IL LIBRO DEL MIRAGGIO

V IL MIRAGGIO

Jim era rimasto seduto in silenzio a scrutarmi, ma di tanto in tanto ne avevo visto la faccia perdere quel suo stoicismo indiano. Si tese e mi posò la mano sulla spalla.

«Leif,» disse sottovoce, «come potevo saperlo? Per la prima volta ti ho visto spaventato… e ne ho sofferto. Non sapevo…»

Da parte di Tsantawu il Cherokee, era già molto.

«Tutto a posto, indiano. Lascia perdere,» dissi, sgarbatamente.

Lui rimase in silenzio per qualche tempo, gettando ramoscelli sul fuoco.

«E che cosa disse il tuo amico Barr?» mi domandò all’improvviso.

«Mi fece una scenata d’inferno,» dissi io. «Mi fece una scenata d’inferno, con la faccia inondata di lacrime. Disse che nessuno aveva mai tradito la scienza come avevo fatto io, da quando Giuda aveva baciato Cristo. Era bravissimo a snocciolare metafore complicate che colpivano il segno. E mi colpirono a fondo, perché era esattamente quello che pensavo di me stesso… non tanto per quanto riguarda la scienza, ma per quella ragazza. Le avevo dato veramente il bacio di Giuda. Barr disse che mi era stata offerta l’occasione più grande della storia. Avrei potuto risolvere il mistero del Gobi e della sua civiltà perduta, ed ero scappato via come un bambino atterrito da un babau. Non ero una anticaglia soltanto fisicamente, lo ero anche nel cervello. Ero un selvaggio biondo che tremava di paura davanti a quattro formule magiche. Disse che, se fosse capitata a lui la stessa occasione, si sarebbe fatto crocifiggere, pur di scoprire la verità. E lo avrebbe fatto davvero, per giunta. Non mentiva.»

«Ammirevole, dal punto di vista scientifico,» disse Jim. «Ma cosa disse a proposito di quello che tu avevi visto?»

«Che si trattava semplicemente di suggestione ipnotica da parte del vecchio sacerdote. Io avevo visto quel che lui aveva voluto che io vedessi… così come prima, guidato dalla sua volontà, avevo visto me stesso arrivare al tempio. La ragazza non si era dissolta. Probabilmente rimaneva nascosta a ridere di me. Ma se tutto ciò che la mia mente ignorante aveva accettato come verità era realmente la verità, allora il mio comportamento era ancora meno perdonabile. Avrei dovuto restare, studiare i fenomeni e riferire i risultati alla scienza che li avrebbe analizzati. Ciò che gli avevo detto del Rituale di Khalk’ru non era altro che la Seconda Legge della Termodinamica, espressa in termini d’antropomorfismo. La vita era veramente un’intrusa nel Caos, usando questa parola per indicare lo stato informe e primordiale dell’universo. Un invasione. Un incidente. Con il tempo tutta l’energia si sarebbe trasformata in calore statico, incapace di generare la vita. Gli universi morti avrebbero galleggiato nel vuoto illimitato. Il vuoto era eterno, la vita no. Perciò il vuoto l’avrebbe veramente assorbita. I soli, i mondi, gli dèi, gli uomini, tutti gli esseri animali sarebbero ritornati al vuoto. Ritornati al Caos. Al Nulla. A Khalk’ru. Oppure, se il mio cervello atavistico preferiva quel termine… al Kraken. Era furibondo.»

«Ma tu hai detto che anche gli altri avevano visto prendere la ragazza. Barr come lo spiegava?»

«Oh, facilmente. Era ipnosi collettiva… come gli Angeli di Mons, gli arcieri fantasma di Crécy e altre allucinazioni collettive della guerra. Io avevo funto… da catalizzatore. La mia somiglianza con l’antica razza tradizionale, la mia completezza di regressione atavica, la mia perfetta conoscenza del Rituale di Khalk’ru, la fede che gli uiguri avevano in me… tutto questo era stato l’elemento necessario per creare l’allucinazione collettiva del tentacolo. Ovviamente i sacerdoti da molto tempo cercavano di rendere operante una droga per la quale mancava una sostanza chimica essenziale. Per qualche ragione, io ero l’elemento mancante… il catalizzatore. Ecco tutto.»

Jim continuò a riflettere, spezzando i fuscelli.

«Come spiegazione è ragionevole. Ma tu non eri convinto?»

«No, non ero convinto… ho visto la faccia della ragazza, quando il tentacolo l’ha toccata.»

Jim si alzò, si voltò a guardare verso settentrione.

«Leif,» chiese improvvisamente, «che cosa ne hai fatto di quell’anello?»

Tirai fuori il sacchetto di pelle, l’aprii e gli consegnai l’anello. Jim lo esaminò attentamente, poi me lo rese.

«Perché lo hai conservato, Leif?»

«Non lo so.» M’infilai l’anello al pollice. «Non lo restituii al vecchio sacerdote; lui non me lo chiese. Oh, diavolo… ti dirò perché l’ho conservato… per la stessa ragione per cui il Vecchio Marinaio di Coleridge si era legato al collo l’albatross morto. Per non dimenticare che sono un assassino.»

Riposi l’anello nel sacchetto di pelle, e me lo lasciai ricadere sul collo. Dal Nord giunse, fievole, un rullo di tamburi. Questa volta non sembrava portato dal vento. Pareva trasmesso dal suolo, e moriva a grande profondità, sotto di noi.

«Khalk’ru!» esclamai.

«Bene, non facciamo aspettare il vecchio signore,» disse gaiamente Jim.

Si diede da fare con gli zaini, fischiettando. All’improvviso si girò verso di me.

«Ascoltami, Leif. Le teorie di Barr mi sembrano fondate. Non dico che se fossi stato al tuo posto le avrei accettate. Forse hai ragione tu. Ma sono d’accordo con Barr, fino a quando gli avvenimenti (se, quando e come avverranno) dimostreranno che lui aveva torto.»

«Magnifico!» dissi di cuore, senza il minimo sarcasmo. «Spero che il tuo ottimismo duri fino a quando saremo tornati a New York… se, come e quando.»

Ci caricammo in spalla gli zaini, prendemmo i fucili e ci avviammo verso settentrione.

Il terreno non era faticoso, ma il cammino quasi continuamente in salita. Il suolo era in pendenza, qualche volta al punto di toglierci il fiato. La foresta, insolitamente fitta ed alta per quella latitudine, cominciò a diradarsi. L’aria diventò sempre più fresca. Dopo aver percorso all’incirca venticinque chilometri, ci trovammo in un territorio di alberi radi e stenti. Otto chilometri più avanti c’era una catena alta trecento metri di nude rocce. Oltre questa, si scorgeva una massa di montagne, alte da milleduecento a millecinquecento metri, prive d’alberi, con le vette ricoperte di neve e di ghiaccio, tagliate da numerosi burroni che spiccavano luccicanti come ghiacciai in miniatura. Tra noi e la catena più vicina si stendeva una piana, coperta da piccoli arbusti di rose selvatiche, di ribes e di altre bacche, e rivestita dei rossi e degli azzurri e dei verdi brillanti della breve estate dell’Alaska.

«Se ci accampiamo alla base di quelle colline, saremo al riparo dal vento,» dissi a Jim. «Sono le cinque. Dovremmo farcela in un’ora.»

Ci incamminammo. Storni di pernici sfrecciarono via, intorno a noi, prendendo il volo dagli arbusti come minuscoli proiettili bruni; pivieri dorati e chiurli fischiavano da ogni parte; ad un tiro di schioppo stava pascolando un branchetto di caribù, e le piccole gru brune si aggiravano dovunque. Nessuno poteva morire di fame, in quella zona, e dopo aver preparato il campo cenammo benissimo.

Non udimmo alcun suono, quella notte… se anche ce ne furono, dormivamo troppo profondamente per sentirli.

La mattina dopo discutemmo il percorso da seguire. La bassa catena stava direttamente davanti a noi, verso Nord. Continuava, aumentando di altezza, tanto a destra che a sinistra. Non presentava serie difficoltà, dal punto in cui ci trovavamo: o almeno, così sembrava. Decidemmo di scalarla, prendendocela con comodo. Fu più difficile di quanto ci era parso: impiegammo due ore per arrivare in cima.

Ci avviammo lungo il crinale verso una fila di enormi macigni che si stendevano davanti a noi come una muraglia. Ci infilammo tra due di essi, e ci affrettammo ad arretrare. Eravamo sull’orlo d’un precipizio che scendeva per un centinaio di metri, a picco, verso il fondo di una stranissima valle, cinta dalle montagne ammantate di neve e di ghiacci. All’estremità opposta, ad una trentina di chilometri di distanza, c’era un picco a forma piramidale.

Al centro, dalla cima al fondovalle, scendeva una lucente striscia bianca: indubbiamente era un ghiacciaio che riempiva un crepaccio, tagliato nettamente nella montagna come se fosse stato aperto da un unico colpo di spada. La valle non era larga, non più di otto chilometri, calcolai, nel punto più ampio. Era lunga e stretta, chiusa all’estremità più lontana dal gigante squarciato dal ghiacciaio: i fianchi erano formati dalle pareti delle altre montagne che, salvo qua e là dove c’erano state delle frane, scendevano ripide quanto il precipizio sotto di noi.

Ma era il fondovalle, quello che incatenava la nostra attenzione. Sembrava un enorme campo piatto, coperto di detriti rocciosi. Laggiù il ghiacciaio fendeva quei detriti per circa metà della lunghezza della valle. Fra le rocce non si scorgeva la minima traccia di vegetazione. Non si scorgeva un po’ di verde neppure sulle montagne circostanti: solo i picchi neri e spogli, con grandi squarci pieni di neve e di ghiaccio. Era la valle della desolazione.

«Fa freddo, qui, Leif,» Jim rabbrividì.

Era freddo… un freddo strano, silenzioso e immobile. Sembrava salire fino a noi dalla valle, avvolgendoci come per costringerci a tornare indietro.

«Sarà un bel problema scendere,» feci io.

«Ed anche camminare, quando saremo scesi,» disse Jim. «Da dove diavolo vengono tutte quelle rocce, e che cosa le ha distribuite in quel modo?»

«Probabilmente sono state lasciate da quel ghiacciaio, quando si è ritirato», risposi. «Sembra la parte terminale di una morena. Anzi, questo posto pare addirittura essere stato scavato dal ghiaccio.»

«Tienimi per i piedi, Leif. Voglio dare un’occhiata.» Jim si sdraiò sul ventre e strisciò verso il ciglio del precipizio. Dopo un minuto o due lo sentii gridare, e lo trascinai indietro.

«C’è una frana, circa un quattrocento metri più avanti, sulla sinistra,» disse lui. «Non sono riuscito a vedere se arriva fino in cima. Andiamo a controllare. Leif, quanto credi che sia profonda la valle?»

«Oh, al massimo un centinaio di metri.»

«Sono trecento metri buoni, come minimo. Il precipizio va giù e poi ancora giù. Non capisco cosa faccia sembrare il fondo più vicino, da qui. È un posto molto strano.»

Riprendemmo gli zaini e ci mettemmo in cammino, costeggiando la muraglia di macigni. Dopo un po’ arrivammo ad un ampio varco. Il gelo e il ghiaccio avevano eroso la roccia, lungo qualche crepa. I detriti frantumati scorrevano giù per la ripida discesa, come beole gigantesche che portavano sino al fondovalle.

«Dovremo toglierci gli zaini, per riuscirci,» disse Jim. «Che cosa facciamo? Li lasciamo qui mentre esploriamo, oppure ce li portiamo giù?»

«Portiamoli con noi. Deve esserci una via d’uscita, laggiù ai piedi della montagna più grande.»

Iniziammo la discesa. Io stavo scavalcando una roccia, a circa un terzo di strada, quando sentii Jim lanciare una brusca esclamazione.

Era scomparso il ghiacciaio che aveva sospinto la lingua bianca tra i detriti. Erano spariti i detriti. Verso la sua estremità più lontana, il fondo della valle era coperto di dozzine di pietre nere piramidali, ognuna segnata al centro da una striscia bianca, scintillante. Erano disposte in file, ad intervalli regolari, come i dolmen degli antichi druidi. Scendevano fino a metà della valle. Qua e là, in mezzo alle pietre, si levavano fili di vapore bianco, come fumi di sacrifici.

Tra quelle pietre e noi, a lambire le nere pareti rocciose, c’era un lago azzurro, increspato! Riempiva la parte inferiore della valle, da un lato all’altro. S’increspava sulle rocce schiantate molto più in basso rispetto a noi.

Poi qualcosa, nelle file ordinate di piramidi nere, mi colpì.

«Jim! Le rocce piramidali! Ognuna di esse è una copia ridotta della montagna che sta là dietro! Hanno persino la striscia bianca!»

Mentre parlavo, il lago azzurro fremette. Fluì tra le piramidi nere, sommergendole a mezzo e spegnendo i fumi sacrificali. Coprì le piramidi. Fremette ancora. Sparì. Dove c’era stato il lago, adesso c’era di nuovo il fondovalle, coperto dai detriti morenici.

C’era stata una sfumatura bizzarra, come di un gioco di prestigio in quelle trasformazioni, come l’opera fulminea di un abile mago. Ed era stata magia… a modo suo. Ma io avevo già visto la natura compiere magie del genere.

«Diavolo!» esclamai. «È un miraggio!»

Jim non rispose. Stava guardando fisso la valle, con un’espressione strana.

«Cosa ti ha preso, Tsantawu? Stai ascoltando di nuovo gli antenati? È soltanto un miraggio.»

«Sì?» fece lui. «Ma quale? Il lago… o le rocce?»

Scrutai il fondovalle. Sembrava abbastanza reale. La teoria della morena glaciale spiegava il suo aspetto bizzarramente piatto… Inoltre, eravamo ancora ad una certa altezza, per questo ci sembrava una spianata. Quando vi fossimo arrivati, avremmo scoperto che la distribuzione dei macigni era scomodamente irregolare. Lo avrei giurato.

«Come? Il lago, naturalmente.»

«No,» disse Jim. «Io credo che siano le pietre, il miraggio.»

«Assurdo. C’è uno strato d’aria calda, laggiù. Le pietre irradiano il calore del Sole. L’aria fredda la comprime. È una delle condizioni che causano i miraggi, e infatti ne ha appena prodotto uno. Ecco tutto.»

«No,» disse lui. «Non è tutto.»

Si appoggiò alla roccia.

«Leif, l’altra notte gli antenati hanno detto qualcosa che non ti ho riferito.»

«Lo so maledettamente bene.»

«Hanno parlato di Ataga’hi. Questo non ti dice niente?»

«Assolutamente niente».

«Non ha detto nulla neanche a me… allora. Ma adesso ha un senso. Ataga’hi era un lago incantato, nella parte più selvaggia dei Great Smokies a occidente del corso superiore dell’Ocanaluftee. Era il lago della medicina per gli animali e per gli uccelli. Tutti i Cherokee sapevano che c’era, anche se pochissimi l’avevano visto. Se un cacciatore sperduto si avvicinava, vedeva soltanto una piana sassosa, senza un filo d’erba, bruttissima. Ma, con la preghiera, il digiuno ed una notte di veglia, poteva acuire la sua vista spirituale. E allora, all’alba, poteva contemplare una distesa poco profonda d’acqua violetta, alimentata da fonti che scaturivano dalle alte pareti rocciose circostanti. E nell’acqua si trovavano pesci e anfibi d’ogni specie, branchi di anitre e di oche e di altri uccelli volavano intorno, e sulle rive del lago c’erano tracce di animali. Andavano ad Ataga’hi per guarire delle ferite e delle malattie. Il Grande Spirito aveva posto un’isola, in mezzo al lago. Gli animali e gli uccelli feriti o malati la raggiungevano a nuoto. Quando ci arrivavano… le acque di Ataga’hi li avevano guariti. Salivano sulle sue rive… di nuovo sani. Su Ataga’hi regnava la pace di Dio. Tutte le creature vivevano in amicizia.»

«Stammi a sentire, indiano: vorresti farmi credere che questo è il tuo lago della medicina?»

«Non ho detto niente del genere. Ho detto che continua a tornarmi in mente il nome di Ataga’hi. Era un luogo che sembrava una piana sassosa, senza un filo d’erba, bruttissima. E lo sembra anche questo posto. Ma sotto l’illusione c’era… un lago. Noi abbiamo visto un lago. È una coincidenza bizzarra, ecco tutto. Forse la piana rocciosa di Ataga’hi era un miraggio…» Esitò. «Beh, se continuano a scomparire altre cose di cui hanno parlato gli antenati, cambierò idea e accetterò la tua versione della faccenda del Gobi.»

«Il miraggio era il lago, te lo ripeto.»

Jim scosse il capo, ostinato.

«Forse. Ma forse anche quello che vediamo laggiù è un miraggio. Forse sono miraggi tutti e due. E in questo caso, a che profondità è il vero fondovalle, e riusciremo davvero ad attraversarlo?»

Si fermò a guardare in silenzio la valle. Rabbrividì, e ancora una volta notai la strana intensità del freddo. Mi chinai e ripresi lo zaino. Avevo le mani intorpidite.

«Beh, qualunque cosa sia… scopriamolo.»

Un fremito percorse il fondovalle. All’improvviso, ridiventò lo scintillante lago azzurro. E altrettanto improvvisamente, ridivenne una distesa di rocce.

Ma non prima che mi fosse sembrato di vedere entro quel lago d’illusione — se era illusione — una forma d’ombra gigantesca, enormi tentacoli neri che si protendevano da un corpo immenso e nebuloso… un corpo che pareva svanire in lontananze incommensurabili… svanire nel vuoto… come il Kraken della caverna del Gobi era parso svanire nel vuoto… in quel vuoto che era… Khalk’ru!


Strisciammo, scivolammo, scavalcammo gli enormi frammenti schiantati. Più scendevamo, e più il freddo si faceva intenso. Era silenzioso e rabbrividente, e penetrava fino al midollo. Qualche volta lanciavamo gli zaini davanti a noi, qualche volta ce li trascinavamo dietro. E il freddo ci azzannava le ossa, sempre più rabbioso.

Più guardavo il fondovalle, e più mi sentivo sicuro della sua realtà. Tutti i miraggi che avevo avuto occasione di vedere — e in Mongolia ne avevo visti molti — erano arretrati, avevano cambiato forma e si erano dileguati via via che mi avvicinavo. Il fondovalle non faceva nulla del genere. Era vero che le pietre sembravano più tozze, mano a mano che scendevamo: ma io attribuii il fenomeno al diverso angolo di visuale.

Eravamo circa ad un trentina di metri dal termine della frana quando incominciai a sentirmi un po’ meno sicuro. La discesa era stata particolarmente difficile. La frana si era ristretta. Alla nostra sinistra la roccia era liscia, e si stendeva fino alla valle come se fosse stata spazzata da una scopa titanica. Probabilmente in quel punto si era staccato un frammento immenso, e si era frantumato formando i macigni che giacevano ammucchiati in fondo. Deviammo verso destra, dove c’era un costone di rocce, spinto a lato da quello stesso crollo. Scendemmo da quel lato.

Poiché ero il più forte, ero io che portavo i nostri fucili, appesi con una cinghia alla spalla sinistra. Portavo anche lo zaino più pesante. Arrivammo ad un punto particolarmente difficile. La pietra sulla quale mi trovavo s’inclinò all’improvviso sotto il mio peso, mi sbilanciò lateralmente. Lo zaino mi scivolò dalle mani, si rovesciò, cadde sulla roccia liscia. Automaticamente mi slanciai in avanti, cercando di afferrarlo. La cinghia che reggeva i due fucili si spezzò, e le armi scivolarono dietro allo zaino rotolante.

Era una di quelle combinazioni di circostanze che ti spingono a credere in un Dio della Sfortuna. L’incidente avrebbe potuto capitare in qualunque altro posto, durante il nostro viaggio, senza la minima conseguenza. E persino in quel momento non gli attribuii eccessiva importanza.

«Bene,» dissi, allegramente. «Questo ci risparmia la fatica di portarli. Potremmo raccattarli quando arriveremo in fondo.»

«Cioè,» disse Jim, «se c’è un fondo.»

Girai gli occhi verso la frana. I fucili avevano raggiunto lo zaino, e tutti e tre stavano scivolando velocemente.

«Ecco, ora si fermeranno,» dissi io. Erano quasi arrivati sui detriti, laggiù in basso.

«Col cavolo,» disse Jim. «Ecco là!»

Mi stropicciai gli occhi, guardai e guardai di nuovo. Lo zaino ed i fucili avrebbero dovuto venire frenati da quella barriera, in fondo alla frana. Ma non era stato così. Erano spariti.

VI LA TERRA OSCURATA

C’era stato uno strano fremito quando i fucili e lo zaino avevano toccato la barriera di roccia. Poi era sembrato che si fondessero con essa.

«Io direi che sono caduti nel lago,» fece Jim.

«Non c’è nessun lago. Sono caduti in qualche fenditura tra le rocce. Andiamo…»

Mi afferrò per la spalla.

«Aspetta, Leif. Vai piano.»

Guardai nella direzione che lui mi indicava con il dito. La barriera di pietre era sparita. Nel punto dov’era prima, continuava a scorrere la frana, in una liscia lingua di pietra che si spingeva avanti nella valle.

«Andiamo,» dissi io.

Scendemmo, vigilando cauti ogni nostro passo. Ad ogni fermata, il fondo ricoperto di detriti diventava sempre più piatto, i macigni sempre più bassi. Una nube passò sul Sole. Non c’erano macigni. Il fondovalle si stendeva sotto di noi, ed era una liscia distesa grigio-ardesia!

La frana terminava bruscamente sull’orlo di quella distesa. Le rocce finivano altrettanto nettamente, circa quindici metri più avanti. Stavano ritte sull’orlo, e facevano uno strano effetto: sembravano piantate lì al tempo in cui l’orlo era viscoso. Né la piana sembrava solida: anch’essa dava un’impressione di viscosità; era percorsa da un tremore lieve ma continuo, come le onde di calore su di una strada arroventata dal Sole… eppure ad ogni passo il freddo mordeva più forte, fino a quando divenne insopportabile.

C’era uno stretto passaggio, tra i sassi frantumati e la parete ripida alla nostra destra. Ci insinuammo, strisciando. Ci trovammo su di una immensa pietra piatta, proprio sull’orlo della strana pianura. Non era né acqua né roccia: somigliava soprattutto ad un vetro liquido, sottile e opaco, o ad un gas che fosse diventato semiliquido.

Mi distesi sulla lastra e protesi le mani per toccarla. La toccai… non incontrai resistenza: non sentii niente. Lasciai che la mia mano affondasse, lentamente. La vidi, per un momento, quasi riflessa in uno specchio deformante, e poi non la vidi più. Ma c’era un piacevole calore là sotto, dove era sparita la mia mano. Il sangue gelato cominciò a formicolare nelle dita intorpidite. Mi sporsi di più dalla pietra e immersi entrambe le braccia, fin quasi alle spalle. Era maledettamente gradevole.

Jim si lasciò cadere accanto a me e affondò le braccia.

«È aria,» disse.

«Sembra,» cominciai io… Poi all’improvviso ricordai. «I fucili e lo zaino! Se non li ritroviamo, siamo in un bel guaio!»

Lui disse: «Se Khalk’ru esiste… i fucili non serviranno a salvarci.»

«Tu credi che questo…» M’interruppi, rammentando la forma d’ombra nel lago d’illusione.

«Usunhi’yi, la Terra che si Oscura. La Terra Oscurata, la chiamava il tuo sacerdote, non è vero? Direi che questa merita tutti e due i nomi.»

Rimasi in silenzio: quale che sia la certezza di una terribile prova imminente che un uomo porta nella propria anima, non può fare a meno di ritrarsene, quando sa di essere arrivato sulla soglia. E adesso, chiaramente, io lo sapevo. Tutta la lunga strada tra il tempio di Khalk’ru nel Gobi e quel luogo del miraggio venne cancellata. Io stavo passando da quello a questo centro del potere di Khalk’ru… ciò che era stato iniziato nel Gobi doveva essere concluso. Il vecchio orrore ossessivo cominciò ad insinuarsi in me. Cercai di combatterlo.

Avrei accettato la sfida. Ormai nulla, sulla Terra, poteva trattenermi. A quella decisione, sentii l’orrore ritrarsi cupamente e abbandonarmi. Per la prima volta, dopo tanti anni, me ne ero completamente liberato.

«Voglio vedere cosa c’è laggiù.» Jim ritrasse le braccia. «Tienimi per i piedi, Leif,» e scivolò oltre l’orlo della pietra. «Ne ho tastato l’orlo e sembra che prosegua ancora per un po’.»

«Tocca prima a me,» dissi. «Dopotutto, è per me che siamo qui.»

«E io ci riuscirei proprio a tirarti su, se tu cadessi, specie di elefante. Ecco… tienimi forte.»

Ebbi appena il tempo di afferrargli le caviglie, mentre lui strisciava sopra il pietrone: poi la sua testa e le spalle scomparvero. Avanzò, strisciando lungo la roccia inclinata fino a quando le mie mani e le mie braccia vennero nascoste fino alle spalle. Jim si fermò… e poi, dalla misteriosa opacità in cui era svanito mi arrivò una pazza risata.

Lo sentii contorcersi, cercare di liberarsi i piedi dalla mia stretta. Io lo tirai indietro sulla pietra, e lui resistette per ogni centimetro. Uscì scosso da quella stessa risata folle. Aveva il volto arrossato, gli occhi lucenti come un ubriaco: in effetti, aveva tutti i sintomi di una allegra sbronza. Ma il ritmo rapido della respirazione mi disse ciò che era accaduto.

«Respira lentamente», gli gridai nell’orecchio. «Respira lentamente, ti dico.»

Poi, dato che la risata continuava ed i suoi sforzi per divincolarsi non smettevano, lo tenni bloccato a terra con un braccio, e con la mano libera gli chiusi il naso e la bocca. In un momento o due si rilassò. Lo lasciai andare, e Jim si drizzò a sedere, stordito.

«Cose stranissime,» disse con voce impastata. «Ho visto facce stranissime…»

Scosse il capo, trasse un paio di respiri profondi, e tornò a stendersi sulla pietra.

«Cosa diavolo mi è capitato, Leif?»

«Hai preso una sbornia d’ossigeno, indiano,» gli dissi. «Una bella sbronza gratuita di aria carica di anidride carbonica. E ciò spiega molte cose, a proposito di questo posto. Sei uscito respirando tre volte al secondo: è l’effetto dell’anidride carbonica. Agisce sui centri respiratori del cervello e accelera la respirazione. Tu hai malato più ossigeno di quel che ti serviva, e ti sei sbronzato. Cos’hai visto, prima che il mondo diventasse tanto strano?»

«Ho visto te,» rispose Jim. «E il cielo. Era come guardare dall’acqua. Ho guardato giù, intorno. Un po’ sotto di me c’era una specie di pavimento di nebbia verde chiara. Non riuscivo a vedere oltre. Là dentro è caldo, e si sta bene, e si sente l’odore di alberi e di fiori. È tutto quello che sono riuscito ad afferrare prima che tornasse la confusione. Oh, sì, questa frana continua a scendere. Forse potremo arrivare sino in fondo… se non moriremo a furia di ridere. Adesso vado a sedermi nel miraggio, dentro fino al collo… mio Dio, Leif, sto gelando!»

Lo guardai, preoccupato. Aveva le labbra bluastre e batteva i denti. La transizione dal caldo al freddo pungente stava facendo il suo effetto, ed era un effetto pericoloso.

«Sta bene,» dissi, alzandomi. «Andrò io per primo. Inspira con lentezza, a lungo, profondamente, con la maggiore calma possibile, ed espira nello stesso modo. Ti ci abituerai presto. Andiamo.»

Mi appesi alla schiena l’unico zaino rimasto, avanzai di traverso come un granchio oltre l’orlo della pietra, sentii sotto i piedi la roccia solida, e scesi dentro al miraggio.

Era abbastanza caldo; quasi come la sala a vapore di un bagno turco. Alzai la testa e vidi il cielo sopra di me, come un cerchio azzurro, nebuloso intorno agli orli. Poi vidi le gambe di Jim che penzolavano verso di me, mentre il suo corpo era inclinato all’indietro in un’angolazione impossibile. Lo vedevo, in pratica, come un pesce vede chi attraversa a guado il suo stagno. Poi il suo corpo si modificò, contraendosi, e lui si acquattò al mio fianco.

«Dio, come si sta bene!»

«Non parlare,» gli dissi. «Siediti qui ed esercitati a respirare lentamente. Guarda me.»

Rimanemmo lì seduti in silenzio per una mezz’ora buona. Nessun suono infrangeva il silenzio che ci avvolgeva. Aveva odore di giungla, di vegetazione lussureggiante che cresceva rapidamente e con la stessa rapidità si putrefaceva: e c’erano fragranze aliene, sfuggenti. Io vedevo soltanto il cerchio di cielo azzurro sopra di me e, circa trenta metri sotto di noi, la nebbia verdechiara di cui mi aveva parlato Jim. Sembrava un pavimento fatto di una nuvola, impenetrabile allo sguardo. La frana vi penetrava e scompariva. Non provavo fastidio né disagio, ma entrambi eravamo madidi di sudore. Osservai soddisfatto che Jim respirava profondamente, senza fretta.

«Hai qualche disturbo?» gli chiesi finalmente.

«Non molti. Ogni tanto devo schiacciare il freno. Ma credo di aver imparato il trucco.»

«Bene,» dissi io. «Fra poco cominceremo a muoverci. Non credo che troveremo di peggio, scendendo.»

«Parli come un esperto. Ad ogni modo, che idea hai di questo posto, Leif?»

«Un’idea piuttosto semplice. Anche se si tratta di una combinazione che non ha neanche una possibilità su un milione di riprodursi altrove. Qui c’è una valle ampia e profonda, interamente cinta da precipizi. In pratica, è una specie di fossa. Le montagne che la circondano sono segnate da ghiacciai e da fiumi di ghiaccio, e nella fossa c’è un flusso costante di aria fredda, anche in estate. Probabilmente, poco al di sotto del fondovalle, c’è un’attività vulcanica: sorgenti bollenti e così via. Può essere una copia in miniatura della Valle dei Diecimila Fumi, più a Ovest. Tutto questo produce l’eccesso di anidride carbonica. Molto probabilmente c’è anche una vegetazione lussureggiante, che ne aumenta la produzione. Stiamo per entrare, probabilmente, in un piccolo frammento superstite del Carbonifero… dieci milioni di anni fuori dal suo tempo. L’aria calda e pesante riempie la fossa fino a incontrare lo strato d’aria fredda da cui siamo appena usciti. Il miraggio si produce quando i due strati s’incontrano, più o meno per le stesse cause per cui si producono tutti i miraggi. Dio solo sa da quanto tempo è così. Certe parti dell’Alaska non hanno mai avuto un’era glaciale… per qualche ragione, il ghiaccio non le ha ricoperte. Quando la zona dove attualmente sorge New York era sotto trecento metri di ghiaccio, gli Yukon Flats erano un’oasi piena di animali e di piante d’ogni genere. Se questa valle esisteva già allora, vedremo di sicuro strani superstiti. Se è relativamente recente, probabilmente ci imbatteremo in qualche adattamento altrettanto interessante. E questo è più o meno tutto, a parte il fatto che deve esserci una via d’uscita da qualche parte, circa a questo livello, altrimenti l’aria calda riempirebbe l’intera valle fino in cima, come fa il gas in un gasometro. Andiamo.»

«Io comincio a sperare che troveremo i fucili,» disse Jim, pensieroso.

«Come hai detto tu stesso, non ci serviranno a niente contro Khalk’ru… chiunque sia, cosa sia, e se c’è,» feci io. «Ma ci sarebbero utili contro i diavoli suoi aiutanti. Prova a vedere se li scorgi… i fucili, voglio dire.»

Ci avviammo lungo la frana, verso il pavimento di sabbia verde. Scendere non era molto difficile. Arrivammo alla nebbia senza aver visto né i fucili né lo zaino. Sembrava una nebbia densa. Vi entrammo, ed effettivamente lo era davvero. Si chiuse intorno a noi, densa e calda. Le rocce odoravano d’umidità ed erano sdrucciolevoli, e noi dovevamo tastare cauti il terreno ad ogni passo. Per due volte pensai che fossimo perduti. Non ero in grado di dire quanto fosse profonda quella nebbia, forse sessanta, novanta metri… era una condensazione creata dalle bizzarre condizioni atmosferiche che producevano il miraggio.

La nebbia cominciò a rischiararsi. Conservò la curiosa colorazione verde, ma io pensavo che fosse dovuta al riflesso proveniente dal basso. Ne uscimmo in un punto dove le pietre precipitate avevano incontrato un ostacolo e si erano ammucchiate formando una barriera alta tre volte più di me. La scalammo.

Vedemmo la valle al di sotto del miraggio.

Era almeno trecento metri sotto di noi. Era invasa da una luce verdechiara come una radura nella foresta. La luce era tenue e vaporosa: chiara nel punto in cui ci trovavamo, ma in lontananza creava cortine nebbiose di pallido smeraldo. A Nord e ai lati, fino a perdita d’occhio, sino a confondersi nelle vaporose cortine di smeraldo, si stendeva un vasto tappeto d’alberi. Il loro respiro saliva pulsando incontro a me, forte come l’odore della giungla, carico di fragranze sconosciute. A destra e a sinistra, i precipizi neri scendevano fino al limitare della foresta.

«Ascolta!» Jim mi afferrò un braccio.

Dapprima soltanto come un battito fievole, ma poi più forte, sempre più forte, udimmo da lontano un rullo di tamburi, dozzine di tamburi, in un bizzarro ritmo staccato… stridulo, irridente, beffardo! Ma non erano i tamburi di Khalk’ru; nel loro suono non vi era il terribile scalpiccio di piedi frettolosi su di un mondo cavo.

Il rullo cessò. Quasi in risposta, e da una direzione diversa, squillò una fanfara di trombe, minacciosa, bellicosa. Se le note potevano imprecare, queste imprecavano.

I tamburi ripresero, ancora irridenti, beffardi, per sfida.

«Tamburi piccoli,» stava bisbigliando Jim. «Tamburi di…»

Si lanciò fuori dalle rocce e io lo seguii.

La barriera conduceva verso Est, e scendeva ripida. La seguimmo. Stava come una grande muraglia tra noi e la valle, nascondendola alla nostra vista. Non sentimmo più i tamburi. Scendemmo almeno per centocinquanta metri, prima che la barriera terminasse. All’estremità c’era un’altra frana, come quella lungo cui erano caduti i fucili e lo zaino.

Ci fermammo a studiarla. Scendeva ad un angolo di circa quarantacinque gradi e, benché non fosse liscia come la precedente, offriva qualche appiglio.

L’aria era diventata ancora più calda. Non era un calore fastidioso: aveva una sua vita fremente, un’esalazione della fitta foresta o della valle stessa, pensai. Mi diede l’impressione di una vita implacabile e lussureggiante, ed un’esaltazione stordente. Lo zaino mi dava fastidio. Se dovevamo scendere quel pendio, e pareva che non ci fosse altro da fare, non avrei potuto portarlo. Me lo tolsi dalle spalle.

«Lettera di presentazione,» dissi, lasciandolo sdrucciolare giù tra le rocce.

«Respira profondamente e lentamente, povero scemo,» disse Jim, e rise.

Gli brillavano gli occhi. Sembrava felice, come se si fosse liberato dal peso della paura e del dubbio. Doveva sentirsi come mi ero sentito io quando, non molto tempo prima, avevo accettato la sfida dell’ignoto. E m’interrogai, perplesso.

Lo zaino che stava scivolando compì un piccolo balzo, e sparì alla nostra vista. Evidentemente la frana non arrivava sino al fondo della valle: oppure continuava con un’angolazione più ripida, dal punto in cui era scomparso lo zaino.

Mi sporsi, cauto, e cominciai a strisciare lungo la frana, seguito da Jim. Ne avevamo disceso circa tre quarti quando lo sentii gridare. Poi mi urtò, mentre cadeva. Lo afferrai con una mano, ma fui strappato via. Rotolammo giù per il pendio e precipitammo nel vuoto. Sentii un urto squassante, e subito svenni.

VII IL PICCOLO POPOLO

Rinvenni e mi accorsi che Jim mi stava praticando la respirazione artificiale. Ero disteso su qualcosa di soffice. Mossi impacciato le gambe, e mi levai a sedere. Mi guardai intorno. Eravamo su di una proda muscosa: o meglio, c’eravamo dentro, perché le cime dei muschi erano una trentina di centimetri più in alto della mia testa. Era un muschio straordinariamente sviluppato, pensai, guardandolo istupidito. Non avevo mai visto del muschio più grande di quello. Ero rimpicciolito io, oppure quello era davvero supersviluppato? Sopra di me c’era una trentina di metri di ripida roccia.

«Bene, eccoci qua,» disse Jiim.

«Come ci siamo arrivati?» domandai, stordito. Lui mi indicò il precipizio.

«Siamo caduti da lì. Siamo andati a sbattere contro un cornicione. O meglio, ci sei andato a sbattere tu. Io ti ero addosso. Siamo rimbalzati su questo simpatico materasso di muschio. Io ti ero ancora addosso. Ecco perché da cinque minuti ti sto praticando la respirazione artificiale. Scusami, Leif: ma se fosse stato viceversa, sicuramente avresti dovuto continuare da solo il pellegrinaggio. Io non ho la tua elasticità.»

Risi. Mi alzai e mi guardai intorno. Il muschio gigante su cui eravamo caduti formava una specie di cuscino tra noi e la foresta. Alla base della parete verticale di roccia erano ammucchiati i detriti della frana. Guardai quelle rocce e rabbrividii. Se fossimo andati a finire là, ci saremmo ridotti ad un groviglio di ossa spezzate e di carne maciullata. Mi tastai. Ero tutto intero.

«Va tutto per il meglio, indiano,» dissi, piamente.

«Dio, Leif! Per un po’ mi ero preoccupato.» Si voltò bruscamente. «Guarda la foresta!»

Il cuscino di muschio era un ovale enorme ed alto, orlato fin quasi alla base del precipizio da alberi giganteschi. Erano piuttosto simili alle sequoie della California, e alti altrettanto. Le loro chiome torreggiavano; i tronchi enormi erano colonne scolpite da titani. Ai loro piedi crescevano felci eleganti, alte come palme, e curiose conifere dai tronchi sottili come bambù, dalla corteccia a scaglie rosse e gialle. Dai tronchi e dai rami degli alberi più alti pendevano liane e grappoli di fiori d’ogni forma e colore: c’erano lanterne d’orchidee e candelabri di gigli; strani alberi asimmetrici, che sulle punte dei rami privi di foglie reggevano calici di fiori; dai rami pendevano oscillando campanule, e lunghe liane e ghirlande di piccoli fiori stellati, bianchi e cremisi e in tutti gli azzurri dei mari tropicali: le api vi si immergevano. Intorno a noi sfrecciavano continuamente grandi libellule dalla corazza laccata di verde e di scarlatto. Ombre misteriose vagavano attraverso la foresta: sembravano le ombre delle ali di guardiani invisibili.

Non era una foresta del Carbonifero, almeno non era quale io l’avevo vista ricostruita dalla scienza. Era una foresta incantata. Esalava fragranze da stordire. E sebbene fosse così strana, non aveva nulla di sinistro o di ripugnante. Era bellissima.

Jim disse: «Il bosco degli dèi! In un posto simile può vivere qualunque cosa. Qualunque cosa che sia bella…»

Ah, Tsantawu, fratello mio… se fosse stato vero!

Mi limitai a dire: «Sarà una faticaccia attraversarla.»

«È quel che pensavo anch’io,» rispose lui. «Forse la cosa migliore è costeggiare le rocce. Può darsi che più avanti diventi più facile attraversarla. Da che parte andiamo… a destra o a sinistra?»

Lanciammo in aria una moneta. Il responso fu «a destra». Vidi lo zaino, non molto lontano da noi, e andai a riprenderlo. Il muschio era instabile, come un materasso a molle. Mi domandai come mai fosse lì: pensai che probabilmente alcuni degli alberi giganteschi erano stati abbattuti dalla frana e il muschio si era nutrito della loro putrefazione. Mi appesi lo zaino sulle spalle, e insieme avanzammo verso la parete di roccia, immersi fino alla cintura nella vegetazione spugnosa.

Costeggiammo il precipizio per circa un chilometro e mezzo. Qualche volta la foresta si avvicinava tanto che faticavamo a tenerci vicino alla roccia. Poi cominciò a cambiare. Gli alberi giganteschi si ritirarono. Entrammo in un mare di felci enormi. A parte le api e le libellule laccate, non c’erano segni di vita tra quella vegetazione indisciplinata. Superammo le felci e ci trovammo in un piccolo, stranissimo prato. Era quasi una radura. Tutto intorno c’erano le felci; ad una estremità la foresta formava una palizzata; dall’altra c’era una ripida parete di roccia, nera, costellata di grandi fiori bianchi a forma di coppa, pendenti da corti tralci rossicci, disgustosamente simili a serpenti che, pensai, stavano radicati nei crepacci della roccia.

Nel prato non crescevano alberi né felci. Era coperto da un tappeto d’erba simile a merletto, coronata da minuscoli fiorellini azzurri. Dalla base dalla parete rocciosa si levava un velo sottile di vapore che saliva dolcemente nell’aria, bagnando i fiori bianchi.

Una sorgente calda, decidemmo. Ci avvicinammo per esaminarla.

Udimmo un gemito… disperato, sofferente…

Sembrava il gemito di un bimbo torturato ed infelice, e tuttavia non era né del tutto umano né del tutto animalesco. Era venuto dalla parete di roccia, dietro i veli di vapore. Ci fermammo, in ascolto. Il gemito ricominciò: muoveva alla pietà più profonda, e non cessava. Corremmo verso la parete di roccia. Alla sua base, la cortina fumante era molto densa. L’aggirammo e ne raggiungemmo l’estremità più lontana.

Alla base della parete c’era una polla lunga e stretta, simile ad un ruscelletto chiuso. L’acqua era nera e gorgogliante, e da quelle bolle proveniva il vapore. Nella roccia nera, da una estremità all’altra della polla ribollente, c’era un cornicione largo un metro. E sopra, spaziate ad intervalli regolari, c’erano delle nicchie intagliate nella parete, piccole come culle.

In due di quelle nicchie, per metà dentro e per metà sul cornicione, giacevano quelli che a prima vista mi sembrarono due bambini. Erano distesi sul dorso: le mani ed i piedi minuscoli erano fissati alla pietra da pioli di bronzo. I capelli scendevano loro lungo i fianchi; i loro corpi erano nudi.

Poi vidi che non erano bambini. Erano adulti: un omino e una donnina. La donna aveva girato la testa e stava fissando l’altro pigmeo. Era lei che gemeva. Non ci vide: il suo sguardo era intento sul minuscolo uomo. Questi giaceva rigido, ad occhi chiusi. Sul petto, proprio sopra il cuore, c’era una corrosione nera, come se vi fosse sgocciolato dell’acido.

Vi fu un movimento, sulla parete di roccia sopra di lui. C’era uno dei fiori bianchi a forma di coppa. Possibile che fosse stato quello a muoversi? Pendeva ad una trentina di centimetri dal petto dell’omettino, e sui pistilli scarlatti si stava lentamente raccogliendo una goccia di quello che, pensai, doveva essere nettare.

Era stato veramente il movimento del fiore ad attirare il mio sguardo! Mentre lo guardavo, la liana rossastra tremò. Fremette, protendendosi come un verme pigro sulla roccia per un paio di centimetri. Il fiore scrollò il calice, come una bocca, per staccare la goccia che si era formata. E la bocca del fiore era proprio sopra il cuore dell’omino, sopra la corrosione nera sul suo petto.

Salii sullo stretto cornicione, tesi le mani, afferrai la liana e la strappai. Si divincolò nella mano come un serpente. Le radici si abbarbicarono alle mie dita, e come la testa d’un serpe il fiore si alzò, per avventarsi. La goccia del nettare mi cadde sulla mano: un dolore tormentoso e bruciante mi azzannò, risalendo il mio braccio come una fiamma. Scagliai nella polla bollente quella cosa che si agitava.

Proprio al di sopra della donnina c’era un’altra liana strisciante. La strappai, come avevo fatto con l’altra. Anche quella cercò di colpirmi con la testa di fiore, ma mi mancò, oppure non c’era quel terribile nettare nel suo calice. La gettai nella polla ribollente.

Mi chinai sull’omino. Aveva gli occhi aperti e mi fissava. Come la sua pelle, anche gli occhi erano gialli: e obliqui, mongolici. Sembrava non avessero pupille, e non erano del tutto umani, come non lo era stato il gemito della sua donna. Erano carichi di sofferenza e d’odio furioso. Poi il suo sguardo si posò sui miei capelli, e vidi lo sbalordimento scacciare l’odio.

Il tormento bruciante della mano e del braccio era quasi insopportabile. Capii quanto doveva soffrire il pigmeo. Strappai i pioli che lo tenevano fermo. Lo sollevai e lo passai a Jim. Non pesava più di un bimbo molto piccolo.

Strappai i pioli dalla lastra su cui giaceva la minuscola donna. Non c’era né paura né odio nei suoi occhi: erano colmi di stupore e d’inequivocabile gratitudine. La presi in braccio e la deposi accanto al suo uomo.

Guardai di nuovo la parete di roccia nera. Era tutta in movimento: le liane rossastre fremevano, i fiori bianchi oscillavano, alzando ed abbassando i calici.

Era decisamente orribile…

L’omettino giaceva quieto: i suoi occhi gialli andavano da me a Jim e poi di nuovo a me. La donna parlò, a sillabe trillanti, da uccellino. Si lanciò di corsa attraverso il prato e si addentrò nella foresta.

Jim stava guardando il pigmeo dorato, come se sognasse. Lo sentii mormorare:

«Gli Yunwi Tsundsi! Il Piccolo Popolo! Allora era tutto vero! Tutto vero!»

La donnina uscì correndo dal folto delle felci. Aveva le mani piene di grosse foglie fortemente venate. Mi lanciò uno sguardo, quasi per scusarsi. Si piegò sul suo uomo. Gli strizzò sopra il petto alcune di quelle foglie. Una linfa lattiginosa le scese di tra le dita e sgocciolò sulla corrosione nera, si sparse come una pellicola. L’omino s’irrigidì e gemette, si rilassò e rimase immobile.

La donnina mi prese la mano. Nel punto toccato dal nettare, la pelle era diventata nera. Lei spremette la linfa delle foglie. Una fitta al cui confronto tutto il tormento che avevo provato prima non era nulla mi corse per la mano e per il braccio. Poi, quasi immediatamente, non sentii più alcun dolore.

Guardai il petto dell’omettino. La corrosione nera era scomparsa. C’era una ferita, come quella di una bruciatura da acido, rossa e normale. Mi guardai la mano. Era infiammata, ma la macchia nera era sparita.

La donnina s’inchinò davanti a me. L’ometto si alzò. Guardò i miei occhi, mi squadrò dalla testa ai piedi. Vidi crescere in lui il sospetto, e ricomparire l’odio rabbioso. Parlò alla sua donna. Lei replicò piuttosto a lungo, indicando la parete di roccia, la mia mano infiammata, poi le caviglie ed i polsi suoi e dell’uomo. Allora l’omettino mi fece un cenno; a gesti mi pregò di piegarmi verso di lui. Lo accontentai, e lui mi toccò i capelli, vi passò in mezzo le dita minuscole. Mi posò la mano sul cuore… poi vi appoggiò la testa, per ascoltarne il battito.

Mi colpì sulla bocca con la manina; ma non era una percossa. Capii che era una carezza.

L’omettino mi sorrise e trillò. Non riuscii a capire, e scossi il capo. Allora alzò lo sguardo verso Jim e trillò un’altra domanda. Jim provò a parlargli in Cherokee. Questa volta fu l’omino a scuotere la testa. Parlò di nuovo alla sua donna. Fra i trilli, compresi chiaramente la parola e-vah-li. Lei annuì.

Facendoci cenno di seguirli, i due corsero attraverso il prato, verso le felci. Erano piccolissimi… mi arrivavano appena alle cosce. Erano modellati in modo perfetto. I lunghi capelli erano castani, finissimi e serici, e sventolavano dietro di loro, come ragnatele.

Correvano come cerbiatti, e faticammo a tenere il loro ritmo. Entrarono nel folto di felci al quale eravamo diretti; e rallentarono il passo. Procedemmo tra le felci gigantesche. Non c’erano piste, ma i pigmei dorati conoscevano la strada.

Uscimmo dalle felci. Davanti a noi si stendeva un terreno erboso, coperto di fiorellini che formavano un tappeto azzurro fin sulle sponde di un ampio fiume, un fiume strano, un fiume bianco come il latte, sulla cui placida superficie aleggiavano spirali di vapori opalescenti. Attraverso quelle spirali intravvidi squarci di pianure verdi e piatte, sull’altra riva del fiume bianco, e di scarpate verdi.

L’omettino si fermò. Accostò l’orecchio al suolo. Tornò a balzare tra le felci, facendoci segno di seguirlo. Pochi minuti dopo arrivammo ad una torre di guardia semidiroccata. L’entrata era spalancata. I pigmei vi entrarono, chiamandoci a gesti.

All’interno della torre c’era una scala di pietra sgretolata che portava in cima. I due pigmei vi salirono, quasi a passo di danza, e noi li seguimmo. In cima alla torre c’era una cameretta, illuminata dalla luce verde che filtrava tra le connessure delle pietre. Occhieggiai da una di quelle fenditure, guardai l’azzurro terreno erboso ed il fiume bianco. Udii il leggero trapestio di zoccoli di cavalli ed un canto sommesso di voci femminili. E si facevano sempre più vicini.

Una donna avanzò a cavallo nel prato azzurro. Montava una grande giumenta nera. Portava, come copricapo, la testa di un lupo bianco: la pelle le copriva le spalle e il dorso. Su quel manto argenteo, i suoi capelli spiccavano in due trecce rossofiammanti. Sotto ai seni nudi, alti e rotondi, le zampe del lupo bianco erano annodate come una cintura. La donna aveva occhi azzurri come fiordalisi, distanti sotto la fronte bassa e larga. La pelle era di un candore latteo, sfumato di rosa. La bocca aveva labbra turgide, cremisi, amorose e insieme crudeli.

Era una donna forte, alta quasi come me. Sembrava una Valchiria, e come le messaggere di Odino portava sulla sella, davanti a sé, tenendolo con un braccio, un corpo. Ma non era l’anima di un guerriero caduto raccolta per portarla al Valhalla. Era una ragazza. Una ragazza le cui braccia erano legate contro i fianchi da cinghie robuste; teneva il capo reclinato disperatamente sul petto. Non riuscii a scorgere il suo viso: era nascosto dal velo dei suoi capelli. Ma quei capelli erano rosso-ruggine, e la sua pelle era chiara quanto quella della donna che la teneva ferma.

Sopra la testa della Donna-lupo volava un falcone candido come la neve, che scendeva in picchiata, volteggiava in cerchio e procedeva con la sua stessa velocità.

Dietro di lei cavalcava una mezza dozzina di donne, giovani e forti, dalla pelle rosea e dagli occhi azzurri, dai capelli rosso-rame, rosso-ruggine, rosso-bronzo annodati intorno alla testa o pendenti sulle spalle in lunghe trecce. Erano a torso nudo, indossavano gonne e stivaletti. Reggevano lance lunghe e sottili e piccoli scudi rotondi. Anch’esse sembravano Valchirie: ognuna di loro pareva una scudiera degli Asi. E mentre cavalcavano cantavano, sottovoce, sommessamente, uno strano canto.

La Donna-lupo e la sua prigioniera passarono oltre una curva del prato e scomparvero. Le donne che cantavano le seguirono e sparirono anch’esse.

Le ali del falcone bianco balenavano argentee mentre volteggiava e scendeva in picchiata, volteggiava e scendeva in picchiata. Poi anche il falcone scomparve.

VIII EVALIE

I pigmei dorati sibilarono; i loro occhi gialli ardevano d’odio.

L’omettino mi toccò la mano, parlando a brevi sillabe trillanti, e indicandomi il fiume bianco. Era chiaro: voleva farmi capire che dovevamo attraversarlo. Si arrestò, in ascolto. La donnina scese correndo le scale sgretolate. L’omino cinguettò irritato, sfrecciò verso Jim, gli batte i pugni sulle gambe come per scuoterlo, poi si lanciò all’inseguimento della donna.

«Svegliati, indiano!» dissi io, impaziente. «Vogliono che ci sbrighiamo.»

Jim scosse il capo, come se cercasse di liberarsi delle ultime ragnatele di un sogno.

Scendemmo alla svelta i gradini sbrecciati. L’omettino ci stava aspettando: o almeno non era corso via perché, se davvero ci aspettava, lo stava facendo in un modo estremamente singolare. Stava danzando in uno stretto cerchio, agitando in modo strano le braccia e le mani, e trillava una bizzarra melodia su quattro note, ripetute incessantemente in progressioni diverse. La donna, invece, non si vedeva.

Un lupo ululò. Gli risposero altri lupi, più lontani nella foresta in fiore… come un branco in caccia, il cui capo avesse fiutato la preda.

La donnina uscì correndo dalle felci; l’omettino smise di danzare. Lei aveva le mani piene di piccoli frutti purpurei che sembravano uva selvatica. L’ometto indicò il fiume bianco, ed entrambi si avviarono, addentrandosi tra le felci. Li seguimmo. Uscimmo dalla vegetazione, e dopo aver attraversato il prato azzurro ci fermammo sulla riva del fiume.

L’ululato del lupo risuonò nuovamente, e gli altri gli risposero, più vicino.

L’omettino mi balzò addosso, cinguettando frenetico: mi strinse la vita con le gambe e si sforzò di strapparmi di dosso la camicia. La donna stava trillando qualcosa a Jim, agitando con le mani i piccoli frutti purpurei.

«Vogliono che ci spogliamo,» disse Jim. «E vogliono che ci sbrighiamo a farlo.»

Ci spogliammo, in fretta. C’era un crepaccio, nella proda, e vi spinsi dentro lo zaino. Ci affrettammo ad arrotolare gli abiti e gli stivali, li legammo con una cinghia, e ce li appendemmo sulle spalle.

La donnina gettò al suo compagno una manciata di quei frutti porporini. Accennò a Jim di chinarsi, e quando egli obbedì gli strizzò le bacche sulla testa e sulle mani, sul petto, sulle cosce e sui piedi. L’omino fece lo stesso con me. I frutti avevano un odore stranamente pungente che mi fece lacrimare gli occhi.

Mi rialzai e guardai lontano, al di là del fiume bianco.

La testa di un serpente emerse dalla superficie lattea: e poi un’altra ed un’altra ancora. Erano teste grandi quanto quella di un’anaconda, ed erano rivestite di scaglie di smeraldo vivido. Avevano creste di spine verde brillante che proseguivano lungo il dorso, rivelandosi quando si attorcevano e turbinavano nell’acqua bianca. Decisamente, non mi andava l’idea d’immergermi in quell’acqua; ma adesso ero convinto di conoscere lo scopo di quella specie di unzione, ed ero certo che i pigmei dorati non avevano intenzione di farci del male. E altrettanto certamente, supposi, sapevano ciò che facevano.

L’ululato dei lupi giunse ancora una volta, non solo molto più vicino, ma dalla direzione in cui si era avviato il drappello delle Valchirie.

L’omettino si tuffò in acqua, accennandomi a gesti di seguirlo. Obbedii, e subito udii lo scroscio lieve del tuffo della donna, quello più sonoro di Jim. L’omettino si voltò a sbirciarmi, annuì, e cominciò a nuotare come un’anguilla, ad una velocità che mi risultò difficile emulare.

I serpenti crestati non ci molestarono. Una volta avvertii il guizzo delle scaglie contro l’inguine; una volta mi scrollai l’acqua dagli occhi e mi accorsi che uno dei rettili nuotava accanto a me, eguagliando giocosamente la mia velocità, o almeno così pareva: stava gareggiando con me.

L’acqua era tiepida, tiepida come il latte cui somigliava, e teneva bene a galla, stranamente. In quel punto, il fiume aveva un’ampiezza di circa trecento metri. Avevo coperto circa metà della distanza quando udii uno stridio acuto e sentii uno sbatter d’ali attorno alla mia testa. Mi girai, agitando le mani per scacciare ciò che mi aveva aggredito, qualunque cosa fosse.

Era il falcone bianco della Donna-lupo, che volteggiava, scendeva in picchiata, risaliva, mi si avventava contro con le ali distese.

Udii un grido provenire dalla riva, una voce di contralto che squillava come una campana, vibrante, imperiosa… in uiguro arcaico.

«Torna indietro! Torna indietro, Capelli Gialli!»

Girai su me stesso per guardare. Il falcone smise di avventarsi contro di me. Sull’altra riva c’era la Donna-lupo sulla grande giumenta nera, che stringeva con il braccio la ragazza prigioniera. Gli occhi della Donna-lupo sembravano due stelle di zaffiro, e la sua mano libera era levata in un gesto di richiamo.

Tutto intorno a lei, con le teste levate, fissandomi con occhi che erano verdi quanto i suoi erano azzurri, c’era un branco di lupi candidi come la neve!

«Torna indietro!» gridò di nuovo lei.

Era bellissima… la Donna-lupo. Non sarebbe stato difficile obbedire. Ma no… lei non era una Donna-lupo! Che cos’era? Nella mia mente si affacciò una parola uigura, una parola antica che non sapevo di conoscere. Era la Salur’da: l’Incantatrice. E con quel ricordo venne un rabbioso risentimento per i suoi richiami. Chi era lei, la Salur’da, per comandarmi? Io, Dwavanu, che negli antichi tempi da tanto dimenticati l’avrei fatta frustare con gli scorpioni per quell’insolenza!

Mi sollevai per quanto potevo dall’acqua bianca.

«Torna nella tua tana, Salur’da!» gridai. «Dwayanu accorre forse al tuo richiamo? Quando sarò io a chiamare te, allora affrettati ad obbedire!»

Ella mi fissò, con lo sbalordimento negli occhi. Il braccio robusto che tratteneva la ragazza si rilassò, così che per poco la prigioniera non cadde dall’alto pomo della sella. Ripresi a nuotare verso l’altra sponda.

Sentii fischiare l’Incantatrice. Il falcone che volteggiava attorno alla mia testa lanciò uno strido e s’involò. Sentii ringhiare i lupi bianchi; sentii i tonfi degli zoccoli della giumenta nera che correva sul prato azzurro. Raggiunsi la riva e m’inerpicai. Mi volsi soltanto allora. L’Incantatrice, il falcone e i lupi bianchi… erano scomparsi tutti.

Nella mia scia i serpenti dalle teste di smeraldo, dalle creste verdi, nuotavano, turbinavano, si tuffavano.

I pigmei dorati si erano arrampicati sul greto.

Jim domandò: «Che cosa le hai detto?»

«L’Incantatrice accorre al mio richiamo, non io al suo,» risposi; e nello stesso istante mi chiesi che cosa mi aveva spinto a pronunciare quelle parole.

«Ancora molto… Dwayanu, no, Leif? Che cosa ha fatto scattare la molla, questa volta?»

«Non so.» L’inesplicabile risentimento verso la donna era ancora forte; e poiché non riuscivo a comprenderlo, era anche irritante. «Mi ha ordinato di ritornare indietro, ed è stata come un’esplosione nel mio cervello. Allora io… mi è sembrato di conoscerla per ciò che è, di capire che il suo comando era pura insolenza. Gliel’ho detto. Lei non è rimasta più sorpresa di me da ciò che le ho detto. Era come se fosse qualcun altro a parlare. Era come…» Esitai. «Ecco… era come quando incominciai quel maledetto rituale e non riuscii a fermarmi.»

Jim piegò il capo e poi cominciò a rimettersi gli abiti. Lo imitai. Erano bagnati fradici. I pigmei ci guardavano, con scoperto divertimento. Notai che il rossore infiammato attorno alla ferita sul petto dell’omettino si era schiarito: la ferita era aperta, ma non era profonda e già stava incominciando a cicatrizzarsi. Mi guardai la mano: il rossore era quasi scomparso, e solo una certa sensibilità indicava il punto in cui il nettare l’aveva toccata.

Quando ci fummo allacciati gli stivali, i pigmei dorati si avviarono al trotto, allontanandosi dal fiume in direzione di una fila di rocce perpendicolari, circa un chilometro più avanti. La verde luce vaporosa quasi le celava, come aveva celato interamente il panorama a Nord, quando avevamo guardato la valle per la prima volta. Per circa metà della distanza il suolo era pianeggiante e coperto dall’erba azzurrofiorita. Poi incominciavano le felci che diventavano via via più alte. Arrivammo ad un sentiero, poco più largo di una pista aperta dai cervi, che si addentrava in un macchione di felci molto più grande. Svoltammo su quel sentiero.

Non avevamo messo nello stomaco nulla fin dal primo mattino, ed io pensai con rimpianto allo zaino che avevo abbandonato. Tuttavia, sono abituato a mangiare di buon appetito quando posso, ed a farne filosoficamente a meno quando devo. Perciò mi strinsi la cintura e mi voltai a sbirciare Jim che mi stava alle calcagna.

«Hai fame?» chiesi.

«No. Sono troppo occupato a pensare.»

«Indiano… che cosa ha fatto tornare sui suoi passi quella bella rossa?»

«I lupi. Non li hai sentiti ululare per chiamarla? Ci hanno rintracciati e le hanno dato il segnale.»

«Lo pensavo anch’io… ma è incredibile! Diavolo… Allora è una Incantatrice.»

«Non per questo motivo. Hai dimenticato Mowgli ed i Compagni Grigi. Non è difficile addestrare i lupi. Comunque, quella è davvero una Incantatrice. Non sforzarti di reprimere Dwayanu quando hai a che fare con quella, Leif.»

I piccoli tamburi ricominciarono di nuovo a rullare. All’inizio erano pochi, ma poi il loro numero aumentò, sino a quando furono intere dozzine. Questa volta le cadenze erano melodiose, gaie, e suonavano un ritmo di danza che toglieva ogni stanchezza. Non sembravano molto lontani. Ma le felci erano alte sopra le nostre teste ed impenetrabili allo sguardo, e lo stretto sentiero si snodava tortuoso come un fiume serpeggiante.

I pigmei affrettarono l’andatura. All’improvviso la pista uscì dalle felci, e la coppia si fermò. Davanti a noi il terreno saliva piuttosto ripido per cento, centoventi metri. Il pendio, eccettuato lo spazio del sentiero, era coperto da cima a fondo da un groviglio di folti rampicanti verdi costellati interamente da minacciose spine lunghe tre dita: una barriera viva di cavalli di Frisia che nessuna creatura avrebbe osato penetrare. In fondo al sentiero stava una massiccia torre di pietra: e da questa veniva un luccichio di punte di lancia.

Nella torre un tamburo dalla voce stridula gridò un inequivocabile segnale d’allarme. Subito i tamburi dal suono melodioso si azzittirono. Lo stesso grido stridente fu ripreso e ripetuto da un punto all’altro, diminuendo in distanza; e allora mi accorsi che il pendio era come un’immensa fortificazione circolare, che s’incurvava lontano verso l’ininterrotta palizzata delle felci giganti, e sulla nostra destra arretrava verso la nera parete perpendicolare di roccia. Era interamente coperto da quel groviglio di spine.

L’ometto cinguettò qualcosa alla sua donna, e s’incamminò per il sentiero, verso la torre. Ne uscirono correndo altri pigmei che gli si fecero incontro. La donnina rimase con noi, annuendo e sorridendo e battendoci le mani sulle ginocchia per tranquillizzarci.

Un altro tamburo, o meglio un trio di tamburi, incominciò ad echeggiare dalla torre. Pensai che fossero tre perché il loro suono era su tre note diverse, tenere, carezzevoli, eppure capaci di giungere lontano. Cantavano una parola, un nome, quei tamburi, nitidamente come se avessero avuto labbra: il nome che avevo udito nei trilli dei pigmei.

E-vah-li… E-vah-li… E-vah-li… Ancora, ancora, ancora. I tamburi delle altre torri tacevano.

L’ometto ci chiamò a sé con la mano. Avanzammo, evitando a fatica le spine. Giungemmo al termine del sentiero, accanto alla piccola torre. Una dozzina di ometti ne uscirono e ci sbarrarono la strada. Nessuno era più alto di quello che avevo salvato dai fiori bianchi. Avevano tutti la pelle dorata, gli occhi gialli semianimaleschi; i capelli erano lunghi e serici, e arrivavano sin quasi ai loro minuscoli piedi. Indossavano perizomi intrecciati di una fibra che sembrava cotone: alla vita portavano alte cinture d’argento, traforate come pizzi a motivi intricati. Le loro lance erano armi pericolose, nonostante l’apparente fragilità: avevano lunghe aste di legno nero, e punte di metallo rosso lunghe trenta centimetri, piene dalla base alla cima di punte uncinate. Appesi alle spalle i pigmei portavano archi neri, con lunghe frecce egualmente uncinate; e nelle cinture metalliche tenevano infilati coltelli falcati dello stesso metallo rosso, simili a scimitarre da gnomi.

Si fermarono a guardarci, come bambini. Mi sentii come doveva essersi sentito Gulliver tra i lillipuziani. Non avevo nessuna intenzione di provocarli ad usare le loro armi. Guardavano Jim con curiosità ed interesse, senza la minima sfumatura di ostilità. Quando guardavano me, le loro faccette diventavano dure e feroci. Solo quando i loro sguardi vagavano sui miei capelli biondi vidi che lo stupore ed il dubbio alleviavano il sospetto: ma non abbassarono mai le punte delle lance rivolte verso di me.

E-vah-li… E-vah-li… E-vah-li… cantavano i tamburi.

Da lontano giunse un rullo di risposta, e allora i tamburi tacquero.

Udii una voce dolce e sommessa che, dall’altra parte della torre, trillava le sillabe da uccellino del Piccolo Popolo…

E poi… vidi Evalie.

Avete mai visto un ramo di salice ondeggiare in primavera sopra una chiara polla silvana, o un’esile betulla danzare nel vento in un bosco segreto, o le fuggevoli ombre verdi in una radura d’una fitta foresta, che sono Driadi quasi tentate di rivelarsi? Fu a questo che pensai, quando venne verso di noi.

Era bruna e alta. Aveva occhi bruni sotto le lunghe ciglia nere: il bruno trasparente di un ruscello montano in autunno; i capelli erano neri, di quel nero di giaietto che in una certa luce assume la lucentezza del blu più cupo. Il suo visetto era minuto, i lineamenti certamente non erano classici né regolari: le sopracciglia quasi si univano in due linee rette sopra il naso piccolo e diritto; la bocca era grande ma sensibile e disegnata finemente. Sulla fronte ampia e bassa i capelli nerazzurri erano intrecciati come una corona. La pelle era ambra chiara. Come splendida ambra pulita splendeva sotto la veste sciolta eppure aderente che l’avvolgeva, lunga fino al ginocchio, argentea, fine come una ragnatela e trasparente. Attorno alle anche portava il bianco perizoma del Piccolo Popolo. A differenza dei pigmei, calzava un paio di sandali.

Ma era la sua grazia che ti mozzava il respiro in gola quando la guardavi, la lunga linea fluente dalla caviglia alla spalla, delicata e mobile come la curva dell’acqua che scorre sopra un masso liscio, una grazia liquida che mutava ad ogni movimento.

Questo… e la vita che ardeva in lei come la fiamma verde della foresta vergine quando ai baci della primavera seguono le carezze più ardenti dell’estate. Ora comprendevo perché gli antichi greci avevano creduto alle Driadi, alle Naiadi, alle Nereidi… le anime femminili degli alberi, dei ruscelli e delle cascate e delle fonti, e delle onde.

Non riuscii a capire quanti anni avesse… la sua era quella bellezza pagana che non ha età.

Scrutò me, i miei abiti ed i miei stivali, con manifesta perplessità; sogguardò Jim, annuì, come per dire che in lui non vi era nulla di preoccupante; poi si rivolse di nuovo a me, studiandomi. I minuscoli soldatini la circondarono, con le lance levate.

L’omettino e la sua compagna si erano fatti avanti. Parlavano tutti e due nello stesso tempo, indicando il petto di lui, la mia mano, i miei capelli gialli. La fanciulla rise, attirò a sé la donnina e le coprì le labbra con una mano. L’ometto continuò a trillare e a cinguettare.

Jim aveva ascoltato con intensità perplessa, ogni volta che era stata la fanciulla a parlare. Mi afferrò per un braccio.

«Stanno parlando Cherokee! O qualcosa di molto simile… Ascolta… Hanno detto una parola… suonava come Yun’wini’giski… vuol dire ‘antropofagi’. Alla lettera: ‘loro mangiano gente’… se era questo che ho sentito… e guarda… lui sta mostrando come le liane strisciavano già dalla roccia…»

La fanciulla riprese a parlare. Ascoltai, assorto. L’enunciazione affrettata ed i trilli rendevano difficile capire: ma captai suoni che sembravano familiari… e poi udii una combinazione che conoscevo con certezza.

«È una specie di lingua mongolica, Jim. Ho appena afferrato una parola che significa ‘serpente d’acqua’ in una dozzina di dialetti diversi.»

«Lo so… lei ha chiamato il serpente aha’nada, ed i Cherokee dicono inadu… ma è indiano, non mongolo.»

«Può essere l’uno e l’altro. I dialetti indiani sono mongolici. Forse è l’antica madrelingua. Se almeno riuscissimo a farla parlare più adagio, ed a smorzare i trilli.»

«Può darsi. I Cherokee si definiscono ‘il popolo più vecchio’, e chiamano la loro lingua ‘la prima parola’… Aspetta…»

Avanzò, a mani levate; pronunciò la parola che in Cherokee significa indifferentemente «amico», oppure «uno che viene con buone intenzioni». Stupore e comprensione balenarono negli occhi della fanciulla. La ripeté come l’aveva pronunciata Jim, poi si rivolse ai pigmei, comunicandola a loro… e questa volta riuscii a distinguerla chiaramente fra i trilli e i pigolii. I pigmei si fecero più vicini, fissando Jim.

Lui dissi, lentamente: «Noi veniamo dall’esterno. Non sappiamo nulla di questo posto. Non vi conosciamo nessuno.»

Dovette ripeterlo parecchie volte, prima che la fanciulla l’afferrasse. Guardò lui con aria grave e me con fare dubbioso… eppure, come se desiderasse credere. Rispose, esitante.

«Ma Sri…» E indicò l’omettino. «Sri ha detto che nell’acqua lui ha parlato la lingua del male.»

«Lui parla molte lingue,» disse Jim: poi si rivolse a me. «Parlale. Non stare lì come un pupazzo ad ammirarla. Questa ragazza è capace di pensare… e noi siamo in un pasticcio. Il tuo aspetto non ha fatto una buona impressione sui nanetti, Leif, nonostante la tua buona azione.»

«Il fatto che abbia parlato quella lingua è più strano che io ora parli la tua, Evalie?» dissi. Poi ripetei la stessa domanda in due dei più antichi dialetti mongoli che conoscevo. Lei mi squadrò, pensosa.

«No,» disse finalmente. «No: perché anch’io la conosco un po’, e questo non mi rende malvagia.»

All’improvviso sorrise, e trillò un ordine alle guardie. Quelle abbassarono le lance, guardandomi quasi con l’interesse amichevole che avevano riservato a Jim. Dentro la torre, i tamburi cominciarono a battere un rullo allegro. Come se fosse stato un segnale, gli altri tamburi invisibili azzittiti dallo stridente allarme ripresero il loro ritmo melodioso.

La fanciulla ci rivolse un cenno. La seguimmo, circondati dai minuscoli soldatini, tra una cortina di spine e la torre.

Varcammo la soglia della Terra del Piccolo Popolo e di Evalie.

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