessuno. Lur trasse un respiro di sollievo, si accostò a una parete, ed una lastra di pietra si aprì, rivelando un passaggio. Vi entrammo e la lastra si chiuse, lasciandoci in un’oscurità di pece. Vi fu una scintilla, prodotta non so come, ed il luogo s’illuminò: le fiaccole tenute da due donne si erano accese. Ardevano con una fiamma chiara, ferma e argentea. Le portatrici di torcia ci precedettero. Dopo un po’ arrivammo in fondo al passaggio: le luci vennero spente, un’altra pietra si spostò, e noi uscimmo. Udii un brusìo, e quando il riverbero delle torce fu svanito, vidi che ci trovavamo alla base d’uno dei muri della cittadella nera, e che vicino a noi c’era un’altra mezza dozzina delle donne di Lur, con dei cavalli. Una condusse avanti un grosso stallone grigio.

«Monta, e cavalca al mio fianco,» disse Lur.

Fissai il fardello al pomo dell’alta sella, e salii sul grigio cavallo. Ci avviammo in silenzio. Nella terra sotto il miraggio non era mai completamente buio: c’era sempre una fioca luminescenza verde, ma quella notte era più vivida che mai. Mi chiesi se c’era la luna piena che splendeva sui picchi della valle. Mi chiesi se saremmo andati lontano. Non ero ebbro quanto lo ero stato quando Lur era venuta da me, ma in un certo senso lo ero di più. Provavo una bizzarra sensazione di euforia decisamente piacevole, un’irresponsabilità spensierata; e volevo continuare a sentirmi in quel modo. Mi augurai che Lur avesse vino in abbondanza, là dove mi stava conducendo. Avrei voluto poter bere anche in quel momento.

Stavamo attraversando la città oltre la roccia, in fretta. L’ampia strada era ben pavimentata. C’erano luci accese nelle case e nei giardini e la gente cantava, suonava tamburi e flauti. La cittadella nera poteva essere sinistra, ma non pareva gettare ombre sulla popolazione di Karak. O almeno così pensavo allora.

Uscimmo dalla città, su di una strada liscia che correva tra la folta vegetazione. Intorno svolazzavano le falene luminose, simili a velivoli fatati, e per un momento un ricordo mi trafisse, ed il volto di Evalie aleggiò davanti a me. Non durò neppure un secondo. Il cavallo grigio procedeva dolcemente, ed io cominciai a cantare un’antica canzone kirghisa che parlava di un innamorato il quale andava a cavallo, nel chiaro di luna, dalla sua bella, e di quello che trovava al suo arrivo. Lur rise, e mi coprì la bocca con la mano.

«Silenzio, Dwayanu! C’è ancora pericolo.»

Allora mi accorsi che non avevo cantato in kirghiso, bensì in uiguro, la lingua da cui deriva probabilmente il kirghiso. E poi ricordai che non avevo mai sentito quella canzone in uiguro. Il vecchio problema si affacciò alla mia mente, e non durò più del ricordo di Evalie.

Di tanto in tanto intravvedevo il fiume bianco. Poi procedemmo disposti in una lunga fila: la strada si restringeva, e dovemmo cavalcare l’uno dietro l’altro, tra pareti perpendicolari coperte di vegetazione. Quando ne uscimmo, la strada si biforcò. Da una parte procedeva diritta; dall’altra deviava bruscamente verso sinistra. Prendemmo quest’ultima e proseguimmo per cinque o sei chilometri, nel cuore della strana foresta. I grandi alberi tendevano le braccia sopra di noi: i candelabri e le lanterne e i tralci di fiori oscillanti brillavano come fantasmi nella luce pallida; gli alberi dalla corteccia scagliosa erano come guerrieri che montavano la guardia. E le fragranze inebrianti, le esalazioni stranamente stimolanti erano forti… forti. Uscivano pulsando dalla foresta, ritmicamente, come se fossero i battiti di un cuore ubriaco di vita.

Arrivammo alla fine di quella strada ed io abbassai lo sguardo e vidi il Lago degli Spettri.

Mai, mi dissi, in tutto il mondo era mai esistito un luogo di bellezza così ultraterrena, sconvolgente e mozzafiato come quel lago sotto il miraggio, dove aveva la sua dimora Lur l’Incantatrice. E se non fosse stata l’Incantatrice prima di andare a dimorare lì, sarebbe stato quel luogo a renderla tale.

Il lago aveva la forma di una punta di freccia, e le sponde più lunghe superavano di poco la lunghezza di un chilometro e mezzo. Era racchiuso da collinette basse, dalle pendici coperte di felci, che con le fronde piumate le rivestivano come il petto di gigantesche paradisee, s’innalzavano come fontane, si libravano come immense ali verdeggianti. L’acqua era color smeraldo pallido, e scintillava come uno smeraldo, placida e imperturbata. Ma sotto quella superficie tranquilla c’erano movimenti… cerchi luminosi di verde argenteo che si allargavano rapidi e svanivano, raggi che si allacciavano e s’intrecciavano in forme geometriche fantastiche eppure ordinate; spirali luminose, nessuna delle quali, tuttavia, affiorava alla superficie ad infrangerne la serenità. E qua e là vi erano grappoli di luci tenere, come rubini vaporosi, zaffiri annebbiati ed opali e perle lucenti… luci incantate. I gigli luminosi del Lago degli Spettri.

Là dove la punta della freccia toccava terra non c’erano felci. Un’ampia cascata si dispiegava come un velo sopra il precipizio, mormorando. Là si levavano vapori che si mescolavano all’acqua cadente, danzavano lenti, ondeggiando, protendendosi con dita spettrali come per toccarla. E dalle rive del lago altre fantasime di foschia si alzavano, veleggiavano rapide sopra la distesa di smeraldo e si univano alle altre danzanti sulla cascata. Così io vidi per la prima volta il Lago degli Spettri, nella notte del miraggio, e non era meno bello nel giorno del miraggio.

La strada scendeva nel lago, come l’asta d’una freccia. Alla sua estremità c’era quella che un tempo, suppongo, era stata un’isoletta. Era a circa due terzi di distanza. Sopra i suoi alberi spuntavano le torrette d’un piccolo castello.

Conducemmo i cavalli al passo per la discesa ripida, fino alla strettoia dove il sentiero diventava simile all’asta della freccia. Lì non c’erano felci che potessero nascondere estranei in marcia di avvicinamento: erano state estirpate, e la collina era coperta dai fiorellini azzurri. Quando arrivammo alla strettoia, vidi che era un camminamento sopraelevato di pietra. Il luogo cui eravamo diretti era ancora un’isola. Pervenimmo al termine del camminamento, e c’era un varco d’una dozzina di metri tra quel punto ed un molo sulla sponda opposta. Lur si staccò dalla cintura un minuscolo corno e suonò. Cominciò a cigolare un ponte levatoio, che scese sopra il varco. L’attraversammo, e ci trovammo in mezzo ad una guarnigione composta dalle sue donne. Salimmo al galoppo una strada tortuosa, e mentre ci allontanavamo udii il cigolio del ponte che si rialzava. Ci arrestammo davanti alla dimora dell’Incantatrice.

Alzai gli occhi e la guardai con interesse: non perché mi fosse ignota, che anzi non lo era. Ma stavo pensando che non avevo mai visto un castello simile costruito con quella strana pietra verde e con tante torrette. Sì, li conoscevo bene. «Castelli per dame», li avevano chiamati: Iana’rada, dimore per le favorite, luoghi per riposare, posti per fare l’amore dopo la guerra o quando si era stanchi degli affari di Stato.

Le donne vennero a prendere i cavalli. Si spalancarono grandi porte di legno levigato. Lur mi condusse oltre la soglia.

Molte fanciulle si fecero avanti, portando vino. Bevvi, assetato. La bizzarra euforia ed il senso di distacco s’intensificavano. Mi sembrava di essermi destato da un lungo, lungo sonno, e non ero completamente desto, ancora turbato dai ricordi dei sogni. Ma ero sicuro che non erano stati tutti sogni. Il vecchio sacerdote che mi aveva destato nel deserto che un tempo era stato la fertile terra degli Ayjir… Non era stato un sogno. Eppure la gente tra cui mi ero destato non era stata il popolo degli Ayjir. Questa non era la terra degli Ayjir, eppure gli abitanti appartenevano all’antica stirpe! Come ero giunto fin lì? Dovevo essermi addormentato di nuovo nel tempio dopo che… dopo che… per Zarda, dovevo farmi strada a tentoni! Essere prudente. Poi venne un impulso implacabile che spazzò via ogni pensiero di prudenza, una ruggente gioia di vivere, una libertà frenetica, come di colui che, rinchiuso a lungo in un carcere, vede all’improvviso le sbarre spezzarsi e davanti a sé la tavola imbandita della vita, con tutto ciò che gli era stato negato, lì a sua disposizione. E immediatamente dopo venne la fulminea certezza che io ero Leif Langdon e sapevo perfettamente come ero giunto in quel luogo, sapevo che in un modo o nell’altro dovevo ritornare a Evalie ed a Jim. Questi ultimi lampi erano rapidi come il fulmine, e altrettanto brevi.

Mi accorsi che non ero più nell’atrio del castello, bensì in una camera più piccola, ottagonale, con finestre a due battenti e le pareti coperte di tappezzerie. C’era un letto ampio e basso. C’era una tavola luccicante d’oro e di cristalli; su di essa ardevano alte candele. La mia blusa era sparita, e al suo posto indossavo una leggera tunica di seta. Le finestre erano aperte, e l’aria fragrante entrava frusciando. Mi affacciai. Sotto di me c’erano le torrette, più piccole ed il tetto del castello. Molto più sotto si stendeva il lago. Guardai da un’altra finestra. La cascata, con le sue fantasime ondeggianti, bisbigliava e chioccolava a meno di trecento metri.

Sentii sul capo il tocco di una mano che poi mi scivolò sulla spalla. Mi voltai di scatto. L’Incantatrice era accanto a me.

Mi parve di rendermi conto soltanto allora, per la prima volta, della sua bellezza, di vederla chiaramente per la prima volta. I capelli color ruggine erano intrecciati e acconciati a corona: splendevano come oro rosso, e vi era allacciato un filo di zaffiri. Ma i suoi occhi erano più splendenti di quelle gemme. La succinta veste di mussolina azzurra rivelava ogni incantevole, sensuale linea del suo corpo. Le spalle candide ed uno dei seni squisiti erano scoperti. Le turgide labbra rosse promettevano… tutto, e nonostante la sottile crudeltà che vi era impressa, affascinavano.

C’era stata una ragazza bruna… chi era? Ev… Eval… il nome mi sfuggiva… non importava… era come uno spettro in confronto a quella donna… come una delle fantasime di nebbia che aleggiavano ai piedi della cascata…

L’Incantatrice lesse ciò che vi era nei miei occhi. La sua mano mi lasciò la spalla, mi si posò sul cuore. Si piegò, più vicina, con gli azzurri occhi languidi… eppure stranamente intenti.

«E tu sei veramente Dwayanu?»

«Sì… nessun altro, Lur.»

«Chi era Dwayanu… tanto e tanto e tanto tempo fa?»

«Questo non so dirtelo, Lur… Ho dormito molto a lungo e nel sonno ho dimenticato molte cose. Eppure… io sono lui.»

«E allora guarda… e ricorda.»

La sua mano lasciò il mio cuore, mi si posò sulla testa; Lur indicò la cascata. Lentamente il suo fruscio cambiò, divenne un rullo di tamburi, il trepestìo dei cavalli, il passo di uomini in marcia. Quei suoni diventarono più forti e più forti. La cascata fremette, spiegandosi sopra il precipizio nero come una gigantesca cortina. Da ogni parte le fantasime di nebbia accorrevano, fondendosi in essa. I tamburi suonavano, sempre più nitidi. E all’improvviso la cascata svanì. Al suo posto c’era una grande città circondata da mura. Due eserciti stavano combattendo, ed io sapevo che le forze degli assedianti venivano ricacciate. Udii il tuono degli zoccoli di centinaia di cavalli. Contro i difensori si avventò una fiumana di cavalieri. Il loro comandante indossava una lucente cotta di maglia. Non aveva elmo, ed i capelli gialli sventolavano nell’aria, dietro di lui. Girò la testa. E il suo volto era il mio! Udii un urlo ruggente: «Dwayanu!» La carica colpì come un fiume in piena, travolse i difensori, li sommerse.

Vidi un esercito in rotta, disperso da compagnie armate di martelli da lancio.

Cavalcai con il comandante dai capelli gialli, entrando nella città espugnata. E sedetti con lui su un trono conquistato mentre implacabile e spietato mandava a morte gli uomini e le donne trascinati davanti a lui, e sorrideva alle voci di rapina e di saccheggio che si levavano all’esterno. Cavalcai e sedetti con lui, ho detto, perché non ero più nella camera dell’Incantatrice, bensì con quell’uomo dai capelli gialli che era il mio gemello, e vedevo ciò che lui vedeva, udivo ciò che lui udiva… e pensavo ciò che lui pensava.

Battaglie dopo battaglie, tornei e festini e trionfi, cacce con i falconi e cacce con i grandi cani nella bella terra degli Ayjir, il gioco del martello e il gioco dell’incudine… Io li vidi, sempre accanto a Dwayanu come un’ombra invisibile. Andai con lui nei templi, quando adorava gli dèi. Andai con lui al Tempio del Dissolutore… il Nero Khalk’ru, più Grande degli Dèi… e lui portava l’anello che riposava sul mio petto. Ma quando egli entrò nel tempio di Khalk’ru, io mi fermai. La stessa resistenza profonda ed ostinata che mi aveva bloccato quando avevo avuto la visione del portale del tempio dell’oasi mi fermò. Udii due voci. Una mi esortava ad entrare con Dwayanu. L’altra sussurrava che non dovevo farlo. E non potevo disobbedire a quella voce.

E poi, all’improvviso, la terra degli Ayjir svanì. Stavo guardando la cascata e le aleggianti fantasime di nebbia. Ma… ero Dwayanu!

Ero interamente Dwayanu! Leif Langdon aveva cessato di esistere!

Eppure aveva lasciato ricordi… ricordi che erano sogni ricordati a mezzo, ricordi di cui non riuscivo a sondare l’origine: ma sapevo che, pur essendo soltanto sogni, erano veritieri. Mi dicevano che la terra degli Ayjir su cui avevo regnato era scomparsa completamente, come il suo fantasma che avevo visto nella cascata; che da allora erano trascorsi secoli e secoli polverosi, che altri imperi erano sorti e caduti; che quella era una terra aliena e serbava soltanto un barlume dell’antica gloria.

Ero stato re-guerriero e sacerdote-guerriero, e avevo tenuto nelle mie mani un impero e le vite ed i destini di un’intera razza.

Ora… non più!

XVI I BACI DI LUR

Una cupa angoscia e ceneri amare erano nel mio cuore, quando voltai le spalle alla finestra. Guardai Lur. Dai piedi snelli fino alla testa splendente la guardai, e la cupa angoscia si attenuò e le ceneri amare si dispersero.

Le posai le mani sulle spalle e risi. Luka aveva fatto girare la sua ruota e ne aveva fatto volar via dall’orlo il mio impero, come polvere dal tornio del vasaio. Mi aveva però lasciato qualcosa. In tutta l’antica terra degli Ayjir c’erano state ben poche donne come quella.

Sia lode a Luka! Un sacrificio a lei, domattina, se questa donna si rivelerà per ciò che penso che sia!

Il mio impero scomparso! Che importava? Ne avrei costruito un altro. Mi bastava di essere vivo!

Risi ancora. Misi la mano sotto il mento di Lur, alzai il suo viso verso il mio, posai le labbra sulle sue. Lei mi respinse. C’era collera nei suoi occhi… e dubbio, sotto la collera.

«Mi hai ordinato di ricordare. Ebbene, ho ricordato. Perché hai spalancato le porte della memoria, Incantatrice, se non avevi deciso di accettare ciò che ne sarebbe uscito? Oppure sapevi di Dwayanu meno di quanto hai finto di sapere?»

Lur arretrò di un passo; disse, furiosamente: «Io i miei baci li dono. Nessuno può prenderseli.»

La strinsi tra le braccia, premetti la sua bocca contro la mia, poi la lasciai.

«Io li prendo.»

Le colpii il polso destro. C’era un pugnale, stretto nella sua mano. Ero divertito; mi chiesi dove l’aveva tenuto nascosto. Lo tolsi alla sua stretta e me lo infilai nella cintura.

«E tolgo i pungiglioni a quelle che bacio. Così faceva Dwayanu nei tempi andati, e così fa oggi.»

Lei indietreggiò, con gli occhi dilatati. La capivo. Mi aveva creduto diverso da ciò che ero, mi aveva immaginato sciocco, impostore ed ingannatore. E aveva pensato di intrappolarmi, di piegarmi al suo volere. D’incantarmi. A me… Dwayanu, che conoscevo le donne come conoscevo la guerra. Eppure…

Era bellissima… ed era tutto ciò che avevo in quella terra aliena, per incominciare a costruire il mio regno. La scrutai, mentre mi stava di fronte, ad occhi sbarrati. Parlai, e le mie parole erano fredde come i miei pensieri.

«Non giocare più con i pugnali… né con me. Chiama i tuoi servitori. Ho fame e sete. Quando avrò mangiato e bevuto, parleremo.»

Lur esitò, poi batté le mani. Entrarono molte donne con piatti fumanti, caraffe di vino, frutta. Mangiai, famelico. Bevvi parecchio. Mangiai e bevvi, pensando poco a Lur… ma pensando molto a ciò che mi aveva fatto vedere la sua stregoneria, riassumendo ciò che ricordavo, dall’oasi nel deserto fino a quell’istante. Non era molto. Mangiai e bevvi in silenzio. Sentivo i suoi occhi su di me. L’incontrai, li sostenni e sorrisi.

«Tu pensavi di asservirmi alla tua volontà, Lur. Non pensarlo mai più!»

Appoggiò la testa tra le mani e mi guardò, attraverso la tavola.

«Dwayanu è morto tanto, tanto tempo fa. La foglia avvizzita può rinverdire?»

«Io sono lui, Lur.»

Lei non rispose.

«Che cosa hai pensato quando mi hai condotto qui, Lur?»

«Sono stanca di Tibur, stanca della sua risata, stanca della sua stupidità.»

«Che altro?»

«Sono stanca di Yodin. Tu ed io… soli, potremmo regnare su Karak, se…»

«Quel ‘se’ è il nocciolo del problema, Incantatrice. E qual è?»

Lei si alzò, si tese verso di me.

«Se tu puoi evocare Khalk’ru!»

«E se non posso?»

Scrollò le spalle candide e si lasciò ricadere sul suo seggio. Io risi.

«In tal caso, Tibur non sarà tanto noioso, e Yodin non sarà tanto insopportabile. Ora ascoltami, Lur. Era la tua voce, quella che ho sentito esortarmi ad entrare nel Tempio di Khalk’ru? Tu vedevi quello che io vedevo? Non è necessario che tu risponda. Ti leggo come un libro aperto, Lur. Tu vuoi sbarazzarti di Tibur. Ebbene, forse potrò ucciderlo. Tu vuoi sbarazzarti di Yodin. Ebbene, chiunque io sia, se posso evocare colui che è più Grande degli Dèi, non ci sarà più bisogno di Yodin. Eliminati Tibur e Yodin, rimarremmo soltanto io e te. Tu pensi che potresti dominarmi… Ma non ci riusciresti mai, Lur.»

Lei mi aveva ascoltato tranquillamente, e mi rispose con la stessa tranquillità.

«Tutto questo è vero…»

Esitò. Gli occhi le si accesero. Un lieve rossore le si sparse sul petto e sulle guance.

«Eppure… potrebbe essere per un’altra ragione che ti ho condotto…»

Non le chiesi quale fosse quella ragione: molte donne avevano cercato d’intrappolarmi con quell’astuzia. Il suo sguardo mi abbandonò e la crudeltà della bocca rossa spiccò, nuda, per un istante.

«Che cos’hai promesso a Yodin, Incantatrice?»

Si alzò e mi tese le braccia, con voce tremante…

«Sei meno di un uomo… per potermi parlare così! Non ti ho forse offerto il potere da dividere con me? Non sono bella… e non sono desiderabile?»

«Sei molto bella, molto desiderabile. Ma ho sempre scoperto le trappole che mi riservava una città, prima di conquistarla.»

I suoi occhi, a quelle parole, divennero fuochi azzurri. Mosse un passo verso la porta, in fretta. Fui più svelto di lei. L’afferrai, strinsi la mano che aveva alzato per colpirmi.

«Che cos’hai promesso al Gran Sacerdote, Lur?» Le puntai il pugnale alla gola. I suoi occhi balenarono, senza paura. Luka… gira la tua ruota in modo che io non debba uccidere questa donna!

Il suo corpo teso si rilassò; rise.

«Rinfodera il pugnale; te lo dirò.»

La lasciai, e ritornai al mio seggio. Lei mi studiò, al di là della tavola; disse, in tono quasi incredulo: «Mi avresti uccisa!»

«Sì,» risposi.

«Ti credo. Chiunque tu sia, Capelli Gialli… non esiste un uomo come te.»

«Chiunque io sia… Incantatrice?»

Si agitò, spazientita.

«È inutile continuare a fingere, tra noi.» La sua voce era carica di collera. «Ne ho abbastanza di menzogne… ed è meglio per entrambi se anche tu ne hai abbastanza. Chiunque tu sia… non sei Dwayanu. Torno a dire che la foglia avvizzita non può rinverdire, ed i morti non tornano.»

«Se non sono lui, allora da dove vengono i ricordi che tu hai contemplato insieme a me poco fa? Sono passati dalla tua mente alla mia, Incantatrice… o dalla mia mente alla tua?»

Lur scosse il capo, ed io scorsi ancora una volta un dubbio furtivo rannuvolarle gli occhi.

«Non ho visto nulla. Volevo che tu vedessi… qualcosa. Tu mi sei sfuggito. Qualunque cosa tu abbia visto… io non c’entro. E non ho potuto piegarti alla mia volontà. Non ho visto nulla.»

«Io ho visto l’antica terra, Lur.»

Lei fece, imbronciata: «Io non ho potuto superarne la soglia.»

«Cosa mi hai mandato a cercare nella terra degli Ayjir per conto di Yodin, Incantatrice?»

«Khalk’ru» rispose lei, apertamente.

«E perché?»

«Perché allora avrei saputo con certezza, al di là di ogni possibilità di dubbio, se tu eri in grado di evocarlo. È questo che avevo promesso a Yodin di scoprire.»

«E se io fossi in grado di evocarlo?»

«Allora avresti dovuto venire ucciso, prima che ne avessi la possibilità.»

«E se non fossi stato in grado di farlo?»

«Allora gli verresti offerto nel tempio.»

«Per Zarda!» imprecai. «L’accoglienza riservata a Dwayanu è ben diversa da quella che riceveva un tempo…, o se preferisci, l’ospitalità che offrite ad uno straniero non è tale da incoraggiare i viaggiatori. Ora, sono d’accordo con te sulla necessità di eliminare Tibur e il sacerdote. Ma perché non dovrei incominciare da te, Incantatrice?»

Lur si appoggiò alla spalliera, sorridendo.

«Innanzi tutto… perché non ti sarebbe di alcuna utilità, Capelli Gialli. Guarda.»

Mi chiamò con un cenno ad una delle finestre. Di lì potevo vedere il camminamento e la collina liscia sulla quale eravamo sbucati emergendo dalla foresta. C’erano soldati lungo il camminamento, e in cima all’altura ce n’era un’intera compagnia. Capii che Lur aveva ragione… neppure io sarei riuscito a passare illeso. L’antica rabbia gelida cominciò a ingigantire dentro di me. Lur mi sorvegliava, con occhi beffardi.

«Ed in secondo luogo…» continuò. «E in secondo luogo… bene, ascoltami, Capelli Gialli.»

Mi versai del vino, alzai il calice verso di lei e bevvi.

Lei disse: «In questa terra, la vita è piacevole. Piacevole almeno per noi che vi regnamo. Non desidero cambiarla… se non per quanto riguarda Tibur e Yodin. E un’altra cosa di cui ti parlerò più avanti. So che il mondo si è modificato da quando, tanto e tanto tempo fa, i nostri antenati fuggirono dalla terra degli Ayjir. So che vi è la vita, fuori da questo luogo riparato dove Khalk’ru guidò gli antenati. Lo sanno anche Tibur e Yodin, e pochi altri. Altri ancora lo intuiscono. Ma nessuno di noi desidera lasciare questo luogo piacevole… e non vogliamo che venga invaso. In particolare, non vogliamo che il nostro popolo lo lasci. E ci si proverebbero in molti, se sapessero che vi sono campi verdi e boschi e fiumi, ed un mondo brulicante di uomini, fuori di qui. Per anni innumerevoli, è stato insegnato loro che in tutto il mondo la vita non esiste, al di fuori di qui; che Khalk’ru, sdegnato dal Grande Sacrilegio, quando la terra degli Ayjir insorse e distrusse i suoi templi, annientò la vita tranne qui, e che qui esiste solo per la longanimità di Khalk’ru, e persisterà solo fino a quando gli verrà offerto l’antico Sacrificio. Mi segui, Capelli Gialli?»

Annuii.

«La profezia di Dwayanu è antica. Egli era il più grande dei re degli Ayjir. Visse cento o più anni prima che gli Ayjir cominciassero ad allontanarsi da Khalk’ru, ad opporsi al Sacrificio… e che per punizione il deserto cominciasse a invadere la loro terra. E quando l’inquietudine crebbe, e si preparò la grande guerra che doveva distruggere gli Ayjir, nacque la profezia. Dwayanu sarebbe ritornato per riportare l’antica gloria. Non è una storia nuova, Capelli Gialli. Altri hanno avuto i loro Dwayanu… il Redentore, il Liberatore, il Vincitore del Fato… o almeno così ho letto nei rotoli che i nostri antenati portarono con sé quando fuggirono. Io non credo a quelle storie; possono venire nuovi Dwayanu, ma quelli antichi non ritornano. Eppure il popolo conosce la profezia, e crederà a qualunque cosa che gli prometta la liberazione da qualcosa che non ama. È tra i popolani che vengono scelte le vittime per Khalk’ru… e perciò non amano il Sacrificio. Ma poiché tutti temono ciò che avverrebbe se non vi fossero più sacrifici… li tollerano.

«Ed ora, Capelli Gialli… veniamo a te. Quando ti ho visto per la prima volta, ti ho sentito gridare che eri Dwayanu. Mi sono consultata con Yodin e Tibur. Allora credevo che venissi da Sirk. Poi ho capito che non era possibile. C’era un altro con te…»

«Un altro?» chiesi, sinceramente stupito.

Lur mi guardò, con sospetto.

«Non lo ricordi?»

«No. Ricordo di aver visto te. Avevi un falcone bianco. C’erano altre donne con te. Ti ho vista dal fiume.»

Lei si sporse, con uno sguardo intento.

«Ricordi i Rrrllya… il Piccolo Popolo? Una ragazza bruna che si chiamava Evalie?»

Il Piccolo Popolo… una ragazza bruna… Evalie? Sì, ricordavo qualcosa… ma vagamente. Li avevo visti in sogni poi dimenticati, forse. No… erano stati veri… Ma lo erano realmente?

«Mi pare di rammentare qualcosa di loro, Lur. Ma nulla di chiaro.»

Lei mi guardò fissa, con una curiosa espressione di esultanza.

«Non importa,» rispose. «Non cercare di pensare a loro. Tu non eri… desto. Più tardi parleremo di loro. Sono nemici. Non importa… continua a seguirmi, adesso. Se fossi venuto da Sirk, spacciandoti per Dwayanu, avresti potuto essere un richiamo per i nostri scontenti. Forse addirittura il capo di cui hanno bisogno. Se venivi dall’esterno… eri ancora più pericoloso, poiché potevi dimostrare che avevamo mentito. Non solo la popolazione, ma anche i soldati avrebbero potuto seguirti. E probabilmente l’avrebbero fatto. Che altro potevamo fare se non ucciderti?»

«Niente,» replicai. «Ora mi domando perché non lo avete fatto quando ne avete avuto la possibilità.»

«Tu avevi complicato tutto,» disse Lur. «Avevi mostrato l’anello. L’avevano visto in molti, e molti ti avevano sentito affermare che eri Dwayanu…»

Ah, sì! Ora lo ricordavo. Ero risalito dal fiume. Come ero finito nel fiume? Il ponte… Nansur… era successo qualcosa… era tutto nebuloso, nulla di preciso… il Piccolo Popolo., sì, ricordavo qualcosa… quelli avevano paura di me… ma io non avevo nulla contro di loro… cercavo invano di conferire una parvenza d’ordine a quelle vaghe visioni. La voce di Lur richiamò i miei pensieri vaganti.

«E quindi,» stava dicendo, «ho fatto capire a Yodin che non era opportuno ucciderti così. Si sarebbe risaputo, e avrebbe causato troppe inquietudini… e avrebbe rafforzato Sirk, per esempio. Avrebbe suscitato malcontento tra i soldati. Come… Dwayanu era venuto e noi l’avevamo assassinato!

«‘Lo prenderò io,’ ho detto a Yodin. ‘Non mi fido di Tibur che, nella sua stupidità e nella sua arroganza, potrebbe facilmente distruggerci tutti. C’è un sistema migliore. Che Khalk’ru lo divori, e dimostri che noi abbiamo ragione e che lui è un mentitore vanaglorioso. Allora non accadrà tanto presto che compaia qualcun altro a vantarsi di essere Dwayanu’!»

«Dunque neppure il Gran Sacerdote crede che io sia Dwayanu?»

«Lo crede meno ancora di me, Capelli Gialli,» disse Lur, sorridendo. «E neppure Tibur. Ma chi sei, e da dove vieni, e come e perché… questo li rende perplessi non meno di me. Tu somigli agli Ayjir… ma questo non vuol dir niente. Hai gli antichi segni sulle mani… ebbene, ammettiamo che tu sei del sangue antico. Li ha anche Tibur… e lui non è il Redentore!» La sua risata tintinnò di nuovo, come minuscoli campanelli. «Hai l’anello. Dove l’hai trovato, Capelli Gialli? Perché sai ben poco come usarlo. Yodin l’ha accertato. Quando tu dormivi. E Yodin ti ha visto cambiare colore e quasi fuggire, quando hai visto Khalk’ru nella sua camera. Non negarlo, Capelli Gialli. L’ho visto io stessa. Ah no… Yodin non teme un rivale, per quanto riguarda il Dissolutore. Eppure… non è del tutto certo. Vi è una lievissima ombra di dubbio. E perciò… tu sei qui.»

La guardai con aperta ammirazione; levai di nuovo il calice e bevvi in suo onore. Battei le mani, e le ancelle entrarono.

«Sparecchiate la tavola. Portate il vino.»

Tornarono con altre caraffe e altri calici. Quando furono uscite di nuovo, andai alla porta. C’era una pesante sbarra, per chiuderla. L’abbassai. Presi una caraffa e la vuotai a mezzo.

«Io posso evocare il Dissolutore, Incantatrice.»

Lei trasse un profondo respiro, bruscamente; tremò; i fuochi azzurri nei suoi occhi ardevano… ardevano.

«Devo mostrartelo!»

Staccai l’anello dal medaglione, me l’infilai al pollice, alzai le mani nella fase iniziale del saluto…

Un soffio gelido parve invadere la stanza. L’Incantatrice balzò verso di me, mi abbassò la mano. Le si erano sbiancate le labbra.

«No! No! Ti credo… Dwayanu!»

Risi. Lo strano freddo si dileguò, furtivamente.

«Ed ora, Incantatrice, cosa dirai al sacerdote?»

Il sangue le riaffluiva lentamente alle labbra e al volto. Alzò la caraffa e la vuotò. La sua mano era salda. Una donna ammirevole… quella Lur!

Lei disse: «Gli dirò che non possiedi il potere.»

Ed io: «Evocherò il Dissolutore. Ucciderò Tibur. Ucciderò Yodin… che altro c’è?»

Lur mi si avvicinò, sfiorandomi il petto con il suo.

«Distruggi Sirk. Spazza via i nani. Allora io e te regneremo… soli.»

Bevvi altro vino.

«Evocherò Khalk’ru; eliminerò Tibur e il sacerdote; saccheggerò Sirk e farò guerra ai nani, se…»

Lei mi guardò negli occhi, a lungo, molto a lungo; mi passò un braccio intorno alla spalla…

Tesi una mano e spazzai via le candele. L’oscurità verde della notte del miraggio filtrò dalle finestre. Il mormorio della cascata era una risata sommessa.

«Prendo il mio prezzo in anticipo,» dissi. «Questa era l’usanza di Dwayanu, nei tempi andati… ed io non sono forse Dwayanu?»

«Sì!» sussurrò l’Incantatrice.

Si tolse dai capelli il filo di zaffiri, sciolse le trecce, scuotendone le ciocche d’oro-ruggine. Le sue braccia mi cinsero il collo. Le sue labbra cercarono le mie, vi aderirono.

Sul camminamento risuonava il calpestìo degli zoccoli dei cavalli. Un grido lontano. Un bussare alla porta. L’Incantatrice si svegliò, si levò a sedere, assonnata, sotto la tenda serica della sua chioma.

«Sei tu, Ouarda?»

«Sì, padrona. Un messaggero da parte di Tibur.»

Io risi.

«Digli che sei occupata con i tuoi dèi. Lur.»

Lur piegò la testa sulla mia, in modo che la tenda serica ci coprisse entrambi.

«Digli che sono occupata con gli dèi, Ouarda. Può attendere fino a domattina… o ritornare da Tibur con questo messaggio.»

Si lasciò ricadere, premette le labbra sulle mie…

Per Zarda! Era come un tempo… nemici da uccidere, una città da saccheggiare, una nazione da combattere e le morbide braccia di una donna che mi cingevano.

Ero soddisfatto!

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