IL LIBRO DI EVALIE

IX GLI ABITATORI DEL MIRAGGIO

La luce smeraldina che pervadeva la Terra Oscurata si stava offuscando, come la verde foresta si abbuia al crepuscolo. Il Sole doveva essere ormai calato da un pezzo dietro i picchi che cingevano l’illusorio fondovalle… il cielo della Terra Oscurata. Ma lì la luminosità sbiadiva lentamente, come se non dipendesse interamente dal Sole, come se quel luogo possedesse una luce propria.

Sedemmo accanto alla tenda di Evalie. Era montata su di un’altura bassa, non molto lontano dall’entrata della sua grotta, nella parete del precipizio. Lungo la base della parete vi erano le grotte del Piccolo Popolo, aperture minuscole attraverso le quali nessuno più grande di loro poteva insinuarsi nelle caverne che erano le loro case, i loro laboratori, le loro officine, i magazzini ed i granai, le fortezze inespugnabili.

Erano trascorse ore da quando l’avevamo seguita sulla piana, fra la torre di guardia e la sua tenda. I pigmei dorati brulicavano tutto intorno a noi, curiosi come bambini, cinguettando e trillando, interrogando Evalie, riferendo le sue risposte ai loro compagni più lontani. Anche ora erano parecchi, disposti in cerchio intorno alla base dell’altura: dozzine di ometti e di donnine che ci fissavano con gli occhi gialli e cinguettavano e ridevano. Le donne avevano tra le braccia neonati piccoli come bambolette, e come grosse bambole erano i loro figli più grandi raggruppati intorno alle loro ginocchia.

La loro curiosità si placò presto, come appunto quella dei bimbi: e tornarono alle loro occupazioni ed ai loro giochi. Altri prendevano i loro posti, con curiosità ancora insoddisfatta.

Li guardavamo danzare sull’erba liscia. Danzavano in cerchio, al ritmo melodioso dei loro tamburi. Vi erano altri monticelli sulla piana, più grandi o più piccoli di quello su cui stavamo, e tutti erano egualmente arrotondati e simmetrici. Intorno a quelle alture e su di esse i pigmei dorati ballavano al ritmo pulsante dei piccoli tamburi.

Ci avevano portato minuscole pagnotte, latte e formaggi stranamente dolci ma gradevoli, e frutti e meloni sconosciuti ma deliziosi. Mi vergognavo del numero di piatti che avevo ripulito. Quelli del Piccolo Popolo avevano osservato e riso, e incitato le donne a portarmi altro cibo.

Jim disse, scherzando: «Stai mangiando il cibo degli Yunwi Tsundsi. Cibo fatato, Leif! Non potrai mangiare mai più il cibo dei mortali.»

Guardai Evalie, la sua bellezza di vino e d’ambra. Bene, non stentavo a credere che Evalie fosse stata nutrita di cibo non mortale.

Studiai la piana per la centesima volta. Il pendio su cui sorgevano le torri massicce era un immenso semicerchio: le estremità degli archi toccavano le nere pareti perpendicolari di roccia. Calcolai che racchiudesse all’incirca un territorio di trenta chilometri quadrati. Oltre i tralci spinosi c’erano i macchioni di felci giganti; oltre ancora, dall’altra parte del fiume scorgevo i grandi alberi. Se c’erano foreste da questa parte, non potevo vederle. E non sapevo quali altri esseri viventi vi fossero. C’era qualcosa da cui ci si doveva proteggere, sicuramente, altrimenti quale scopo potevano avere le fortificazioni, le difese?

Qualunque cosa fosse, quella terra dei pigmei dorati era un piccolo paradiso, con i suoi campi di grano, i frutteti, le viti e le bacche ed i prati verdi.

Ripensai a ciò che Evalie ci aveva detto di lei, rallentando meticolosamente le sillabe trillanti del Piccolo Popolo in vocaboli comprensibili per noi. Parlava una lingua antica, le cui radici affondavano nel Tempo assai più profondamente di tutte le altre a me note, eccettuato forse l’uiguro arcaico. Di minuto in minuto, mi accorsi che la padroneggiavo con crescente facilità, ma non rapidamente quanto Jim. Lui aveva addirittura provato qualche trillo, con grande letizia dei pigmei. E soprattutto lo avevano capito. Ora potevamo seguire il pensiero di Evalie molto meglio di quanto lei potesse fare con noi.

Da dove era venuto il Piccolo Popolo della Terra Oscurata? E dove aveva appreso quella lingua antica? Me lo chiesi, e mi risposi che tanto valeva chiedere come mai i sumeri, la cui capitale era chiamata dalla Bibbia «Ur dei Caldei» avessero parlato una lingua mongolica. Anch’essi erano stati una razza di nani, maestri di strane stregonerie e studiosi delle stelle. E nessuno sa da dove vennero nella Mesopotamia, portando con sé la loro scienza già in piena fioritura. L’Asia è l’Antica Madre, e nessuno può dire quante razze abbia generato e visto diventare polvere.

Ero convinto di potermi spiegare la trasformazione della lingua nel cinguettio del Piccolo Popolo. Ovviamente, più la gola è piccola, e più acuti sono i suoni che produce. Nessun bambino, a meno che sia un fenomeno, parla con voce di basso. Gli esemplari più alti del Piccolo Popolo non superavano per statura un bambino di sei anni. Non potevano, per loro natura, scandire le gutturali ed i suoni più profondi: avevano dovuto sostituirli con altri suoni. La cosa più naturale, quando non si riesce a formare una nota in un’ottava inferiore, è formarla in un’ottava più alta. E così avevano fatto, e con l’andare del tempo il loro linguaggio era divenuto un sistema di trilli e di pigolii sotto il quale persisteva comunque la struttura essenziale.

Evalie ci disse che ricordava una grande casa di pietra. Le sembrava di rammentare anche una grande acqua. Ricordava una terra boscosa che era diventata «bianca e fredda». C’erano stati un uomo e una donna… poi soltanto l’uomo… e tutto era come una nebbia. L’unica cosa che ricordava veramente era il Piccolo Popolo… aveva dimenticato che esistesse qualcosa d’altro… fino a quando noi eravamo arrivati lì. Ricordava quando era alta come quelli del Piccolo Popolo… e come si era sgomentata quando aveva cominciato a diventare più grande di loro. Il Piccolo Popolo… i Rrrllya - questo è l’unico modo in cui riesco a rendere quel trillo — l’amavano: facevano quello che lei diceva di fare. L’avevano nutrita e vestita ed istruita, specialmente la madre di Sri, l’ometto che io avevo salvato dal Fiore della Morte. Che cosa le avevano insegnato? Evalie ci guardò in modo strano, e si limitò a ripetere che l’avevano istruita. Qualche volta danzava con i pigmei dorati, e qualche volta danzava per loro… Ancora quello sguardo misterioso, quasi divertito. Era tutto. Quanto tempo prima era stata piccina come il Piccolo Popolo? Non lo sapeva… tanto, tanto tempo fa. Chi l’aveva chiamata Evalie? Lei non lo sapeva.

La scrutavo, furtivamente. In lei non c’era nulla che potesse indicarmi la sua razza. Doveva essere una trovatella, lo sapevo: l’uomo e la donna ricordati così vagamente erano stati suo padre e sua madre. Ma che cosa erano stati… e da quale terra provenivano? Gli occhi, i capelli, il colorito, la figura non rivelavano una risposta più chiara di quanto facessero le sue labbra.

Era una «figlia scambiata», ancora più di me. Una «figlia scambiata» del miraggio! Nutrita con il cibo dei folletti!

Mi domandai se si sarebbe trasformata in una donna comune, nel caso che io l’avessi condotta fuori dalla Terra Oscurata…

Sentii l’anello toccarmi il petto, con un’impressione di gelo.

Portarla via! Prima dovevo incontrare Khalk’ru… e l’Incantatrice!


Il crepuscolo verde si fece più fondo: grosse lucciole cominciarono a far lampeggiare lanterne di topazio pallido tra gli alberi in fiore. Una lieve brezza frusciò sopra le felci, carica delle fragranze della foresta lontana. Evalie sospirò.

«Non mi lascerai, Tsantawu?»

Se Jim la udì, non le rispose. Evalie si rivolse a me.

«Non mi lascerai… Leif?»

«No!» dissi… e mi parve di sentire i tamburi di Khalk’ru che soverchiavano i melodiosi tamburi del Piccolo Popolo come un lontano riso beffardo.


Il crepuscolo verde si era adesso addensato in una tenebra, una tenebra luminosa, come se una luna piena splendesse dietro un cielo velato dalle nubi. I pigmei dorati avevano smesso di suonare i loro tamburi, e si stavano ritirando nelle grotte. Dalle torri lontane venne il tap-tap-tap dei tamburi delle guardie, che si scambiavano mormorii attraverso i pendii coperti di spine. I fuochi delle lucciole erano come le lanterne di una veglia di folletti; grandi falene volteggiavano sulle ali argentee e luminescenti, come aerei degli elfi.

«Evalie,» disse Jim. «Gli Yunwi Tsundsi… il Piccolo Popolo… da quanto tempo vivono qui?»

«Da sempre, Tsantawu… o almeno così dicono.»

«E le altre… le donne dai capelli rossi?»

Le avevamo già chiesto di quelle donne, e lei non aveva risposto: aveva serenamente ignorato la domanda, ma adesso replicò senza esitazioni.

«Sono della stirpe degli Ayjir… era Lur l’Incantatrice che portava la pelle di lupo. Governa gli Ayjir con Yodin, il Gran Sacerdote, e Tibur… Tibur il Ridente, Tibur il Fabbro. Non è alto come te Leif ma è più ampio di spalle e di torace, ed è forte… forte! Ti dirò degli Ayjir. Prima, era come se una mano mi coprisse le labbra… o il cuore? Ma adesso quella mano è scomparsa.

«Il Piccolo Popolo racconta che gli Ayjir vennero qui a cavallo, tanto, tanto, tanto tempo fa. Allora i Rrrllya occupavano il territorio su entrambe le sponde del fiume. Gli Ayjir erano molti… moltissimi. Assai più numerosi di ora, molti uomini e donne, mentre adesso vi sono soprattutto donne e pochi uomini. Vennero da parecchio lontano, come se fuggissero, o almeno i Rrrllya dicono che così narravano i loro padri. Erano guidati da un… da un… non ho parole! Ha un nome, ma non lo pronuncerò… no, neppure dentro di me! Eppure ha una forma… l’ho visto sulle bandiere che garriscono sulle torri di Karak… ed è sui petti di Lur e di Tibur quando essi…»

Evalie rabbrividì e tacque. Una falena dalle ali d’argento le si posò su una mano, alzando e abbassando le ali lucenti; lei se la portò delicatamente alle labbra, l’allontanò con un soffio.

«Tutto questo i Rrrllya, che tu chiami Piccolo Popolo, allora non lo sapevano. Gli Ayjir rimasero. Incominciarono a costruire Karak, ed a scavare entro la parete di roccia il tempio in onore di… di ciò che li aveva condotti qui. Dapprima edificarono rapidamente, come se temessero di essere inseguiti; ma poi, quando non arrivò nessuno, costruirono con maggiore lentezza. Avrebbero voluto fare dei miei Piccoli i loro servi, i loro schiavi. I Rrrllya non si piegarono. Ci fu la guerra. I Piccoli tesero un agguato intorno a Karak, e quando gli Ayjir uscirono, li uccisero; perché i Piccoli conoscono la… la vita delle piante, e sanno come far sì che le loro lance e le loro frecce uccidano immediatamente coloro che toccano. E così, molti degli Ayjir morirono.

«Alla fine venne conclusa una tregua, e non perché il Piccolo Popolo fosse stato sconfitto: non lo era stato. Ma per un’altra ragione. Gli Ayjir erano astuti: preparavano trappole per i Piccoli, e ne catturarono molti. Poi fecero questo… li trasportarono al tempio e li sacrificarono a… a ciò che li aveva condotti qui. Li portavano al tempio, a sette per volta: costringevano uno dei sette ad assistere al sacrificio, poi lo liberavano perché riferisse ai Rrrllva ciò che aveva veduto.

«Il primo non fu creduto, perché il suo racconto del sacrificio era troppo orribile… ma poi vennero il secondo e il terzo e il quarto a narrare la stessa cosa. E paura e odio e orrore si impadronirono del Piccolo Popolo. Conclusero un patto. Loro avrebbero dimorato da questa parte del fiume; gli Ayjir dall’altra. In cambio, gli Ayjir giurarono, per ciò che li aveva guidati, che mai più avrebbero offerto uno del Piccolo Popolo in sacrificio a… a quello. Se uno fosse stato catturato nella Terra degli Ayjir, sarebbe stato ucciso… ma non nel Sacrificio. E se uno degli Ayjir fugge da Karak e cerca rifugio tra i Rrrllya, questi devono uccidere il fuggitivo. Il Piccolo Popolo acconsentì a tutto… per l’orrore. Nansur venne spezzato, in modo che nessuno potesse attraversare… Nansur, che valicava il fiume bianco, venne spezzato. Tutte le imbarcazioni degli Ayjir e dei Rrrllya vennero distrutte, e si stabilì di non costruirne più. Poi, per miglior difesa, il Piccolo Popolo prese i dalan’usa e li mise nel Nanbu, in modo che nessuno potesse attraversarne le acque. E così è stato… per molto, molto, molto tempo.»

«Dalan’usa, Evalie… vuoi dire i serpenti?»

«Tlanu’si… la sanguisuga,» disse Jim.

«I serpenti… sono innocui. Penso che non ti saresti soffermato a parlare a Lur se avessi visto uno dei dalan’usa, Leif,» disse Evalie, con un po’ di malizia.

Accantonai quell’enigma, per il momento.

«I due che abbiamo trovato sotto i Fiori della Morte… avevano violato la tregua?»

«Non l’avevano violata. Sapevano che cosa li aspettava se fossero stati scoperti, ed erano pronti a pagare. Vi sono certe piante che crescono sull’altra sponda del bianco Nanbu… ed altre cose che servono al piccolo Popolo, e che da questa parte non si trovano. Perciò devono attraversare a nuoto il Nanbu per procurarsele: i dalan’usa sono amici. Non accade spesso che i nostri vengano sorpresi. Ma oggi Lur stava inseguendo una fuggitiva che cercava di raggiungere Sirk, e li ha scoperti e li ha raggiunti, e li ha messi sotto ai Fiori della Morte.»

«Ma cosa aveva fatto quella ragazza… era una di loro?»

«Era stata scelta per il Sacrificio. Non hai visto? Era taluli… aspettava un bambino… matura per… per…»

Le si spense la voce. Un brivido di gelo mi sfiorò.

«Ma, naturalmente, tu non ne sai nulla,» disse Evalie. «E non ne parlerò… adesso. Se Sri e Sra avessero trovato la ragazza prima di venire scoperti, l’avrebbero guidata oltre i dalan’usa… come hanno guidato voi: e sarebbe rimasta fino a quando sarebbe venuto il momento, per lei, di passare… fuori da se stessa. Sarebbe trapassata nel sonno, senza sofferenza… e quando si fosse destata, sarebbe stato molto lontano di qui… forse senza ricordi… libera. È così che il Piccolo Popolo, tanto amante della vita, manda via coloro che devono… essere mandati via.»

Lo disse serenamente, con gli occhi limpidi, imperturbati.

«E sono molti… che vengono mandati così?»

«Non molti, poiché sono pochi che riescono a superare i dalan’usa… eppure molti tentano.»

«Uomini e donne, Evalie?»

«Gli uomini possono portare in grembo bambini?»

«Che cosa intendi?» chiesi, abbastanza rudemente: c’era qualcosa, in quella domanda, che inspiegabilmente mi aveva punto sul vivo.

«Non ora,» rispose Evalie. «E poi, gli uomini a Karak sono pochi, come vi ho detto. Dei bambini che nascono, meno di uno su venti è maschio. Non domandarmi perché: non lo so.»

Si alzò, ci guardò con aria sognante.

«Basta, per questa notte. Dormite nella mia tenda. Domani ne avrete una vostra, ed il Piccolo Popolo vi scaverà una caverna nella parete di roccia, accanto alla mia. E vedrete Karak, che sorge sullo spezzato Nansur… e vedrete Tibur il Ridente, poiché viene sempre dall’altra parte di Nansur, quando io sono là. Vedrete tutto… domani… o dopodomani… o un altro giorno. Che cosa importa, dato che ogni domani sarà nostro, insieme? Non è così?»

Anche stavolta, Jim non rispose.

«È così, Evalie,» dissi io.

Lei ci sorrise, insonnolita. Si allontanò da lui, fluttuò verso l’ombra più cupa nella roccia, che era l’ingresso della sua caverna. Si dissolse in quell’ombra, e scomparve.

X SE UN UOMO POTESSE USARE TUTTO IL SUO CERVELLO

I tamburi delle minuscole sentinelle continuarono a rullare sommessamente, parlandosi lungo i chilometri della scarpata circolare. E all’improvviso provai una disperata nostalgia del Gobi. Non so perché, ma le sue distese spoglie e ardenti, spazzate dal vento e dalle sabbie, erano più desiderabili del corpo di qualunque donna. Era come una forte nostalgia, e mi accorsi che era difficile scrollarmela di dosso. Finalmente parlai, per pura disperazione.

«Ti sei comportato in modo maledettamente strano, indiano.»

«Tsi’ Tsa’lagi… Te l’ho detto: sono integralmente Cherokee.»

«Tsantawu… ora sono io, Degataga, che ti parlo.»

Avevo cominciato a parlare in Cherokee; lui mi rispose: «Cosa vuole sapere mio fratello?»

«Che cosa hanno bisbigliato le voci dei morti, quella notte che abbiamo dormito sotto gli abeti? Ciò che tu sapevi essere vero, per i tre segni che ti hanno dato. Non ho udito quelle voci, fratello… eppure grazie al rito del sangue, sono miei antenati come sono tuoi: e ho il diritto di conoscere le loro parole.»

Jim disse: «Non è meglio lasciare che il futuro si dispieghi senza ascoltare le voci tenui dei morti? Chi può stabilire se le voci degli spettri dicono la verità?»

«Tsantawu punta la sua freccia in una direzione, mentre i suoi occhi guardano in un’altra. Una volta egli mi ha chiamato cane che striscia alle calcagna del cacciatore. Poiché è evidente che mi giudica ancora così…»

«No, no, Leif,» m’interruppe, abbandonando la sua lingua tribale. «Intendo dire soltanto che non so se è la verità. So come la definirebbe Barr. Apprensioni naturali esposte subconsciamente in termini di superstizioni razziali. Le voci, noi le chiamiamo così, del resto… Le voci hanno detto che vi era un grande pericolo, a Nord. Lo Spirito che era a Nord li avrebbe distrutti per sempre, se fossi caduto nelle sue mani. Io e loro saremmo ‘come se non fossimo mai stati’. C’era una differenza enorme tra la normale morte e quella strana morte che non potevo capire. Ma le voci capivano. Avrei saputo, grazie a tre segni, che avevano detto la verità: per Ataga’hi, per Usunhi’yi e per gli Yunwi Tsundsi. Potevo incontrare i primi due e ritornare egualmente. Ma se avessi incontrato i terzi… sarebbe stato troppo tardi. Mi hanno implorato di non farlo… era stranamente interessante. Leif… non permettere che si… dissolvano.»

«Dissolvere!» esclamai. «Ma… è la stessa parola che ho usato io. Ed erano passate molte ore!»

«Sì, ed è per questo che ho provato un brivido quando ti ho sentito. Non puoi biasimarmi se mi sono preoccupato un po’ quando abbiamo incontrato la piana sassosa simile ad Ataga’hi, e ancora di più quando abbiamo scoperto la coincidenza della Terra Oscurata, che è molto simile a Usunhi’yi, la Terra che si Oscura. Per questo ti ho detto che, se ci fossimo imbattuti nel terzo segno, gli Yunwi Tsundsi, avrei accettato la tua interpretazione, anziché quella di Barr. L’abbiamo incontrato. E se tu pensi che tutto questo non sia una buona ragione per comportarmi in un modo maledettamente strano, come hai detto tu… allora, quale sarebbe, secondo te?»

Jim in catene d’oro… Jim con il tentacolo del Potere Tenebroso che strisciava, strisciava verso di lui… le mie labbra erano secche e irrigidite…

«Perché non me lo hai detto? Non ti avrei mai permesso di proseguire!»

«Lo so. Ma tu saresti ritornato indietro, non è vero?»

Non risposi; Jim rise.

«Come potevo esserne sicuro prima di aver visto tutti i segni?»

«Ma gli antenati non hanno detto che tu saresti stato… dissolto.» Mi aggrappai a quella pagliuzza. «Hanno detto soltanto che c’era pericolo.»

«È tutto.»

«Ed io, che cosa avrei fatto? Jim… ti ucciderei con le mie mani, prima di lasciare che accadesse a te ciò che ho visto succedere nel Gobi.»

«Se lo potessi,» disse lui; e capii che si era subito pentito di averlo detto.

«Se lo potessi? Che cosa hanno detto di me… quei maledetti antenati?»

«Niente di niente,» rispose Jim, in tono gaio. «Non ho mai sostenuto che abbiano detto qualcosa. Ho semplicemente dedotto che, se andavamo avanti ed io ero in pericolo, saresti stato in pericolo anche tu. Ecco tutto.»

«Jim… non è tutto. Che cosa mi nascondi?»

Si alzò.

«E va bene. Hanno detto che, pure se lo Spirito non mi prenderà, non ne uscirò mai. E adesso sai tutto.»

«Beh,» feci io, sentendomi liberato da un gran peso. «Non è poi così orribile. E in quanto ad uscire… sia come sia. Una cosa è sicura: se tu resti, resto anch’io.»

Jim annuì, distratto. Passai ad un altro argomento che mi rendeva perplesso.

«Gli Yunwi Tsundsi, Jim, che cosa sono? Non me ne hai mai parlato, a quanto ricordo. Cosa dice la leggenda?»

«Oh… il Piccolo Popolo.» Si accosciò al mio fianco, ridacchiando, ridestato dalla sua fantasticheria. «Erano nella terra dei Cherokee, quando i Cherokee vi giunsero. Erano una razza di pigmei, come quelli dell’Africa e dell’Australia contemporanee. Ma non erano neri. Questi piccoletti corrispondono alla descrizione. Naturalmente, le tribù ci ricamarono un po’ sopra: dicevano che avevano la pelle color rame ed una statura media di sessanta centimetri. In realtà, hanno la pelle dorata e sono alti in media novanta centimetri. In quanto a questo, comunque, potrebbero aver cambiato colore della pelle ed essere diventati più alti, stando qui. Per il resto, corrispondono alle descrizioni: capelli lunghi, forme perfette, tamburi e tutto quanto.»

Jim continuò a parlarmi del Piccolo Popolo. I suoi esponenti erano vissuti nelle caverne, soprattutto nella regione che comprende il Tennessee ed il Kentucky attuali. Erano un popolo sanguigno, e adoravano la vita: qualche volta erano scandalosamente rabelaisiani. Erano amichevoli nei confronti dei Cherokee, ma stavano sulle loro e si facevano vedere di rado. Aiutavano spesso coloro che si perdevano tra le montagne, soprattutto i bambini. Se soccorrevano qualcuno e lo conducevano nelle loro caverne, lo avvertivano che non doveva rivelarne l’ubicazione, altrimenti sarebbe morto. E secondo le leggende, se quello la rivelava moriva davvero. Se qualcuno si nutriva del loro cibo doveva stare molto attento quando ritornava alla propria tribù, e doveva riprendere lentamente la vecchia dieta, altrimenti moriva.

Il Piccolo Popolo era assai suscettibile. Se qualcuno li seguiva nella foresta, gli gettavano un incantesimo, e per giorni interi quello perdeva il senso dell’orientamento. Erano esperti nel lavorare il legno e i metalli, e se un cacciatore trovava nella foresta un coltello, una punta di freccia o un qualsiasi altro oggetto, prima di raccoglierlo doveva dire: «Piccolo Popolo, voglio prenderlo». Se non lo chiedeva, non riusciva più a uccidere neppure un capo di selvaggina e gli accadeva un’altra disgrazia. Una che faceva soffrire sua moglie.

Il Piccolo Popolo era gaio. Trascorrevano metà del tempo danzando e suonando i tamburi. Avevano tamburi di tutti i tipi: tamburi che facevano cadere gli alberi, altri che inducevano il sonno, altri che spingevano alla follia, altri che parlavano ed altri che tuonavano. Tuonavano esattamente come il tuono, e quando gli omini del Piccolo Popolo li percuotevano, presto scoppiava un vero temporale, perché erano così simili alla realtà che destavano i temporali, i quali accorrevano per chiacchierare con quello che ritenevano fosse un membro vagabondo della loro famiglia…

Ricordai il rombo di tuono che aveva seguito la cantilena; mi chiesi se era stata la sfida del Piccolo Popolo a Khalk’ru…

«Ho un paio di domande da rivolgerti, Leif.»

«Fai pure, indiano.»

«Che cosa ricordi, effettivamente, di… Dwayanu?»

Non gli risposi subito; era la domanda che avevo temuto fin da quando avevo gridato quelle parole all’Incantatrice, sulla riva del fiume bianco.

«Se ci stai pensando sopra, va bene. Se stai cercando un modo per eludere la domanda, va malissimo. Ti chiedo una risposta molto franca.»

«Tu sei convinto che io sia quell’antico uiguro reincarnato? Se è così, allora forse hai una teoria circa il posto dove sarei stato durante le migliaia d’anni trascorse da quell’epoca ad oggi.»

«Oh, dunque anche tu sei assillato dalla stessa idea, non è vero? No, non stavo pensando esattamente alla reincarnazione. Anche se ne sappiamo così poco che non la escluderei. Ma c’è una spiegazione più ragionevole. Ecco perché ti ho chiesto: che cosa ricordi, effettivamente, di Dwayanu?»

Decisi di prendere di petto il problema.

«Sta bene, Jim,» dissi. «La stessa domanda ha continuato ad ossessionare la mia mente, insieme a Khalk’ru, per tre anni. Se non riesco a trovare qui la risposta, tornerò a cercarla nel Gobi… se ce la farò ad uscire. Quando ero in quella stanza nell’oasi, in attesa della chiamata del vecchio sacerdote, ricordai con perfetta lucidità che era stata la stanza di Dwayanu. Conoscevo il letto, e le armi e l’armatura. Mentre guardavo uno degli elmi metallici, ricordai che Dwayanu… o io… aveva ricevuto su di esso un terribile colpo di mazza. Lo presi, e c’era un’ammaccatura, esattamente nel punto preciso in cui ricordavo che era stato colpito. Riconobbi le spade, e rammentai che Dwayanu — o io — aveva l’abitudine di impugnare con la sinistra una più pesante di quella che stringeva nella destra. Bene, una era molto più pesante dell’altra. E anch’io uso meglio la mano sinistra della destra. Questi ricordi, o quel che erano, mi arrivarono a sprazzi. Per un momento ero Dwayanu, più me stesso, e guardavo con divertito interesse quegli antichi oggetti ben noti: e un attimo dopo ero soltanto me stesso e mi chiedevo, senza la minima ilarità, che cosa significava tutto ciò.»

«Sì, e che altro?»

«Ecco, non sono stato completamente sincero a proposito del rituale,» dissi, a disagio. «Ti ho detto che era come se una altra persona si fosse impadronita della mia mente e l’avesse compiuto. Era vero, in un certo senso… ma Dio mi aiuti, io sapevo sempre che quell’altra persona… ero io! Mi pareva di essere due individui ed uno solo nello stesso tempo. È difficile spiegarlo in modo chiaro… tu sai che può capitare di dire una cosa e di pensarne un’altra. Immagina di poter dire una cosa e di pensare due cose contemporaneamente. Era così. Una parte di me si ribellava, in preda all’orrore, atterrita. L’altra parte, al contrario, sapeva di possedere il potere ed era felice di esercitarlo… e dominava la mia volontà. Ma entrambe erano… me. Inequivocabilmente, inconfondibilmente me. Al diavolo, uomo, se avessi creduto veramente che fosse un’altra cosa, un’altra persona, oltre me stesso, credi che proverei un simile rimorso? No, è perché sapevo di essere io… la stessa parte di me che conosceva l’elmo e le spade. È per questo che da allora sono sempre stato ossessionato.»

«Nient’altro?»

«Sì. I sogni.»

Jim si protese verso di me e parlò in tono tagliente.

«Quali sogni?»

«Sogni di battaglie… sogni di festini… il sogno di una guerra contro uomini gialli, e un campo di battaglia in riva ad un fiume, nuvole di frecce che sibilavano sopra la testa… combattimenti corpo a corpo in cui impugnavo un’arma simile ad un enorme martello, contro uomini giganteschi dai capelli gialli che so essere simili a me… sogni di città turrite che io attraversavo, mentre donne bianche dagli occhi azzurri lanciavano ghirlande di fiori davanti al mio cavallo… Quando mi ridesto i sogni sono vaghi, e presto si disperdono. Ma io so sempre che quando li sognavo erano chiari, nitidi… veri come la realtà…»

«È per questo che sapevi che la Donna-lupo era l’Incantatrice? Grazie ai sogni?»

«Se è così, non lo ricordo. So soltanto che all’improvviso l’ho riconosciuta per ciò che era… o l’ha riconosciuta il mio altro io.»

Jim rimase seduto per qualche istante senza dir nulla.

«Leif» chiese poi, «in quei sogni hai preso parte al culto di Khalk’ru? Hai avuto qualcosa a che fare con la sua adorazione?»

«Sono sicuro di no. Me lo ricorderei, per Dio! Non sogno neppure il tempio del Gobi.»

Jim annuì, come se avessi confermato un suo pensiero; poi rimase zitto così a lungo che io m’innervosii.

«E allora, Uomo della Medicina degli Tsalagi, qual è la diagnosi? Reincarnazione, possessione demoniaca, oppure pura e semplice follia?»

«Leif, non avevi mai fatto sogni di quel genere, prima dell’episodio del Gobi?»

«Mai.»

«Bene… Mi sono sforzato di ragionare come farebbe Barr, di far quadrare tutto con la mia materia grigia. Ecco il risultato. Sono convinto che quanto mi hai raccontato sia opera del vecchio sacerdote. Ti dominava quando hai visto te stesso cavalcare verso il tempio di Khalk’ru… e rifiutasti di entrare. Tu non sai che altro può averti suggerito in quel momento, ordinandoti di dimenticarlo consciamente quando fossi tornato in te. È un semplice caso d’ipnotismo. Ma poi lui ebbe un’altra occasione per suggestionarti. Mentre dormivi, quella notte. Come puoi avere la certezza che non sia venuto a suggestionarti ancora? Ovviamente, voleva che tu credessi di essere Dwayanu. Voleva che tu ‘ricordassi’: ma poiché aveva già avuto una lezione, non voleva che tu ricordassi quello che succedeva con Khalk’ru. Ciò spiegherebbe perché tu sognasti gloria e splendore e altre cose piacevoli, ma non quelle spiacevoli. Era un vecchio saggio… questo sei tu stesso a dirlo. Conosceva la tua psicologia a sufficienza per prevedere che ti saresti impuntato ad una certa fase del rituale. Infatti fu così: ma lui ti aveva imbrigliato a dovere. Immediatamente, scattò il comando postipnotico impartito al subconscio. Tu non potevi fare a meno di proseguire. Benché il tuo io conscio fosse perfettamente desto, non era in grado di dominare la tua volontà. Penso che Barr direbbe così. E io sarei d’accordo. Diavolo, esistono droghe capaci di simili scherzi. Non è necessario pensare a migrazioni dell’anima, a dèmoni o ad altre superstizioni medievali, per spiegarlo.»

«Sì,» dissi speranzoso ma poco convinto. «E l’Incantatrice?»

«Una donna simile a lei nei tuoi sogni, ma dimenticata. Credo che la mia spiegazione sia esatta. E se lo è, Leif, la faccenda mi preoccupa.»

«Non riesco a seguirti,» dissi.

«No? Bene, prova a riflettere. Se tutte le cose che ti tormentano derivano da suggestioni impartite dal vecchio sacerdote… che altro ti ha suggerito? È chiaro che sapeva qualcosa di questo luogo. Supponi che prevedesse la possibilità che tu lo trovassi. Cosa avrebbe voluto che tu facessi, dopo averlo trovato? Qualunque cosa fosse, puoi scommetterci le tue possibilità di andartene di qui che il vecchio l’ha radicata profondamente nel tuo subconscio. D’accordo: poiché è una deduzione ragionevole, che cosa farai quando entrerai in contatto più stretto con quelle signore dai capelli rossi che abbiamo visto, e con quei pochi fortunati gentiluomini che condividono il loro paradiso? Io non ne ho la minima idea… e non l’hai neanche tu. E se questo non è preoccupante, dimmi tu che cosa lo è. Vieni, andiamo a dormire.»

Entrammo nella tenda. Vi eravamo già stati prima, insieme a Evalie. Allora era vuota, a parte un mucchio di morbide pelli e di stoffe seriche in un angolo. Adesso i mucchi erano due. Ci svestimmo nell’oscurità verdepallida e ci sdraiammo. Io diedi un’occhiata al mio orologio.

«Sono le dieci,» dissi. «Quanti mesi sono passati da stamattina?»

«Almeno sei. Se mi tieni sveglio, ti ammazzo. Sono stanchissimo.»

Lo ero anch’io. Ma rimasi sveglio a lungo, a pensare. Non ero molto persuaso degli argomenti di Jim, per quanto fossero plausibili. Certo, non credevo di avere dormito per secoli in una specie di limbo extraspaziale. E neppure di essere stato quell’antico Dwayanu. C’era una terza spiegazione, per quanto non mi piacesse più della reincarnazione: e presentava le stesse spiacevoli possibilità della spiegazione di Jim.

Non molto tempo prima, un illustre medico e psicologo americano aveva affermato di aver scoperto che l’uomo normale usava solo all’incirca una decima parte del proprio cervello: e in genere gli scienziati gli avevano dato ragione. I pensatori più grandi, i genii completi, come Leonardo da Vinci o Michelangelo, potevano al massimo usarne un altro decimo. Qualunque uomo che fosse capace di usare tutto il proprio cervello poteva dominare il mondo… ma probabilmente non ci avrebbe tenuto. Nel cranio umano c’era un mondo esplorato al massimo per un quinto.

Che cos’era la terra incognita del cervello… cos’erano quegli otto decimi inesplorati?

Bene, innanzi tutto potevano essere un magazzino di ricordi ancestrali, ricordi che risalivano a quelli degli antenati scimmieschi e villosi dell’uomo, e poi ancora più indietro, fino a quelli degli esseri pinnati che erano saliti dagli antichissimi mari per incominciare la marcia verso l’uomo… e più indietro ancora, fino ai loro predecessori che avevano lottato e si erano riprodotti negli oceani fumiganti quando nascevano i continenti.

Milioni e milioni d’anni di ricordi! Quale patrimonio di sapere, se la coscienza dell’uomo fosse riuscita ad attingervi!

Tutto questo non era più incredibile di quanto lo fosse l’idea che la memoria fisica della specie potesse venire contenuta nelle due singole cellule che avviano il ciclo della nascita. In quelle due cellule vi sono tutte le complessità del corpo umano: cervello e nervi, muscoli, ossa e sangue. E vi sono anche le caratteristiche che chiamiamo ereditarie: le rassomiglianze familiari, non soltanto nel viso e nel corpo ma anche nei pensieri, nelle abitudini, nelle emozioni e nelle reazioni all’ambiente: il naso del nonno, gli occhi della bisnonna, l’irascibilità del trisnonno, e via di seguito. Se tutto ciò venisse trasmesso da quei quarantasette o quarantotto bastoncelli microscopici entro i gameti, che i biologi chiamano cromosomi, minuscoli Dèi misteriosi della nascita che stabiliscono sin dall’inizio quale mistura degli antenati sarà un bimbo od una bimba, perché non potevano trasmettere anche le esperienze accumulate, i ricordi di quegli antenati?

Nel cervello umano poteva esservi un reparto di dischi, ognuno perfettamente inciso con i solchi della memoria, in attesa che la puntina della coscienza li percorresse per renderli articolati.

Forse ogni tanto la coscienza li sfiorava, di tanto in tanto, e li leggeva. Forse vi erano alcune persone che, per una bizzarra anomalia, possedevano una capacità limitata di attingere al loro contenuto.

Se era vero, questo poteva spiegare molti misteri. Le voci fantasma di Jim, per esempio. La mia strana capacità di apprendere rapidamente le lingue.

Supponiamo che io fossi disceso proprio da quel Dwayanu. E che nel mondo sconosciuto del mio cervello, la mia coscienza, ciò che io ero adesso, potesse protendersi fino a toccare i ricordi che erano stati Dwayanu. Oppure che quei ricordi si agitassero e raggiungessero la mia coscienza. Quando questo accadeva… Dwayanu si destava e viveva. E io, allora, ero contemporaneamente Dwayanu e Leif Langdon!

Non poteva darsi che il vecchio sacerdote lo sapesse? Con le parole ed i riti e le suggestioni, come aveva detto Jim, si era spinto nella terra incognita ed aveva ridestato quei ricordi che erano Dwayanu?

Quei ricordi… erano molto forti. Non erano stati interamente sopiti: altrimenti non avrei imparato tanto rapidamente l’uiguro… non avrei vissuto quegli strani, riluttanti barlumi di identificazione prima ancora d’incontrare il vecchio sacerdote…

Sì, Dwayanu era forte. E inspiegabilmente sapevo anche che era spietato. Avevo paura di Dwayanu… dei ricordi che un tempo erano stati Dwayanu. Non avevo il potere di ridestarli, e non avevo il potere di dominarli. Per due volte si erano impadroniti della mia volontà e mi avevano sospinto in disparte.

E se fossero divenuti più forti?

E se fossero divenuti interamente me?

XI I TAMBURI DEL PICCOLO POPOLO

Per sei volte la luce verde della Terra Oscurata s’era offuscata nel buio smeraldino che era la sua notte, ed io non avevo udito né visto l’Incantatrice né coloro che abitavano dall’altra parte del fiume bianco. Erano stati sei giorni e sei notti densi d’interesse e di curiosità. Eravamo andati insieme a Evalie tra i pigmei dorati, per tutta la loro piana ben difesa; e ci eravamo aggirati da soli tra loro, a volontà.

Li avevamo guardati lavorare e giocare, avevamo ascoltato i loro tamburi e ammirato, stupiti, le loro danze… così complesse e straordinarie da essere più complicate armonie corali che semplici passi e gesti. Talvolta i pigmei danzavano a gruppetti di dodici o poco più, ed era come un semplice canto. Ma talvolta danzavano a centinaia, allacciati, su prati dalle zolle piatte; e allora erano sinfonie tradotte in misure coreografiche.

Ballavano sempre al suono dei loro tamburi: non conoscevano altra musica e non ne avevano bisogno. I tamburi del Piccolo Popolo erano di molte forme e dimensioni: la loro gamma si estendeva su dieci ottave, e produceva non solo i semitoni della nostra scala, ma anche quarti e ottavi di tono e gradazioni ancora più sottili che facevano uno strano effetto all’ascoltatore… o almeno a me. Quei suoni andavano dal basso più profondo delle canne d’organo fino agli acuti di soprano. I pigmei ne suonavano alcuni con i pollici e le dita, altri con il palmo delle mani, altri ancora con le bacchette. Vi erano tamburi che bisbigliavano, altri che ronzavano; tamburi che ridevano, altri che cantavano.

Le danze ed i tamburi, soprattutto i tamburi, evocavano strani pensieri e strane immagini; i tamburi bussavano alle porte di un altro mondo… ed ogni tanto le aprivano quanto bastava per permettere di scorgere immagini fuggevoli, bizzarramente belle e bizzarramente inquietanti.

Dovevano esserci tra i quattro e i cinquemila pigmei nei trenta chilometri quadrati, più o meno, della piana fertile e coltivata racchiusa dalla barriera; quanti ce ne fossero al di fuori, non avevo possibilità di saperlo. Evalie ci disse che esisteva una dozzina o più di piccole colonie. Erano gli avamposti per la caccia e per le attività minerarie, da cui provenivano le pelli, i metalli e le altre cose che erano lavorate e poi utilizzate. Al Ponte Nansur c’era una forte guarnigione di guerrieri. L’equilibrio naturale, a quanto riuscii a sapere da Evalie, li manteneva ad un numero più o meno costante: diventavano adulti in fretta e le loro vite non erano lunghe.

Evalie ci parlò di Sirk, la città di coloro che erano sfuggiti al Sacrificio. A giudicare dalla sua descrizione doveva trattarsi di un luogo inespugnabile, edificato contro le pareti di roccia, cinto di mura; le sorgenti bollenti che sgorgavano alla base dei suoi bastioni formavano un fossato invalicabile. C’era guerra incessante tra il popolo di Sirk ed i lupi bianchi di Lur, in agguato nella foresta circostante per intercettare quelli che fuggivano da Karak per andare a rifugiarsi là. Ebbi la sensazione che esistessero rapporti segreti tra quelli di Sirk ed i pigmei dorati: forse l’orrore per il Sacrificio, comune a entrambi, e la ribellione degli abitanti di Sirk contro gli adoratori di Khalk’ru costituivano un legame. Quando potevano, i pigmei li aiutavano, e avrebbero addirittura fatto causa comune con loro, se non fosse stato per l’antica paura di quanto sarebbe accaduto se avessero violato il patto concluso dai loro antenati con gli Ayjir.

Fu qualcosa che mi disse Evalie, ad indurmi a pensare così.

«Se tu avessi svoltato dall’altra parte, Leif, e se fossi sfuggito ai lupi di Lur… saresti giunto a Sirk. E forse questo avrebbe arrecato un grande cambiamento, perché a Sirk ti avrebbero accolto volentieri, e chissà cosa sarebbe avvenuto, con te come loro condottiero. Ed il mio Piccolo Popolo, allora, non…»

S’interruppe, e per quanto io insistessi, non volle completare la frase. Allora le dissi che c’erano troppi «se» in quella faccenda, ed ero contento che i dadi avessero dato il risultato che avevano dato. Evalie sembrò rallegrarsene.

Ebbi un’esperienza che non condivisi con Jim. Sul momento, non ne riconobbi il significato. Come ho detto, i pigmei adoravano la vita: quello era il loro credo, la loro fede. Qua e là, sparsi sulla piana, c’erano piccoli tumuli, veri e propri altari su cui, intagliati in legno o in pietra o in avorio fossile, stavano gli antichi simboli della fertilità: talvolta soli, talvolta a coppie, e talvolta in una forma curiosamente simile allo stesso simbolo degli antichi egizi, la crux ansata che Osiride, il Dio della Resurrezione, teneva in mano per toccare con essa, nel Regno dei Morti, le anime che avevano superato tutte le prove e che avevano meritato l’immortalità.

Accadde il terzo giorno. Evalie mi ordinò di andare con lei, e solo. Ci incamminammo per il sentiero ben curato che si snodava alla base delle pareti di roccia, in cui i pigmei avevano le loro caverne. Le minuscole donne dagli occhi d’oro ci sbirciavano e trillavano ai figli piccoli come bambole, al nostro passare. Gruppi di anziani, maschi e femmine, ci vennero incontro danzando e si accodarono a noi. Reggevano tutti tamburi di un tipo che non avevo ancora visto. Non li suonavano, e non parlavano neppure: un gruppo alla volta presero a seguirci, in silenzio.

Dopo un po’, notai che non c’erano più caverne. Circa mezz’ora dopo, aggirammo un bastione di roccia. Ci trovammo sul limitare di un praticello tappezzato di muschio, fine e soffice come un mucchio di tappeti di seta. Il prato era ampio forse centocinquanta metri, e profondo circa altrettanto. Di fronte a me c’era un altro bastione. Sembrava scolpito da un cesello arrotondato, che avesse ricavato un semicerchio nel precipizio. In fondo al prato c’era qualcosa che a prima vista mi parve un enorme edificio a cupola; poi mi accorsi che era una sporgenza della roccia.

Nell’enorme masso arrotondato c’era un’apertura ovale, non molto più grande d’una comune porta. Mentre guardavo, fermo e meravigliato, Evalie mi prese la mano e mi condusse in quella direzione. Varcammo la soglia.

La roccia a cupola era cava.

Era un Tempio del Piccolo Popolo: lo compresi, naturalmente, non appena ne superai la soglia. Le pareti di pietra verde e fresca salivano incurvandosi dolcemente. Non era buio, nel tempio. La cupola di roccia era stata traforata, come dall’ago di una merlettaia, e la luce entrava da centinaia di feritoie. Le pareti la catturavano e la disperdevano in migliaia di angoli cristallini all’interno della pietra. Il pavimento era rivestito di muschio soffice e fitto, anch’esso lievemente luminoso, che intensificava la strana luce diffusa; doveva coprire almeno uno spazio di due acri.

Evalie mi trascinò avanti. Al centro esatto del pavimento c’era una depressione, simile ad un’immensa ciotola. Tra quella e me stava uno dei simboli della croce ansata, tre volte più alta di un uomo di buona statura. Era levigata, e scintillava come se fosse stata ricavata da un colossale cristallo ametistino. Mi voltai a guardare. I pigmei che ci avevano seguiti si stavano riversando attraverso la porta ovale.

Si affollarono dietro di noi, mentre Evalie mi prendeva di nuovo per mano e mi guidava verso la croce. Tese la mano ed io guardai nella conca.

E vidi il Kraken!

Era là, disteso entro la conca, i tentacoli neri che si aprivano a ventaglio dal corpo rigonfio, gli enormi occhi neri che fissavano imperscrutabili i miei!

Il vecchio orrore mi riprese. Spiccai un balzo all’indietro, imprecando.

I pigmei si affollavano attorno alle mie ginocchia, fissandomi intenti. Sapevo che portavo scritto in faccia tutto il mio orrore. Cominciarono a trillare eccitati, scambiandosi cenni con il capo, gesticolando. Evalie li osservò con aria grave, poi vidi il suo volto schiarirsi in un’espressione di sollievo.

Mi sorrise, e m’indicò ancora la conca. Mi feci forza e guardai. E questa volta mi accorsi che la figura era abilmente scolpita. I terribili occhi insondabili erano gemme simili a giaietto. All’estremità di ognuno dei tentacoli lunghi quindici metri era stata piantata una croce ansata, che lo trafiggeva come una spina: ed una ancora più grande trapassava il corpo mostruoso.

Ne compresi il significato: la Vita che teneva prigioniero il nemico della Vita, lo rendeva impotente, lo immobilizzava con il segreto, antico simbolo sacro di ciò che esso aspirava a distruggere. E la grande croce ansata lassù… vegliava e vigilava, come il dio della vita.

Udii levarsi dai tamburi un mormorio ondulante, un fruscio precipitoso. Continuò, accelerando rapidamente il tempo. Aveva una nota di trionfo: il trionfo delle onde che si avventavano vittoriose, del vento libero; e c’era in esso la pace e la sicurezza della pace… come il suono frusciante di minuscole cascatelle che cantavano la propria certezza di continuare per sempre, l’incresparsi di piccole onde tra i carici delle prode, e il frusciare della pioggia che porta vita a tutta la vegetazione della Terra.

Evalie incominciò a danzare intorno alla croce ametistina, aggirandola lentamente al ritmo della musica ondeggiante, frusciante e precipitosa dei tamburi. Ed era lei lo spirito di quel canto, e lo spirito di tutte le cose di cui cantavano.

Le girò intorno tre volte. Si accostò a me danzando, mi prese ancora la mano e mi condusse fuori, oltre il portale. Dietro di noi, mentre uscivamo, venne il rullo sostenuto dei piccoli tamburi… non più frusciante, ondeggiante e precipitoso… ma lanciato in una sfida trionfale.

Ma poi, della cerimonia e delle sue ragioni e persino del tempio, Evalie non volle più dire una parola, per quanto insistessi a interrogarla.

E dovevamo ancora salire sul Ponte Nansur a contemplare la turrita Karak.

«Domani,» diceva Evalie; e quando veniva l’indomani, lei ripeteva ancora «domani». Quando mi rispondeva abbassava le lunghe ciglia dei suoi chiari occhi castani e mi sogguardava stranamente; oppure mi sfiorava i capelli, e diceva che vi erano tanti domani, e non importava quando saremmo andati, perché Nansur non sarebbe fuggito. Vi era in lei una riluttanza che non riuscivo a spiegare. E di giorno in giorno la sua bellezza e la sua dolcezza intessevano una rete intorno al mio cuore, finché cominciai a chiedermi se sarebbe diventata uno scudo contro il contatto di ciò che portavo sul petto.

Ma i pigmei avevano ancora parecchi dubbi sul mio conto, indipendentemente dalla cerimonia nel tempio: questo era abbastanza evidente. Avevano accolto Jim nei loro cuori; cinguettavano e trillavano e ridevano con lui, come se fosse stato uno di loro. Con me erano piuttosto cortesi e amichevoli, ma mi sorvegliavano. Jim poteva prendere in braccio i loro bimbi piccini come bambole e giocare con loro. Le madri non amavano che io facessi lo stesso, e lo dimostravano chiaramente. Quella mattina ricevetti una conferma diretta di ciò che pensavano di me.

«Ti lascio per due o tre giorni, Leif,» mi disse Jim quando terminai di far colazione. Evalie si era involata, al richiamo del suo Piccolo Popolo.

«Mi lasci!» Lo guardai a bocca aperta, sbigottito. «Cosa vuoi dire? Dove vai?»

Jim rise.

«Vado a vedere i tlanusi… quelli che Evalie chiama dalan’usa… le grandi sanguisughe. Le sentinelle del fiume, di cui lei ci ha detto che sono state messe lì dai pigmei, quando venne spezzato il ponte.»

Evalie non ne aveva più parlato, e io me ne ero dimenticato completamente.

«Che cosa sono, indiano?»

«È appunto quello che intendo scoprire. A giudicare dal nome, dovrebbero essere come la sanguisuga gigante di Tlanusi’yi. Le tribù dicevano che erano rosse a strisce bianche, e grosse come case. Il Piccolo Popolo non arriva a tanto: dice che sono grandi quanto te.»

«Stammi a sentire, indiano… vengo con te.»

«Oh, no, non verrai.»

«Voglio sapere perché.»

«Perché i pigmei non te lo permetteranno. Stammi bene a sentire, vecchio mio… la verità è che non sono del tutto soddisfatti di te. Sono cortesi, e non vorrebbero offendere Evalie per nulla al mondo, ma… preferirebbero fare a meno di te.»

«Non mi dici niente di nuovo,» commentai.

«No, ma qualcosa di nuovo c’è. Un gruppo che è andato a caccia all’altra estremità della valle è rientrato proprio ieri. Uno dei cacciatori ha ricordato quel che gli aveva detto suo nonno: che quando gli Ayjir arrivarono qui a cavallo, avevano tutti i capelli gialli come i tuoi. Non i capelli rossi che hanno adesso. E questo li ha turbati.»

«Mi sembrava appunto che in queste ultime ventiquattro ore mi tenessero d’occhio,» ammisi. «Dunque la ragione è questa, eh?»

«La ragione è questa, Leif. Sono sconvolti. Ed è anche la ragione per questa spedizione in cerca di tlanusi. Hanno intenzione di intensificare la guardia al fiume. A quanto ho capito, ciò comporta una specie di cerimonia. Vogliono che io li accompagni. Credo che sia meglio accontentarli.»

«Ed Evalie lo sa?»

«Sicuro che lo sa. E non ti lascerebbe andare, anche se i pigmei lo consentissero.»

Jim partì verso mezzogiorno con una squadra di circa cento pigmei. Mi congedai allegramente da lui. Forse Evalie era stupita che avessi preso con tanta calma la partenza del mio amico senza farle domande, ma non lo mostrò. Quel giorno, però, fu molto taciturna: parlava quasi esclusivamente a monosillabi, distratta. Un paio di volte la sorpresi a guardarmi con un curioso stupore negli occhi. E una volta che le presi la mano, lei rabbrividì e si tese verso di me, poi si svincolò, quasi irritata. E quando ebbe dimenticato il malumore e si appoggiò alla mia spalla, dovetti farmi forza per non prenderla tra le braccia.

Il peggio era che non riuscivo a trovare un argomento incontrovertibile per non prenderla tra le braccia. Una voce nella mia mente mi sussurrava che, se era questo che volevo, perché non dovevo farlo? E oltre a quel sussurro vi erano altre cose che sgretolavano la mia resistenza. Era stata una giornata strana, anche per quello strano luogo. L’atmosfera era pesante, come se si stesse preparando un temporale. Le fragranze inebrianti che giungevano dalla foresta lontana erano più forti, e mi avvolgevano amorosamente, confondendomi. I veli di vapore che nascondevano il panorama lontano si erano addensati: a Nord avevano quasi assunto un color fumo, e si avvicinavano lentamente ma ininterrottamente.

Evalie ed io sedevamo davanti alla sua tenda. Lei infranse un lungo silenzio.

«Sei addolorato, Leif… perché?»

«Non sono addolorato, Evalie… solo pensavo.»

«Anch’io sto pensando. Alla stessa cosa?»

«E come posso saperlo… che ne so della tua mente?»

Lei si alzò bruscamente.

«A te piace guardare i fabbri. Andiamo a vederli.»

La guardai, urtato dalla collera nella sua voce. Evalie aggrottò la fronte, con le sopracciglia contratte in una linea ininterrotta sugli occhi luminosi e quasi sprezzanti.

«Perché sei offesa, Evalie? Che cosa ho fatto?»

«Non sono offesa. E tu non hai fatto niente.» Batté il piede a terra. «Ho detto che non hai fatto… niente! Andiamo a guardare i fabbri.»

Se ne andò. Balzai in piedi e la seguii. Cosa le era preso? Avevo fatto qualcosa che l’aveva irritata, questo era certo. Ma cosa? Comunque l’avrei scoperto, prima o poi. E mi piaceva davvero osservare i fabbri. Sulle loro piccole incudini forgiavano i coltelli falcati, le punte delle lance e delle spade, modellavano orecchini e braccialetti d’oro per le loro donne minuscole.

Tink-atink, tink-aclink, ding-clang, clink-atink… risuonavano i piccoli magli.

Stavano ritti alle incudini come gnomi, ma non erano affatto deformi. Erano uomini in miniatura, perfettamente formati, lucenti come oro nella luce che si ottenebrava, i lunghi capelli annodati intorno alla testa, gli occhi gialli fissi sulla forgia. Dimenticai Evalie e il suo sdegno mentro li guardavo, affascinato come sempre.

Tink-atink! Cling-clang! Clink…

I piccoli magli rimasero sospesi a mezz’aria; i minuscoli fabbri restarono immobili. Da Nord giunse il vibrare di un grande gong, un colpo bronzeo che parve spezzarsi sopra di noi. Fu seguito da un altro, poi da un altro ancora. Il vento ululava sulla piana: l’aria si oscurò, i vaporosi veli color fumo fremettero e si fecero più vicini.

Il clangore del gong cedette il posto ad una forte cantilena, il canto di molte persone, che avanzava e indietreggiava, saliva e svaniva via via che il vento si alzava e cadeva, si alzava e cadeva in una pulsazione ritmica. Dalle mura, i tamburi delle sentinelle ruggirono un avvertimento.

I minuscoli fabbri lasciarono cadere i magli e corsero alle loro caverne. Su tutta la piana c’era un trambusto, un movimento di pigmei dorati che correvano verso le pareti di roccia ed al pendio circolare per rafforzare la guarnigione.

Frammisto alla forte cantilena venne il battito di altri tamburi. Li conoscevo… era il pulsare dei tamburi uiguri, i tamburi da guerra. E riconobbi il canto… era il canto di guerra, l’inno di battaglia degli uiguri.

Non gli uiguri, no… non quelle genti misere e lacere che avevo condotto fuori dall’oasi!

Era il canto di guerra dell’antica razza! La grande razza… gli Ayjir!

La vecchia razza! Il mio popolo!

Conoscevo quel canto… lo conoscevo bene! Lo avevo udito molto spesso, nei tempi andati… quando ero andato a combattere… Per Zarda delle Lance Assetate… per Zarda, Dio dei Guerrieri! Era come una bevanda per una gola inaridita, udirlo di nuovo!

Il sangue mi rombò nelle orecchie… Aprii la bocca per urlare quel canto…

«Leif! Leif! Che succede?»

Evalie mi aveva posato le mani sulle spalle e mi scrollava. La fissai sdegnato, senza capire, per un momento. Provavo un turbamento rabbioso, sconcertante. Chi era quella ragazza bruna che mi tratteneva mentre stavo per andare a combattere? E di colpo l’ossessione mi lasciò. Mi lasciò tremante, scosso da una fulminea, turbinosa tempesta della mente. Posai le mani su quelle di Evalie, e trassi la realtà da quel contatto. Vidi la perplessità negli occhi di lei, e la paura. E intorno a noi c’era un cerchio di pigmei che mi fissavano.

Scrollai il capo, ansimando per respirare.

«Leif! Che succede?»

Prima che potessi rispondere, il canto ed il rullo dei tamburi furono sommersi dallo scoppio di un tuono. Uno dopo l’altro, i tuoni rombarono ed echeggiarono sulla piana, ricacciando i rumori provenienti dal Nord, ruggendo e urlando più forte, spazzandoli indietro.

Mi guardai intorno, instupidito. Lungo le pareti rocciose c’erano i pigmei dorati, a dozzine; battevano su grandi tamburi che arrivavano loro alla cintura. Era da quei tamburi che veniva il rombo del tuono, gli scoppi assordanti delle cadute rapide dei fulmini, i riverberi urlanti che li seguivano.

I Tamburi-Tuono del Piccolo Popolo!

I tamburi rombavano e rombavano, eppure fra il loro diapason rullante continuava a pervenire il canto di battaglia e gli altri tamburi… come affondi di lancia… come il trepestio di cavalli e di uomini in marcia… per Zarda, com’era ancora forte la vecchia razza!

Intorno a me stava danzando un cerchio di pigmei. Un altro cerchio venne ad aggiungersi al primo. Più oltre vidi Evalie, che mi scrutava con occhi spalancati e attoniti. E intorno a lei c’era un altro cerchio di pigmei dorati, con le frecce pronte, i coltelli falcati in pugno.

Perché lei mi guardava… perché le armi del Piccolo Popolo erano rivolte contro di me… e perché danzavano? Era una strana danza… metteva sonno a osservarla… Cos’era quella letargia che s’insinuava in me… Dio, che sonno avevo! Tanto sonno che le mie orecchie stordite potevano captare a malapena i Tamburi-Tuono… tanto sonno che non potevo udire nient’altro… tanto sonno…

Mi resi conto, vagamente, che ero caduto in ginocchio… poi che ero finito, prono, sull’erba soffice… poi dormii.

Mi destai, con tutti i sensi vigili. I tamburi rullavano tutto intorno a me. Non erano Tamburi-Tuono, ma tamburi che cantavano, pulsavano e cantavano con uno strano ritmo melodioso che mi faceva correre il sangue nelle vene, guidato dalla sua gioiosità. Le note frementi, canore, erano come piccoli, caldi colpi vitali che lanciavano il mio sangue verso l’estasi della vita.

Balzai in piedi. Ero su di un poggio, rotondo come un seno di donna. Tuttavia la piana brillava di luci, piccoli fuochi accesi in cerchio intorno ai minuscoli altari del Piccolo Popolo. E attorno ai fuochi i pigmei danzavano al ritmo dei tamburi. Danzavano e spiccavano salti intorno ai fuochi e agli altari, come esili e vive fiamme dorate.

Intorno al poggio su cui mi trovavo io vi erano tre cerchi di nanetti, donne e uomini, che s’intrecciavano, si snodavano, s’intessevano.

La danza ed il suono dei tamburi erano una cosa sola.

Sul poggio soffiava un vento dolce e profumato. Canterellava, sfiorandomi… e la sua melodia era simile alla danza ed ai tamburi.

Avanti e indietro, e indietro e avanti e ancora indietro, i pigmei ballavano attorno all’altura. E giravano, giravano in tondo, attorno agli altari cinti dai fuochi.

Sentii cantare una voce bassa e dolce… cantava in cadenza, cantava la canzone dei tamburi e la danza del Piccolo Popolo.

Poco lontano c’era un altro poggio simile a quello su cui stavo io… spiccavano come due seni di donna sopra la piana. Anche quell’altura era cinta dalla danza dei nanetti.

E sulla cima cantava e danzava Evalie.

La sua melodia era l’anima della musica dei tamburi e del ballo… la sua danza era la sublimazione di entrambi. Danzava sull’altura: non aveva più quei veli fini come ragnatele e il perizoma, ed era rivestita soltanto dal manto ondulato e serico della chioma nerazzurra.

Mi fece un cenno e mi chiamò… un richiamo dolce, acuto.

Il vento teso e fragrante mi spinse verso di lei, mentre scendevo correndo dal poggio.

I pigmei che danzavano si scostarono per lasciarmi passare. Il battito dei tamburi accelerò; il loro canto salì ad un’ottava più alta.

Evalie mi scese incontro, ballando… mi fu accanto, mi cinse il collo con le braccia, le labbra premute sulle mie…

I tamburi battevano più in fretta, e il mio cuore batteva all’unisono.

I due cerchi di minuscole, gialle fiamme viventi si congiunsero. Divennero un unico cerchio turbinante che ci trascinò avanti. Intorno a noi giravano e giravano, trascinandoci avanti al ritmo dei tamburi. Smisi di pensare: il ritmo dei tamburi, il canto dei tamburi, il canto della danza erano me.

E tuttavia sapevo ancora che il vento fragrante ci sospingeva carezzevole, mormorando, ridendo.

Eravamo accanto ad un androne ovale. I serici capelli profumati di Evalie si agitavano nel vento e mi baciavano. Oltre noi e dietro di noi cantavano i tamburi. E il vento continuava a sospingerci avanti…

I tamburi ed il vento ci spinsero oltre il portale della roccia a cupola.

Ci spinsero nel tempio del Piccolo Popolo…

Il muschio soffice scintillava… la croce ametistina sfolgorava…

Le braccia di Evalie mi cingevano il collo… la strinsi a me… il tocco delle sue labbra sulle mie fu come il dolce fuoco segreto della vita…


Vi era silenzio nel tempio del Piccolo Popolo. I tamburi tacevano. Il fulgore della croce ansata sopra la fossa del Kraken era fioco.

Evalie si mosse e gridò nel sonno. Le sfiorai le labbra e si destò.

«Che succede, Evalie?»

«Leif, amore… Ho sognato un falcone bianco che cercava di affondarmi il becco nel cuore!»

«È stato soltanto un sogno, Evalie.»

Lei rabbrividì; alzò la testa e si piegò verso di me, ed i suoi capelli coprirono i nostri volti.

«Tu hai scacciato il falcone… ma poi è sopraggiunto un lupo bianco… e mi è balzato addosso.»

«È stato soltanto un sogno, Evalie… ardente fiamma del mio cuore.»

Si chinò ancora di più, sotto la cortina di capelli, con le labbra accostate alle mie.

«Tu hai scacciato il lupo. E io ti avrei baciato… ma un volto si è insinuato tra noi…»

«Un volto, Evalie?»

Lei bisbigliò: «Il volto di Lur! Ha riso di me… e poi tu te ne sei andato… con lei… e io sono rimasta sola…»

«È stato un sogno menzognero, allora! Dormi, tesoro.»

Evalie sospirò. Vi fu un lungo silenzio; poi, con voce assonnata: «Che cosa porti appeso al collo, Leif? Il dono di una donna, che conservi come un tesoro?»

«Non è il dono di una donna, Evalie. È la verità.»

Mi baciò… e si addormentò.

Fui un pazzo a non dirglielo allora, all’ombra di quell’antico simbolo… Ma fui un pazzo… non glielo dissi!

XII SUL PONTE NANSUR

Quando uscimmo dal tempio, nel mattino, una cinquantina di anziani, uomini e donne, stavano aspettando pazienti la nostra comparsa. Pensai che fossero gli stessi che ci avevano seguito sotto la cupola quando vi ero entrato per la prima volta.

Le minuscole donne si raccolsero intorno ad Evalie. Avevano portato dei panni e l’avvolsero dalla testa ai piedi. Lei se ne andò con loro, senza concedermi una parola né un’occhiata. La scena aveva un’aria cerimoniale: la sposa veniva condotta via dalle mature comari della razza degli elfi.

Gli omettini si radunarono attorno a me. C’era anche Sri: ne fui lieto perché, quali che fossero i dubbi degli altri che mi attorniavano, sapevo che lui non ne aveva. Mi dissero di andare con loro, ed io obbedii senza fare domande.

Pioveva: c’era l’umidità ed il calore della giungla. Il vento soffiava con le stesse folate regolari e ritmiche della notte precedente. La pioggia non sembrava tanto cadere quanto condensarsi in grosse gocce nell’aria circostante, salvo quando il vento soffiava, e allora volava quasi orizzontale. L’aria era come un vino fragrante. Avevo voglia di cantare e di ballare. Intorno rombava il tuono… non i tamburi, il tuono vero.

Io avevo indosso soltanto la camicia e i calzoni; avevo abbandonato gli stivali alti fino al ginocchio per dei sandali. In un paio di minuti mi ritrovai bagnato fradicio. Arrivammo ad una polla fumigante e ci fermammo. Sri mi disse di spogliarmi e d’immergermi.

L’acqua era caldissima e mi rinvigoriva; mentre vi guazzavo mi sentivo sempre meglio. Pensai che, qualunque cosa evessero avuto in mente i pigmei quando avevano spinto me ed Evalie nel tempio, la loro paura nei miei confronti era stata esorcizzata… almeno per il momento. Ma credevo di sapere che cosa avevano pensato. Sospettavano che in qualche modo Khalk’ru avesse potere su di me, come l’aveva sugli altri cui somigliavo. Forse non un gran potere… ma non potevano ignorarlo. Benissimo: perciò il rimedio, dacché non potevano uccidermi senza spezzare il cuore a Evalie, consisteva nell’inchiodarmi come avevano fatto con il Kraken che era il simbolo di Khalk’ru. Perciò mi avevano inchiodato servendosi di Evalie.

Uscii dalla polla, più pensoso di quanto vi fossi entrato. Mi misero indosso un perizoma dalle pieghe e dai nodi strani. Poi trillarono e cinguettarono e risero e danzarono.

Sri aveva preso i miei abiti e la mia cintura. Non volevo perderli, perciò quando ci avviammo lo seguii a brevissima distanza. Presto ci fermammo… davanti alla caverna di Evalie.

Dopo un po’ vi fu una gran confusione, canti e rulli di tamburi, e poi sopraggiunse Evalie con un folto gruppo di donnine che danzavano intorno a lei. La condussero dove io ero in attesa. Poi si allontanarono tutti a passo di danza.

Fu tutto. La cerimonia, se pure era una cerimonia, era terminata. Comunque, mi sentivo molto sposato.

Abbassai lo sguardo su Evalie e lei lo alzò verso di me, graziosamente. I suoi capelli non erano più sciolti, ma intrecciati intorno al capo, alle orecchie e al collo. I drappi che l’avevano avvolta erano spariti. Indossava il grembiulino delle matrone pigmee ed i finissimi veli argentei. Rise, mi prese per mano, ed entrammo nella caverna.

Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, udimmo una fanfara di trombe squillare piuttosto vicino. Squillarono forte e a lungo, come se chiamassero qualcuno. Uscimmo nella pioggia per ascoltare meglio. Notai che il vento aveva cambiato direzione, da Nord ad Est, e soffiava forte e costante. Ormai sapevo che l’acustica della terra sotto il miraggio era peculiare, e che non era possibile stabilire quanto fossero lontane le trombe. Erano dall’altra parte del fiume, naturalmente, ma non sapevo quanto distasse dalla riva il pendio fortificato dei pigmei. Sul muro c’era una certa attività, ma senza agitazione.

Vi fu un ultimo squillo di tromba, rauco e irridente. Fu seguito da uno scoppio di risa ancora più sardonico e irritante perché umano. Mi strappò alla mia indifferenza con un trasalimento: mi fece vedere rosso.

«Quello,» disse Evalie, «era Tibur. Suppongo che sia andato a caccia con Lur. Credo che stesse ridendo di… di te, Leif.»

Aveva arricciato sdegnosamente il nasetto delicato, ma un sorriso le incurvò gli angoli delle labbra quando vide divampare rapida la mia collera.

«Ascolta, Evalie: chi è questo Tibur?»

«Te l’ho detto: è Tibur il Fabbro, e governa gli Ayjir insieme a Lur. Viene sempre, quando io sono su Nansur. Abbiamo parlato… spesso. È molto forte… oh, forte.»

«Sì?» feci io, ancora più esasperato. «E perché viene, Tibur, quando tu sei là?»

«Oh! Perché mi desidera, naturalmente,» disse lei, in tono sereno.

L’antipatia per Tibur il Ridente crebbe ancora.

«Non riderà più, se riuscirò a mettergli le mani addosso,» borbottai.

«Che cosa hai detto?» chiese Evalie. Io tradussi, meglio che potevo. Lei annuì e incominciò a parlare: e poi vidi i suoi occhi spalancarsi e riempirsi di terrore. Udii un frullo sopra la mia testa.

Dai vapori era uscito in volo un grande uccello. Rimase librato quindici metri sopra di noi, guardandoci con i minacciosi occhi gialli. Un grande uccello… un uccello bianco…

Il falcone bianco dell’Incantatrice!

Sospinsi Evalie dentro la caverna e l’osservai. Per tre volte girò in cerchio sopra di me e poi, con uno strido, si avventò verso l’alto, tra i vapori, e scomparve.

Entrai per raggiungere Evalie. Era rannicchiata sul giaciglio di pelli. Si era sciolta la chioma, che le spioveva sulla testa e sulle spalle, nascondendola come un manto. Mi piegai su di lei, le scostai i capelli. Piangeva. Mi gettò le braccia al collo e mi tenne stretto, fortemente. Sentivo il suo cuore battere contro il mio come un tamburo.

«Evalie, tesoro… non è il caso di aver paura.»

«Il… il falcone bianco, Leif!»

«È solo un uccello.»

«No… L’ha mandato Lur.»

«Sciocchezze, mio tesoro bruno. Un uccello vola dove vuole. Era in caccia… oppure aveva perduto l’orientamento, nella nebbia.»

Evalie scosse il capo.

«Ma, Leif, io… ho sognato un falcone bianco…»

La tenni stretta; dopo un poco mi spinse via e mi sorrise. Ma ci fu poca gaiezza, per il resto del giorno. E quella notte i suoi sogni furono inquieti, e lei mi tenne vicino, e pianse e mormorò nel sonno.

Il giorno dopo ritornò Jim. Avevo la sensazione che mi sarei sentito a disagio al suo rientro. Cosa avrebbe pensato di me? Non avrei dovuto preoccuparmi. Non mostrò la minima sorpresa quando misi le carte in tavola. E poi mi resi conto che, logicamente, i pigmei si erano scambiati messaggi con i tamburi, e che avevano discusso la cosa con lui.

«Niente male,» disse Jim, quando ebbi terminato. «Se non te ne andrai, credo che sia la cosa migliore per tutti e due. Se te ne andrai, condurrai Evalie con te… o no?»

Quella domanda mi ferì.

«Ascolta, indiano, non mi piace come parli. Io l’amo.»

«D’accordo, allora formulerò la domanda in un altro modo. Dwayanu l’ama?»

Quella domanda fu come uno schiaffo sulla bocca. Mentre mi sforzavo di trovare una risposta, Evalie uscì di corsa. Andò incontro a Jim e lo baciò. Lui le batté la mano sulla spalla e l’abbracciò come un fratello maggiore. Evalie mi guardò, mi venne vicina, mi fece abbassare la testa e baciò anche me, ma non esattamente come aveva baciato Jim.

Al di sopra della sua testa guardai Jim. Mi accorsi, all’improvviso, che era stanco e sconvolto.

«Ti senti bene, Jim?»

«Sicuro. Solo un po’ stanco. Ho… visto delle cose.»

«Cosa vuoi dire?»

«Beh…» Esitò. «Beh… i tlanusi… le grandi sanguisughe, tanto per cominciare. Non l’avrei mai creduto se non li avessi visti, e se li avessi visti prima che ci tuffassimo nel fiume, avrei scelto i lupi: in confronto, sono colombe che tubano.»

Mi raccontò che la prima notte si erano accampati all’estremità più lontana della piana.

«Questo posto è molto più grande di quando credessimo, Leif. Deve esserlo, perché ho percorso parecchi chilometri di più di quanto sarebbe stato possibile se fosse ampio soltanto come ci è parso prima che ci calassimo quaggiù. Probabilmente il miraggio lo ha fatto sembrare più piccolo e ci ha confusi.»

Il giorno dopo avevano attraversato la foresta, la giungla, il canneto e la palude. Finalmente erano arrivati ad un acquitrino fumante, attraversato da un sentiero rialzato. L’avevano percorso, e poi ne avevano incontrato un altro che l’intersecava. Nel punto in cui si incontravano i due camminamenti sopraelevati, c’era un monticello ampio, circolare e dolcemente arrotondato che si alzava dalla palude. I pigmei si erano fermati. Avevano acceso dei fuochi, con foglie e fascine. I fuochi avevano fatto un fumo denso e profumato che si era sparso lentamente dal monticello sull’acquitrino. Quando i fuochi ebbero preso a dovere, i pigmei cominciarono a suonare i tamburi… un ritmo bizzarramente sincopato. Pochi attimi dopo, Jim aveva scorto un movimento nella palude, vicino al monticello.

«C’era un cerchio di pigmei, tra me e l’orlo,» mi disse. «E quando ho visto la cosa che ne usciva strisciando ne sono stato contento. Prima si è sollevato il fango, e poi è apparsa la schiena di qualcosa che ho creduto fosse un’enorme lumaca rossa. La lumaca si è sollevata, e ha preso a strisciare sulla terraferma. Era proprio una sanguisuga, nient’altro… ma mi ha dato la nausea, per via delle dimensioni. Doveva essere lunga due metri almeno, e stava lì, cieca e palpitante, con la bocca spalancata, ad ascoltare i tamburi ed a godersi quel fumo profumato. Poi ne è uscita un’altra, e un’altra ancora. Dopo un po’, erano un centinaio, raggruppate attorno a noi in semicerchio, con tutte le teste prive d’occhi rivolte verso di noi… ad aspirare il fumo ed a palpitare al ritmo dei tamburi.

«Alcuni pigmei si sono alzati, hanno preso dal fuoco dei rami accesi, e si sono avviati lungo il camminamento trasversale, continuando a suonare i tamburi. Gli altri hanno spento i fuochi. Le sanguisughe hanno seguito serpeggiando i portatori di torce. Gli altri pigmei venivano dietro, come pastori. Io sono rimasto in coda. Abbiamo proseguito fino a quando siamo giunti sulla riva del fiume. I pigmei all’avanguardia hanno smesso di suonare. Hanno gettato i rami ardenti e fumanti nell’acqua, e manciate di bacche schiacciate… non quelle che ci hanno strizzato addosso Sri e Sra. Erano bacche rosse. Le grandi sanguisughe si sono calate serpeggiando giù per il greto, nel fiume; immagino che seguissero il fumo e l’aroma delle bacche. Comunque, si sono immerse… tutte.

«Siamo tornati indietro, lasciando la palude, e ci siamo accampati al suo limitare. Per tutta la notte hanno parlato con i tamburi. Avevano parlato anche la notte innanzi, ed erano inquieti; ma ho pensato che la causa delle preoccupazioni fosse la stessa dell’inizio. Loro dovevano sapere ciò che stava succedendo, ma non me l’hanno confidato. Ma ieri mattina erano felici e spensierati. Ho capito che doveva essere avvenuto qualcosa… che dovevano avere ricevuto buone notizie nel corso della notte. Erano di buonumore e me ne hanno spiegato il perché. Non come me l’hai spiegato tu… ma il senso era lo stesso…»

Jim ridacchiò.

«La mattina abbiamo raccolto in branco un altro paio di centinaia di tlanusi e li abbiamo condotti dove il Piccolo Popolo ritiene che siano particolarmente utili. Poi ci siamo messi in cammino per tornare… ed eccomi qui.»

«Sì,» feci io, sospettoso. «Ed è tutto?»

«Tutto per questa notte, almeno,» rispose Jim. «Ho sonno. Vado a letto. Tu vai con Evalie, e lasciami sacrosantamente in pace fino a domani.»

Lo lasciai, deciso a scoprire la mattina dopo che cosa mi avesse nascosto. Non ero convinto che il viaggio e le sanguisughe bastassero a spiegare la sua espressione stravolta.

Ma la mattina dopo me ne dimenticai completamente.

Innanzi tutto quando mi svegliai Evalie non c’era. Andai alla tenda a cercare Jim. Non c’era neppure lui. I pigmei erano usciti ormai da un pezzo dalle caverne, ed erano al lavoro; lavoravano sempre di mattina: di pomeriggio e di sera giocavano, suonavano i tamburi e ballavano. Mi dissero che Evalie e Tsantawu erano in consiglio con gli anziani. Ritornai alla tenda.

Dopo un po’ sopraggiunsero Evalie e Jim. Il volto di Evalie era sbiancato, i suoi occhi spiritati, e obnubilati dalle lacrime. Inoltre, era furibonda. Jim faceva del suo meglio per mostrarsi allegro.

«Cos’è successo?» domandai.

«Dovrai fare un viaggetto,» rispose Jim. «Ci tenevi a vedere il Ponte Nansur, no?»

«Sì,» dissi.

«Ebbene,» fece Jim, «è là che andremo. È meglio che ti metta gli abiti da viaggio e gli stivali. Se la pista è simile a quella che ho appena percorso, ne avrai bisogno. I pigmei riescono a sgusciare dappertutto… ma noi abbiamo un’altra taglia.»

Li studiai, perplesso. Certo, ci tenevo a vedere il Ponte Nansur… ma perché il fatto che ci dovessimo andare li induceva a comportarsi così stranamente? Mi accostai ad Evalie, e sollevai il suo volto.

«Tu hai pianto, Evalie. Che succede?»

Scosse il capo, scivolò via dal mio abbraccio ed entrò nella caverna. La seguii. Era china su di un cofano, e ne traeva metri e metri di velo. La strappai via, la sollevai fino a quando i suoi occhi furono all’altezza dei miei.

«Che succede, Evalie?»

Un pensiero mi colpì. La posai al suolo.

«Chi ha proposto di andare al Ponte Nansur?»

«Il Piccolo Popolo… gli anziani… mi sono opposta… non volevo che andassi… hanno detto che devi…»

«Io devo andare?» Il pensiero diventò più chiaro. «Allora tu non devi venire… e neppure Tsantawu, se non lo volete.»

«Che ci si provino, a impedirmi di venire con te!» Evalie pestò un piede, furiosamente.

Il pensiero era limpido come un cristallo, e io cominciavo a provare una certa irritazione nei confronti del Piccolo Popolo. Erano meticolosi, i pigmei, al punto di diventare esasperanti. Ora capivo perfettamente perché io dovevo andare al Ponte Nansur. I pigmei non erano certi che la loro magia — inclusa Evalie — avesse fatto completamente effetto. Perciò io dovevo contemplare la patria del nemico… mentre loro studiavano le mie reazioni. Bene, era abbastanza giusto. Forse ci sarebbe stata l’Incantatrice, là. Forse Tibur… Tibur che desiderava Evalie… Tibur che aveva riso di me…

All’improvviso, arsi dalla frenesia di andare al Ponte Nansur.

Cominciai a indossare i miei vecchi abiti. Mentre mi allacciavo gli stivali, lanciai uno sguardo di sottecchi a Evalie. Si era raccolti i capelli e li aveva coperti con un berretto; si era avvolta nei veli dal collo alle ginocchia e si stava allacciando sandali altissimi che le coprivano i piedi e le gambe completamente, come i miei stivali. Sorrise debolmente alla mia espressione sorpresa.

«Non mi piace che Tibur mi guardi… non adesso!» esclamò.

Mi piegai verso di lei e la presi fra le braccia. Appoggiò le labbra alle mie in un bacio che me le illividì…

Quando uscimmo, ci stavano aspettando Jim ed una cinquantina di pigmei.

Tagliammo diagonalmente la piana, allontanandoci dalle pareti di roccia, dirigendoci a Nord, verso il fiume. Superammo il pendio, e poi una delle torri, e ci avviammo su uno stretto sentiero identico a quello che avevo percorso insieme a Jim nel giungere alla terra del Piccolo Popolo. Si snodava tortuoso attraverso distese uniformi di felci. Procedemmo in fila indiana, costretti al silenzio. Sboccammo in una foresta fitta di conifere nella quale il sentiero proseguiva i suoi meandri. Camminammo per un’ora o più; senza fermarci mai a riposare: i pigmei trotterellavano instancabili. Guardai il mio orologio. Eravamo in cammino da quattro ore e avevamo coperto, calcolai, circa venti chilometri. Non c’era traccia di uccelli né di altri animali.

Evalie sembrava profondamente assorta nei suoi pensieri, e Jim era in preda ad una delle sue crisi di taciturnità indiana. Io non avevo molta voglia di parlare. Fu un tragitto silenzioso: neppure i pigmei dorati chiacchieravano secondo la loro abitudine. Arrivammo ad una sorgente scintillante, e bevemmo. Uno dei nanetti si mise davanti un piccolo tamburo cilindrico e cominciò a battere un messaggio. Dopo un po’ gli risposero altri rulli, più avanti.

Riprendemmo il cammino. Le conifere iniziarono a diradarsi. A sinistra, molto più in basso di noi, cominciai a intravvedere il fiume bianco e la fitta foresta sulla sponda opposta. Le conifere finirono, e uscimmo su di un deserto roccioso. Proprio davanti a noi c’era uno sperone di pietra, alla cui base scorreva il fiume candido, e nascondeva alla nostra vista ciò che stava oltre. I pigmei si fermarono e mandarono un altro messaggio con il tamburo. La risposta venne, sorprendentemente vicina. Poi, oltre il ciglio del precipizio, a metà altezza, scintillarono molte punte di lancia. Un gruppo di minuscoli guerrieri ci scrutò. Fecero un segnale, e noi avanzammo attraverso la spianata sassosa.

Un’ampia strada saliva il costone: avrebbero potuto passarci sei cavalli fianco a fianco. La percorremmo. Arrivammo in cima, ed io guardai il Ponte Nansur e la turrita Karak.

Un tempo, migliaia d’anni prima, o centinaia di migliaia, lì c’era stata una piccola montagna, che sorgeva dal fondovalle. Nanbu, il fiume bianco, l’aveva disgregata tutta… eccettuata una vena di roccia adamantina. Il Nanbu aveva scavato, scavato, sgretolando la pietra più tenera, fino a quando era stato valicato da un ponte che sembrava un arcobaleno di giaietto. L’arco gigantesco di roccia nera volava sopra l’abisso nella linea incurvata di un tiro di freccia.

La sua base, a ogni riva, era una mesa… scolpita come Nansur dall’antica montagna.

La mesa su cui mi trovavo aveva la sommità piatta. Ma sull’altra sponda del fiume, sporgente dalla cima dell’altra mesa, c’era una costruzione immane, quadrangolare, della stessa roccia nera che formava l’arco di Nansur. Sembrava intagliata in quella roccia, più che costruita. Calcolai che coprisse circa mezzo chilometro quadrato. Era coronata da torri e torrette, rotonde e quadrangolari, e cinta da mura.

C’era qualcosa in quell’immensa cittadella d’ebano che mi colpì con la stessa sensazione di prescienza che avevo provato cavalcando tra le rovine nell’oasi del Gobi. Pensai che somigliava anche alla città di Dite, scorta da Dante alle porte dell’Inferno. E l’antichità l’avvolgeva come una veste a lutto.

Poi mi avvidi che Nansur era spezzato. Tra l’arcata che si levava dalla sponda in cui stavamo noi e l’arcata che si slanciava dal fianco della cittadella nera, c’era un varco. Sembrava che un maglio gigantesco si fosse abbattuto sull’aerea curva, schiantandola al centro. Pensai al Ponte Bifrost, su cui cavalcavano le valchirie, trasportando al Valhalla le anime dei guerrieri: e pensai che spezzare il Ponte Nansur era stato un sacrificio atroce, come sarebbe stato infrangere Bifrost.

Intorno alla cittadella sorgevano altri edifici, a centinaia, fuori dalle mura: edifici di pietra grigia e bruna, circondati da giardini, si estendevano per acri ed acri. Ai lati della città c’erano campi fertili e boschetti fioriti. Un’ampia strada si spingeva lontano, verso i precipizi avvolti dalle cortine verdi. Mi sembrò di scorgere, alla sua estremità, l’imboccatura nera di una caverna.

«Karak!» sussurrò Evalie. «E il Ponte Nansur! E Leif, caro… il mio cuore è pesante… così pesante!»

La udii appena, mentre guardavo Karak. Ricordi furtivi avevano incominciato a fremere. Li calpestai, e cinsi Evalie con un braccio. Avanzammo, e capii perché Karak era stata costruita in quel punto; perché la cittadella nera dominava entrambe le estremità della valle, e quando Nansur era ancora intatto aveva dominato anche quella via d’accesso.

Provai all’improvviso l’impulso febbrile di avventarmi su Nansur e di guardare Karak dalla sua estremità troncata. La lentezza dei pigmei m’irritava. Mi avviai. I guerrieri della guarnigione si affollarono attorno a me, guardandomi, bisbigliando tra loro e studiandomi con quegli occhi gialli. Incominciarono a rullare i tamburi.

Risposero le trombe della cittadella.

Accelerai ancora il passo, in direzione di Nansur. La febbre dell’impazienza era divenuta divorante. Avrei voluto correre. Spinsi da parte, spazientito, i pigmei dorati. La voce di Jim mi giunse, ammonitrice: «Calma, Leif… Calma!»

Non gli prestai ascolto. Mi spinsi sopra Nansur. Vagamente, mi resi conto che era largo, e che i lati erano difesi da bassi parapetti, che la pietra era stata levigata in una rampa, per il passo dei cavalli e degli uomini in marcia. E che, se era stato il fiume candido a formarlo, erano state le mani degli uomini a terminare di scolpirlo.

Ne raggiunsi l’estremità spezzata. Trenta metri sotto di me, il fiume bianco scorreva placido. Non c’erano serpenti. Un corpo rossocupo, mostruoso, simile ad una sanguisuga, si sollevò dalla corrente lattea: poi un altro e un altro, con le bocche rotonde spalancate… le sanguisughe del Piccolo Popolo montavano di guardia.

C’era un ampio spiazzo tra le mura della cittadella scura e l’estremità del ponte. Era deserto. Nelle mura erano incastonati massicci battenti di bronzo. Provai un fremito curioso, dentro di me, mi sentii serrare la gola. Dimenticai Evalie; dimenticai Jim; dimenticai tutto, guardando quella porta.

Vi fu uno squillo più forte di trombe, un clangore di sbarre, e i battenti si aprirono. Uscì al galoppo uno squadrone guidato da due cavalieri, uno su di un grande cavallo nero, l’altro su di uno bianco. Attraversarono lo spiazzo, balzarono dalle cavalcature e avanzarono a piedi sul ponte. Si fermarono di fronte a me, al di là dello squarcio di quindici metri.

Sul cavallo nero era giunta l’Incantatrice: l’altro lo riconobbi per Tibur il Fabbro… Tibur il Ridente. In quel momento non avevo occhi per l’Incantatrice e per il suo seguito. Avevo occhi soltanto per Tibur.

Era più basso di me di tutta la testa, ma una forza grande quanto la mia o ancora di più parlava dalle spalle immense, dal corpo massiccio. I capelli rossi scendevano lisci sulle spalle, e anche la barba era rossa. Gli occhi erano azzurroviola, e agli angoli avevano le grinze della risata; e la bocca larga e semiaperta era ridente. Ma la risata che aveva inciso quelle linee sulla faccia di Tibur non era gaia e felice.

Indossava una cotta di maglia; al fianco sinistro gli pendeva un enorme martello da guerra. Mi squadrò dalla testa ai piedi e viceversa con gli occhi socchiusi, sarcastici. Sebbene avessi odiato Tibur prima di vederlo, quel sentimento non era nulla in confronto a ciò che provavo ora.

Deviai lo sguardo da lui all’Incantatrice. Mi stava bevendo con gli occhi azzurri come fiordalisi; assorta, meravigliata… divertita. Anch’ella indossava una cotta di maglia, su cui scendevano le trecce rosse. Coloro che stavano raccolti dietro Tibur e l’Incantatrice erano per me solo una chiazza confusa.

Tibur si protese.

«Benvenuto… Dwayanu!» m’irrise. «Che cosa ti ha indotto a uscire dal nascondiglio? La mia sfida?»

«Eri tu, quello che ho sentito abbaiare ieri?» dissi «Ah! Hai preferito cominciare ad ululare da una distanza di sicurezza, cane rosso!»

Dal gruppo che circondava l’Incantatrice si levò una risata; vidi che erano tutte donne, dalla carnagione chiara e dai capelli rossi come quelli di lei, mentre con Tibur c’erano due uomini molto alti. Ma l’Incantatrice non disse nulla: continuava a fissarmi, con una bizzarra perplessità negli occhi.

La faccia di Tibur si oscurò. Uno degli uomini si piegò a bisbigliargli qualcosa. Tibur annuì, e avanzò con aria di sfida. Mi gridò: «Ti sei rammollito durante i tuoi vagabondaggi, Dwayanu? Con l’antica tradizione, con l’antica prova, dobbiamo accertarcene prima di riconoscerti… grande Dwayanu. Stai fermo…»

Abbassò la mano sul martello da guerra appeso al suo fianco. Me lo scagliò contro.

Il martello stava saettando verso di me attraverso l’aria con la rapidità di una pallottola… eppure sembrava avviarsi lentamente. Vidi persino la cinghia che lo teneva fissato al braccio di Tibur srotolarsi poco a poco mentre volava.

Una porta si schiuse nel mio cervello… l’antica prova… Io conoscevo quel gioco… Attesi immoto, come prescriveva l’antica tradizione… ma avrebbero dovuto darmi uno scudo… Non importava… come sembrava arrivare lentamente quel grande martello… e mi parve che la mano da me protesa per afferrarlo si muovesse altrettanto lentamente…

L’afferrai. Pesava non meno di sei chili, eppure l’afferrai esattamente, senza sforzo, per l’impugnatura metallica. Ahi! Ma non conoscevo il trucco?… La porta si apriva più in fretta, ormai… e ne conoscevo un altro. Con l’altra mano strinsi la cinghia che fissava il martello al braccio di Tibur, e gli diedi uno strattone, nella mia direzione.

La risata si gelò sulla faccia di Tibur. Barcollò verso l’orlo spezzato di Nansur. Udii, alle mie spalle, il grido pigolante dei pigmei…

L’Incantatrice sguainò un coltello e recise la cinghia. Strappò Tibur dal ciglio dell’abisso. La rabbia m’invase… quello non faceva parte del gioco… secondo l’antica prova, toccava solo allo sfidante e allo sfidato…

Roteai il grande martello intorno alla mia testa, lo scagliai verso Tibur: l’arma volò fischiando, la cinghia recisa tesa rigida nella sua scia. Tibur si gettò di lato, ma non con rapidità sufficiente. Il martello lo colpì ad una spalla. Fu un colpo di striscio, ma lo abbatté.

E adesso fui io a ridere attraverso quel varco.

L’Incantatrice si sporse avanti: l’incredulità sommerse la perplessità nei suoi occhi. Non era più divertita. No! E Tibur si levò di scatto su un ginocchio, guardandomi minaccioso, le linee incise dalle risate contorte in qualcosa che non era allegria.

Altre porte, porte minuscole, continuarono ad aprirsi nel mio cervello… Non volevano credere che fossi Dwayanu… Gliel’avrei fatta vedere io! Frugai nella tasca della mia cintura. Aprii il sacchetto di pelle. Ne trassi l’anello di Khalk’ru e lo levai alto. La luce verde vi scintillò sopra. La pietra gialla parve espandersi, la piovra nera ingrandirsi…

«Sono Dwayanu? Guarda questo! Sono Dwayanu?»

Udii un urlo di donna… conoscevo quella voce. E udii un uomo chiamarmi, gridando… e conoscevo anche quella voce. Le porte minuscole si richiusero di scatto, i ricordi che ne erano usciti vi rientrarono in fretta…

Ma era Evalie che stava urlando! E Jim che mi gridava qualcosa! Che gli aveva preso? Evalie mi stava davanti, a braccia protese. E negli occhi castani inchiodati su di me c’era incredulità e orrore… e ribrezzo. Fila su fila, i pigmei si stringevano attorno a loro due, impedendomi di raggiungerli. Lance e frecce erano puntate contro di me. Sibilavano come un’orda di serpenti dorati, i visi distorti dall’odio, gli occhi puntati sull’anello di Khalk’ru che ancora reggevo alto sopra la testa.

Poi vidi lo stesso odio riflesso sul viso di Evalie… e il ribrezzo approfondirsi nei suoi occhi.

«Evalie!» gridai. Sarei balzato verso di lei… Le mani dei pigmei si alzarono per sferrare il colpo; le frecce fremettero, incoccate negli archi.

«Non muoverti, Leif! Vengo io!» Jim si lanciò avanti. Subito i pigmei brulicarono attorno a lui, sopra di lui. Jim barcollò e cadde sotto il loro peso.

«Evalie!» gridai ancora.

Vidi il ribrezzo dileguarsi, e la disperazione prenderne il posto. Lei gridò qualche ordine.

Una dozzina di pigmei le schizzarono dal fianco, lasciando cadere archi e lance mentre si avventavano verso di me. Stupidamente, rimasi immobile a guardarli arrivare; e tra loro vidi Sri.

M’investirono come minuscoli arieti viventi. Venni spinto all’indietro. I miei piedi incontrarono soltanto l’aria…

Con i pigmei aggrappati alle gambe e accaniti come terrier, precipitai oltre l’orlo di Nansur.

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