Per alcuni anni Elminster servì come apprendista l’elfo conosciuto solo col nome di «il Mascherato». Nonostante la crudele natura del grande mago e le catene magiche che imprigionavano l’umano, tra maestro e allievo nacque un grande rispetto. Un rispetto che ignorò le differenze tra loro e il tradimento e la battaglia che entrambi sapevano sarebbero giunti.
Un giorno di primavera, vent’anni dopo la prima stagione che Elminster trascorse al servizio del Mascherato, un simbolo luminoso e dorato emerse nella mente del principe di Athalantar, un simbolo che aveva quasi dimenticato. Tale fatto lo turbò. Mentre esso ruotava lentamente nella sua testa, altre memorie da tempo sepolte si risvegliarono. Mystra, udì pronunciare la sua voce, e uno sguardo si posò su di lui: lo sguardo della dea. El non la vedeva, ma riusciva a percepire il peso solenne della sua attenzione: profonda, calda e terribile, più potente dello sguardo più furioso del Maestro, e più amorevole di… di… Nacacia.
Guardò Nacacia da dove era sospeso nella grande rete incantata, luminosa, che avevano creato insieme quella mattina, e i loro sguardi s’incontrarono. Gli occhi della ragazza erano scuri, liquidi e molto grandi, e quando si posarono su di lui brillarono di desiderio. Senza emettere alcun suono, le sue labbra tremanti pronunciarono il nome di Elminster.
Fu tutto ciò che osò fare. El represse un impellente desiderio di aggredire il mago mascherato, che fluttuava di spalle poco lontano, elaborando incantesimi per conto suo, e le strizzò l’occhio prima di voltare rapidamente la testa. Il Maestro frugava troppo spesso nelle loro menti per potergli nascondere la loro stima reciproca, e spesso faceva sì che Nacacia schiaffeggiasse il suo apprendista umano, o altrimenti si tenesse alla larga da lui, e che se mai gli rivolgesse la parola, lo facesse con toni duri.
Raramente il misterioso mago elfo obbligava Elminster a fare qualcosa. Sembrava piuttosto osservarlo in attesa, e ogni suo atto di sfida veniva punito severamente. Ricordando alcune di quelle punizioni, El rabbrividì involontariamente.
Arrischiò un’altra occhiata a Nacacia, e scoprì che anche la ragazza stava facendo lo stesso. I loro sguardi si incontrarono quasi colpevoli, ed entrambi voltarono gli occhi frettolosamente. El strinse i denti e cominciò a scalare la rete incantata per allontanarsi da lei: qualsiasi cosa pur di muoversi e fare qualcosa.
Mystra, pensò silenziosamente, cercando di scacciare l’immagine vivida del volto sorridente di Nacacia. Oh, Mystra, ho bisogno della tua guida: tutti questi anni di schiavitù sono parte del tuo piano?
Il mondo intorno a lui sembrò scintillare, ed egli si ritrovò improvvisamente su un pascolo roccioso. Era quello sovrastante Heldon, sul quale da ragazzo portava le pecore!
Soffiava la brezza, faceva freddo e – combinazione – era anche nudo.
Sollevando il capo vide la sua maestra di tanti anni prima: Myrjala, conosciuta anche come «Occhi Scuri». Quei grandi occhi sembravano più profondi e più affascinanti che mai mentre, sdraiata nell’aria sopra l’erba verde, lo guardava. Il vento non spostava di un soffio la sua tunica di raso scura.
Myrjala era Mystra. Elminster allungò un braccio verso di lei.
«Grande Signora», sussurrò, «sei davvero tu… dopo tutti questi anni?»
«Naturalmente», rispose la dea, gli occhi due pozzi scuri di promesse. «Perché hai dubitato di me?»
El rabbrividì per la vergogna improvvisa, si inginocchiò, e abbassò gli occhi. «Io… ho sbagliato e… be’, è passato tanto tempo e…»
«Non molto per un elfo», ribatté Mystra dolcemente. «Stai finalmente imparando a pazientare, o sei davvero disperato?»
Elminster la guardò con occhi lucidi, sull’orlo delle lacrime. «No!», gridò. «Tutto ciò di cui avevo bisogno era questo, vederti, e sapere che sto facendo la tua volontà. Io… io ho ancora bisogno della tua guida».
La dea gli sorrise. «Almeno sei consapevole di averne bisogno. Alcuni non lo sono, e si gettano nella vita, devastando tutto ciò che possono raggiungere su Faerûn, ne siano essi consapevoli o no». Sollevò una mano, e il suo sorriso mutò.
«Tuttavia rifletti su ciò che ti dirò, mio carissimo Eletto: molti individui di Faerûn non hanno tale guida, eppure imparano a camminare con le proprie gambe, seguendo le proprie idee nel fiume della vita, e commettendo i propri errori. Tu sei certamente padrone di quest’ultima arte».
Il principe distolse lo sguardo, soffocando di nuovo le lacrime, ma Mystra rise e gli toccò la guancia. Un fuoco incandescente sembrò pervadere il suo corpo.
«Non affliggerti», lo consolò, come una madre col figlio piangente, «poiché stai imparando la pazienza, e la tua vergogna è infondata. Malgrado la paura di esserti dimenticato di me e allontanato dalla tua missione, io mi compiaccio con te».
Heldon si fece scuro e sfumò attorno al volto della donna, che mutò, e divenne quello di Nacacia.
Elminster batté le palpebre, mentre la ragazza gli sorrideva. Era di nuovo nella tela magica. Fece un respiro profondo e tremulo, le sorrise, e continuò a salire. Ma qualsiasi cosa facesse, i suoi pensieri rimanevano fissi sulla collega apprendista, il suo volto sempre chiaro nella mente. Talora si domandava quanto il Maestro potesse vedere di tali scene mentali e che cosa pensasse realmente di loro.
Nacacia. Ah, abbandona i miei pensieri per un attimo, lasciami in pace! Ma no…
La ragazza dagli occhi brillanti era un’orfana mezzo sangue, che una notte aveva fatto la sua entrata nella torre rannicchiata fra le braccia del Mascherato. El sospettò che egli avesse saccheggiato il villaggio in cui viveva.
Un carattere spumeggiante, una natura birichina che il mago cercava di spegnere con incantesimi o trasformazioni in animali più o meno ripugnanti, e un’allegria che permaneva qualsiasi punizione si inventasse l’elfo, Nacacia si era rapidamente trasformata in un’autentica bellezza.
Aveva una chioma castana dai riflessi ramati che le ricadeva in una folta cascata fino all’incavo delle ginocchia, e schiena e spalle sorprendentemente muscolose; dal punto in cui si trovava in quel momento, El poteva ammirare la linea profonda e curva della sua colonna vertebrale. I grandi occhi, il sorriso e gli zigomi mostravano la bellezza classica del sangue elfo, e la sua vita era tanto sottile da sembrare finta.
Il Maestro le permetteva di indossare pantaloni e gilè neri da ladro e di tenere i capelli lunghi. Le aveva persino insegnato sortilegi per animarli in modo da farsi accarezzare quando la portava nella sua stanza, e lasciava fuori Elminster, a fluttuare furioso.
La ragazza non gli raccontava mai ciò che accadeva nella stanza del mago, eccetto che il loro Maestro non si toglieva mai la maschera. Una volta, svegliandosi da un incubo, Nacacia farfugliò qualcosa su «tentacoli morbidi e terribili».
Il Mascherato non solo non si toglieva mai la maschera, ma neanche mai dormiva. Per quanto aveva potuto notare El, il Maestro non aveva né amici né parenti, e nessun cormanthoniano si rivolgeva a lui. Trascorreva le sue giornate a elaborare e inventare magie e a insegnare incantesimi ai suoi due apprendisti. Talora li trattava quasi come amici, pur non rivelando mai nulla di sé, talaltra non mancava di far notare loro che erano suoi schiavi, e gran parte delle volte li faceva lavorare come bestie da soma. Effettivamente sembrava che si divertisse a tentare i due apprendisti con la compagnia reciproca, costringendoli, seminudi, a fare lavori sudici e scivolosi di pulizia, o di riordino; ma ogni volta che lui e Nacacia si toccavano, per prestarsi un aiuto innocente o per consolarsi, egli li colpiva con una punizione.
I castighi erano numerosi e vari, ma quello favorito dal Maestro consisteva nel paralizzare il corpo degli apprendisti con incantesimi e porvi sopra sanguisughe acide. Mentre scivolavano sulla pelle, o vi penetravano quasi pigramente, le creature lente e scintillanti secernevano una bava bruciante. Il Mascherato rimediava sempre in tempo ai danni apportati, affinché i suoi schiavetti rimanessero in vita, ma Elminster poté constatare che a Faerûn esistevano poche cose tanto dolorose quanto quella sorta di lumache che si facevano lentamente strada nei polmoni, nello stomaco, o nelle viscere.
In quei venti lunghi anni di apprendimento di complicate magie elfe, El aveva, tuttavia, imparato a rispettare il Maestro. Questi era un meticoloso inventore d’incantesimi, non lasciava mai nulla al caso, prevedeva tutto e non sembrava mai sorpreso; possedeva un istinto naturale per la magia, e riusciva a modificare, a combinare o a improvvisare incantesimi con il minimo sforzo e senza esitazioni. Non dimenticava mai dove metteva le cose, anche le più banali, e manteneva costantemente un controllo ferreo su se stesso, senza mai mostrare stanchezza, solitudine, o il bisogno di confidarsi con qualcuno. Persino le sue sfuriate sembravano calcolate.
Inoltre, anche dopo vent’anni di stretto contatto, Elminster non sapeva chi fosse. Un membro di qualche antica e fiera casata, senza dubbio, e – a giudicare dalle sue vedute – nemmeno tanto vecchio. Il Mascherato proiettava spesso una falsa copia di se stesso, in modo da poter sbrigare faccende altrove e contemporaneamente istruire il suo apprendista.
Dapprima, l’ultimo principe di Athalantar era rimasto sbalordito dai sortilegi potenti che l’anonimo mago elfo gli permetteva di imparare, ma in fin dei conti, perché mai questi avrebbe dovuto preoccuparsi se poteva, con un solo gesto, ridurre all’obbedienza il corpo che aveva dato all’apprendista umano? Elminster sospettava che lui e Nacacia fossero tra i pochi apprendisti di Cormanthor a non lasciare mai la dimora del maestro, e probabilmente gli unici a non avere puro sangue elfo nelle vene; per giunta, non era mai stato insegnato loro come creare il proprio mantello difensivo.
Talora El pensava ai primi giorni tumultuosi trascorsi nel regno, e si domandava se la Srinshee e il Coronal lo credessero morto, o se pensassero mai a lui. Si chiedeva spesso che era stato della giovane Symrustar, che aveva abbandonato nei boschi, impossibilitato a difenderla e a chiamare aiuto. E che fine aveva fatto Mythanthar, col suo sogno di un mythal? Il Maestro li avrebbe certamente informati se tale mantello spettacolare fosse stato già creato, e se la città fosse stata aperta ad altre razze. Ma perché mai avrebbe dovuto riferire notizie del mondo esterno a due apprendisti che teneva praticamente prigionieri?
Recentemente era cessato persino l’attento insegnamento della magia. Il Mascherato si assentava sempre più spesso dalla torre, oppure si rinchiudeva in stanze impenetrabili a scrutare eventi che accadevano altrove. Giorno dopo giorno di quell’ultimo inverno lasciava soli gli apprendisti a sbrigare liste infinite di compiti che apparivano scritte a caratteri infuocati su un muro: lavori di fatica, e la messa a punto di piccoli incantesimi per tener pulita e in ordine la torre del maestro. E tuttavia li controllava: esplorazioni non autorizzate del luogo o un’intimità eccessiva fra loro, scatenavano dal nulla rapidi incantesimi di punizione. Solo una decina di giorni prima Nacacia aveva sfiorato la spalla di Elminster con un bacio mentre passava, e una frusta invisibile l’aveva colpita sulle labbra e sulla faccia, malgrado i tentativi frenetici del principe di scacciarla mentre la ragazza indietreggiava gridando. Il mattino seguente si era svegliata completamente guarita, ma con una fila di spine pungenti attorno alla bocca, che avrebbero impedito qualsiasi bacio, e che scomparvero solo dopo una settimana.
In quei giorni, quando il Mago Mascherato faceva una delle sue rare apparizioni nelle stanze dei due apprendisti, era per un aiuto magico; solitamente si trattava di impiegare parte delle loro energie vitali per un incantesimo arcano che l’elfo stava sperimentando, o per creare una rete magica.
Una rete come quella a cui stavano lavorando in quel momento. Erano costruzioni incredibili, costituite da linee di forza luminose, sulle quali si poteva camminare come su un’ampia trave di legno, anche capovolti o fortemente inclinati. Nel tessuto di tali reti o gabbie potevano essere inclusi molti incantesimi, in punti particolari e per ragioni specifiche, cosicché il collasso della struttura avrebbe scatenato un incantesimo dopo l’altro, in un ordine ben preciso.
Il Maestro rivelava raramente tutte le magie disposte in una rete prima che il suo innesco ne rivelasse la vera natura, e non aveva mai insegnato agli apprendisti come iniziarne una. El e Nacacia non conoscevano nemmeno lo scopo primario, o il bersaglio, della maggior parte delle reti a cui lavoravano, e il principe sospettava che il Mascherato si avvalesse dell’aiuto dei due apprendisti ignoranti semplicemente per rimanere nascosto, cosicché gli incantesimi che colpivano un rivale distante non avrebbero recato tracce dell’autore.
In quel momento l’elfo si voltò, gli occhi fiammeggianti dietro la maschera che non abbandonava mai. «Elminster, vieni qui», gli ordinò freddo, indicando con un dito un punto particolare della rete. «Dobbiamo tessere insieme un incantesimo mortale».
Arriva sempre il giorno in cui, persino il più paziente ed esigente dei traditori diventa impaziente e svela il suo tradimento. Da allora in avanti deve affrontare il mondo com’è in realtà, con le sue reazioni, non come lo vede o desidera che sia nelle sue trame e nei suoi sogni. È a questo punto che molti tradimenti falliscono.
Il mago noto come il Mascherato non era, tuttavia, un traditore ordinario, se mai si riesca a concepire un «traditore ordinario». Lo storico di Cormanthor vi è riuscito, e, andando indietro nel tempo, ha identificato molti tradimenti ordinari, dei quali però quello in questione non fa parte, essendo degno di una triste ballata di morte.
Elminster scosse il capo per cercare di riprendersi dalla stanchezza mentale: aveva filato incantesimi con un’altra mente, più fredda, per troppo tempo, e quasi vacillò nella rete, immersa in ronzante attesa.
«Ora spostati», gli ordinò all’orecchio la fredda e sottile voce del Maestro, nonostante l’elfo fosse sospeso nell’aria all’estremità opposta della stanza. «Nacacia, tu vatti a sedere su quel divano nell’angolo. Elminster, qui con me».
Sapendo che il mago aveva poca pazienza, entrambi gli apprendisti s’affrettarono a ubbidire, lasciandosi cadere agilmente dalla rete non appena furono abbastanza in basso da saltare senza distruggere nulla.
El non aveva ancora raggiunto il luogo indicato dal mago che questi sibilò qualcosa e usò un dito per colmare la distanza fra due punti sporgenti all’estremità delle linee luminose della rete. Tale gesto scatenò il sortilegio, che esplose con una miriade di scintille, innescando una catena di incantesimi, mentre la rete si dissolveva lentamente. Il mago elfo guardò in alto, con atteggiamento di attesa, ed El ne seguì lo sguardo fino a un punto nell’aria, che si animò improvvisamente, dando vita a una scena fluttuante, simile a un arazzo brillante appeso nel vuoto, via via più luminoso.
Era l’immagine di una casa che El non aveva mai visto, una delle abitazioni dalla forma irregolare tipiche delle campagne elfe. Una casa viva, ampliata lentamente col passare dei secoli. Quella doveva avere più di mille estati, a giudicare dall’aspetto, e si trovava nel cuore di un boschetto di vecchie e imponenti querce, da qualche parte nel cuore della foresta. Una casa antica e fiera.
Una casa che sarebbe esistita solo per pochi istanti ancora.
El osservò arcigno mentre le magie scatenate dalla rete distruggevano gli scudi, annientavano gli incantesimi d’attacco e li costringevano a colpire il cuore della vecchia casa, strappando guardiani e destrieri dai pali a cui erano legati, per poi scaraventarli contro i muri.
In pochi minuti la fiera abitazione dai rami possenti e dalle foglie lussureggianti venne trasformata in un cratere fumante, fiancheggiato da due frammenti scheggiati di tronco annerito. Strane cose, forse corpi straziati, stavano ancora piovendo intorno alla casa distrutta quando la rete magica inglobò la scena, e l’aria divenne nuovamente scura.
Elminster stava ancora battendo le palpebre quando una nebbia improvvisa lo avvolse, e non ebbe nemmeno il tempo di gridare che si ritrovò in un altro luogo. I suoi stivali poggiavano su un terreno soffice e su foglie morte, e tutt’intorno si sentiva il profumo degli alberi.
Era in piedi in una radura nel cuore della foresta e il Mascherato se ne stava disteso nell’aria accanto a lui; nessuna traccia di Nacacia, né di abitazioni elfe.
El serrò gli occhi un paio di volte per abituarsi al cambiamento di luce, respirò a fondo l’aria umida, e si guardò intorno: era lieto di essere finalmente uscito dalla torre, ma fu presto assalito da cattivi presagi. Il Maestro aveva forse assistito al suo incontro con Mystra, o lo aveva visto nella sua mente? Nell’apparizione la dea era distesa quasi nella sua stessa posizione.
La radura aveva un non so che di strano; misurava un centinaio di passi in larghezza, era di forma semicircolare e spoglia, completamente spoglia, solo terra e roccia, non un ceppo, non un lichene a ravvivarla.
El guardò il mago e sollevò un sopracciglio con fare interrogativo.
Il Maestro puntò un dito verso il basso. «Questo è l’effetto di un incantesimo che ti insegnerò ora».
Elminster osservò ancora per qualche istante quella desolazione, e poi si rivolse al Mascherato, il viso inespressivo come pietra. «Già. È qualcosa di potente, non è vero?»
«Qualcosa di molto utile. Se usato nel modo giusto, può rendere l’autore quasi invincibile». Il mago elfo mostrò i denti in un ghigno e aggiunse, «Come me, per esempio». Poi si sollevò dalla sua posizione distesa ed esclamò: «Sdraiati qui, dove termina la radura e inizia la foresta. Faccia a terra, le braccia larghe. Non ti muovere».
Quando il Maestro parlava con quel tono, non era il caso di esitare o di discutere. Elminster si gettò immediatamente a terra.
Percepì il tocco glaciale delle dita del mago sulla nuca: erano tanto fredde solo quando gli inculcavano un incantesimo nella mente, senza bisogno di studiarlo o di ricevere istruzioni per l’uso o…
Per tutti gli dei! Quella magia avrebbe alimentato ogni incantesimo che già possedeva, raddoppiandone l’effetto o duplicandolo. Per far ciò, essa succhiava forza vitale da un albero.
O da un essere senziente.
Ed era tanto facile. Certamente ci voleva un mago molto capace per sferrarlo, ma l’atto in se stesso era terribilmente semplice, e lasciava dietro di sé l’aridità più assoluta. Erano stati proprio gli elfi ad elaborare tale incantesimo?
«Quando», domandò El al muschio sotto il suo naso, «potrei mai utilizzare una simile magia?»
«Durante un’emergenza», rispose tranquillamente il Maestro, «se la tua vita, o il tuo regno o il tuo castello fossero estremamente in pericolo. Quando tutto il resto è perduto, l’unico atto immorale è non fare qualcosa che sai potrebbe aiutare la causa. Ecco a cosa serve tale incantesimo».
Il principe azzardò un’occhiata all’elfo mascherato. La sua voce, per la prima volta in vent’anni, aveva un tono appassionato, quasi famelico.
Mystra, pensò El, quest’elfo ama l’idea di distruggere i nemici, a qualsiasi costo!
«Immagino, Maestro, che non sarò mai abbastanza sicuro del mio giudizio da osare sferrare quest’incantesimo», affermò lentamente Elminster.
«Sicuro, no: nessun essere pensante e attento lo sarebbe, sapendo ciò che può causare questa magia. Tuttavia capace, sì, puoi diventarlo. È per questa ragione che siamo qui. Ora alzati».
El si rimise in piedi. «Devo fare pratica?»
«In un certo senso, sì. Sferrerai l’incantesimo contro un nemico di Cormanthor. Per decreto del Coronal, tale magia dev’essere utilizzata solo per la difesa diretta del regno o di un elfo anziano in pericolo».
El fissò la maschera incantata del Maestro, domandandosi forse per la millesima volta quali fossero i suoi veri poteri, e che cosa avrebbe trovato dietro di essa se mai si fosse azzardato a strappargliela.
Come se quel pensiero avesse attraversato la mente dell’elfo, il Mago Mascherato indietreggiò bruscamente e affermò: «Hai appena visto la nostra rete distruggere una casa. Era un’abitazione usata da alcuni cospiratori del regno che desiderano trattare con i drow. Bramano tanto la ricchezza e l’importanza che gli elfi delle tenebre hanno loro promesso che intendono tradirci e diventare vassalli di qualche matrona del Sottosuolo».
«Ma di sicuro…», iniziò Elminster, per poi interrompersi. Nulla era sicuro di quella storia tranne il fatto che il Maestro stesse mentendo. Sul pascolo Mystra gli aveva conferito tale capacità di discernimento, e ora capiva quando la voce fredda e sottile del mago si allontanava dalla verità.
«Presto», continuò l’elfo, «andremo in un luogo che è ha protezioni specifiche contro di me, dove potrei entrare solo distruggendone tutte le barriere, e quindi annunciando a tutti il mio arrivo. Non voglio sprecare tanta magia».
Il mago puntò il dito verso El. «Tu, invece, potrai entrare senza problemi. La mia magia ti fornirà un orco incatenato, un malvagio saccheggiatore di villaggi umani ed elfi che abbiamo catturato mentre arrostiva allo spiedo bambini per cena. Alimenterai il tuo incantesimo con le sue energie, e poi scaglierai la tua antimagia – naturalmente aumentata per dimensioni ed efficacia dall’incantesimo che ti ho insegnato – nella casa che ti indicherò. Poi radunerò alcuni armathor fedeli armati di spade, e il gioco sarà fatto. I traditori moriranno e Cormanthor sarà al sicuro ancora per qualche tempo. Dopo tale azione sarai finalmente pronto per essere presentato al Coronal».
«Al Coronal?», Elminster si sentì eccitato quasi quanto avesse lasciato intendere il tono della sua voce. Effettivamente sarebbe stato bello rivedere Lord Eltargrim. Ciò, tuttavia, non dissipò la strana sensazione che aveva riguardo l’intera faccenda. Chi avrebbe ucciso in realtà?
Il Mascherato vide il disgusto sul volto di El. «Nella casa che colpirai vive un mago, un mago molto potente», aggiunse lentamente. «Tuttavia spero che i miei assistenti affrontino i veri nemici con la stessa efficienza con cui trasformiamo funghi velenosi ed evochiamo la luce nei luoghi oscuri. Il vero mago non si permette mai di essere intimorito dalla magia quando la usa».
Il mago saggio, pensò tra sé Elminster, ricordando le parole di Mystra, finge di non sapere nulla della magia.
E quando raggiungerà la vera saggezza, saprà che non stava fingendo, completò ironicamente «Sei pronto, Elminster?», gli domandò pacato il Maestro. «Sei finalmente pronto a intraprendere una missione importante?»
Mystra? Domandò El silenziosamente. Una visione apparve subito nella sua mente: il Mascherato aveva il dito puntato verso di lui, proprio com’era accaduto un attimo prima, e nella visione El sorrideva e annuiva entusiasta. Era tutto chiaro.
«Sono pronto», esclamò El, sorridendo e annuendo in maniera entusiasta.
La maschera non nascose il lento sorriso che segnò il volto del mago.
L’elfo sollevò le mani e mormorò: «Allora andiamo». Fece un singolo gesto in direzione del principe, e il mondo scomparve in un fumo vorticante.
Quando il fumo si dissipò rendendo nuovamente visibili l’umano e il mago, essi erano in una valle boscosa, situata da qualche parte a Cormanthor, a giudicare dall’aspetto degli alberi e dal sole sopra di loro. Erano in piedi su una collinetta, accanto a un pozzo e, oltre un piccolo avvallamento che racchiudeva un giardino, si ergeva una casa bassa e tortuosa, fatta di alberi uniti da stanze di legno dal tetto spiovente. Se non fosse stato per le finestre ovali visibili nei tronchi d’albero, avrebbe potuto benissimo essere una casa abitata da uomini.
«Colpisci rapidamente», mormorò il mago all’orecchio di Elminster, dopodiché svanì, e al suo posto comparve un orco in pesanti catene. La bestia lo fissava, scongiurandolo con gli occhi, come se tentasse freneticamente di dire qualcosa attraverso lo spesso bavaglio che gli avvolgeva bocca e zanne. Ma tutto ciò che riuscì a emettere fu un debole ma acuto piagnucolio.
Un divoratore di bambini e un saccheggiatore, eh? El serrò le labbra, disgustato da ciò che doveva fare, e toccò l’orco senza esitazione. Il Mascherato lo stava sicuramente osservando.
Sferrò l’incantesimo, e si voltò per stendere la mano verso la casa, e disseminare l’antimagia in ogni sua parte, guidandola con la mente nella cantina più profonda, per interdire anche i sortilegi più potenti.
Il lamento dell’orco divenne un gemito disperato; la luce nei suoi occhi scintillò e si spense, e la bestia piegò le ginocchia e si accasciò pesantemente a terra; El dovette farsi rapidamente da parte per non essere sepolto dalla massa incatenata.
Nelle vicinanze l’aria vibrò, e il principe di Athalantar sollevò lo sguardo in tempo per vedere guerrieri elfi in armatura scintillante, dal collare alto, uscire di corsa da uno squarcio nel vuoto. Nessuno di loro portava elmi, ma tutti agitavano spade sguainate, spade incantate che baluginavano di magia saccheggiatrice. Senza guardare né lui né l’ambiente circostante, si precipitarono sulla casa scardinando finestre e porte. Quando le spade violarono tali barriere e gli elfi fecero irruzione all’interno, il bagliore su armi e armature si spense, e iniziarono a udirsi grida soffocate e tintinnii di spade.
Sentendosi improvvisamente male, El guardò di nuovo l’orco e rimase a bocca aperta, inorridito.
Si gettò in ginocchio e allungò una mano per toccare e accertarsi, e d’un tratto ebbe la sensazione che si aprisse una voragine scura intorno a lui. Le catene si erano afflosciate intorno a una forma esile e slanciata., Una forma fin troppo familiare, penzolante fra le sue braccia. Gli occhi di Nacacia, ancora spalancati nella loro supplica triste e vana, lo fissavano, scuri e vuoti. Ora sarebbero rimasti tali per sempre.
El toccò tremante il bavaglio crudele che le chiudeva ancora la bocca delicata, e non poté trattenere un secondo di più le lacrime. Non vide mai il fumo turbinante impossessarsi nuovamente di lui.
Nei racconti e nelle favole degli uomini la Corte di Cormanthor è descritta come una sala enorme, scintillante di meraviglie incantate, nella quale elfi riccamente vestiti, dalle maniere altezzose e dignitose, fluttuavano tranquillamente avanti e indietro. Ciò accadeva per gran parte del tempo, ma un particolare giorno dell’Anno delle Stelle Eccelse costituì una singolare eccezione.
«Fermi!», urlò il Mascherato, coprendo il mormorio di voci scioccate. «Consegno un criminale alla giustizia!»
«Veramente», affermò qualcuno con tono severo, «se c’è un…»
«Calma, Lady Aelieyeeva» s’intromise una voce grave ma austera che El ben conosceva. «Riprenderemo i nostri affari più tardi. È l’umano che ho nominato armathor del regno; la questione richiede il mio giudizio».
El guardò il trono del Coronal, fluttuante sopra la luminosa Piscina della Rimembranza. Lord Eltargrim si protese, il volto interessato, ed elfi con splendide tuniche si affrettarono a farsi da parte per sgomberare il pavimento liscio come il vetro fra El e il governatore di Cormanthor.
«Riconoscete l’umano, Onorato Signore?», domandò il Mascherato, e la sua voce fredda echeggiò in ogni angolo della vasta Camera della Corte, piombata nel frattempo in un improvviso silenzio.
«Lo riconosco», rispose il Coronal lentamente con una traccia di tristezza nella voce, poi spostò lo sguardo da Elminster all’elfo mascherato, e aggiunse, «ma non riconosco voi».
Il mago si portò una mano alla faccia, lentamente, e rimosse la maschera, come fosse una seconda pelle. El poté finalmente vedere, dopo vent’anni, quel volto di fredda bellezza: un volto che aveva visto già una volta.
«Sono Llombaerth Starym, Portavoce della mia casata», esclamò l’elfo. «Io accuso quest’uomo – il mio apprendista, Elminster Aumar, nominato da voi armathor del regno in questa stanza, vent’anni orsono – di omicidio e tradimento».
«Perché?»
«Onorato Signore, pensai di insegnargli l’incantesimo spegnivita, per metterlo in condizione di difendere Cormanthor e affinché potesse esservi presentato come mago del regno a pieno titolo. Imparatolo, non ha esitato a usarlo per uccidere l’altro mio apprendista – la mezzo sangue che giace ora accanto a lui, ancora nelle catene in cui l’ha imprigionata – e uno dei maggiori maghi del regno: Mythanthar. Ha avvolto la sua abitazione in un’antimagia, cosicché il nostro saggio e vecchio mago non ha potuto evitare le spade dei drow, alleati con l’umano».
«Drow?», esclamarono terrorizzati i cortigiani allineati lungo la sala.
Llombaerth Starym annuì con aria triste. «Gli elfi delle tenebre temono che la creazione di un mythal possa sovvertire i loro piani. Attaccheranno alla fine dell’estate, presumo».
Vi fu un momento di silenzio, poi si levarono in ogni dove voci eccitate; fra le lacrime che stava cercando di trattenere, El vide il Coronal percorrere la sala con lo sguardo e fare alcuni gesti.
Si udì un suono acuto, come di molte code d’arpa toccate all’unisono, e la voce insistente, magicamente amplificata della Messaggera di Corte rotolò nella lunga stanza aperta. «Calma e ordine, signori e signore. Chiedo nuovamente il vostro silenzio».
Passò qualche istante prima che tornasse la calma, ma quando gli armathor lasciarono le porte della corte e avanzarono espressamente lungo le fila di cortigiani, la richiesta della messaggera venne soddisfatta. L’atmosfera si fece tesa.
Il mago Starym si rimise la maschera, che gli si appiccicò istantaneamente al volto.
Il Coronal si alzò dal trono, le vesti bianche di un bianco accecante, e rimase in piedi nell’aria, guardando Elminster, più in basso. «È stata richiesta giustizia, e il regno l’avrà. Tuttavia nelle questioni tra maghi vi sono sempre state accese dispute, perciò prima la verità, poi il giudizio. La giovane mezzo sangue è ancora viva?»
El aprì la bocca per parlare, ma il Mascherato lo precedette rispondendo con un «no» secco.
«Allora devo chiamare la Srinshee, che può parlare con i morti», concluse serio Lord Eltargrim. «Fino al suo arr…»
«Aspettate!», ribatté rapido l’elfo mascherato. «Onorato Signore, ciò che volete fare non è affatto saggio! Quest’umano non può aver preso contatti con i drow senza l’aiuto di cittadini di Cormanthor, e tutti qui conoscono la lunga serie di rovesci di fortuna che ha subito Mythanthar nella creazione del suo mythal. Una delle poche persone tanto potenti da poter contrastare inosservata il nostro saggio mago, e da poter trafficare con gli elfi delle tenebre e sopravvivere, è Lady Oluevaera Estelda!
La sua voce assunse un tono drammatico. «Se la convocherete qui, non solo dirà falsa testimonianza, ma potrebbe anche colpire voi e altri cormanthoniani fedeli, e cercare di distruggere il regno!»
Il Coronal era pallido in volto, i suoi occhi sprizzavano rabbia per le accuse mosse dal mago mascherato, ma la sua voce suonò piatta e quasi gentile quando domandò: «Chi dunque, secondo voi Lord Llombaerth, potrebbe esaminare la mente dei morti? E di colei che accusate?»
L’elfo mascherato si accigliò. «Ora che la Grande Signora, Ildilyntra Starym, non è più tra noi», affermò lentamente, evitando attentamente di guardare il volto del Coronal divenire ancor più bianco, «non saprei davvero chi scegliere; potrebbero essere tutti corrotti, capite».
Si voltò e, con fare pensieroso, fece qualche passo nell’aria, lungo la fila di cortigiani. Molti di essi si ritrassero, come se avesse una malattia contagiosa, ma il mago non vi prestò attenzione.
«Che cosa dite, Signor Portavoce, se facessimo testimoniare il mago Mythanthar?» Il tono profondo della Messaggera di Corte, ancora in piedi sulla porta in fondo alla stanza, sorprese tutti i presenti. Il Coronal e il Mascherato sollevarono di scatto la testa e guardarono Aubaudameira Dree.
«È morto, Lady», osservò severo il Mago Mascherato, «e chiunque lo interroghi potrebbe evocare risposte false mediante incantesimi. Non vedete che ciò rappresenta un problema?»
«Ah, giovane Starym», esclamò una figura esile, appoggiando la mano sulla spalla di Alais affinché la sua voce fosse amplificata, «considera risolto il tuo problema: sono vivo. E non devo ringraziare te».
Llombaerth si irrigidì e rimase a bocca aperta, solo per un istante. Poi esclamò rabbioso. «Che imbroglio è mai questo? Ho visto io stesso l’umano sferrare l’incantesimo. Ho visto i drow sciamare nella casa di Mythanthar! Non può essere sopravvissuto!»
«Così avete progettato», affermò il vecchio mago, avanzando silenziosamente sull’aria, al fianco di Alais. «Così avete sperato. Il problema con voi giovani è che siete tutti tanto pigri, tanto impazienti. Trascurate di verificare i dettagli degli incantesimi, e vi ritrovate con brutte sorprese. Non vi disturbate ad assicurarvi che le vostre vittime siano davvero morte, e come tutti gli Starym, giovane Llombaerth, voi date le cose troppo per scontate».
Mentre parlava, l’anziano mago percorse tutta la lunghezza della sala. Si fermò accanto a Elminster e allungò un piede verso il corpo di Nacacia.
«Vorreste accusare me dell’assassinio della mia apprendista?», urlò il Mascherato, le braccia improvvisamente avvolte da piccoli fulmini. «E di aver tentato di uccidervi? Come osate?»
«Certamente», rispose il mago, toccando il corpo della mezza elfa in catene.
La messaggera asserì formale: «Lord Starym, con la vostra magia state violando le regole della Corte. Qui si discute con le idee, non con gli incantesimi».
Quando la donna ebbe pronunciato tali parole, il Coronal si mosse come per aggiungere qualcosa, e il corpo in catene svanì. Al suo posto, un attimo dopo, si materializzò un’altra forma: una ragazza con lunghi capelli color castano chiaro, in piedi, infuriata, e più che mai viva.
Il Mascherato trasalì e divenne bianco in volto. «Un incantesimo spegnivita è un’arma potente, Starym», osservò Mythanthar, «ma nessun involucro antimagia, per quanto rafforzato, può avere la meglio contro un sortilegio lacerante. Faresti meglio a studiare ancora un po’ prima di definirti mago, sia che indossi o meno la Maschera di Andrathath».
«Tutti zitti!», tuonò Eltargrim. Mentre gli armathor iniziavano a riunirsi accanto alla Piscina, egli si rivolse a Nacacia, che stava abbracciando un Elminster singhiozzante, e le domandò: «Fanciulla, chi è il responsabile di tutto ciò?»
Nacacia puntò il dito contro Llombaerth Starym ed esclamò secca: «Lui. Ha organizzato tutto e la persona che vuole veramente uccidere siete voi, Onorato Signore!»
«Bugie!», gridò il Mascherato. Due fulmini infuocati fuoriuscirono dai suoi occhi e attraversarono la stanza in direzione di Nacacia. La ragazza indietreggiò, ma Mythanthar sorrise e sollevò una mano, deviando i fulmini che colpirono qualcosa d’invisibile e poi scomparvero.
«Dovresti fare di meglio, Starym», esclamò pacato, «ma non credo che tu sappia come. Non riconosci nemmeno una falsa sembianza quando giace davanti a te, in catene, u…»
«Starym!», abbaiò il Mascherato, sollevando le braccia. «È giunto il momento!»
Tra i cortigiani, in tutta la stanza, eruppe magia luminosa. Si udirono grida, poi esplosioni improvvise e, d’un tratto, tutti gli elfi presero a correre per la sala con la spada sguainata.
«Muori, falso governatore!», urlò Llombaerth Starym, girandosi per colpire il Coronal. «Lascia che finalmente regnino gli Starym!»
Il fulmine bianco di magia distruttrice che scagliò in quel momento fu solo uno dei tanti che sfrecciarono verso il vecchio elfo davanti al trono, lanciati da altri maghi Starym da vari punti della sala.
Eltargrim svanì nella conflagrazione accecante causata dagli incantesimi di guerra, e l’aria si squarciò formando spaccature buie; la Messaggera di Corte gridò e si accasciò sul pavimento scintillante mentre lo scudo che aveva evocato attorno al suo governatore veniva sopraffatto. La sala tremò, e molti cortigiani urlanti si ritrovarono per terra. Un arazzo cadde sul pavimento.
Poi la cortina luminosa sopra la Piscina si fece da parte, e rivelò Lord Eltargrim in piedi sul Trono, la spada sguainata tra le mani. «La morte porti con sé i traditori di Cormanthor! Starym, la vostra vita è agli sgoccioli!», grugnì, mentre la luce delle rune risvegliate ondeggiava su e giù per la lama della spada.
Il vecchio guerriero balzò giù dal trono, agitando l’arma come un falciatore di grano e usando gli incantesimi che fumavano e fluivano sul filo della lama per dissipare le fiamme turbinanti e i fulmini luminosi che venivano scagliati contro di lui.
Mythanthar proferì due parole strane, lentamente, e i fulmini e i fumi magici attraverso i quali Eltargrim si stava facendo strada fluirono improvvisamente verso l’alto, sopra la testa del Coronal, dritti nelle fauci di un drago.
L’esplosione che seguì frantumò il tetto della stanza, e rovesciò una delle possenti colonne. I presenti cominciarono a strillare fra le nubi di polvere, ed Elminster e Nacacia, ancora abbracciati, vennero scagliati sul pavimento, mentre i bagliori magici che illuminavano la vasta Camera della Corte si spensero.
Nell’improvvisa oscurità, mentre tossivano e battevano le palpebre, solo una fonte di luce rimase costante: il trono vuoto del Coronal, che fluttuava tranquillo sopra la Piscina della Rimembranza.
Fulmini e saette si infrangevano attorno a esso, e il corpo di una sfortunata signora elfa si schiantò contro lo schienale, imbrattandolo di sangue. La donna cadde come una bambola di pezza nella Piscina sottostante, e la luce che questa emanava si tinse improvvisamente di rosso.
La Camera della Corte venne scossa da un’altra potente esplosione; che distrusse gli arazzi lungo la parete orientale, e fece volare altri corpi spezzati.
«Basta», sbottò una voce nell’oscurità. «Tutto ciò è durato fin troppo».
La Srinshee era finalmente giunta.
Accadde dunque che una tempesta magica si scatenasse quel giorno nella Corte di Cormanthor. Un vero uragano d’incantesimi è qualcosa di terrificante, uno dei disastri più terribili che si possano immaginare, anche se si sopravvive per ricordarselo. Eppure qualcuno fra la nostra Gente temette e odiò ancora di più ciò che accadde dopo che la tempesta si placò.
Una luce improvvisa avvampò nell’oscurità. Granelli dorati e luminosi si sollevarono dalla mano aperta di una maga che sembrava poco più che una bambina. D’un tratto la Camera della Corte non fu più illuminata solo dal bagliore degli incantesimi, dall’acciaio scintillante della spada del Coronal, e dalle fiamme che consumavano gli arazzi qua e là.
Come un sole nascente, la luce tornò sul campo di battaglia.
Perché tale era diventata la sala di corte. Corpi inerti erano sparsi ovunque, e in mezzo alla polvere sollevata, fra gli squarci del tetto a volta, si intravedeva debolmente il cielo. Frammenti enormi della colonna caduta giacevano dietro il trono fluttuante, e sotto alcuni di essi scorrevano fiumi di sangue scuro.
Elfi combattevano ancora per tutta la corte, armathor lottavano con cortigiani e maghi Starym in un groviglio di spade, imprecazioni, anelli scintillanti, e piccoli incantesimi.
La Srinshee fluttuava davanti al trono, e il suo minuscolo corpo emanava ancora luce. Numerosi fulmini guizzavano attorno alle dita della sua mano, e a tratti partivano per intercettare incantesimi che la maga reputava troppo pericolosi, mentre questi ululavano e ringhiavano lungo il pavimento.
Nacacia ed Elminster si alzarono e si gettarono nuovamente l’una nelle braccia dell’altro, ma, d’un tratto, videro qualcosa luccicare nelle mani dell’ex Maestro: il Mascherato aveva evocato una spada da tempesta, e fulmini purpurei correvano su e giù sulla lama. Il suo volto non appariva più tanto disperato mentre osservava il Coronal farsi strada tra i servitori Starym raggruppati di fronte al Portavoce della casata.
Llombaerth guardò l’umano e la mezzo sangue abbracciati, e i suoi occhi si strinsero.
Arcuò una mano, ed El si sentì improvvisamente tirare. «No!» urlò il giovane disperatamente, mentre il mago lo strappava dalle braccia di Nacacia, e gli faceva sollevare le mani per sferrare un incantesimo.
«Nacacia! Aiutami! Fermami!», urlò El mentre i suoi occhi venivano costretti a posarsi sulla Srinshee.
Il Mascherato iniziò a frugare nella sua mente alla ricerca di un incantesimo particolare e un caldo impeto di soddisfazione indicò che l’aveva trovato.
Era quello che prelevava spade da altri luoghi e le indirizzava verso il bersaglio desiderato.
Nel caso di Llombaerth il bersaglio erano gli occhi, la gola, il petto e l’addome della Srinshee, occupata a deviare le peggiori magie degli elfi in lotta.
Tutta la sala ardeva di nuovi incantesimi. Elfi che avevano represso per anni l’odio nei confronti dei rivali approfittarono della mischia per saldare i vecchi conti. Uno di essi, tanto anziano da avere la pelle delle orecchie quasi trasparente colpì un coetaneo con uno sgabello poggiapiedi e lo fece ruzzolare per terra.
Il cervello del vecchio schizzò sulle pantofole di una donna altezzosa in tunica blu, che nemmeno se ne accorse, tant’era occupata a lottare con un’altra fiera signora dal vestito color ambra. Le due donne si agitavano fra sputi, graffi, e tirate di capelli; avevano le unghie insanguinate e non smettevano di schiaffeggiarsi, tirarsi calci e pugni con furia. La signora in ambra sfregiò la guancia di quella in blu, e la nemica rispose cercando di strangolarla.
Mentre lotte simili imperversavano davanti a lui, El sollevò le mani e posò lo sguardo su Oluevaera.
Nacacia strillò non appena si rese conto di ciò che stava accadendo, ed Elminster sentì i colpi sordi dei suoi piccoli pugni. Lo spinse, gli diede gomitate, e lo colpì in testa, cercando di bloccare l’incantesimo senza ferirlo.
Lentamente, resistendo al suo stesso corpo ma indifferente al dolore che la ragazza gli causava, El si concentrò, estrasse le minuscole copie delle spade che necessitava dalla tasca della cintura, alzò le mani per compiere il gesto che le avrebbe fuse e scatenato l’incantesimo, aprì le labbra, e ringhiò disperatamente: «Buttami a terra! Schiacciami contro il pavimento! Fatto!»
Nacacia si lanciò in un placcaggio goffo e disperato, e insieme caddero rimbalzando sul pavimento. El si contorse sulla pietra liscia mentre cercava di riprendere il fiato venutogli a mancare nella violenta caduta, e la ragazza lottò per restare sopra di lui, cavalcandolo come un contadino che cerca di uccidere un maiale riluttante.
Il principe di Athalantar si divincolò, trascinandola da una parte all’altra, e tentò colpirla, ma ricadde duramente sul braccio con cui intendeva farle del male.
Mentre lottava contro la sua volontà, qualcosa salì vorticante dalle profondità della sua mente. Qualcosa di dorato.
Ah! Sì! Il simbolo d’oro che Mystra gli aveva impresso nella memoria tanto tempo prima luccicò, tremolante come una moneta vista sott’acqua. D’un tratto smise di ondeggiare ed El domò la sua volontà per catturarlo.
L’immagine della Srinshee offuscò per un istante quello splendore vorticante quando il Mascherato lottò per dominare la volontà di El, ma alla fine il simbolo trionfò.
Mentre Nacacia spingeva la testa di El verso il basso, contro le pietre del pavimento, il giovane rimase aggrappato all’immagine scintillante e ansimò: «Mystra!»
Il suo corpo tremolò, si contorse e… fluì. Nacacia tentò di tappargli la bocca con una mano, aggrappandosi disperatamente a lui, ma El riuscì a esclamare a fatica: «Basta così! Nacacia, lasciami! Non sono più suo schiavo!»
La ragazza rotolò sul pavimento, poi si sollevò un poco e si ritrovò a fissare gli occhi di una donna umana!
«Buon giorno», annaspò Elminster con un debole ghigno sul volto. «Chiamami Elmara, per favore!»
La mezzo sangue la guardò inebetita e incredula. «Sei veramente tu?»
«Qualche volta penso di sì», rispose El con un sorriso, al che Nacacia le gettò le braccia al collo con una risata di sollievo.
Il piccolo idillio venne interrotto un istante più” tardi dalle grida di: «Per gli Starym! Combattete!»
I due ex apprendisti si alzarono velocemente, inciamparono nel corpo immobile di Alais, e videro numerosi elfi irrompere nella parte orientale della sala, da dietro un arazzo. Le loro corazze di color marrone rossiccio recavano il simbolo argenteo dei draghi gemelli di Casa Starym, e gli ultimi armathor di corte stavano soccombendo sotto le loro spade.
«Opponete resistenza» gracchiò qualcuno lì vicino. «Restate qui, difendete la messaggera, e teneteli lontano dalla Srinshee».
Era Mythanthar, e l’improvvisa stretta delle sue mani ossute sulle loro spalle indicò che stava parlando con Elmara e Nacacia. Voltatesi quel tanto che bastava per riconoscerlo, le ragazze annuirono rispettosamente e sollevarono le mani per tessere incantesimi.
Mentre i guerrieri Starym si facevano largo tra i cortigiani in lotta, senza badare a chi colpivano, El sferrò l’incantesimo della spada evocata, mirando al volto e alla gola dei soldati più avanzati.
Nacacia scatenò fulmini oltre la prima fila di Starym morenti per colpire la seconda, e gli elfi in armatura marrone barcollarono fino a morire sotto una pioggia di saette fameliche.
La Srinshee sferrò una magia dall’alto: comparve un muro di guerrieri fantasma completamente innocui, che tuttavia impedì a quelli vivi di avanzare finché non furono abbattuti tutti, uno alla volta.
Nuove facce fecero capolino alle porte della grande sala, quando i capi di potenti casate vennero a verificare di persona quale nuova pazzia si fosse impossessata quel giorno del Coronal, e quasi tutti rimasero a bocca aperta, impallidirono e si ritirarono frettolosamente. Alcuni, tuttavia, deglutirono, estrassero spade che erano più da cerimonia che da battaglia, e s’avviarono prudentemente tra il sangue, la polvere e il tumulto.
All’altra estremità della stanza il governatore di Cormanthor stava lottando per la sua vita, uccidendo i cortigiani Starym come un leone affamato. Un guerriero contro tanti, che formavano un muro di furia disperata intorno a lui. La sua spada cantava e baluginava, e solo due colpi erano riusciti a eluderla e a macchiare di rosso la sua tunica bianca. Eltargrim era di nuovo in battaglia e si sentiva perfettamente a suo agio.
Il Coronal era felice: dopo venti lunghi anni di complotti, di «incidenti», di voci riguardanti la corruzione del governatore e di battute d’arresto nella creazione del mythal, i nemici erano usciti allo scoperto. Gli incantesimi della sua spada e quelli che proteggevano la corte stavano cominciando ad affievolirsi, ma se fossero riusciti a respingere ancora per poco le magie di quegli Starym…
«Prendetelo, incapaci!», ringhiò Llombaerth Starym, colpendo furiosamente spalle e schiena dei guerrieri che venivano respinti con la parte piatta della spada.
Quando fosse giunto il momento, avrebbe usato una magia che nessun cormanthoniano era in grado di fermare, un segreto oscuro che aveva serbato per anni. Lo fece scivolare nella mano libera e attese. Un lancio ben assestato sulla faccia di Eltargrim, e il regno sarebbe finalmente appartenuto alla Casata degli Starym.
D’un tratto qualcosa gli schiaffeggiò la mente, un colpo tanto brutale quanto quelli da lui inflitti ai suoi guerrieri. La scena agitata del Coronal combattente davanti ai suoi occhi venne cancellata da una scena della sua mente: due stelle scure nuotavano e fluivano nel volto spietato e tetro del mago Mythanthar, rugoso e macchiato dall’età, ma con due occhi che catturarono i suoi come due fiamme scure.
Vai da qualche parte, giovane traditore?
Nella sua testa quelle parole ironiche suonarono più forti del clangore delle spade, e Llombaerth Starym scoprì di non potersi muovere, di non poter distogliere lo sguardo dal vecchio mago, in piedi davanti a lui al centro della stanza, nella quale si agitavano guerrieri Starym e il sangue elfo macchiava il pavimento, un tempo scintillante, sotto gli stivali dell’anziano stregone.
«Esci fuori dalla mia testa!», ringhiò il Mascherato, cercando disperatamente di cacciarlo con la forza di volontà.
Ma era come se tentasse di spostare il tronco di una vecchia quercia. Mythanthar lo tenne stretto in una morsa inflessibile, e con un sorriso gli promise la morte.
Vai a nutrire i vermi, Starym indegno. Muori, e non turbare mai più il regno di Cormanthor.
Quella macabra maledizione stava ancora risuonando nella sua testa quando Eltargrim Irithyl, Coronal di Cormanthor, superò l’ultima linea di guerrieri nemici e spinse la spada scintillante oltre quella di Llombaerth. Le due lame contornate di fiamme colpirono insieme il mantello del Mascherato, e lo scalfirono. Con un fuoco umido e improvviso, più terribile di qualsiasi cosa avesse mai provato prima, il Portavoce degli Starym sentì la spada del Coronal affondare nel fianco sinistro, salire fino al cuore e oltre, fino a colpire il braccio destro, che si staccò dal corpo. L’ultima cosa che l’elfo percepì, mentre le tenebre allungavano i loro artigli per serrarlo in una morsa gelida, fu un prurito irritante nel punto in cui l’elsa della Zanna di Cormanthor si muoveva contro le sue costole.
Doveva assolutamente grattarsi, doveva… il dannato vecchio mago lo stava ancora osservando sorridente… portatelo via, cacciatelo…
E Llombaerth Starym abbandonò Faerûn senza nemmeno il tempo di un vero e proprio addio.
«È morto», affermò amaramente Flardryn, vedendo l’elfo mascherato accasciarsi. Si allontanò dalla sfera magica, senza nemmeno disturbarsi a guardare un incantesimo di stelle brillanti piovere dalla mano della Srinshee e distruggere l’esercito degli Starym, che ancora cercava di oltrepassare l’umana e la mezza elfa, ormai troppo decimato, troppo debole e in ritardo per vincere la battaglia.
Altri Starym, il volto bianco per l’incredulità, rimasero a fissare la sfera luminosa, ferma sopra lo specchio di acqua incantata. Lacrime scorrevano lungo le loro guance, ma erano più anziani di Flardryn, perciò non si voltarono. Il minimo che uno poteva fare per coloro che indossavano i draghi degli Starym era guardarli fino alla fine e imprimersi tutto nella memoria, per poi vendicarli in futuro. Semplice dovere.
«Ucciso! Il nostro portavoce ucciso dal Coronal nella sua stessa corte! Il trono del regno schiaffeggia il volto di tutti gli Starym, ecco che cosa fa!», sibilò uno degli anziani, il naso e le orecchie tremanti di rabbia.
Un’altra Starym, anch’ella tanto anziana da aver perso quasi tutti i capelli, che portava una tiara ingioiellata per coprire i pochi rimastile, lanciò un’occhiata truce ai suoi parenti. Poi sospirò ed esclamò triste: «Non avrei mai pensato di assistere al giorno in cui un elfo Starym, persino un giovane sciocco e arrogante, insignito di un titolo che non avremmo mai dovuto dargli, si sarebbe presentato alla Corte di Cormanthor e avrebbe denunciato il suo governatore. Per poi attaccarlo apertamente con incantesimi e causare un bagno di sangue!»
«Calmati, sorella», mormorò un altro elfo, le labbra tremanti e gli occhi colmi di lacrime.
«Avete visto?» Un urlo improvviso si levò dalle travi sopra di loro, mentre una porta distante si spalancava con violenza contro un muro. «Questa è guerra! Forza con gli incantesimi, Solonor vi maledica per le vostre deboli ginocchia, forza con gli incantesimi! Dobbiamo arrivare a corte prima che quell’assassino di Irithyl possa fuggire!»
«Lascia perdere, Maeraddyth», esclamò pacato l’elfo dalle spalle larghe seduto accanto alla sfera.
Il giovane nemmeno lo udì mentre raggiungeva gli altri Starym. «Muovetevi vecchi codardi! Avete tutti perso l’orgoglio? Il nostro portavoce viene ucciso barbaramente, e voi rimanete a guardare! Che razza di…»
«Ho detto: lascia perdere, Maeraddyth», ripeté l’elfo seduto, con lo stesso tono di prima. Il giovane infervorato s’irrigidì improvvisamente, e guardò oltre tutte le facce silenziose, incupite dal dolore.
Il vecchio arcimago di Casa Starym ricambiò lo sguardo con occhi mesti. «C’è un tempo per gettare via la vita», cominciò Uldreiyn Starym rivolto all’elfo tremante, «e oggi Llombaerth l’ha usato: ampiamente direi. Potremo ritenerci fortunati se la Casata degli Starym non verrà perseguitata e distrutta, fino all’ultima goccia di sangue. Trattieni la tua rabbia, Maeraddyth; se cercherai di vendicare tutti i morti in quella stanza», aggiunse inclinando il capo verso la sfera nella quale ancora imperversavano scene di battaglia, «sarai uno sciocco, e non un eroe».
«Ma Saggio Signore, come fate a dire ciò?», protestò il giovane, indicando la sfera. «Siete un vigliacco come tutti loro».
«Stai parlando», lo interruppe Uldreiyn con voce glaciale, «dei tuoi anziani Starym che vennero riveriti e celebrati per le loro gesta quando il nonno di tuo nonno era ancora un bambino. Anche quando piagnucolava e si lamentava, egli non mi ha mai disgustato con la sua puerilità come stai facendo tu in questo momento».
Il giovane guerriero lo fissò con sincero sbalordimento. Gli occhi dell’arcimago penetrarono nei suoi come due lance gemelle, appuntite e spietate. Uldreiyn indicò il pavimento e Maeraddyth, deglutendo incredulo, si ritrovò in ginocchio.
L’arcimago più potente della Casata Starym lo guardò dall’alto. «Sì, è giusto essere atterriti e infuriati quando uno dei tuoi muore. Ma la tua rabbia dovrebbe essere rivolta a lui, dovunque si trovino ora i resti di Llombaerth, per aver osato trascinare tutta la casata nel tradimento. Andare contro un Coronal corrotto è una cosa; ma attaccare e denunciare il governatore di tutta Cormanthor davanti alla sua corte è ben diverso. Me ne vergogno. Tutti coloro che hai definito “codardi” sono tristi, scioccati, avviliti. Sono tre volte migliori di te, poiché essi sanno innanzitutto che un elfo del regno – un elfo nobile, un elfo Starym - mantiene sempre il controllo e non tradisce mai l’onore e l’orgoglio della sua grande famiglia. Fare ciò significa sputare sul buon nome della casata che desideri tanto mantenere e imbrattare la memoria di tutti gli antenati».
Maeraddyth era pallido come un cadavere e le lacrime gli offuscavano la vista.
«Se fossi crudele», continuò il mago, «dividerei con te alcuni ricordi di famiglia a te sconosciuti, sommergendoti col loro orgoglio, coi loro schemi e col loro dolore. Quei parenti che ora schernisci portano un grande peso, mentre tu sei troppo giovane e stupido per conoscere reali doveri. Non parlarmi di guerra, né di ricorrere “agli incantesimi”, Maeraddyth».
Il giovane Starym scoppiò in lacrime, e il vecchio mago si alzò improvvisamente dalla sedia, s’inginocchiò accanto a lui e gli strinse le braccia in una morsa d’acciaio. «Eppure conosco la tua rabbia, il tuo dolore, e la tua irrequietezza, giovanotto», gli sussurrò all’orecchio. «Il tuo bisogno di fare qualcosa, la tua brama di difendere il nome degli Starym. È un bene che in te ardano rabbia e dolore, necessari affinché tu non dimentichi mai la stoltezza di Llombaerth. Sei il futuro della casata, ed è mio compito fare di te un’arma infallibile, un orgoglio impeccabile, e un onore che non dimentica mai».
Maeraddyth si ritrasse sbalordito, e Uldreiyn gli sorrise. Il giovane guerriero fu scioccato nel vedere le lacrime scintillare negli occhi giganti dell’elfo. «Ora dammi retta, giovane Maeraddyth, e fa’ che io sia fiero di te», brontolò l’arcimago.
«Tu e tutti noi…» Il guerriero si rese improvvisamente conto di essere in ginocchio al centro di un anello di volti e che lacrime calde stavano cadendo intorno a lui come gocce di pioggia in una tempesta. «… dobbiamo lasciarci alle spalle questo giorno nero. Non dovremo mai parlarne, tranne che nell’intimità delle nostre stanze, quando nessun servo è presente. Dobbiamo lavorare per ripristinare l’onore della famiglia, testimoniare nuovamente la nostra fedeltà al Coronal non appena sia sicuro farlo e accettare qualsiasi punizione ci aspetti. Se dovremo pagare con ricchezze, o affidare i nostri giovani all’educazione di Corte, oppure assistere all’esecuzione dei guerrieri che hanno combattuto oggi, accetteremo di buon grado. Dobbiamo prendere le distanze dalle azioni di quegli Starym che hanno sfidato il volere del Coronal. Dobbiamo mostrare vergogna, non orgogliosa provocazione: altrimenti, presto non ci sarà più alcuna Casata Starym a cui ridare gloria».
Il vecchio si alzò, trascinando con sé anche Maeraddyth, e guardò le facce silenziose intorno a lui. «Siamo tutti d’accordo?»
I volti annuirono.
«Qualcuno dissente? Che parli ora, affinché possa prendere le misure opportune». Si guardò intorno, lo sguardo duro, ma nessuno, nemmeno il tremante Maeraddyth, osò contraddirlo.
«Bene. Ora non disturbatemi, ma indossate i vostri abiti migliori e attendete il mio ritorno. Chi abbandonerà questa dimora non sarà più uno Starym».
Senza altre parole Uldreiyn uscì dal cerchio e attraversò la stanza con aria solenne.
Alla vista del suo volto, tutti i servi lungo il percorso fino alla torre degli incantesimi fuggirono spaventati. Quando la porta della sua stanza si chiuse, vi appoggiò una mano e pronunciò la parola che avrebbe liberato i due draghi fantasma dallo stemma degli Starym scolpito sulla superficie esterna della porta.
Tutta la notte essi percorsero su e giù il piccolo corridoio, pronti a cacciare chiunque, anche i membri di Casa Starym, ma nessuno giunse a sfidarli. Il che fu un bene, poiché i draghi fantasma sono sempre affamati.
La Piscina della Rimembranza tornò a splendere di luce bianca e il Coronal dall’aria stanca sollevò la mano verso la Srinshee, sospesa in alto accanto al trono. «Nessuno di loro comprende», affermò pacato, toccando la spada scintillante al suo fianco. «Per vent’anni e più i giovani sciocchi delle grandi casate hanno combattuto per il trono. Ma anche se avessero trionfato, il vincitore non avrebbe ottenuto altro che l’opportunità di sottomettersi al rituale della spada». Il vecchio guardò Elmara, ora di nuovo Elminster, tra Nacacia e la messaggera. «Molti possono tentare quel rituale, ma solo uno verrà scelto, dopo aver superato prove di talento, di intelligenza, e di generosità». Eltargrim sospirò. «Sono tanto giovani, e tanto stupidi». Mythanthar ascoltava col sorriso sul volto, e non proferì parola, lo sguardo posato sugli elfi impegnati a ripulire la Camera della Corte dal sangue e dai corpi.
Il Coronal si rivolse tranquillamente alla Srinshee: «Fallo ora. Per favore».
Sopra di loro, l’anziana maga bambina toccò il Trono di Cormanthor, pronunciò un incantesimo, e rimase in piedi tremante, gli occhi chiusi, mentre il grande suono della Chiamata si propagava dal suo corpo, accompagnato da raggi di luce. Questi colpirono numerosi punti del soffitto, delle pareti e dei pilastri, e l’intera stanza risuonò di una crescente melodia.
La musica raggiunse il culmine, poi si affievolì con altrettanta lentezza. Quando ripiombò il silenzio, i capi di tutte le casate del regno erano di fronte al trono, e gli elfi minori erano accalcati sulla soglia.
Eltargrim rinfoderò la spada, si librò nell’aria e si fermò davanti al trono. Quando Oluevaera vacillò in seguito alla potente magia che aveva risvegliato, egli le mise un braccio attorno alle spalle per sostenerla, ed esclamò: «Popolo di Cormanthor, oggi qui è stato compiuto, e punito, un atto grave. Mythanthar dichiara di essere pronto, e io non aspetterò un minuto di più, affinché chiunque desideri controllare il regno come fosse un suo giocattolo personale non abbia il tempo di fare altri tentativi e di sacrificare altri cormanthoniani. Oggi, prima del tramonto, verrà steso il Mythal promesso, sopra tutta la città, dalla Postazione Settentrionale alla Piscina di Shammath. Quando esso diverrà sufficientemente stabile – il che dovrebbe accadere domani intorno a mezzogiorno – i cancelli della città verranno aperti agli individui di tutte le razze che non hanno intenzioni malvagie. Alcuni messaggeri verranno inviati nei regni conosciuti di uomini, gnomi, e halfling, e anche di nani. Da allora in poi, nonostante il regno rimarrà Cormanthor, questa città sarà conosciuta come Myth Drannor, in onore del Mythal che Mythanthar ha creato per noi, e di Drannor, il primo elfo cormanthoniano che sposò una ragazza nana, per quanto ciò sia avvenuto molto tempo fa».
Eltargrim guardò la messaggera, e Alais fece un passo avanti e annunciò grandiosamente: «I maghi sono stati convocati. Che tutti i presenti facciano silenzio e osservino. Ha inizio la stesura del Mythal!»