PARTE II L’armathor

7. Ad ognuno la sua festa

Quando Elminster la vide per la prima volta, Cormanthor era una città dalla parvenza altezzosa, piena di intrighi, di lotte, e di decadenza. Un luogo, in realtà, molto simile alle più fiere città umane odierne.

Antarn il Saggio

Da La grande storia della potenza degli arcimaghi faerûniani

Pubblicata approssimativamente nell’Anno del Bastone

Quando Ithrythra ebbe faticosamente percorso con gli stivali nuovi il sentiero tra i boschi che conduceva alla piscina, la festa era già iniziata da un pezzo.

«Onestamente, carissima», confidò a qualcuno Duilya Evendusk, con voce sufficientemente alta da far tremare le foglie dell’albero sopra la sua testa, «non mi importa che cosa sostengano i tuoi vecchi! Il Coronal è pazzo! Completamente pazzo!»

«Tu conosci la pazzia meglio di tutte noi», mormorò Ithrythra sotto voce, appoggiando il bicchiere su un vassoio fluttuante per slacciarsi gli stivali d’argento alti fino alla coscia. Era un sollievo togliergli. I tacchi a punta le permettevano di torreggiare sui servi, sì, ma oh, quanto male facevano. Le mode umane erano tanto folli quanto sfrontate.

Ithrythra appese la tunica merlettata a un ramo e sistemò le increspature della sottoveste, poi diede un’occhiata alla sua immagine riflessa nello specchio appeso sotto il grande albero, uno specchio ovale più alto di lei.

Quando scrutò nelle sue profondità e vide una sorta di scintillio, si ricordò che tra le signore si mormorava che lo specchio era talora servito ai Tornglara quale porta d’accesso alle strade buie e sporche nelle città degli uomini. I signori di tale casata andavano a concludere con gli uomini affari che Cormanthor disapprovava. Le signore Tornglara, ora…

Allora schioccò le labbra e scacciò risolutamente quei pensieri. Le mode erano ciò che Alaglossa Tornglara andava cercando: mode, e nient’altro.

Ithrythra sorrise lievemente allo specchio leggendario. La sua nuova acconciatura presentava un ricciolo laterale, fermamente avvolto intorno alla lira, simbolo della casata di appartenenza. Le orecchie si ergevano fieramente, le punte imbellettate non deturpate da gioielli eccessivamente vistosi. Si voltò, come per controllare prima un lato del corpo, poi l’altro: le gemme incollate lungo i fianchi erano tutte al loro posto. Si mise in posa, e mandò allo specchio un bacio imbronciato. Niente male.

Dopo il pranzo di ogni quarto giorno, le donne di cinque casate si riunivano alla Piscina della Danza del Satiro, nei giardini privati dietro la casa dalle molte torri dei Tornglara. Là facevano il bagno nella più calda delle piscine, in cui, per l’occasione, veniva versata acqua di rose speziata, e sorseggiavano vino di menta estiva da lunghi bicchieri verdi. I vassoi di confetture candite e i vini Tornglara, di giusta fama, circolavano liberamente, così come la vera ragione per cui le donne si riunivano periodicamente nello stesso luogo: il pettegolezzo.

Ithrythra Mornmist si unì alle compagne chiacchierone, salutandole con il consueto sorriso. Mentre lasciava scivolare le sue lunghe gambe nella piscina, sospirando di piacere per il calore lenitivo dell’acqua, notò che il suo bicchiere era l’unico ancora pieno. Dov’erano i servi?

La padrona di casa notò le occhiate di Ithrythra, s’interruppe bruscamente e, con aria cospiratrice affermò: «Oh, li ho mandati via, cara. Questa volta dovremo riempirci i bicchieri da sole, ma d’altronde non si discute tutti i giorni di tradimento della corona

«Tradimento della corona? Che cosa mai può aver fatto il Coronal? Quell’elfo è troppo anziano per avere ancora un po’ d’arguzia, o d’energia!», esclamò Ithrythra, suscitando gridolini e risate nelle signore già immerse nella piscina.

«Oh, sei fuori strada, carissima Ithrythra! Dev’essere a causa di tutto quel tempo che trascorri nelle tue cantine a coltivare funghi per guadagnarti da vivere!», esclamò tagliente Duilya Evendusk; Alaglossa Tornglara ebbe la grazia di alzare gli occhi al cielo all’udire tale cafonaggine.

«Be’, almeno ciò prova ai miei vecchi che sono in grado di lavorare, se devo», ribatté Ithrythra, «ed evito di essere un peso morto per la mia casata. Dovresti provare, cara, o, be’, no, meglio di no…»

Cilivren Doedance, la più tranquilla e gentile di tutte, sputacchiò sul bicchiere che stava riempiendo, e decise che la cosa più prudente da fare era posarlo. Appoggiatolo sul vassoio fluttuante, tappò la caraffa e la ripose nella solita cavità del torrentello che scorreva tra i cespugli accanto a lei.

«La notizia si è sparsa in tutta la città», spiegò tranquillamente. «Il Coronal ha nominato un uomo armathor del regno! Un ladro che rubò la kiira di una casata importante, e irruppe nella loro residenza cittadina per sottrarre incantesimi e derubare le signore!»

«Non era Casa Starym, vero?», domandò ironicamente Ithrythra. «Non vi è mai stato troppo amore fra il vecchio Eltargrim e la più altezzosa delle nostre casate».

«Gli Starym hanno servito Cormanthor un migliaio di estati più a lungo di una certa casata che conosco», asserì Phuingara Lhoril con fare impettito. «I cormanthoniani di spirito realmente nobile non trovano affatto eccessivo il loro orgoglio».

«I cormanthoniani di spirito veramente nobile non si abbandonano affatto a un comportamento superbo», rispose Ithrythra delicatamente.

«Oh, Ithrythra! La tua lingua è sempre tagliente come una spada! Non capisco come fa il tuo signore a sopportarti!», affermò Duilya Evendusk stizzosamente, seccata di non essere più al centro dell’attenzione.

«Io lo so», osservò Alaglossa Tornglara con sguardo rivolto alle foglie sovrastanti. Ithrythra arrossì mentre le altre bagnanti ridacchiarono divertite. Duilya vi aggiunse la sua sghignazzata stridula e poi si affrettò a riconquistarsi il centro della scena. Quel giorno le punte delle sue orecchie erano quasi piegate sotto il peso delle gemme.

«Orgoglio o non orgoglio, non si tratta degli Starym», esclamò eccitata, «ma di Casa Alastrarra. A corte si dice che entrambi i maghi reali sfiderebbero Eltargrim con la spada davanti all’altare di Corellon, piuttosto che lasciare che un uomo cammini e viva fra noi. Per non parlare della nomina di armathor! Alcuni degli armathor più giovani, quelli che non sono a capo di casate, e perciò non hanno nulla da perdere, sono già stati a palazzo, hanno spezzato le spade e gettato i pezzi ai piedi del Coronal! Uno di loro gli ha persino scagliato contro la sua!

«Mi stavo chiedendo quanto tempo passerà», rifletté Ithrythra ad alta voce, «prima che a quest’uomo capiti un… incidente».

«Non molto, a giudicare dagli sguardi degli anziani di corte», affermò con entusiasmo Duilya, gli occhi scintillanti. «Se siamo fortunati, lo sfideranno a corte, oppure consentiranno a tutti noi di assistere alla sua fine mediante incantesimi!»

«Molto educato», mormorò Cilivren, ma le sue parole furono udite solo da Alaglossa e Ithrythra. Duilya, assordata dalle sue allegre parole, non la sentì.

«E poi», continuò la donna, con rinnovato entusiasmo, «le casate maggiori potrebbero indire una Caccia, per la prima volta dopo secoli, e trasformare il vecchio Eltargrim in un cervo per poi abbatterlo! E avremo un nuovo Coronal! Oh, che eccitazione!» Nella sua esuberanza, Duilya afferrò una caraffa e la vuotò senza usare il bicchiere.

Barcollando, si lasciò ricadere nella piscina, tremando e gorgogliando. «Per tutti gli dei, cara, non affogare qui», mormorò Phuingara, tenendole la testa fuori dall’acqua, «altrimenti i nostri signori s’infurieranno per il fatto che parliamo alle casate rivali senza la loro autorizzazione!»

Ithrythra provò un gran piacere nel battere vigorosamente la mano sulla schiena di Duilya in preda a un eccesso di tosse. Alcune gemme schizzarono via e tintinnarono contro un vassoio fluttuante.

Alaglossa sorrise ermeticamente alla regnante di Casa Mornmist, facendo intendere a Ithrythra che la padrona di casa sapeva benissimo che la forza impressa al suo colpo non era stata involontaria e che il suo silenzio sulla questione avrebbe avuto un prezzo, più tardi.

«È tutto a posto, cara», la rassicurò Alaglossa premurosamente, mettendole un braccio attorno alle spalle tremanti. «Va meglio ora? La dolcezza del nostro vino talora inganna, e fa pensare che non bruci, ma è persino più forte di quello, ah, “sherry triplo” tanto decantato dai nostri mariti!»

«Oh», mormorò Phuingara, «quindi l’hai assaggiato, vero?»

Alaglossa voltò la testa e lanciò uno sguardo alla signora di Casa Lhoril, silenzioso ma tagliente come un pugnale; Phuingara si limitò a sorridere e chiese: «Dunque? Com’era?»

«Vorresti sapere che cosa fa sì che i nostri mariti sbattano contro le colonne, sghignazzino come ragazzini e ululino mentre giacciono sul pavimento e tentano di stringersi la mano?» domandò improvvisamente Cilivren, ridendo. «Be’, quella cosa ha un gusto orribile!»

«Tu hai bevuto sherry triplo?», domandò Phuingara, incredula.

Cilivren offrì a Lady Lhoril un sorriso felino e rispose: «Alcuni signori non escludono le mogli da tutti i divertimenti».

Tutte le altre donne, persino Duilya, che ancora tossiva, guardarono Lady Doedance come se improvvisamente le fossero spuntate sei teste.

«Cilivren», esclamò Duilya scioccata, quando riuscì di nuovo a parlare. «Non avrei mai pensato…»

«Questo è il problema», sbottò Ithrythra, «tu non pensi mai!»

Tutte le bagnanti spalancarono la bocca, sbalordite, ma prima che Duilya potesse infuriarsi per l’insulto, Lady Mornmist si protese, gli occhi seri e il volto vicino a quello dell’amica, e cominciò, «Ascoltami, Lady Evendusk. Come pensi che faccia Cormanthor a scegliere un Coronal? Sei eccitata al solo pensiero, hai detto? Proveresti le stesse sensazioni se ti dicessi che nominare un nuovo re implica probabilmente avvelenamenti, duelli nelle strade, e maghi che lavorano di notte nelle loro torri per sferrare incantesimi mortali ai loro rivali in tutta la città? Umano o non umano, che Eltrargrim sia un’idiota o meno, desideri morire, o vedere i tuoi figli uccisi, e assistere alla nascita di ostilità che distruggeranno Cormanthor per sempre, e che permetteranno a tutti gli uomini di calpestare le nostre ossa nella città in guerra?»

Fece una pausa per riprendere fiato, i pugni serrati per la paura e la rabbia, e guardò con occhio truce le quattro facce che la stavano fissando. Possibile che non capissero?

«Che gli dei non me ne vogliano», continuò Lady Mornmist con voce tremante, «trovo rivoltante l’idea che un uomo cammini nel nostro regno. Ma lo accoglierei come un fratello se fosse necessario, lo bacerei e lo servirei giorno e notte, per impedire al nostro regno di sfaldarsi!»

Strinse i pugni, il petto palpitante, e quasi gridò: «Pensate che Cormanthor sia tanto splendida e potente che nessuno possa toccarla? Com’è possibile? I nostri mariti camminano impettiti, sogghignano e narrano storie delle imprese eroiche dei loro padri, quando il mondo era giovane e noi combattevamo i draghi a mani nude col buio o con la luce. E i nostri figli si vantano del loro coraggio, e non riescono nemmeno a trangugiare un boccale di sherry triplo senza cadere per terra! Ogni anno le asce degli uomini rosicchiano i margini delle nostre incantevoli foreste, e i loro maghi diventano sempre più forti. Ogni anno gli avventurieri diventano più audaci e un numero sempre minore delle nostre pattuglie giunge alla fine della stagione senza aver subito perdite!»

Alaglossa Tornglara annuì lentamente, il viso pallido, mentre Ithrythra prendeva fiato, deglutiva, e aggiungeva in un sussurro: «Io non mi aspetto di vedere le torri della nostra città ancora in piedi quando morirò. Qualcuna di voi si preoccupa mai di ciò?»

Nel silenzio che seguì le sue parole, Lady Mornmist afferrò in modo provocatorio una caraffa di vino piena e se la scolò, lentamente e deliberatamente, mentre le altre la fissavano attonite.

«In verità», affermò Duilya, sorridendo un po’ a disagio, mentre osservava Ithrythra Mornmist, apparentemente inalterata dal vino, posare la caraffa vuota e sollevarne un’altra per riempire delicatamente il bicchiere, «credo che tu abbia molta fantasia, Ithrythra, come al solito. Cormanthor in pericolo? Suvvia. Chi può minacciarci? Conosciamo incantesimi in grado di trasformare un’orda di barbari in… in funghi per lo sherry!

Rise allegramente per la battuta, ma l’allegria sfumò in un silenzio pensieroso. Allora si voltò per cercare il sostegno di Phuingara. «Non lo pensi anche tu?»

«Io credo», rispose Phuingara lentamente, «che noi spettegoliamo e cianciamo tutto il giorno perché non abbiamo il coraggio di parlare di tali cose. Duilya, ora ascoltami: non condivido tutti i timori di Ithrythra, ma il fatto che nessuno ne parli apertamente, o che noi non desideriamo sentire, non prova che lei abbia torto. Se non hai udito verità nelle sue parole, ti suggerisco di darle un bacio e di pregarla molto gentilmente di ripeterle, e di ascoltare più attentamente questa volta».

Detto ciò, Lady Lhoril si voltò e si accinse a uscire della piscina, lasciando dietro di sé una scia di tenebroso silenzio.

«Aspetta!», esclamò Alaglossa, afferrando il polso bagnato di Phuingara. «Rimani!»

Lady Lhoril si voltò, guardò la padrona di casa con occhi fiammeggianti, e affermò con voce pacata: «Alaglossa, per tutto ciò che ti è caro, fa’ in modo che mi trattino bene».

Lady Tornglara annuì brevemente. «Ithrythra ha ragione», asserì austera, il corpo lievemente proteso. «È una questione troppo importante per essere accantonata, e continuare a scherzare, a litigare, e rimanere a guardare mentre la città viene alle mani per quest’uomo. Dobbiamo lavorarci i nostri signori per mantenere la pace, convincerli che per un semplice uomo non vale la pena detronizzare il Coronal, né sguainare le spade o iniziare faide».

«Mio marito non mi ascolta mai», sussurrò tragicamente Duilya Evendusk. «Che cosa posso fare?»

«Costringilo a farlo», le suggerì Cilivren. «Fatti notare, attrai la sua attenzione».

«Lo fa soltanto quando siamo…»

«Allora, carissima», si intromise Phuingara con voce tagliente come una frusta, «è tempo che impari un po’ a farti obbedire da lui. Alaglossa, ti ringrazio di avermi trattenuto qui; abbiamo molto lavoro da fare. Hai un po’ di quello sherry triplo?»

Lady Tornglara la fissò sorpresa. «Naturalmente», rispose, «ma per quale motivo?»

«Uno dei pochi modi che riesco a immaginare per conquistare il rispetto di Lord Evendusk», rispose la Lhoril con entusiasmo, «quando la mattina si lamenta a causa di ciò che ha bevuto la sera prima e impreca contro i suoi figli per ciò che hanno rotto la notte precedente, in preda al furore e alla ridarella – dovevi proprio sceglierti uno zoticone patentato, vero Duilya? – è stappare una bottiglia piena di quello sherry, berla d’un fiato davanti a lui, e poi sedergli accanto senza agitarsi o barcollare. Quando rimarrà a bocca aperta davanti alla sua gentile signora trasformatasi in un leone, potrai parlargli schiettamente e fargli sapere che non vedi il bisogno di fare tutto quel baccano».

«E poi?», chiese Duilya, il viso bianco al solo pensiero di sopraffare il marito.

«E poi potrai trascinarlo a letto di fronte a tutta la servitù», continuò Phuingara, «e dirgli che bere ogni notte non è una scusa per barcollare come un idiota, per mettere in ridicolo l’onore di casa, mentre tu vieni trascurata».

Vi fu un attimo di silenzio, poi le donne iniziarono a ridere: dapprima piano, poi sempre più forte a mano a mano che compresero l’intero significato delle parole di Phuingara.

Fu Cilivren a smettere per prima. «Vuoi che ci alleniamo a bere sherry triplo finché non saremo in grado di scolarcene una bottiglia senza conseguenze? Phuingara, moriremo». Fece una smorfia. «Dico sul serio: quella roba brucia le interiora come fuoco!»

Lady Lhoril si strinse spalle. «Allora impareremo a tollerarne qualche bicchiere senza lacrime o tremori, ed elaboreremo un incantesimo, solo per noi, che trasformerà in acqua ciò che passa dalle nostre labbra, mentre beviamo. Noi perseguiamo il rispetto, non vogliamo affogare le preoccupazioni per il regno come fanno i nostri mariti. Perché pensate che bevano in quel modo? Hanno veduto ciò che ha visto Ithrythra, e semplicemente non vogliono affrontarlo».

«Perciò dovrei trascinare il mio Ihimbraskar in camera da letto dopo averlo umiliato di fronte a tutti», esclamò Duilya a voce bassa, «e poi? Mi stordirà, getterà le mie ossa dalla finestra, e il giorno seguente andrà in cerca di una donna nuova e più giovane!»

«Non se lo costringerai a sedere e gli snocciolerai le stesse parole ardenti che ha pronunciato prima Ithrythra», le spiegò Alaglossa. «Anche se non si dichiarerà d’accordo, rimarrà tanto stupito del fatto che tu abbia pensato a tali questioni, che probabilmente discuterà con te come se fossi un suo pari: al che gli dirai che una moglie serve proprio a quello, e poi lo porterai a letto».

Duilya la fissò per un istante, e poi scoppiò a ridere selvaggiamente. «Oh, Hanali benedici tutte noi! Se avessi la forza di farlo…»

«Lady Evendusk», esordì Ithrythra, «ti darebbe terribilmente fastidio se noi quattro fossimo legate a te con uno o due incantesimi, per… ah, assisterti nel discorso, nei momenti d’imbarazzo?»

Duilya spalancò la bocca, e poi si guardò lentamente intorno. «Lo fareste?»

«Potremmo beneficiare tutte di un tale incantesimo», affermò lentamente Phuingara. «Buona idea, Ithrythra», aggiunse, poi si rivolse ad Alaglossa. «Vai a prendere quello sherry, Lady Tornglara: serve un brindisi».


«Anche se in futuro io e altri ti insegneremo alcuni incantesimi della nostra Gente», affermò la Srinshee, «ora ti attende un periodo assai pericoloso, Elminster». L’anziana maga sorrise. «Non c’è bisogno che sia io a dirtelo».

El annuì. «Ed è per questo che mi hai condotto qui». Il giovane si guardò intorno, le pareti impolverate e scure, poi domandò: «Ma che posto è questo?»

«Una tomba sacra al nostro popolo: una torre infestata dagli spettri, un tempo la dimora della prima nobile e fiera casata che tentò di elevarsi al di sopra degli altri elfi. La dimora dei Dlardrageth».

«Che cosa è accaduto loro?»

«Essi corteggiarono incubi e succubi, nel tentativi di dar vita a una razza più forte. Pochi sopravvissero a tali relazioni, e meno ancora alle nascite che seguirono, e tutti i popoli elfi si sollevarono contro di loro. I pochi sopravvissuti furono murati qui dai nostri incantesimi più potenti, fino alla fine dei loro giorni». Oluevaera, pensierosa, passò la mano su una colonna impolverata, e rivelò il bassorilievo di un volto lascivo. «Alcuni di quegli incantesimi permangono, malgrado giovani e intrepidi signori di Cormanthor siano penetrati nella torre più di mille anni fa e abbiano depredato il castello delle ricchezze dei Dlardrageth. Hanno trovato poche cose di valore, ma le hanno portate via tutte. Inoltre, hanno sparso la voce dei fantasmi che dimorano in questo luogo».

«Fantasmi?», domandò Elminster tranquillamente. La Srinshee annuì.

«Oh, ve ne sono alcuni, ma niente di cui temere. Ciò che più conta è non venire disturbati».

«Avete intenzione di insegnarmi la magia?»

«No», rispose l’elfa, avvicinandosi per guardarlo negli occhi. «Sarai tu a insegnarmela».

El inarcò entrambe le sopracciglia. «Io…?»

«Con questo», aggiunse semplicemente, poi allargò le mani, e in esse comparve improvvisamente il suo libro degli incantesimi.

L’anziana maga barcollò un istante sotto il suo peso, al che El lo afferrò automaticamente e lo esaminò attentamente. Sì, era proprio il suo. Abbandonato nella bisaccia in una valle di felci, nell’impenetrabile foresta in cui la Pattuglia del Corvo Bianco era stata sopraffatta dai ruukha.

«I miei più sinceri ringraziamenti, Signora», esclamò Elminster, inginocchiandosi in maniera da non sovrastarla con la sua altezza. «Tuttavia, a rischio di sembrare ingrato, vi domando se coloro che sono rimasti sconvolti dal fatto che uno della mia razza sia stato nominato armathor non stiano mettendo a soqquadro Cormanthor per cercarmi. E gli altri elfi del vostro regno non si aspettano forse che mi assuma i doveri della categoria: in altre parole, che mi faccia vedere?»

«Ti vedranno, e anche molto presto», rispose la Srinshee con aria truce. «Sarai l’oggetto di numerosi complotti e trame, organizzati persino da parte di coloro che non desiderano la tua morte. Siamo annoiati, nella bella città di Cormanthor, e ogni nuovo interesse diventa un divertimento per tutte le grandi casate. Troppo spesso però il loro divertimento guasta o distrugge il giocattolo».

«Gli elfi iniziano a sembrarmi sempre più simili agli uomini», asserì El, sedendosi sopra una colonna spezzata.

«Come osi!», tuonò Oluevaera. Il giovane sollevò lo sguardo in tempo per vederla sorridere e allungare una mano per scompigliargli i capelli. «Come osi dirmi la verità», mormorò. «Pochi della mia razza lo fanno, o l’hanno fatto. È un raro piacere, trattare in tutta onestà a favore di un cambiamento».

«Che cosa mi state dicendo? Gli elfi non sono onesti?», domandò El con fare provocatorio, dopo aver notato nuovamente nei suoi vecchi occhi il luccichio delle lacrime.

«Diciamo che alcuni di noi sono troppo mondani», rispose con un sorriso, allontanandosi da lui fluttuando. Poi si voltò e aggiunse: «E gli altri sono troppo stanchi del mondo».

Alle sue parole, un’ombra si sollevò dietro di lei e comparvero improvvisamente artigli minacciosi. El si lasciò sfuggire un grido, ma gli artigli attraversarono rapidi il corpo di Oluevaera e scomparvero nell’oscurità, lasciandosi dietro un lamento acuto che riecheggiò in lontananza.

El guardò nella direzione in cui era scomparsa la creatura, poi si rivolse alla piccola maga. «Uno dei fantasmi?», domandò, le sopracciglia sollevate.

La vecchia annuì. «Anche loro vogliono imparare la tua magia».

Elminster sorrise, poi, vedendo la sua espressione, lasciò che il ghigno sparisse lentamente dal suo viso. «Non state scherzando», affermò con voce roca.

La Srinshee scosse il capo, e i suoi occhi furono velati da nuova tristezza. «Cominci a capire, spero, quanto la mia Gente abbia bisogno di te, e di altri come te, affinché infondiate in noi nuove idee e risvegliate la fiamma dello spirito che un tempo ci consentiva di elevarci sopra gli altri abitanti di Faerûn. L’armonia con gli uomini, con i mezzo sangue e gli gnomi, e persino con i nani è il sogno del Coronal. Egli vede tanto chiaramente ciò che dobbiamo fare, mentre le grandi casate si rifiutano cocciutamente di considerare qualsiasi cosa al di fuori della gloria eterna: loro sono all’apice di tutto».

El scosse il capo e abbozzò un sorriso. «Sembra che il mio fardello sia molto pesante», concluse.

«Sei in grado di portarlo», ribatté la maga, e gli strizzò l’occhio maliziosamente. «È per questo che Mystra ti ha scelto».


«Non ci siamo incontrate per decidere la cosa migliore da farsi?», chiese freddamente Sylmae, guardando il cerchio di volti solenni intorno al falò; il suo e quelli di altre cinque maghe che avevano accompagnato il Coronal alla Volta dei Secoli, dopo che i Supremi Maghi di Corte, Earynspieir e Ilimitar, si erano rifiutati di farlo.

Holone scosse il capo. «No sorella; quello è l’errore che dobbiamo lasciar commettere alle casate e agli altri membri di corte. Noi dobbiamo attendere, e osservare, e agire per il bene del regno quando le azioni avventate di altri lo renderanno necessario».

«Quali sono allora le azioni avventate che richiederebbero il nostro intervento?», domandò Sylmae. «La nomina di un uomo al rango di armathor, oppure le sue inevitabili conseguenze?»

«Le conseguenze ci indicheranno che posizioni occupano gli interessati», si intromise la maga Ajhalanda. «E le loro azioni, a mano a mano che la situazione si evolve, potrebbero richiedere il nostro intervento».

«Agiremo con la forza, non è vero?», chiese Sylmae, la voce in crescendo. «Contro il Coronal, o contro una delle grandi casate del regno, o…»

«Oppure contro tutte le casate, o contro i Supremi Maghi di Corte; o persino contro la Srinshee», concluse pacatamente Holone. «Non sappiamo in che cosa consista il nostro compito, ma solo che è nostro dovere e desiderio incontrarci, conferire e agire come un’unica entità».

«È nostra speranza, intendi», esclamò la maga Yathlanae, rimasta fino a quel momento in silenzio, «riuscire a lavorare insieme, e non essere separate, come temiamo possa accadere nel regno».

Holone annuì arcigna. «Per questo dobbiamo decidere attentamente, sorelle, molto accuratamente, per evitare discussioni tra noi».

Più di una faccia illuminata dal fuoco sospirò, sapendo quanto difficile ciò sarebbe stato.

Ajhalanda ruppe il silenzio. «Sylmae, tu frequenti la Gente di tutti i ceti molto più di noi. Quali casate dobbiamo tenere sotto controllo… chi prenderà iniziative che altri seguiranno?»

Sylmae sospirò a più riprese, cosicché le fiamme del falò tremolarono sotto i loro menti, e cominciò: «La spina dorsale delle antiche casate – quelle che disprezzano e contrastano il Coronal, e le donne maghe, e qualsiasi cosa abbia meno di tremila anni – sono gli Starym, naturalmente, e le casate degli Echorn e dei Waelvor. Loro faranno strada e le altre casate antiche, nonché quelle nuove e timide, seguiranno. Gli Starym rappresentano la marea: lenta, potente e prevedibile».

«Perché guardare la marea?» domandò Yathlanae. «Per quanto a fondo la si esamini, essa rimarrà uguale, e col passare del tempo t’inventerai soltanto nuovi motivi per osservarla e le attribuirai nuovi significati».

«Hai ragione», rispose Sylmae, «perciò non dobbiamo prestare attenzione alla marea, bensì alle casate più recenti, fiere e potenti, alle casate ricche, guidate dai Maendellyn e dai Nlossae».

«Non sono, a loro modo, altrettanto prevedibili?», obiettò Holone. «Esse sono a favore di qualsiasi evento possa diminuire il potere delle antiche casate, per poterle soppiantare o eguagliarle in termini d’importanza. Come tutti gli elfi, esse si stancano in fretta di essere derise».

«Esiste un terzo gruppo», osservò Sylmae, «che merita di essere controllato da vicino. Non sono, badate, un vero e proprio gruppo: sono coloro che camminano ognuno per la propria strada, verso stelle diverse. Alcuni li definiscono nuovi ricchi avventati; si tratta delle casate che farebbero di tutto, semplicemente per la gioia di partecipare a qualcosa di nuovo. Sono gli Auglamyr e gli Ealoeth, nonché famiglie minori come i Falanae e gli Uirthur».

«Io e te siamo Auglamyr, sorella», le ricordò pacatamente Holone. «Ci stai dunque dicendo che noi sei dovremmo tentare qualcosa di nuovo?»

«Lo stiamo già facendo», rispose Sylmae, «incontrandoci, e sforzandoci di agire di concerto. È una cosa che i fieri signori di tutte le casate, eccetto quelle nominate per ultime, non tollererebbero, se lo venissero a sapere. Le donne elfe esistono solo per danzare, per coprirsi di gemme, e per fare figli, non lo sai?»

«E per cucinare», aggiunse Ajhalanda. «Ti dimentichi la cucina».

Sylmae scrollò le spalle e sorrise. «Sono sempre stata una pessima cuoca».

Yathlanae fece altrettanto. «Vi sono maschi in questa terra che sono pessimi signori, se è per questo».

«Già, troppi», esclamò Holone, «altrimenti la nomina di un armathor umano non sarebbe altro che una notizia frivola».

«Se non agiremo saggiamente e in maniera rapida quando i tempi saranno maturi, Cormanthor correrà il rischio di essere distrutta», concluse Sylmae.

«Dunque impegniamoci», ribatté Holone, e tutte le altre le fecero eco: «Già, impegniamoci».

E come fosse stato un segnale, il falò si spense; qualcuno aveva mandato un incantesimo indagatore nella loro direzione. Senza altre parole o luci, le maghe si separarono e scivolarono via, lasciando l’aria sopra il palazzo alle stelle scintillanti e ai pipistrelli, che svolazzarono indisturbati fino al sorgere del sole.

8. Gli usi di un uomo

Gli elfi di Cormanthor sono sempre stati noti per le loro risposte calme e misurate alle minacce. Essi riflettono sempre per mezza giornata o più, prima di affrontarle.

Shalheira Talandren, Sommo Bardo Elfo di Summerstar

Da Spade argentee e notti d’estate:

Una storia ufficiosa ma vera di Cormanthor

Pubblicata nell’Anno dell’Arpa

«Sono meravigliosi», mormorò Symrustar. «Non è vero, cugina?»

Amaranthae si chinò a guardare i codadiseta, che roteavano e guizzavano nel cilindro di vetro per accaparrarsi la posizione migliore sotto le dita di Symrustar, dalle quali sapevano sarebbe presto piovuto un po’ di cibo. «Adoro il modo in cui il sole trasforma le loro squame in minuscoli arcobaleni», rispose Amaranthae diplomaticamente, dopo aver stabilito da tempo che, per nulla al mondo, la cugina avrebbe compreso la sua repulsione per i pesci.

Symrustar possedeva più di mille compagni squamati e pinnati. Dalla boccia più alta, nella quale stava ora sminuzzando pezzetti di cibo segreto che lei stessa impastava – Amaranthae aveva udito voci secondo le quali gli ingredienti principali erano carne, sangue e ossa macinati di pretendenti respinti -, l’acquario di vetro di Symrustar scendeva per più di trenta metri fino a terra, in una scultura fantastica di tubi, sfere, e camere più ampie di vetro cavo, a forma di drago o di altre bestie. Amaranthae rimase nei dintorni – ma non troppo vicina – il giorno che lo zio scoprì che una certa vasca enorme, vicino all’estremità del ramo, gli assomigliava fin nei dettagli meno lusinghieri.

Lord Auglamyr non era certo conosciuto per il suo temperamento gentile. «Una nube temporalesca di orgoglio smisurato, che spazza via tutto ciò che incontra», lo definì una volta un’anziana signora della corte, e le sue parole erano state molto gentili.

Symrustar aveva probabilmente preso da lui la sua spietatezza e la sua amoralità. Amaranthae cercava di essere fedele e servizievole con l’ambiziosa cugina poiché, malgrado la forte amicizia, Symrustar Auglamyr l’avrebbe tradita in men che non si dica, se solo Amaranthae le fosse stata minimamente d’intralcio.

Non sono più libera di tutti questi pesci, pensò Amaranthae, sporgendosi dalla pergola rotondeggiante sotto cui sedevano, situata alla base dell’unico ramo lungo rimasto di quell’albero all’estremità più occidentale di Casa Auglamyr. Una successione infinita di tubi, colonne e sfere di vetro rifletteva la luce del mattino. I servi si guardavano bene dal disturbarle in quel luogo: soprattutto evitavano di infastidire Symrustar, e utilizzavano perciò i campanelli parlanti.

Le due ragazze trascorrevano all’acquario una mattinata dopo l’altra, sdraiate su cuscini, a sorseggiare succo di frutti di bosco fermentati, mentre l’erede Auglamyr tramava e macchinava ad alta voce per realizzare le sue ambizioni – molte delle quali, alla triste Amaranthae, sembravano non essere altro che semplici capricci – e la cugina ascoltava e le dava sostegno al momento opportuno.

Quella mattina Symrustar era davvero eccitata e gli occhi le scintillavano; ripose il mangime e congedò con un gesto della mano le minuscole bocche spalancate nella boccia, prima di voltarsi verso la cugina. Per tutti gli dei, era davvero bella, pensò Amaranthae, guardando le spalle aggraziate della ragazza e le lunghe curve del suo corpo avvolte dalle vesti di seta. Aveva un volto e due occhi particolari tra tutte le bellezze di corte. Non si meravigliava che tanti signori elfi drizzassero le orecchie alla sua vista.

Symrustar sollevò un sopracciglio e chiese: «Stai pensando ciò che penso io, cugina?»

Amaranthae scrollò le spalle, sorrise, e rispose quella che le sembrava essere la cosa più sicura. «Stavo pensando a quell’uomo che il Coronal ha nominato armathor, e mi domando che faresti tu a questo proposito, mia vivace cugina!»

Symrustar le strizzò l’occhio. «Mi conosci bene, ‘Ranthae. Come pensi che sarebbe amoreggiare con un umano? Hmmm?»

Amaranthae rabbrividì. «Un uomo? Ughhh. Pesante e goffo come un cervo, con la stessa puzza… e tutti quei peli

La cugina annuì, lo sguardo distante. «Vero. E tuttavia ho udito che quel bruto puzzolente sa fare magie: magie umane, molto inferiori alle nostre, naturalmente, ma differenti. Con un po’ di quegli incantesimi fra le mie mani potrei sorprendere qualcuno dei nostri giovani maghi arroganti. Malgrado non siano altro che inezie in grado di impressionare fanciulli creduloni, Sua Eminenza il Signor Elandorr Waelvor potrebbe fare al caso mio».

Amaranthae scosse il capo in mesto divertimento. «Non l’hai tormentato abbastanza?»

Symrustar inarcò nuovamente l’armonioso sopracciglio, e la fulminò con gli occhi. «Abbastanza? Non esiste il termine “abbastanza” per Elandorr il Buffone! Quando non è impegnato a proclamare a tutta la città che questo o quell’incantesimo da lui creato è più grande di qualsiasi cosa possa elaborare la scontrosa Symrustar Auglamyr, è appostato sotto la finestra della mia camera da letto a blaterare nuove lusinghe! Non importa quanto fermamente…»

«Duramente», la corresse Amaranthae con un sorriso.

«… lo rifiuti!», continuò la cugina, «poche notti dopo torna alla carica. Nel frattempo allude alla dolcezza incomparabile delle mie grazie con i compagni di bevute, si rivolge alle signore di passaggio affermando che io lo adoro in segreto, e si aggira clandestinamente nelle biblioteche degli uomini – uomini - sottraendo poesie d’amore di dubbio gusto e facendole passare come sue, corteggiandomi con tutto lo stile e la grazia di uno gnomo clown in cerca di applausi!»

«È venuto la scorsa notte?»

«Come al solito! Ho udito tre guardie cacciarlo dal mio balcone, ed egli ha avuto la sfacciataggine di tentare incantesimi trasformatori su di loro!»

«Tu gliel’hai impedito, naturalmente», mormorò Amaranthae.

«No», rispose Symrustar sdegnosa, «li ho lasciati rospi fino al mattino. Nessuna guardia degna del balcone della mia stanza dovrebbe essere impreparata a un semplice incantesimo di trasformazione!»

«Oh, Symma!» ribatté la cugina con aria di rimprovero.

Gli occhi di Symrustar fiammeggiarono nuovamente. «Pensi che sia crudele? Cugina, trascorri una notte nel mio letto, tormentata da Waelvor, il Signore dell’Amore, e vedrai quanto ti sentirai caritatevole verso le guardie che avrebbero dovuto tenerlo alla larga!»

«Symma, è un maestro mago!»

«E allora fa’ che esse siano maestre guardie, e che indossino gli amuleti repellenti che ho dato loro. Che importa se devono versare sangue per rendersi utili? In tal modo gli incantesimi tanto astuti di Elandorr ricadranno su di lui! Qualche cicatrice non farà loro del male. Per non parlare della fedeltà giurata a Casa Auglamyr!»

Symrustar si alzò e si mise a camminare incessantemente per la cavità tondeggiante, il sole mattutino scintillante sulla catena adorna di gemme che le avvolgeva la gamba sinistra, dalla caviglia alla giarrettiera. «Perché, tre mesi fa», sbottò, agitando le braccia, «quando è giunto fino alle tende del mio letto, ho trovato una guardia nascosta che spiava, per tutti i demoni! Voleva vedermi svenire tra le braccia di Elandorr! Oh, affermò di essere lì per proteggermi contro l‘“ultima umiliazione”, ma era disteso sopra il baldacchino, vestito in velluto nero per confondersi, e portava tanti amuleti da non reggerne il peso! Sostenne che glieli aveva dati mio padre, ma non sarei sorpresa di scoprire che alcuni di essi provenivano da Casa Waelvor!»

«Che cosa gli hai fatto?», domandò Amaranthae, voltando il capo per nascondere uno sbadiglio.

Symrustar sorrise gelidamente. «Gli ho mostrato tutto ciò che stava tentando di vedere, l’ho spogliato completamente e… i pesci».

Amaranthae rabbrividì. «L’hai dato in pasto ai…?»

Symrustar annuì. «Umm-hmmm, e il giorno dopo ho fatto un fardello dei suoi effetti personali e l’ho spedito a Elandorr, con un messaggio d’amore che diceva che tali ornamenti erano tutto ciò che restava degli ultimi dieci signori che pensavano d’esser degni di fare la corte a Symrustar Auglamyr». La ragazza sospirò teatralmente. «Naturalmente la notte successiva ci ha riprovato».

Amaranthae scosse il capo. «Perché non lo dici semplicemente a tuo padre, e non lasci che egli si rechi rabbiosamente da Lord Waelvor? Sai come sono le vecchie casate: Kuskyn Waelvor andrebbe su tutte le furie se sapesse che uno dei suoi figli corteggia una ragazza di una casata tanto “sconosciuta” come la nostra, o anche una ragazza dell’alta società senza il suo permesso, ed Elandorr si ritroverebbe rinchiuso in una gabbia magica per i prossimi dieci anni, prima che possa aprir bocca!»

Symrustar fissò la cugina. «E in tutto ciò, ‘Ranthae, dove starebbe il divertimento?»

Amaranthae scosse nuovamente la testa, sorridendo. «Naturalmente. Che la prudenza non intralci mai il divertimento!»

La cugina sorrise. «Naturalmente». Allungò la mano verso il campanello parlante. «Un altro cordiale alle bacche dell’alba, cugina?»

Amaranthae le rispose con un sorriso e si appoggiò al ramo frondoso che circondava il salottino. «E perché no? Gettiamoci tutti gli incantesimi alle spalle, e mettiamoci a ululare alla luna!»

«Un’idea perfetta», assentì Symrustar, stirando il magnifico corpo, «consideriamo i miei piani per quest’uomo “Elminster”. Sì, provvederò affinché questi uomini abbiano la loro utilità». Col piede spostò il bicchiere di cordiale vuoto e con esso suonò i campanelli parlanti.

Mentre le corde risuonavano gentilmente, Amaranthae Auglamyr rabbrividì per il piacere freddo e incurante percepito nella voce della cugina, una voce che suonò in qualche modo affamata.


«Non vorrei essere negli stivali di quell’uomo, indipendentemente dalla potenza della sua magia», mormorò Taeglyn da sotto, dove stava selezionando attentamente le gemme sul velluto, con l’ausilio di un sortilegio d’ingrandimento.

«Non me ne importa nulla di quell’uomo in fondo, è una bestia dei campi», grugnì Delmuth, «ma sono gli stivali del Coronal che voglio veder indosso a qualcun altro, dopo che avrò fatto ciò che devo».

«“Avrò fatto ciò che devo”? Ma, Signore, il Flith Minore è quasi completo! Manca solo un rubino per la stella Esmel, e due diamanti per la Vraelen!», affermò il servo indicando la scintillante mappa stellare che occupava la metà superiore della stanza a volta. In risposta ai nomi delle stelle, l’incantesimo che Delmuth aveva effettuato attivò due punti precisi nell’aria.

Essi brillarono, in attesa delle gemme, ma Delmuth Echorn discese lentamente dalla volta stellata, il lavoro di una vita. Le costellazioni che aveva creato con le gemme sfavillavano attorno a lui. «Sì, fare ciò che devo, ossia, distruggere quell’uomo. Se lasciamo la questione irrisolta, verranno qui a migliaia, un mare di feccia intorno alle nostre caviglie, che mendicherà o ci minaccerà ogniqualvolta usciremo di casa, e distruggerà le foreste come solo l’uomo sa fare!» I suoi stivali poggiarono sul lucido pavimento di marmo nero. «Se potessero toccare le stelle», ringhiò, indicando il suo cielo in miniatura, «scopriremmo che ne manca sicuramente qualcuna!»

Delmuth sollevò lo sguardo verso gli ammiccanti punti di luce, che obbedientemente si spensero. Poi porse a Taeglyn i guanti, con le loro lunghe punte metalliche simili ad artigli, si stirò come un grande e agile felino della giungla, e aggiunse, il tono ancora rabbioso: «Sì, il nostro saggio e potente Coronal è impazzito, e nessuno di noi sembra sufficientemente pronto per alzare le mani e la voce contro di lui. Ebbene, se nessun altro elfo ne ha il fegato, io farò il primo passo. Il Coronal non ha impedito che l’erba cattiva giungesse nel cuore del nostro amato regno di Cormanthor, e ora questa dev’essere estirpata».

Serio in volto, l’elfo uscì a grandi passi dalla stanza, spalancando le porte con i suoi bracciali incantati. Queste sbatterono rumorosamente contro il muro, si scheggiarono e si chiusero, ma Delmuth Echorn nemmeno le udì.

Pochi istanti più tardi eccolo attraversare la sala d’entrata, dall’alto soffitto e dalle numerose balconate, con in mano la sua migliore spada di cinghiale, illuminata di verde per la potente magia che racchiudeva. In quell’istante, tuttavia, suo zio Neldor si sporse dalla ringhiera di una scala ed esclamò: «Per la barba invisibile di Corellon, che cosa hai in mente? Non è stata convocata alcuna Caccia per questa sera, ed è ancora l’alba!»

«Non sto andando a caccia, Zio», rispose Delmuth senza rallentare né sollevare lo sguardo. «Esco a ripulire il regno dagli uomini».

«Intendi da quello nominato armathor dal nostro Coronal? Ragazzo, dov’è finito il tuo buon senso? Nessuna tromba ha annunciato la tua sfida! Nessun’accusa è stata presentata davanti alla corte, o a quest’uomo! I duelli devono essere dichiarati ufficialmente. Questa è la legge!»

Delmuth si fermò davanti all’alto portone per dar tempo al servo che lo seguiva di aprirlo, ed esclamò: «Vado a uccidere un verme, non una persona con regolare diritto di esser trattata come un nostro simile, qualsiasi cosa sostenga il Coronal».

Dopodiché lanciò la spada in aria e la seguì all’esterno; poco prima che le porte si chiudessero alle sue spalle, Neldor lo vide riafferrare la spada al volo e attraversare il giardino di funghi, la via più diretta che conduceva al cancello di biancospino.

«Stai commettendo un errore, ragazzo», esclamò tristemente, «e trascinerai la nostra casata con te». Ma nell’anticamera di Castel Echorn non c’era più nessuno, eccezion fatta per il servo impaurito, che sollevò lo sguardo verso Neldor.

Invece di ignorarlo o sbraitare un ordine repentino, il più anziano elfo vivente di sangue Echorn allargò le mani in gesto di rassegnazione.

Accanto alla porta il servo cominciò a piangere.


L’elfo vestito di pelle nera si esibì in una perfetta capriola in aria, passò attraverso la tenda di foglie rampicanti, e nel contempo lanciò la spada, con fare esuberante, nel tronco di un albero dalle foglie blu. La lama penetrò a fondo e vibrò violentemente.

Dopodiché l’elfo riprese l’arma, gridando allegramente: «Ho-ho, questa volta un gatto è stato certamente liberato in mezzo alle sonnolente colombe di corte!»

«Silenzio, Athtar; ti hanno probabilmente udito fino al mare!» Galan Goadulphyn stava disponendo attentamente alcuni mucchietti di perle di vetro sul suo mantello, disteso sul ceppo di un albero, caduto quando Cormanthor era ancora giovane. Solo lui sapeva che esse rappresentavano i prestiti pagati a una certa società fantasma di funghicoltura da parte di numerose casate prestigiose del regno. Galan stava cercando il modo di saldare i debiti contratti con alcuni dei padroni più severi chiedendo prestiti ad altri.

Se non fosse riuscito a trovare rapidamente una soluzione prima di sera, sarebbe stato costretto a lasciare Toril per una o due vite. O almeno per tutto il tempo necessario ad elaborare magie capaci di ricostruire un’identità, a prova d’incantesimi rivelatori. Un ragno cacciatore dell’oscurità si mise a camminare sul mantello, e Galan lo guardò in cagnesco.

«E allora? Ormai lo sanno tutti!»

«Io no», rispose Galan, gli occhi fissi in quelli del ragno. I due si guardarono per un istante, un occhio contro mille. Poi l’insetto decise che la prudenza non riguardava solo gli altri esseri viventi e si allontanò dal mantello tanto velocemente quanto gli consentirono le sue lunghe ed esili zampe. «Illuminami».

Athtar, lieto di poterlo fare, respirò profondamente. «Bene, il Coronal ha trovato un uomo non so dove, l’ha portato a corte e nominato suo erede e armathor del regno! Il nostro prossimo Coronal sarà un uomo

«Che cosa?», Galan scosse il capo come per schiarirsi le idee, si allontanò di scatto dal mantello, e afferrò l’amico per il bavero. «Athtar Nlossae», ringhiò, scuotendo l’elfo dagli abiti di pelle come se fosse una grande bambola di pezza, «per favore, non dire sciocchezze! Nel nome di tutte le false divinità dei nani, dove diamine avrebbe trovato quest’umano? Sotto una roccia? Nelle sue stanze? In un paio di ciabatte smesse?» Lasciò andare Athtar, che barcollò all’indietro finché non trovò un tronco d’albero a cui appoggiarsi, e dietro al quale rifugiarsi.

Galan avanzò verso di lui, brontolando, «Sono impegnato in una questione molto importante, Athtar, e tu vieni a raccontarmi queste ridicole favole! Il Coronal non oserebbe mai nominare un uomo armathor, nemmeno se qualcuno gliene presentasse cento! Perché tutti i giovani cocciuti e i vecchi guerrieri del regno sputerebbero sulle proprie spade e gliele lancerebbero addosso!»

«È proprio ciò che stanno facendo, Gal», ribatté Athtar allegramente, «in questo preciso istante! Se sali su quel ceppo e ascolti, Gal… In questo modo sentirai…»

«Athtar… nooo

Le mani di Galan lo afferrarono con un istante di ritardo, e le perle rimbalzarono e rotolarono via. Respirando affannosamente, l’elfo alto con un occhio solo si ritrovò con le mani strette attorno alla gola di Athtar, che lo guardava con aria di rimprovero.

«Sei molto veemente in questi giorni, Gal», esclamò l’amico in tono offeso. «Un semplice “mi spiace per te” sarebbe stato sufficiente».

Galan lasciò la presa. A che cosa sarebbe servito? Ormai le perle erano perdute, eccetto quelle poche che – si udì uno scricchiolio sotto lo stivale destro di Athtar – rimanevano sul mantello, sotto i loro piedi. Galan gemette, fece un respiro profondo e gemette nuovamente. Quando parlò, il suo tono era gentile ma stanco. «Vieni a dirmi che il prossimo Coronal, un migliaio di anni dopo che ci avranno ucciso per i nostri misfatti e avranno dimenticato dove giacciono le nostre tombe, sarà un uomo. Dico bene? Dovrei sentirmi dispiaciuto per questo?»

«No, testa di legno! Non permetteranno che un uomo diventi Coronal! Il regno verrà prima dilaniato», osservò Athtar, scuotendolo per una spalla. «La confusione delle leggi e l’agitazione di tutte le casate consentiranno finalmente a poveracci come noi di emergere, con la spada sguainata! Detto ciò sollevò l’arma per festeggiare, e rise nuovamente.

Galan scosse il capo stizzosamente. «Non si arriverà mai a tanto. Come sempre. Troppi maghi sono in agguato per controllare le menti e minacciare i ricchi e i potenti che non riescono a portare dalla loro parte. Oh, ci sarà un gran trambusto, questo è certo. Ma il regno dilaniato? Per un solo uomo? Hah!» Si voltò per scendere dal ceppo, tentando di divincolarsi dalla presa di Athtar.

Athtar non lo lasciò. «Proprio così, Gal», affermò incalzante, abbassando la voce per sottolineare la sua eccitazione. «Proprio così! Quest’uomo conosce la magia, si dice, e la gente di corte favoleggia su come scuoterà l’intero regno. Qualsiasi cosa gli “succeda” – e accadrà, non temere, sicuramente per mano delle giovani spade – questa è la migliore opportunità che poteva capitarci per spezzare la morsa letale della vecchia guardia su Cormanthor! Salderemo qualche vecchio conto con gli Starym e gli Echorn, se non verremo calpestati dalle altre casate che tenteranno di fare la stessa cosa! A chi devi più soldi? Chi ti sta facendo più pressione? Chi può essere gettato nel fango della foresta a cui appartiene, per sempre?»

Mentre l’elfo dai vestiti di pelle riprendeva fiato e l’ultima domanda riecheggiava tra alberi circostanti, per la prima volta Galan guardò l’amico con vero entusiasmo.

«Ora stai suscitando il mio interesse», sussurrò, abbracciando Athtar. «Perciò siediti, e bevi un po’ di birra amara; è laggiù, accanto all’albero che perde la corteccia. Dobbiamo parlare».


Elminster, aiutami. Il grido nella sua mente era debole, ma in qualche modo familiare. Era possibile, dopo tutto quel tempo? Sembrava Shandathe di Hastarl, la ragazza che El aveva portato nella stanza da letto di un certo fornaio, con il quale aveva trovato una felicità inaspettata.

Elminster si mise seduto, e si accigliò. Nonostante fosse mezzogiorno il lavoro svolto insieme era stato estenuante, e la Srinshee stava dormendo, fluttuando nel vuoto della stanza, attorniata dal debole bagliore di un incantesimo riscaldante. Erano i fantasmi dei Dlardrageth che si stavano prendendo gioco di lui?

El chiuse gli occhi e dimenticò la stanza buia e il peso dei sortilegi recentemente memorizzati, poi eliminò pensieri e distrazioni e si avviò nel luogo oscuro in cui solevano echeggiare le voci mentali.

Elminster? Elminster, mi senti?

La voce era flebile e distante, ma stranamente piatta. Che cosa bizzarra! Elminster inviò ad essa un solo pensiero: dove?

Dopo un momento un’immagine giunse nella sua mente, ruotando come una moneta scintillante che sta per posarsi su una superficie. El vi si gettò dentro, e improvvisamente si ritrovò a fissare una scena buia, tempestosa: da qualche parte a Faerûn, mentre il vento sibilava tra le cime rocciose e gli alberi sottostanti, una donna giaceva prona su una roccia, le braccia e le gambe divaricate. I polsi e le caviglie erano legati a piccoli arbusti e il viso era nascosto dalla sua chioma. Quel luogo gli era sconosciuto, ma la donna avrebbe potuto essere Shandathe.

Elminster non riuscì in nessun modo a cambiare prospettiva. Era tempo di decidersi.

Il giovane si strinse nelle spalle; come sempre, esisteva una sola decisione che poteva prendere Elminster, il mago folle.

Sorridendo cupamente per quell’ultimo pensiero, El si alzò, aggrappandosi saldamente all’immagine del picco con la donna legata – una trappola sorprendente, questo doveva ammetterlo – e attraversò la stanza per toccare il cristallo della Srinshee. Esso poteva immagazzinare immagini mentali, e perciò mostrare alla donna dove stava per recarsi. La pietra si illuminò una volta, Elminster voltò le spalle alla luce e, allontanandosi, evocò l’incantesimo di cui necessitava.

Quando i suoi piedi toccarono terra, si ritrovò sul picco roccioso, sferzato da una brezza fresca. Era al centro di una vasta foresta che assomigliava in modo sospetto a quella di Cormanthor. La donna legata ai suoi piedi si stava restringendo, stava svanendo, e la sua sagoma si sollevò come fumo pallido. Naturalmente. Elminster richiamò alla mente quello che sperava essere il miglior incantesimo per l’occasione, e attese l’attacco che si sarebbe verificato di lì a poco.


In una stanza oscura, una figura fluttuante si mise a sedere e guardandosi intorno iniziò a domandarsi dove fosse l’uomo di cui era responsabile. Alcune battaglie dovevano essere affrontate in solitudine, ma già così presto?

Si chiese chi dei suoi simili fosse stato tanto celere a chiamarlo in battaglia. Una volta che la notizia della nomina da parte del Coronal si fosse sparsa nel regno, a El non sarebbero certamente mancati gli sfidanti, ma già ora?

Oluevaera sospirò, richiamò l’incantesimo elaborato in precedenza e si concentrò sull’immagine di Elminster immagazzinata nella mente. In pochi istanti avrebbe visto dove si trovava. Sperò con tutto il cuore di non dover essere la prima testimone della sua morte, prima ancora che la loro amicizia – insieme al sogno del Coronal e alla via che avrebbe garantito a Cormanthor un futuro migliore – fosse davvero iniziata.

Senza guardare il cristallo, gli fece un cenno, e lo toccò quand’esso le giunse vicino. L’immagine di un picco roccioso in mezzo alla foresta elfa balzò nella sua mente. La Roccia di Druindar, un luogo che solo un cormanthoniano avrebbe scelto per una discussione o un duello magico. La Srinshee inviò sul luogo la sua vista magica, e vide un giovane uomo dal naso adunco, a lei familiare, accanto a una donna legata, che non era affatto una donna legata, bensì…


La donna e i pali a cui era stata legata iniziarono a fluire e a scemare. Elminster indietreggiò con calma e guardò oltre il margine della roccia sulla quale si trovava. Ai lati vi erano due profondi strapiombi, tra i quali si ergeva una punta di roccia simile alla prua di una nave. Nella terza direzione vi era un terreno sconnesso, ricoperto da fitta vegetazione. Fu proprio dalla penombra di quei rami che giunse una risata fredda, quando la donna prigioniera si trasformò in una lunga spada di cinghiale dalla lama ondulata, emanante un bagliore verde. L’arma si sollevò agilmente da terra, roteò, e sfrecciò verso di lui.

Sapere che cosa sta per ucciderti non sempre ti consente di sottrarti con più facilità alla morte, come sostenne una volta un filosofo fuorilegge di Athalantar, ormai defunto.

Lo spazio per schivare il colpo era minimo, e a El rimanevano pochi secondi per agire. Quella spada poteva essere animata da un semplice incantesimo, ma poteva anche essere magica. Se avesse preso in considerazione la prima ipotesi e si fosse sbagliato, sarebbe sicuramente morto. Perciò…

Elminster aveva in mente solo uno dei potenti incantesimi insegnatigli da Mystra, e non voleva sprecarlo al primo pericolo, ma…

La lama mirava alla sua gola e mutava lievemente direzione quando El si spostava lateralmente, seguendo ogni suo tentativo di schivarla. Un istante prima dell’impatto il giovane sibilò la singola parola dell’incantesimo e agitò brevemente una mano chiusa a coppa.

La spada volante tremolò e si sgretolò nell’aria di fronte a lui. La luce verde sfrigolò e scomparve mentre la lama si trasformò in granelli di ruggine. Alcuni sfiorarono il viso di Elminster. Poi più nulla.

La risata tra gli alberi s’interruppe bruscamente, e divenne un grido: «Corellon aiutami… uomo, che cosa hai fatto

Un giovane elfo finemente vestito, i capelli come seta chiara, gli occhi due fuochi rossi e furiosi, balzò fuori dai cespugli, con le fiamme sempre più intense di un sortilegio attorno ai polsi.

Quando l’elfo si fermò imprecando sull’ultima roccia sopra Elminster, quasi piangendo di rabbia, il principe sollevò lo sguardo, usò un incantesimo per rievocare momentaneamente la distruzione della spada verde e domandò con tono tranquillo: «Si tratta di umorismo elfo o di una sorta di domanda trabocchetto?»

Con un urlo d’ira selvaggia l’elfo si gettò su El, lanciando fuoco dalle mani.

9. Duelli di giorno, baldoria di notte

Dopo aver assistito a una battaglia d’incantesimi, pochi dimenticano l’antico detto umano: «Quando i maghi duellano, la gente onesta dovrebbe cercare un rifugio lontano». Nonostante i mantelli e gli araemyth rendano i duelli elfi più una questione d’intuizione e siano più complicati e lenti di quelli umani, quando i loro maghi si fanno la guerra, è pur sempre opportuno mantenersi a distanza di sicurezza. Fuori dal regno, per esempio.

Antarn il Saggio

Da La grande storia della potenza degli arcimaghi faerûniani

Pubblicata approssimativamente nell’Anno del Bastone

«Tu… tu sciagurato!», ringhiò l’elfo, lanciando fuoco dalle mani e formando una rete di fiamme scoppiettanti. «Quella spada era un tesoro della mia casata! Era già antica prima che gli uomini imparassero a parlare!»

«Santo cielo», ribatté Elminster quando il suo incantesimo protettore fece effetto e divise le fiamme, che schizzarono via e crearono un anello di fuoco intorno a lui, «era un ammasso di cinghiali morti. Mi domando, quanti secoli sia campato ognuno di loro!»

«Umano barbaro e insolente!», sibilò l’elfo, saltellando attorno all’anello di Elminster. I capelli biondi gli carezzavano le spalle e ondeggiavano nella brezza come fiamme di un fuoco famelico.

Elminster girò su se stesso per non perdere di vista il nemico ed esclamò pacatamente: «Tendo a non essere troppo gradevole con chi tenta di uccidermi, ma non ce l’ho con voi, signore senza nome. Non possiamo fare pace?»

«Pace? Quando sarai morto, umano, forse, e quando i maghi di qualsiasi regno malvagio e grufolante ti abbia generato saranno stati costretti a rimpiazzare la sacra spada che hai distrutto!»

L’elfo furioso indietreggiò, sollevò entrambe le braccia sopra la testa, con le mani sempre puntate contro Elminster, e sputò frasi rabbiose. El mormorò una singola parola in risposta e schioccò le dita, trasformando la sua difesa in uno scudo che avrebbe rimandato alla fonte le magie ostili.

Tre fulmini blu, ognuno attorniato dal proprio nembo di luce, scaturirono dalle mani dell’elfo e raggiunsero l’ultimo principe di Athalantar. All’interno del suo scudo El si acquattò pronto, evocando nella sua mente un altro incantesimo, senza tuttavia sferrarlo.

I fulmini lo colpirono, avvolsero lo scudo in una nube silenziosa di luce bianca, e tornarono rapidamente al mittente.

L’elfo spalancò gli occhi sbalordito, poi li richiuse e contrasse il viso quando le saette si infransero contro la sua protezione invisibile. Naturalmente, pensò El. Ogni mago di Cormanthor indossava un mantello difensivo quando andava in guerra.

E di guerra si trattava, pensò Elminster, quando il signore elfo indietreggiò di qualche passo e borbottò un altro incantesimo, tra un nemico che aveva scelto il campo e aveva indosso un mantello protettivo, da una parte, e l’umano, bizzarro e odiato, dall’altra.

Questa volta l’incantesimo sferrato contro il giovane materializzò tre fauci con zanne aguzze e affilate, che si separarono prontamente per colpirlo da tre direzioni diverse. El si gettò a terra prono e sollevò la mano sinistra, in attesa, mentre un bagliore silenzioso indicava che le prime fauci si erano scontrate con lo scudo.

Queste indietreggiarono vacillando, dirette verso il signore elfo. Ma la seconda bocca ruppe lo scudo di El e i due incantesimi vennero a contatto, producendo una fiammata purpurea che colpì le rocce.

Le fauci respinte svanirono contro il mantello dell’elfo quasi nello stesso istante in cui la terza bocca si avventò su Elminster, seguendo una traiettoria bassa per spingerlo giù dal dirupo.

Dalla mano del principe in paziente attesa scaturirono una decina di sfere di luce che lasciarono dietro di loro una scia di minuscole scintille. La prima fece esplodere la bocca diretta verso. El, che svanì in un bagliore color verde e oro, e le altre sfrecciarono attraverso il fuoco dell’esplosione, verso l’elfo, preparandosi a scatenare una tempesta mortale.

Il signore innominato sembrò preoccuparsi per la prima volta, e sferrò un frettoloso incantesimo mentre le sfere rotanti gli si avvicinavano veloci. Indietreggiò di qualche passo per guadagnare tempo e terminare l’incantesimo, e incappò nella prima trappola di Elminster.

Le sfere non toccate dalla magia difensiva dell’elfo colpirono il suo mantello invisibile ed esplosero in un’innocua pioggia di luce; quelle colpite scoppiarono, invece, creando fulmini a tre punte, che si abbatterono su rocce, alberi e sull’avversario con uguale vigore.

Con un grugnito di dolore l’elfo barcollò all’indietro, e fili di fumo si innalzarono dal suo corpo.

«Niente male come difesa per un elfo senza nome», osservò pacatamente Elminster.

Le sue parole ebbero immediatamente l’effetto desiderato. «Ce l’ho un nome, umano», ringhiò l’elfo, le braccia intorno al torace per sopire il dolore, «mi chiamo Delmuth Echorn, di una delle più ragguardevoli casate di Cormanthor! Sono l’erede degli Echorn, e il mio rango in termini umani sarebbe “imperatore”! Cane incolto!»

«Usate “cane incolto” come titolo?», chiese Elminster con aria innocente. «Vi si addice, sì, ma devo avvisarvi che noi umani non ci aspettiamo un tale candore dal popolo elfo. Potreste suscitare ilarità involontaria nelle relazioni con i miei simili!»

Delmuth ruggì ancora più furioso, poi socchiuse gli occhi e sibilò come un serpente. «Speri di farmi innervosire! Non ti darò tale soddisfazione, umano senza nome!»

«Sono Elminster Aumar», rispose divertito El, «Principe di Athalant. Ah, ma a voi non interessano i titoli dei sudici regni umani, non è vero?»

«Sì, esattamente!», sbottò Delmuth. «Hem, ossia, no!» Dalle sue braccia scaturirono nuove fiamme, che come prima iniziarono a vorticare intorno ai polsi, segno di un antico incantesimo elfo da battaglia in preparazione.

Il suo mantello difensivo era dunque completamente distrutto, oppure era ancora presente ed efficace? Nella pausa che seguì il giovane si concentrò silenziosamente per creare un altro scudo protettivo, sospettando che Delmuth avrebbe tentato di bloccare il primo incantesimo visibile che avesse scagliato.

Quando lo scudo fu completo, El cominciò una falsa magia. Come previsto, quand’era a metà procedura, fulmini smeraldini sfrecciarono verso di lui, schiantandosi sullo scudo, per poi rimbalzare. Delmuth rise trionfante, ed El vide dalle scintille di ritorno che il mantello dell’elfo era sopravvissuto o che era stato rimpiazzato. Al che il giovane alzò le spalle, sorrise, e iniziò un altro incantesimo; altrettanto fece l’elfo.

Nel frattempo, senza che i due se ne avvedessero, uno degli alberi colpiti dai fulmini di Elminster scivolò oltre il margine del precipizio, portando con sé terra e pietre, e iniziò a scivolare verso il basso.


«Oh, stai attento, Elminster!», mormorò Lady Oluevaera Estelda, seduta a mezz’aria in una stanza scura e polverosa, situata nel cuore del castello spettrale dei Dlardrageth. I suoi occhi erano fissi su un picco distante sul quale due figure lottavano in un turbinio d’incantesimi. Una avrebbe potuto essere il futuro di Cormanthor, mentre l’altra apparteneva a una delle sue più altezzose e ostinate casate e, per giunta, ne era l’erede.

Qualcuno avrebbe definito tradimento un intervento in un duello magico, ma quello non era un vero e proprio duello, bensì un uomo attirato in trappola dall’inganno di un elfo. Molti altri avrebbero giudicato traditore chiunque avesse aiutato un uomo impegnato a combattere un elfo. Eppure lei lo avrebbe fatto, se solo avesse potuto. La Srinshee aveva visto molte più estati – e anche molti più inverni – di ogni altro elfo che oggi respirava l’aria pura di Cormanthor, e tutti si sarebbero rimessi al suo giudizio in qualsiasi disputa importante fra casate. Benissimo, dunque: il suo giudizio avrebbe dovuto essere rispettato anche in quella questione personale.

Non che, tra quelle rovine disabitate, qualcuno, oltre i fantasmi, avrebbe potuto impedirglielo.

L’unico rapido legame che aveva con la Roccia di Druindar era lo stesso Elminster, ma creare una distrazione nella sua mente al momento sbagliato, avrebbe potuto essergli fatale. La maga avrebbe, tuttavia, potuto «viaggiare» attraverso di lui, esponendosi, nel processo, alle stesse magie scagliate contro il giovane, finché El non avesse posato lo sguardo su un punto dell’ambiente circostante che non fosse pieno di magia o di elfi saltellanti: a quel punto avrebbe potuto lanciarsi fuori, e materializzarsi.

Un incantesimo potente, ma semplice. La Srinshee mormorò le parole necessarie senza nemmeno distogliere gli occhi dal campo di battaglia, e si sentì scivolare nella mente di Elminster, come se si stesse immergendo in acque calde e formicolanti, che la condussero rapidamente lungo un tunnel angusto, verso una luce distante.

La luce si fece più intensa e più grande con una velocità terrificante, finché non divenne un volto di una bellezza serena, un volto che la Srinshee conosceva, con le lunghe trecce che si agitavano come serpenti irrequieti. Un volto dagli occhi seri che appariva minaccioso come un muro alto e infinito davanti a lei, contro il quale si sarebbe inevitabilmente schiantata.

«Oh, Signora Dea, un’altra volta no!», grido l’anziana maga, un istante prima di colpire quelle labbra giganti increspate. «Non vedi che sto cercando di aiutarl…?»

Quando riaprì gli occhi, Oluevaera si ritrovò a fissare un soffitto scuro, coperto di ragnatele, a pochi centimetri dal suo volto. Era distesa scompostamente su un letto di fiamme nere che le solleticavano la pelle nuda. La pelle nuda? Che era stato della sua tunica? Fiamme nere come migliaia di piume, e che non la bruciavano.

Le fiamme sembravano giungere da sopra; lei era apparsa attraverso il soffitto? Con stupore si passò una mano sul corpo. Le sue vesti, insieme agli amuleti e alle gemme magiche – sì, anche quelli intrecciati nei capelli – erano scomparsi, ma il suo corpo era liscio e florido, e di nuovo giovane!

Grandi Corellon, Labelas, e Hanali! Che cos’era accaduto… ma no. Grande Mystra! Tutto ciò era opera della dea umana!

Si mise bruscamente a sedere, in mezzo alle fiamme. Perché? Come ricompensa per aver aiutato il ragazzo, o come scusa per averla esclusa dalla sua mente? Sarebbe stata una condizione duratura? O solo un ironico assaggio di giovinezza? Aveva ancora i suoi incantesimi, i suoi ricordi, i…

«Dunque, vecchia megera, hai barattato la fedeltà al tuo regno per un incantesimo di giovinezza dell’umano! Mi domandavo perché l’avessi aiutato!»

La Srinshee si voltò per vedere il suo interlocutore, e istintivamente sollevò le braccia per coprirsi il petto. Conosceva quella voce fredda, ma come faceva a essere in quel luogo?

«Cormanthor sa come trattare i traditori!», ringhiò, e un fulmine di luce sfrigolò attraverso la stanza.

Affondò nelle fiamme nere e venne assorbito senza emettere suono alcuno: queste risucchiarono ogni scintilla della saetta dalle mani dello sbalordito Mago Supremo di Corte Ilimitar, in piedi di fronte alla maga ringiovanita.

La donna gli lanciò un triste sguardo di rimprovero e parlò a bassa voce, rivolgendosi all’elfo col suo vecchio soprannome. «Com’è possibile, Limi, che dopo essere stato mio allievo e aver imparato dalle mie labbra l’amore per Cormanthor, tu osi parlare in nome del regno mentre tenti di uccidermi?»

«Non cercare di piegare la mia volontà con le parole, strega!», sbottò Ilimitar, sollevando uno scettro minaccioso. Le fiamme scure toccarono il pavimento di pietra della stanza e svanirono, e d’un tratto Oluevaera fu in piedi di fronte a lui, le mani allargate per mostrargli che era nuda e disarmata.

Il mago le puntò lo scettro senza esitazione, e affermò freddamente: «Prega affinché gli dei ti perdonino, traditrice!»

Un fuoco smeraldino scaturì dallo scettro non appena ebbe pronunciato quell’ultima parola offensiva; la Srinshee balzò lateralmente, e vacillò – erano secoli che il suo corpo non obbediva tanto rapidamente – poi si gettò scompostamente a terra mentre la morte dello scettro tuonava sopra di lei.

Il suo alunno di un tempo puntò lo scettro più in basso, ma Oluevaera aveva già sibilato le parole di cui necessitava: la sua furia, tuttavia, si schiantò inutilmente contro uno scudo invisibile.

Ora aveva il suo mantello protettivo, e dubitava che gli scettri del mago avrebbero potuto distruggerlo. Da allora in poi sarebbe stato uno scambio d’incantesimi, a meno che non fosse riuscita a dissuaderlo dal suo intento. Il Supremo Mago di Corte che lei stessa aveva formato. Sì, Earynspieir l’avrebbe attaccata un giorno, non era mai stato suo amico. Ma non pensava che Ilimitar l’avrebbe fatto tanto presto.

Oluevaera si alzò e affrontò il mago furioso, a cui non arrivava nemmeno alla spalla. «Perché mi hai cercato qui, Ilimitar?», gli domandò la Srinshee.

«Questa tomba di traditori è sempre stata il tuo luogo preferito dove portare gli alunni, ricordi?» rispose l’elfo.

Per tutti gli dei, era vero. Ben due volte aveva portato Ilimitar al castello dei Dlardrageth, affinché si esercitasse negli incantesimi. Al ricordo le salirono le lacrime agli occhi, e mentre gettava lo scettro e sferrava un incantesimo per farle crollare il soffitto in testa, il Supremo Mago di Corte ringhiò: «Ora ti penti della tua follia, eh? Troppo tardi, vecchia strega! Il tuo tradimento è evidente, e devi morire!»

In risposta l’ultima Signora degli Estelda scosse semplicemente il capo e, con calma, evocò la magia che risvegliava gli antichi incantesimi usati dai Dlardrageth per erigere quelle pareti. E, quando l’incantesimo di Ilimitar frantumò il soffitto, si trasformò subito in fuoco che piovve su di lui.

Il mago barcollò, tossendo e rabbrividendo – il suo mantello doveva essere debole, pensò la Srinshee – poi gridò: «Non cercare di sfuggirmi, Oluevaera! Nessun luogo del regno è ora sicuro per te!»

«Per decreto di chi?», urlò la donna, mentre lacrime calde le solcavano le guance. «Hai ucciso anche Eltargrim?»

«La sua follia non è ancora tradimento aperto per Cormanthor, ma qualcosa che si potrà correggere una volta che l’umano e anche tu, con la tua lingua bugiarda, sarete scomparsi. Ti darò la caccia dovunque fuggirai!» Sulla scia di quel grido mormorò un altro incantesimo.

«Non ho intenzione di fuggire in alcun luogo, Ilimitar!», esclamò rabbiosamente la Srinshee. «Questo regno è casa mia!»

L’aria davanti alla maga prese fuoco. Da ognuna delle sfere fiammeggianti che ne scaturirono fuoriuscì un raggio, che si unì alla sfera vicina, e così di seguito, fino a formare un cerchio. Oluevaera ne scansò una il cui calore minacciava di bruciarle le spalle e sussurrò parole che avrebbero dissolto gli incantesimi e rafforzato il suo mantello protettivo.

«È questa la ragione», sbottò il mago in risposta, «per la quale hai protetto un uomo, tenendolo in vita e consigliandogli di adulare il Coronal, affinché il vecchio pazzo lo nominasse armathor? Se lo lasciamo vivere, egli sarà solo il primo di un’orda macchinatrice e avida di esseri pelosi! Possibile che non riesci a capire?»

«No!», urlò la Srinshee, sovrastando il baccano e il ruggito dell’attacco successivo. «Non capisco perché, Ilimitar, l’amore per Cormanthor e il tentativo di rafforzare il regno debba mettermi nelle condizioni di dover uccidere un uomo onorato – che venne qui per mantenere una promessa a un erede morente e consegnare una kiira a un’antica casata! – o di essere uccisa da te, a meno che non sia io a distruggerti: un mago a cui ho insegnato l’arte della magia, e di cui sono stata fiera in questi ultimi sei secoli!»

«Come sempre cerchi di persuadere la gente con belle parole!», ribatté il mago di corte, mentre si preparava a sferrare l’ennesimo sortilegio.

Oluevaera si ritrovò nuovamente in lacrime. «Perché?» singhiozzò. «Perché mi costringi a fare questa scelta?»

Detto ciò il suo mantello vibrò violentemente quando fulmini purpurei cercarono di succhiarne la vitalità. Nel tumulto, mentre le pietre del pavimento scricchiolavano sotto i loro piedi in un coro stridente e assordante, il nemico le urlò: «La tua ragione è offuscata dall’amore, vecchiaccia, e corrotta dai sogni del Coronal! Non riesci a capire che la sicurezza del regno conta più di tutto il resto?»

La Srinshee digrignò i denti e sferrò i suoi fulmini; il mantello del mago si illuminò brevemente alla collisione, e la donna vide l’elfo barcollare. «E tu non vedi», gli gridò, «che quest’uomo rappresenta la sicurezza del regno, se noi lo proteggiamo e lasciamo che diventi ciò che vuole Eltargrim?»

«Bah!», borbottò ironicamente Ilimitar. «Il Coronal è corrotto quanto te! Entrambi macchiate il buon nome della nostra corte, e la fiducia che la Gente ha riposto in voi!» La stanza tremò attorno a loro quando l’ultimo incantesimo dell’elfo cercò invano di distruggere il mantello della maga.

«Ilimitar», domandò la Srinshee con una nota di tristezza, «sei matto?»

La stanza piombò improvvisamente in un silenzio spettrale. Il fumo vorticava ai loro piedi. A quel punto il mago la osservò con sincero stupore.

«No», esclamò finalmente, in tono quasi allegro, «ma penso di esserlo stato per anni, cieco davanti al gioco che tu e il Coronal avete fatto, avvicinando Cormanthor delicatamente – abilmente, astuti vecchiardi, – al giorno in cui gli uomini dimoreranno tra noi, ci supereranno in numero e alla fine ci seppelliranno, non lasciando nessuna Cormanthor da servire o di cui andare fieri! Quanto vi hanno offerto? Incantesimi che non riuscivate a trovare altrove? Un regno da governare? O lo hai fatto solo per tornare giovane?»

«Limi», affermò seria, «il corpo che vedi non è opera mia, e quando sei entrato qui mi ero appena resa conto della mia condizione. Non so da dove venga – per quanto ne sappia potrebbe essere un vecchio scherzo dei Dlardrageth – e non è certo stato il giovane umano a darmelo, né me l’ha promesso: non ne è nemmeno a conoscenza!»

Ilimitar sollevò una mano per invitarla a tacere. «Parole, solo parole», ringhiò severamente. «Sono sempre state la tua arma più affilata. Ma non funzionano più con me, strega!» Ora però ansimava.

«Sai che cos’è questo?», domandò alla maga, estraendo un piccolo oggetto da una tasca della cintura e sollevandolo per farglielo vedere meglio. «Proviene dalla Volta dei Secoli», aggiunse con tono di scherno. «Dovresti riconoscerlo!»

«È il Coprimantello di Halgondas», rispose tranquillamente la Srinshee, il volto pallido come un lenzuolo.

«Lo temi, non è vero?» ruggì Ilimitar, un guizzo di trionfo negli occhi. «E non puoi far nulla per impedirmi di usarlo! E allora, vecchia strega, sarai mia!»

«In che modo?»

«I nostri mantelli si fonderanno, e diventeranno tutt’uno. Non solo non potrai respingere i miei incantesimi, ma nemmeno scappare; se fuggirai, mi trascinerai con te!» Emise una risata stridula e selvaggia, e Oluevaera seppe allora che era matto, e avrebbe dovuto ucciderlo in quel luogo, o perire.

Ilimitar spezzò il Coprimantello.

La fusione inesorabile dei loro mantelli ebbe inizio, le estremità sbrindellate si attirarono a vicenda. La Srinshee sospirò e iniziò a camminare verso l’allievo. Era ora di usare l’incantesimo che odiava.

«Ti arrendi?», le domandò Ilimitar, con tono quasi allegro. «O sei tanto folle da pensare di poter continuare a combattere, o addirittura di vincere? Io sono un Supremo Mago di Corte, strega, non il giovane a cui insegnasti i tuoi trucchetti! La tua magia è ridicola e i tuoi incantesimi spaventano solo i pivelli!»

Oluevaera fece un respiro profondo, e sollevò il mento. «Bene, dunque, mio grande e potente mago, distruggimi se devi!»

Ilimitar le lanciò uno sguardo incredulo, sollevò le mani e affermò aspro: «Lo farò molto rapidamente».

Un tridente magico la trafisse. La maga rimase immobile, ma roteò gli occhi all’indietro e si morse le labbra. Quando l’incantesimo iniziò a svanire, il suo corpo prese a tremare.

Il mago rimase a osservare. Be’, non era colpa sua se la vecchia aveva tessuto tanti incantesimi, strato dopo strato, per conservarsi e difendersi durante tutti quei secoli. Ora doveva sopportare il dolore, mentre essi la mantenevano in vita più a lungo del necessario.

La Srinshee inclinò la testa in avanti, chiuse gli occhi, e iniziò a respirare affannosamente. Del sangue le scaturì dalle palpebre e prese a colarle lungo la faccia, per poi cadere sulle pietre scheggiate del pavimento. Ilimitar arricciò il naso per il disgusto. Era dunque un martirio? Avrebbe fatto un lavoro rapido.

Il suo incantesimo successivo fu un attacco di energia pura che avrebbe dovuto ridurla in cenere. Quando questo terminò e Ilimitar poté vedere nuovamente, le pietre avevano lasciato il posto a un piccolo cratere, e Oluevaera aveva le caviglie sepolte nelle macerie, era tutta annerita e senza capelli, ma era ancora in piedi, tremava.

Che patto malvagio aveva mai fatto la Srinshee con i maghi umani? Limi allora sferrò l’incantesimo che un tempo lei gli aveva assolutamente proibito di usare: quello che evocava il Verme Affamato.

Il verme si materializzò avvolto intorno al braccio della maga, scivolò dritto verso il suo ventre e iniziò immediatamente a scavare nella carne spaccata e annerita. Ilimitar sospirò e sperò in cuor suo che la bestia agisse rapidamente; doveva assicurarsi che la maga morisse, e in fretta, in modo da poter tornare a corte e denunciare il Coronal prima del tramonto. Ma sarebbe rimasto intrappolato in quel castello con la Srinshee, dentro il comune Coprimantello, finché uno di loro non fosse morto.

Era davvero un peccato. La donna era stata una buona maestra, nonostante fosse stata troppo severa, poco amante delle burle e poco tollerante quando d’estate gli allievi preferivano andare per bacche o a caccia di uova di gufo invece di presentarsi a lezione; ma non avrebbe mai dovuto cadere tanto in basso.

Tuttavia, era già anziana allora, e senza dubbio incline a tentare qualsiasi strada per riacquistare la giovinezza. Ma il fatto che avesse tramato con gli uomini era imperdonabile. Se lo desiderava tanto, perché non aveva semplicemente lasciato Cormanthor? Perché rovinare il regno? Perché…

Il verme aveva ormai ampiamente terminato il suo lavoro. Non intaccava mai le membra o la testa quando aveva un corpo per banchettare, un corpo che ora era ridotto a poco più che un ammasso di pelle sopra ossa scavate, vuote. Com’era possibile che Oluevaera fosse ancora in piedi?

Ilimitar corrugò la fronte, le scagliò contro un quartetto di piccoli lampi d’energia, quelli che si usano per abbattere gli alberi o per cacciare i conigli, ma il suo corpo devastato non accennò ad accasciarsi.

Non gli rimanevano che pochi incantesimi utili. Stringendosi nelle spalle, sollevò lo scettro caduto e la colpì con un fuoco verde smeraldo finché lo scettro non borbottò e si spense, i suoi poteri ormai esauriti.

Il Supremo Mago di Corte l’osservò preoccupato. Non si era accorto, quando l’aveva preso con sé quel giorno, di quanta poca magia fosse rimasta in esso. Avrebbe potuto verificarsi un disastro.

Il corpo distrutto della Srinshee era ancora fermo sulle gambe. Doveva essere ancora viva. Limi si guardò bene dal toccarla direttamente, persino col pugnale. Esistevano trucchi che solo i vecchi stregoni conoscevano. Meglio bruciarla e ridurla in cenere.

Schioccò le dita, pronunciò alcune parole e tra le sue mani apparve improvvisamente un bastone lungo e nero, istoriato con rune d’argento. Lo agitò lentamente, lo picchiettò sulle mani – ah, che deliziosa sensazione di potere. Poi, d’un tratto, riversò un’ondata incandescente sul nemico immobile.

Il bastone si spense dopo pochi istanti. Il mago si accigliò, cercò di attivarlo di nuovo, ma non ebbe successo. Ora aveva tra le mani un semplice pezzo di legno nero. Perplesso, lo scagliò a terra ed evocò una bacchetta magica. Se anch’essa avesse fallito, gli sarebbero rimasti due scettri; forse il Coprimantello stava attenuando i loro poteri. Agitato, evocò i poteri avvizzenti della bacchetta.

Il corpo davanti a lui si trasformò in un involucro di cuoio incartapecorito, e la pelle rimasta divenne grigia e putrescente. Ma la vecchia maga era ancora in piedi.

Grugnendo di stupore, Ilimitar materializzò prima uno scettro, poi l’altro. Quando l’ultimo iniziò a sibilare e a emettere solo fumo, la bocca gli si riempì del gusto freddo della premonizione, poiché la Srinshee non dava segno di accasciarsi a terra.

Il suo cranio frantumato pendeva di traverso dal collo rotto, ma quegli occhi anneriti e sanguinanti si aprirono, per rivelare due pozze di fiamme scoppiettanti, e la bocca sotto di essi si aprì con uno scricchiolio della mandibola rotta e gracchiò: «Hai finito, Limi?»

«Corellon mi salvi!», urlò il mago, allontanandosi, fuori di sé per il terrore. Avrebbe iniziato ad avanzare verso di lui?

Sì! Oh, per tutti gli dei, sì!

Ilimitar gridò mentre il corpo devastato si trascinava fuori dalla buca di macerie annerite, e appoggiava i monconi senza piedi sulla pietra. «Sta’ indietro!», urlò il mago, cadendo sul pavimento.

«Non volevo farlo, Limi», esclamò tristemente quell’essere mutilato, mentre gli si avvicinava goffamente. «La scelta è stata tua, temo, hai iniziato tu questa battaglia, Limi!»

«Non pronunciare il mio nome, strega malvagia delle tenebre!», ululò il Supremo Mago di Corte, estraendo con dita tremanti l’ultimo oggetto magico rimastogli: un anello infilato in una catena sottile. Lo indossò e puntò il dito verso la vecchia, un dito che divenne un lungo artiglio ricurvo ricoperto di scaglie. «Tu servi un nemico del regno», gridò, «e devi essere distrutta, affinché Cormanthor possa continuare a esistere!»

L’anello s’illuminò, e un ultimo raggio di malvagia forza letale scaturì dalla gemma.

Il corpo mutilato si arrestò, cominciò a tremare con rinnovata violenza, e Ilimitar rise selvaggiamente, sollevato. Sì! Era tutto finito! La maga stava capitolando.

Ciò che di lei rimaneva urtò violentemente le spalle di Ilimitar e scivolò lungo il suo corpo, sfiorandolo con le labbra mentre si accasciava.

Vi fu un istante di magia formicolante in cui Oluevaera Estelda vomitò incontrollabilmente mentre il famigerato Coprimantello entrò in lei da ogni orifizio, per poi uscirne nuovamente.

D’un tratto questo si dissipò, come la nebbia che precede una mattinata di sole, e la Srinshee si ritrovò in ginocchio, il corpo intero, davanti al cadavere di Ilimitar, che nel frattempo aveva ricevuto ogni incantesimo e scarica magica precedentemente scagliati sulla maga.

L’odio per quel sortilegio pervase nuovamente Oluevaera. Lo trovava crudele quanto l’antico mago elfo che l’aveva inventato, e quasi altrettanto malvagio di Halgondas e del suo Coprimantello. Inoltre, chi lo sferrava doveva sopportare il dolore di tutto ciò che gli veniva inflitto, e Ilimitar aveva messo tanto entusiasmo nel suo tentativo di distruzione che il male avrebbe fatto impazzire gran parte dei maghi. Ma non lei. Non la vecchia Srinshee.

La donna guardò il cumulo di ossa fumanti ai suoi piedi e ricominciò a piangere, e le sue lacrime, una volta cadute sul fuoco morente di ciò che era stato Ilimitar, evaporarono con un sibilo.


«Sangue di Corellon, ora piovono anche alberi!», esclamò Galan Goadulphyn, balzando all’indietro e coprendosi frettolosamente il viso col mantello. L’albero caduto rimbalzò fragorosamente davanti a lui, spargendo polvere e schegge in tutte le direzioni.

«Lassù è in corso un duello magico, di sicuro», affermò Athtar, sollevando lo sguardo. «Non è meglio andarcene? Possiamo tornare più tardi per le tue monete».

«Più tardi?», grugnì Galan, mentre si allontanavano rapidamente. «Se ben conosco quegli stupidi maghi chiacchieroni, distruggeranno la montagna in men che non si dica e lasceranno scoperto il mio nascondiglio, alla vista di chiunque si trovi a passare di qui, oppure lo seppelliranno completamente sotto una frana!»

Si udì un altro schianto e Athtar Nlossae si guardò alle spalle appena in tempo per vedere un cumulo di pietre precipitare dalla scarpata, schiacciando tutto ciò che incontrava nel suo percorso. «Come sempre hai ragione, Gal: il tuo nascondiglio è ormai sepolto, o lo sarà presto!»

Mentre cercava di tenere il passo con l’elfo dagli abiti di pelle, Galan snocciolò ad alta voce tutto il suo repertorio di imprecazioni.


«Non puoi sperare di sfuggire per sempre alle mie magie, codardo!», esclamò Delmuth, mentre il mantello elfo e lo scudo umano, toccandosi, generavano scintille, e un altro potente sortilegio di Delmuth svaniva in spire innocue di fumo.

I due erano quasi faccia a faccia, tanto vicini quanto le barriere magiche permettevano loro. Elminster continuò a sorridere silenziosamente, osservando l’elfo furibondo sferrare incantesimo dopo incantesimo.

Delmuth aveva scoperto che finché mantello e scudo erano a contatto, l’effetto violento delle magie che rimbalzavano su di lui era minimo; le sue difese non si sarebbero sbriciolate tanto rapidamente a ogni assalto. Perciò si era avvicinato, ed Elminster non si era preoccupato di indietreggiare.

Del resto non poteva, altrimenti sarebbe caduto nel dirupo, e il principe era stanco di correre. Il combattimento si sarebbe svolto in quel luogo.

L’erede di Casa Echorn sferrò un altro colpo esplosivo: questa volta evitando deliberatamente mago e scudo, nella speranza che sgretolasse la pietra e che Elminster venisse colpito da dietro da una gragnola di schegge. Il colpo scavò, invece, un solco nella roccia e ne piroettò i frammenti oltre il margine del precipizio, nel vuoto sottostante.

El non tolse gli occhi di dosso al mago. Il duello era durato abbastanza: se Delmuth Echorn teneva tanto ad assistere a una morte, questa non sarebbe stata di certo la sua. Al sicuro dietro lo scudo, Elminster elaborò un incantesimo complicato, e poi un altro per evocare la sua vista da mago, dopodiché rimase in attesa. Uno dei vantaggi di combattere gli elfi con incantesimi umani consisteva nel fatto che i primi stentavano a riconoscere i secondi, e potevano esser colti alla sprovvista.

L’ultimo incantesimo di El si chiamava Inversione di Mruster, una variante del Grandioso Ritorno di Jhalavan. Esso consentiva a un mago dalla mente svelta di inviare gli incantesimi respinti al loro artefice sotto forma di magie differenti. Ora, se quel Delmuth era tanto stupido da tentare di incenerire un umano seccatore, e da rimanere vicino a Elminster mentre lo faceva, non avrebbe notato che non sarebbero stati i suoi incantesimi di ritorno a colpirlo, ma ciò in cui essi si sarebbero trasformati.

Delmuth si rivelò effettivamente tale e, in preda all’entusiasmo, scagliò un incantesimo che El non aveva mai visto: questo materializzava un vassoio colmo d’acido sulla testa della vittima e glielo versava addosso.

I sibili e i gorgoglii dello scudo tormentato di El furono spettacolari, e Delmuth non si accorse quando la pioggia acida venne trasformata in un crescente effetto dissipante che iniziò pian piano ad erodergli silenziosamente il mantello.

Ancora infuriato, e convinto di aver finalmente messo il nemico con le spalle al muro, l’elfo sferrò un secondo incantesimo. Elminster assunse un’espressione spaventata per distrarre l’avversario e impedirgli di notare che i suoi attacchi d’energia si tramutavano nuovamente in una magia silenziosa: il trucco funzionò.

Delmuth sollevò entrambe le mani in segno d’esultanza e sferzò il nemico umano con tentacoli affilati. El vacillò e finse di provare dolore, come se parte dell’incantesimo lo avesse davvero raggiunto attraverso lo scudo. E il sortilegio alterato dell’erede Echorn consumò le ultime energie del suo mantello protettivo.

Alla vista magica di El, l’elfo era ormai attorniato solo da fili di magia scura e tremolante, le ultime componenti di ciò che era stata una barriera impenetrabile. «Delmuth», urlò, «te lo chiedo per l’ultima volta: perché non poniamo termine al duello e non ce ne andiamo in pace?»

«Certamente, umano», rispose l’elfo con un ghigno spietato. «Quando sarai morto, regnerà una pace perfetta

Le sue dita affusolate plasmarono un incantesimo sconosciuto a Elminster, ed ecco apparire una forza tremolante, visibile solo per i suoi contorni instabili, molto simile al muro di forza umano.

Delmuth vide El osservare attentamente, e sollevò lo sguardo, gongolante, mentre le ultime luci si univano a formare una spada invisibile, fluttuante di fronte a lui, con la punta rivolta verso Elminster. «Osserva un incantesimo che non potrai rispedire al mittente», ridacchiò il signore elfo, sporgendosi verso l’arma. «Viene chiamata “mortale spada cacciatrice” e tutti coloro che hanno sangue elfo ne sono immuni!» Schioccò le dita e proruppe in una risata fragorosa, mentre la spada balzava in avanti.

Erano a distanza di pochi passi l’uno dall’altro, ma El già sapeva in quale magia trasformare quell’arma dalla forza invisibile. Delmuth avrebbe fatto meglio a brandirla con la sua mano, e a colpire lo scudo di El come se fosse una spada reale, per non dare tempo al principe di trasformarla.

In verità, Delmuth avrebbe fatto meglio a non attirare Elminster in quel luogo.

Il giovane mutò la spada in qualcosa d’altro e la lanciò indietro. Quando essa colpì l’elfo, la risata di Delmuth si fece esitante. L’ultimo anelito del suo mantello, che cercava invano di proteggerlo mentre si disperdeva in scintille scoppiettanti, lo sollevò da terra, lasciandolo a scalciare nel vuoto.

Delmuth Echorn si irrigidì quando la magia alterata di Elminster lo colpì; d’un tratto le sue mani si sollevarono come artigli all’altezza del petto, le sue gambe si tesero, e le punte degli stivali si abbassarono verso il terreno. La paralisi a cui lo costrinse El ebbe l’effetto desiderato, e tutto ciò che poté muovere furono gli occhi, che spalancò e roteò nelle orbite, per poi fissare impotente il mago umano.

O forse non del tutto impotente. Delmuth poteva ancora sferrare magie mediante l’uso della mera volontà, come aveva fatto El. E negli occhi dell’elfo Elminster vide in effetti il terrore spazzato via dalla collera, a sua volta sostituita dall’astuzia.


Da tempo Delmuth non era tanto spaventato. Sentiva in bocca il gusto amaro della paura e il suo cuore sembrava impazzito. Che un semplice umano potesse ridurlo così! Avrebbe potuto morire in quel luogo, fluttuando sopra una roccia sferzata dal vento nelle foreste vergini del regno! Egli…

Calma, calma, figlio degli Echorn. Gli rimaneva ancora un incantesimo che nessun uomo avrebbe potuto prevedere, qualcosa di più segreto e terribile persino della spada. Erano stati quasi faccia a faccia: se il suo mantello era svanito, anche quello dell’umano doveva essere per forza danneggiato. Non era forse per tale ragione che quell’Elminster lo aveva pregato di porre fine al duello? Ora, certamente, l’umano lo considerava spacciato, e se ne stava lì a pensare inutilmente al modo per ucciderlo, senza rompere la paralisi. Sì, se avesse sferrato l’incantesimo in quel momento, il nemico non avrebbe potuto fermarlo.

L’incantesimo delle “ossa chiamate” era stato escogitato da Napraeleon Echorn settimo, o era l’ottavo? Non aveva mai prestato molta attenzione ai suoi istitutori secoli addietro. Con esso il mago poteva chiamare a sé ossa particolari, che si staccavano immediatamente dal corpo della vittima, e se sceglieva il cranio, la vittima non poteva sperare di sopravvivere. Malgrado Delmuth non riuscisse a trovare, in quel momento, un impiego per un cranio umano sanguinante, avrebbe avuto tutto il tempo per pensarci dopo.

Lo sguardo sorridente, l’elfo sferrò mentalmente l’incantesimo. Elminster, la tua testa, per favore…

L’elfo stava ancora gongolando – mormorando tra sé, per l’appunto – quando il mondo si oscurò e percepì un breve ma lancinante dolore. Non ebbe nemmeno il tempo di gridare che sangue rosso gorgogliò nella sua mente e Faerûn scomparve per sempre.


Elminster fece una smorfia disgustata alla vista di tanto sangue. Quando quella cosa raccapricciante, di un rosso intenso, si riversò su di lui, il giovane usò il suo scudo come tale, deviandola nel dirupo sottostante.

L’ultimo principe di Athalantar guardò il corpo decapitato per l’ultima volta, scosse il capo tristemente e pronunciò le parole che l’avrebbero riportato nella stanza, al centro del castello infestato dagli spettri, dalla Srinshee. Sperava non si fosse svegliata, poiché non desiderava darle inutili preoccupazioni.

Il giovane dal naso adunco fece un passo verso la scarpata più prossima, dopodiché scomparve nel nulla. Gli avvoltoi in attesa su un albero nelle vicinanze del picco decisero che era il momento buono per cenare, e si sollevarono goffamente in volo. Avrebbero dovuto calcolare bene i tempi di planata: non succedeva tutti i giorni che il cibo fluttuasse a mezz’aria.


«Gal», esclamò Athtar pazientemente, mentre si accingevano a scalare la seconda parete di roccia, «mi rendo conto che sei sconvolto per le perle – per tutti gli dei, mezza foresta lo sa! – ma torneremo a prenderle, davvero, e non serve a nulla…»

Un oggetto veloce e rotondo, del colore del sangue, piombò dal cielo e spazzò via la faccia di Athtar.

Il corpo avvolto in abiti di pelle nera, le cui membra si agitarono brevemente in preda agli spasmi, cadde oltre Galan. La cosa che aveva ucciso Athtar rimbalzò sul petto di quest’ultimo e rotolò fino a fermarsi contro un groviglio di radici accanto alla faccia di Galan.

Questi si ritrovò per un istante a fissare le orbite scure di un cranio d’elfo intriso di sangue, dopodiché perse la presa sulla cornice di roccia friabile e piombò in basso, nell’oscurità che aveva reclamato Athtar.


Elminster fece un passo nella stanza buia, e si accorse subito che qualcosa non quadrava. La Srinshee se ne era andata, e una giovane elfa, nuda, inginocchiata davanti a uno scheletro scomposto e incenerito singhiozzava incontrollabilmente. La sua amica aveva forse preso fuoco?

La ragazza sollevò lo sguardo, il volto inondato di lacrime, e ansimò: «Oh, Elminster!» Quando la donna allungò le mani verso di lui, El corse ad abbracciarla. O dei guardate giù: quella ragazza era la Srinshee!

«Lady Oluevaera», le domandò gentilmente, mentre le accarezzava i capelli e le spalle, cullandola al petto, «che cos’è accaduto?»

La maga scosse il capo e riuscì a pronunciare una parola smorzata: «Dopo».

El la cullò, mormorandole parole dolci, finché la ragazza non smise di piangere ed esclamò, «Elminster? Perdonami, ma sono esausta, e corro il grave rischio di abbandonare Cormanthor per la prima volta nella mia vita».

«C’è qualcosa che posso fare?»

Oluevaera sollevò il volto ringiovanito e incontrò lo sguardo del principe. Gli occhi erano rimasti vecchi e tristi, notò El. «Sì», sussurrò. «Rischiare ancora una volta. Non dovrei chiedertelo: il pericolo è troppo grande».

«Ditemi», mormorò Elminster. «Inizio a pensare che Mystra mi abbia mandato qui proprio a tale scopo».

La Srinshee tentò di sorridere. Le sue labbra tremolarono per un istante, poi affermò: «Forse hai ragione. Ho visto Mystra, mentre eri via». La maga sollevò una mano per prevenire la sua domanda, e continuò: «Perciò devi sopravvivere affinché dopo ti racconti. Ho solo potere sufficiente per sferrare un incantesimo di scambio di corpo».

Gli occhi di El si assottigliarono. «Ossia, volete mandarmi da qualche parte al posto di qualcun altro, e viceversa».

La Srinshee annuì. «Il Coronal parteciperà a una festa questa sera, ed è molto probabile che qualcuno sia abbastanza infuriato da tentare di ucciderlo».

«Fate quella magia», esclamò El risoluto. «Sono sotto di qualche incantesimo, ma sono pronto».

«Lo farai?», domandò la donna, e scosse il capo, asciugandosi impazientemente nuove lacrime. «Oh, El… un tale onore…»

Si staccò rapidamente da lui e corse veloce attraverso la stanza. Per la prima volta Elminster notò che era disseminata di ciò che sembravano scettri magici, e vi era persino un bastone. Oluevaera si chinò e raccolse un oggetto.

«Portalo con te», affermò. «Serba ancora un po’ di potere. Questo scettro è in grado di duplicare ogni incantesimo che vedi sferrare dagli altri mentre lo hai in mano. Attivalo e ti sussurrerà mentalmente i suoi poteri».

Elminster lo prese e annuì. Impulsivamente la ragazza gli gettò le braccia al collo e lo baciò. «Ora va’ con la mia benedizione e, sono sicura, anche con quella di Mystra».

El inarcò un sopracciglio. Che cos’era accaduto in quella stanza?

Se lo stava ancora chiedendo quando la Srinshee sferrò l’incantesimo e una nebbia blu avvolse di nuovo il mondo.

10. Finto amore

L’amore di un elfo è un sentimento profondo e prezioso. Se abusato o rifiutato, può essere fatale. Interi regni sono caduti e sono stati scissi per amore, e antiche casate orgogliose sono state spazzate via. Alcuni hanno affermato che un elfo è la forza del suo amore, e che tutto il resto è solo carne e scarti. Certo è che gli elfi possono amare gli uomini, e gli uomini amano gli elfi: ma in tali unione di cuori, il dolore è sempre in agguato.

Shalheira Talandren, Sommo Bardo Elfo di Summerstar

Da Spade argentee e notti d’estate:

Una storia ufficiosa ma vera di Cormanthor

Pubblicata nell’Anno dell’Arpa

La nebbia si dissipò ed Elminster si ritrovò in un giardino mai visto prima, un luogo pieno di alberi imponenti, diritti, che si ergevano come colonne nere, gigantesche, da una distesa di muschio costellato da piccole piantagioni di funghi. Sopra di lui il fogliame oscurava completamente il sole, ma El riusciva a vedere fasci di luce in lontananza, là dove forse vi erano radure.

Nel luogo in cui si trovava in quel momento l’unica fonte di luce erano alcune sfere d’aria luminosa: sfere emananti un debole bagliore di colore blu, verde, rosso rubino od oro, che fluttuavano lentamente, senza meta, fra gli alberi.

Elfi con tuniche di seta ricamata passeggiavano fra gli alberi, ridendo e chiacchierando, e sotto ogni sfera luminosa fluttuava un carrello carico di bottiglie alte e sottili, e di vassoi a più piani traboccanti di prelibatezze; a prima vista El riconobbe ostriche, funghi e ciò che sembravano essere larve di bosco in salsa di prugne o di albicocche.

Molto vicino a lui Elminster scorse un elfo dall’espressione molto sorpresa. Un elfo che aveva già visto: uno dei Supremi Maghi di Corte seduti accanto al Coronal quando Naeryndam l’aveva condotto a palazzo.

«Buona sera», esclamò Elminster, inchinandosi gentilmente. «Lord Earynspieir, dico bene?»

Il mago elfo sembrò più confuso e allarmato di prima. Ciononostante annuì: «Earynspieir, umano. Perdonatemi, non ricordo il vostro nome, poiché sono un po’ agitato: dov’è il Coronal?»

Elminster allargò le mani. «Non lo so. Qualche istante fa era dove mi trovo io al momento?»

L’elfo annuì, gli occhi ridotti a due fessure. «Esattamente».

El fece un cenno col capo. «Allora è accaduto ciò che doveva accadere. Io parteciperò alla festa al posto suo».

Earynspieir assunse un’espressione minacciosa. «Voi? E l’avete deciso da solo, giovanotto?»

«No», rispose schiettamente Elminster. «Altri hanno deciso per me, per la sicurezza del regno. Io ho acconsentito, sì. A proposito, il mio nome è Elminster. Elminster Aumar, Principe di Athalantar e, come ben sapete, Eletto di Mystra».

Il mago strinse le labbra. Poi abbassò lo sguardo sullo scettro alla cintura di El e si contrasse maggiormente, ma non proferì parola.

«Forse, Signor Mago, potremmo mettere da parte per un attimo i vostri sentimenti nei miei confronti», mormorò Elminster, «mentre mi raccontate dove siamo, e quali siano le usanze di una festa elfa. Non ho intenzione di arrecarvi offesa alcuna».

Earynspieir volse lo sguardo per incontrare quello del giovane, e increspò le labbra, disgustato. Poi sembrò prendere una decisione.

«Molto bene», esordì a bassa voce. «Forse le mie reazioni naturali verso la vostra razza mi hanno dominato in maniera eccessiva. Il Coronal mi ha detto che ci sarebbe stato tutto più facile se vi avessimo considerato un nostro simile, uno della Gente, in visita da un regno lontano, sotto spoglie umane. Ci proverò, giovane Elminster. Abbiate pazienza, per favore: in questo momento sono turbato per altre ragioni».

«Potete parlarmene?», domandò gentilmente Elminster.

L’elfo gli lanciò un’occhiata tagliente, e poi esclamò: «Permettetemi di parlarvi con la più assoluta franchezza: un’abitudine comune alla vostra razza, ho udito. Inoltre, dubito che conosciate altri cormanthoniani ciarlieri con cui spettegolare, il che mi consente di parlare più apertamente di quanto non farei altrimenti».

El annuì. Il mago elfo si guardò intorno per assicurarsi che nessuno potesse udirli, poi si voltò verso il giovane principe e affermò schiettamente: «La decisione presa dal Coronal nei vostri confronti non è stata accolta con favore. Molti appartenenti al rango di armathor sono venuti a palazzo per rinunciare al titolo e hanno spezzato le spade di fronte al Coronal. Si è parlato apertamente di spodestarlo e persino di ucciderlo, e di uccidere voi e di… spiacevolezze in generale riguardanti la presente serata, e momenti futuri, finché egli, ah, non rinsavirà. La mia controparte, il Supremo Mago di Corte Ilimitar, non è ancora tornato da una visita alle antiche casate del regno, e non so dove sia al momento, né se sia stato vittima di qualche tradimento. Pensavo di essere il confidente più vicino del Coronal, e ora, senza una parola d’avvertimento, egli sparisce, e al suo posto apparite voi, parlando cautamente della “sicurezza del regno”, una questione che ho buone ragioni di credere fosse stata affidata a me. Nonostante la fiducia dimostratavi dal Coronal, io vi vedo come un mago umano dai poteri sconosciuti ma probabilmente grandi, che ha una stretta relazione con una dea della stessa razza, e pertanto, qualsiasi siano i vostri scopi, rappresentate un grande pericolo per Cormanthor. Capite perché non sono molto gentile con voi?»

«Certamente», rispose Elminster, «e non ve ne voglio, Signor Mago. Come potreste fare altrimenti, trovandovi in tali difficoltà?»

«Esattamente», rispose Earynspieir con tono soddisfatto, quasi sorridendo. «Credo di aver giudicato male la vostra razza, signore, e voi con essa: non sapevo che gli uomini si interessassero agli intrighi e alle gioie e ai dolori altrui. Tutto ciò che vediamo e sentiamo di voi, sono le asce che tagliano gli alberi e le spade che mettono a tacere persino la più piccola disputa».

«È vero che alcuni di. noi tendono a esercitare la forma più rapida e diretta di politica», assentì Elminster con un sorriso. «Tuttavia devo affrettarmi a far presente a voi e a tutti i cittadini di Cormanthor che giudicare gli uomini di tutte le terre con lo stesso metro non è più corretto di giudicare gli elfi della luna alla stregua degli elfi delle tenebre, o viceversa».

Il mago accanto a lui si voltò e si irrigidì, gli occhi fiammeggianti, ma poi si rilassò visibilmente e abbozzò una breve risata. «Capisco ciò che intendete, giovanotto, ma devo ricordarvi che il popolo di Cormanthor non è avvezzo a parole tanto audaci e schiette, e potrebbe odiarle ancor più di quanto non le detesti io».

«Comprendo», rispose El. «Vi porgo le mie scuse. Qualcuno si sta avvicinando. O meglio: un paio di persone».

Earynspieir guardò il ragazzo, sorpreso da quell’improvvisa concisione, e si voltò a vedere la coppia elfa che l’umano aveva indicato. Tenevano un bicchiere in mano e avanzavano con calma a braccetto, ma l’espressione di sorpresa sui loro volti non lasciava dubbi sul fatto che si stessero dirigendo verso di loro, per vedere l’armathor umano di cui si era tanto parlato.

«Ah», esclamò a bassa voce Earynspieir, «manca qualche ora al tramonto, e all’inizio delle danze e ah, dei bagordi meno dignitosi. Chi desidera parlare francamente, scambiare due chiacchiere con il Coronal, oppure scegliere nuovi partner per una sera, arriva spesso a quest’ora, quando i festanti sono scarsi e hanno consumato poco vino; è il caso di questa coppia. Permettetemi di fare le presentazioni».

El inclinò rispettosamente il capo mentre la coppia si dirigeva verso il Supremo Mago di Corte. L’elfo maschio, giovane e bello, guardò Elminster come fosse un cinghiale della foresta vestitosi per la festa, ma la meravigliosa ragazza dalla tunica trasparente che stava al suo fianco sorrise incantevolmente a Earynspieir ed esclamò: «Buona sera, Onorato Signore. Noi ci aspettavamo di trovare il Coronal. È indisposto?»

«Nostra Altezza il Coronal è stato chiamato per questioni urgenti del regno qualche minuto fa. Lasciate che vi presenti invece il Principe Elminster della terra di Athalantar, nostro recente armathor».

Il giovane elfo continuò a fissare El, senza proferire parola. La sua signora ridacchiò a disagio e affermò: «Un piacere inaspettato e, se mi è permesso dirlo, molto insolito».

La donna non tese la mano.

«Principe Elminster», mormorò il Supremo Mago di Corte, «permettetemi di presentarvi Lord Qildor, della Casata dei Revven, e Lady Aurae della Casata dei Shaeremae. Spero il piacere sia reciproco».

Elminster fece un inchino. «Il mio onore è illuminato», esclamò, ricordando una frase delle memorie della kiira. A quelle parole di antica cortesia elfa i tre inarcarono le sopracciglia simultaneamente, ma l’umano continuò: «È mio desiderio fare amicizia col popolo di Cormanthor, senza cattive intenzioni, né intrusioni. Il vostro paese e la Gente di questo luogo sono per me tanto meravigliosi da essere considerati grandi tesori, che noi uomini onoriamo da lontano».

«Ciò significa che voi non siete la prima spia di un esercito umano?», grugnì Lord Qildor, la mano pronta sull’elsa d’argento lavorato della spada che gli pendeva lungo il fianco.

«E non è tutto», rispose mite Elminster. «Non è desiderio del mio, né di altri regni umani di mia conoscenza, invadere Cormanthor o imporre i nostri modi e commerciare dove non siamo desiderati e potremmo solo arrecare danno. La mia presenza qui è una questione personale, non un affare di stato, né una dichiarazione di invasione o una curiosa esplorazione. Nessun cormanthoniano deve temermi, o vedermi come qualcosa di più di un uomo solo, animato da una profonda ammirazione per la Gente e le sue conquiste».

Lord Qildor inarcò nuovamente un sopracciglio. «Perdonate il mio discorso precedente», esclamò, «ma permettereste a un mago di verificare la verità di ciò che dite?»

«Ora e sempre», rispose il principe, guardandolo negli occhi.

«Se è così», ribatté l’elfo, «mi sono fatto di voi un’idea sbagliata ancor prima di incontrarvi, basandomi solo sulle speculazioni di altri. Tuttavia, Lord Elminster, dovreste sapere che io, come gran parte dei miei simili, temo e odio gli umani; vederne uno nel cuore del regno è per noi fonte di allarme e di disgusto. Le vostre nobili azioni o le parole gentili, temo, non potranno cambiare il nostro modo di pensare. Abbiate cura di voi in questo luogo, signore; altri potrebbero essere meno comprensivi di me. Forse sarebbe stato meglio per tutti se non foste mai venuto a Cormanthor».

L’elfo rimase in silenzio per un momento, austero nella sua tunica di seta gialla, e poi aggiunse lentamente: «Vorrei trovare parole più cortesi per voi, uomo, ma non posso. Non è nella mia natura, e ho veduto più umani di gran parte degli altri elfi».

Poi annuì con aria un po’ triste, e si voltò. Numerose gemme brillarono qua e là fra i capelli che gli ricadevano sulla schiena, lunghi e magnifici come quelli di una donna di nobili origini. La sua signora, che aveva fino ad allora ascoltato con lo sguardo rivolto a terra, sollevò fiera il volto, elargì a Elminster e al mago di corte un ampio sorriso, ed esclamò: «Concordo con mio marito. Addio, signori».

Quando la coppia fu abbastanza distante, Elminster si voltò verso Earynspieir. «Il popolo di Cormanthor non sarebbe dunque avvezzo a parole audaci e schiette, Signore?», domandò cortesemente, sollevando un sopracciglio. Earynspieir trasalì.

«Credetemi, per favore, non intendevo fuorviarvi, giovanotto», rispose. «A quanto pare la vista di un umano risveglia uno spirito di franchezza mai visto prima nei cormanthoniani».

«Avete ragione», assentì El, «e io… ma chi arriva ora?»

Due ragazze si stavano avvicinando fluttuando tra gli alberi, i loro stivali alti a mezzo metro da terra. Avevano entrambe un’altezza superiore alla media, e indossavano abiti che lasciavano intravedere ogni curva del loro splendido corpo. Al loro passaggio tutti i presenti si voltarono.

«Symrustar e Amaranthae Auglamyr, signore e cugine», mormorò pacato il Supremo Mago di Corte, ed El credette di scorgere nel suo tono qualcosa di più del semplice desiderio.

La donna che conduceva era più bella di tutte le ragazze che El aveva veduto dal suo arrivo in città. Una chioma di colore blu intenso le fluiva liberamente sulle spalle e sulla schiena, per poi essere raccolta in una fascia di seta che correva bassa sul suo fianco destro, a mo’ di coda di cavallo. Mentre si avvicinava, i suoi occhi luminosi, quasi di colore blu elettrico, lanciarono promesse a Elminster da sotto le sopracciglia scure e perfette. Un nastro semplice, nero, le fasciava la gola, e le sue labbra carnose le conferivano un’aria lievemente imbronciata; la ragazza si passò deliberatamente la lingua sulla bocca e scrutò intensamente l’uomo che stava accanto al mago elfo. La parte anteriore della sua tunica cremisi si apriva per mostrare il disegno di un drago dalle molte teste ricamato di gemme, che aderiva perfettamente al ventre piatto, alla vita sottile e al décolleté; fiamme di filo metallico sottile, che conferiva un effetto ghiaccio, le avvolgevano e sostenevano i seni alti, e polvere d’oro cospargeva la punta di un orecchio. Era d’una bellezza incantevole, e lo sapeva.

La cugina indossava una tunica meno vistosa, di colore blu scuro, nonostante fosse aperta su un lato all’altezza del fianco, rivelando una cascata di catene d’oro finemente lavorate. Aveva capelli color miele, vivaci occhi castani, e un sorriso molto più gentile della compagna dai capelli blu, nonché la carnagione più scura e le curve più formose di qualsiasi elfa El avesse mai visto. Ma la cugina eclissava la sua bellezza come il sole eclissa una stella notturna.

«La prima è Symrustar», mormorò Earynspieir. «È erede della sua casata… e pericolosa, signore; il suo onore consiste solo in ciò che può ottenere».

«Voi preferite decisamente Lady Amaranthae, non è vero?», gli domandò sottovoce Elminster.

Il Supremo Mago di Corte voltò bruscamente il viso verso Elminster, negli occhi una nota di rispetto e un tagliente avvertimento. «Siete più perspicace di molti elfi anziani, giovane signore», sibilò il mago, quando le ragazze erano a pochi passi di distanza.

«Buona sera», mormorò Lady Symrustar, spostando una ciocca di capelli con un gesto aggraziato mentre si protendeva per baciare Lord Earynspieir sulla guancia. «Vi dispiace, saggio Mago, se vi rubo l’ospite per qualche istante? Ho – abbiamo – un grande desiderio di imparare qualcosa di più sugli uomini; questa rappresenta per noi una rara opportunità».

«Io… no, naturalmente no, Lady Symrustar». Earynspieir le fece un ampio sorriso. «Signore, permettete che vi presenti Lord Elminster di Athalantar. È principe del suo regno, e da poco, ma sono certo che ne siete informata, armathor di Cormanthor».

Il mago si voltò verso El, nei suoi occhi un avvertimento evidente, e continuò: «Lord Elminster, con grande piacere vi presento due dei più bei fiori della nostra terra: Lady Symrustar, Erede di Casa Auglamyr, e sua cugina, Lady Amaranthae Auglamyr».

El fece loro un profondo inchino, baciando la punta delle dita della mano di Symrustar: un gesto insolito, dal mormorio di piacere che emise la ragazza, e dall’esitazione con cui Amaranthae tese il suo braccio.

«L’onore, signore», esclamò El, «è mio. Ma certo non potete pensare di abbandonare il guardiano del regno solo per parlare con me? Io rappresento il fascino dell’ignoto, questo è vero, ma signore, vi confesso che una di voi basta a sopraffarmi, e sono giunto a stimare profondamente la saggezza attenta di Lord Earynspieir fin dal nostro primo incontro; è un oratore di gran lunga migliore di me!»

Qualcosa baluginò negli occhi del Supremo Mago di Corte mentre El parlava tanto seriamente, ma non proferì parola quando Lady Symrustar rise fragorosamente ed esclamò: «Ma naturalmente la nostra Amaranthae terrà una stretta e attenta compagnia al più potente mago di Cormanthor, mentre io e voi parleremo, Lord Elminster. Avete ragione quando esaltate le sue qualità, ma sono sicura che potrà esprimerle meglio in un discorso a due. Voi e Amaranthae potrete intrattenervi più tardi. Venite, mio perspicace signore, andiamo!»

Mentre la ragazza prendeva la mano del giovane, Elminster s’inchinò per salutare gentilmente il mago di corte, il cui viso era in quel momento indecifrabile, e Lady Amaranthae, che gli lanciò uno sguardo di profondo ringraziamento e di muto avvertimento riguardo la cugina; El la ringraziò a sua volta con un secondo cenno del capo e un sorriso.

«Sembrate attratto da mia cugina, Lord Elminster», gli sussurrò all’orecchio Lady Symrustar, ed El si voltò di scatto verso di lei, ricordando a se stesso che avrebbe dovuto prestare attenzione alla donna.

Molta attenzione. Quando El si voltò, lei fece altrettanto, estendendo una gamba slanciata attorno alla sua e attirandolo verso di lei, petto contro petto. Elminster percepì le punte del metallo che avvolgeva i suoi seni sulla parte bassa del torace, e pelle liscia come seta che gli sfiorava i pantaloni. Symrustar indossava una giarrettiera di pizzo nero su quella gamba, e stivali di pelle dello stesso colore, alti fino al ginocchio, con tacchi a punta.

«Le mie scuse per avervi sbarrato la strada in questo modo, Signore», sussurrò la donna, non sembrando però affatto pentita. «Temo di non essere avvezza alla compagnia umana, e mi sento molto… eccitata».

«Le scuse non sono necessarie, onorata Signora», rispose El gentilmente, «quando non si arreca offesa». Il giovane guardò brevemente la festa che si svolgeva alle sue spalle, e vide numerose facce curiose girarsi nella loro direzione. Nessuna, tuttavia, era vicina.

«Saprete senza dubbio quanto bella vi trovino i maschi di almeno due razze», aggiunse, scrutando il giardino davanti a sé per vedere se fosse altrettanto vuoto – sapeva che sicuramente lo era: quell’elfa aveva pianificato tutto molto attentamente – «ma devo confessarvi che trovo una mente brillante più affascinante di un bel corpo».

Lady Symrustar incrociò il suo sguardo. «Preferireste che non fingessi di essere tanto eccitata, Lord Elminster?», domandò a voce bassa. «Tra la Gente, i maschi non credono che le loro signore abbiano un cervello».

Il principe incurvò un sopracciglio. «Nonostante voi e il vostro intelletto passiate di festa in festa a dimostrare il contrario?»

Symrustar rise, e i suoi occhi scintillarono. «Esattamente», riconobbe la donna. «Credo che stasera mi divertirò». Lo condusse attraverso il giardino, questa volta camminando, la magia che la teneva sospesa forse interrotta, o forse esaurita. Il modo con cui ondeggiava i fianchi a ogni passo lasciava il giovane senza parole; questi però teneva gli occhi fissi nei suoi, e dentro di essi notò un luccichio astuto. La ragazza era consapevole dell’effetto che aveva su di lui.

«Parlavo seriamente quando ci siamo incontrati», asserì Symrustar, scostando nuovamente una ciocca di capelli dal viso, «voglio imparare tutto ciò che posso sugli umani. Sarete tanto gentile da accontentarmi? Le mie domande potrebbero sembrare talora insensate».

«Ne sarò lieto, Signora», mormorò El, domandandosi quando avrebbe sferrato l’attacco, e sotto quale forma. Mentre si inoltravano sempre più nelle profondità selvagge e deserte del giardino e gli ultimi raggi di sole iniziavano a scomparire, il giovane rimase un po’ sorpreso da quanto profondo e genuino sembrasse il suo interesse.

Parlando seriamente di come vivevano gli elfi di Cormanthor e gli uomini di Athalantar, giunsero finalmente a una radura circondata da alberi, lievemente illuminata dal pallido chiarore lunare. Symrustar guidò il compagno verso una panchina di roccia che si estendeva circolarmente intorno a uno specchio d’acqua. Le stelle riflesse scintillavano fin nelle sue profondità; i due sedettero nella tiepida e piacevole aria notturna, e la luce lunare toccò la morbida pelle di Symrustar con le sue dita eburnee.

Con naturalezza e semplicità, come fosse una cosa che le donne elfe facevano normalmente quando si sedevano sulle panchine al chiaro di luna, la ragazza guidò tremante le mani di Elminster all’intero della lavorazione metallica sul suo petto.

«Ditemi di più sugli uomini», mormorò, gli occhi diventati più grandi, e apparentemente più scuri. «Ditemi… come amano».

Elminster abbozzò un sorriso quando un ricordo gli balenò nella sua mente. Nella biblioteca della tomba di un mago, sperduta nella Grande Foresta, vi era un libro curioso senza titolo: il diario di un antico avventuriero mezzo elfo, anch’egli senza nome, contenente le sue gesta e i suoi pensieri, che la maga Myrjala gli aveva fatto leggere perché apprendesse la concezione elfa della magia. Riguardo ai modi per dare piacere alle donne di tale razza, il libro menzionava l’uso delicato della lingua sul palmo della mano e sulla punta delle orecchie.

El sfilò una delle mani dalla tunica, fece scivolare le dita lungo il ventre della ragazza, e poi le prese il polso.

«Avidamente», rispose, e si chinò a leccarle il palmo.

La ragazza ansimò, questa volta tremando sul serio, ed El sollevò la testa per guardarsi attorno, come ormai d’abitudine.

I raggi lunari scintillarono su una faccia elfa, rigida e furiosa. Un uomo li stava osservando fra gli alberi. El sfilò anche l’altra mano. Poco più oltre ne vide un altro. E un altro ancora. Si trovavano al centro di un cerchio che si stava lentamente chiudendo.

«Che cosa succede, Lord Elminster?», chiese Lady Symrustar, quasi bruscamente. «Sono… in qualche modo ripugnante?»

«Signora», rispose, «stiamo per essere attaccati». El si portò le mani allo scettro che teneva alla cintura, ma Symrustar si alzò, si voltò con grazia rapida e fluida, e scrutò fra gli alberi.

«Ci attaccheranno, ora, in silenzio», affermò tranquillamente. «Aggrappatevi a me, e vi porterò via da questo luogo!»

Elminster le mise un braccio intorno alla vita e si acquattò, lo scettro stretto nella mano. La ragazza mormorò qualcosa mentre le snelle figure nell’ombra balzavano fuori dagli alberi, e lasciò un oggetto dietro di lei, all’insaputa di Elminster. Un istante più tardi erano entrambi scomparsi.

I guerrieri elfi si trovarono improvvisamente ad agitare le spade nell’aria vuota e ringhiarono delusi.

«Che cos’è questo?», sibilò uno di loro, soffermandosi sopra la panca dove, un istante prima, le due figure erano avvinghiate. Su di essa giaceva un statuina di ossidiana, che dondolava lievemente. Era Symrustar Auglamyr in miniatura, le braccia legate lungo i fianchi. Una delle guardie la toccò con due dita e la trovò ancora tiepida.

«L’umano!», sbottò un elfo, sollevando la spada per distruggere la statuina. «Stava usando magia nera per irretirla!»

«Aspetta, non farlo! È una prova evidente!»

«Da mostrare a chi?», esclamò rabbioso un altro elfo. «Al Coronal? Lui ha portato questa vipera in seno al nostro popolo, ricordi?»

«È vero!», affermò la prima guardia. Due spade piombarono simultaneamente sulla statuina di ossidiana e la frantumarono tanto abilmente che nessuna delle due lame toccò la panchina sottostante.

L’esplosione che seguì distrusse la panca, la piscina, il selciato, e fece schizzare tra gli alberi teste e membra d’elfo.


Elminster si raddrizzò lentamente. Il giardino in cui si trovavano conteneva un letto circolare, immerso nella luce lunare, e un cerchio di alberi. Distanti, tra i rami, si intravedevano alcune luci, ma lì attorno non c’era anima viva, né alcun edificio.

«Siamo soli, Elminster», sussurrò Symrustar. «Quei maschi gelosi non possono seguirci qui, e le mie guardie tengono i curiosi lontani da questa parte dei giardini di famiglia. Inoltre, ciò che porto a letto è solo affar mio».

I suoi occhi scintillarono quando si voltò nuovamente verso di lui. In qualche modo la tunica le era scivolata fino alle ginocchia, e il corpo nudo era illuminato al chiaro di luna.

Per poco Elminster non rise nuovamente. Non per lei, tanto bella che gli riusciva difficile mantenere il controllo, ma per la sua mente spiritosa. Ha delle splendide spalle, questa gli aveva comunicato eccitata.

Belle, sì, aveva risposto El, prima di scacciare ogni pensiero.

Symrustar scostò il mucchio di seta ai suoi piedi e si diresse verso di lui, le gemme scintillanti nella luce lunare mentre avanzava.

Elminster le baciò le sopracciglia, poi il mento, ma giunto alle labbra si trovò la strada sbarrata da due dita. «Lasciate la bocca per ultima», mormorò la donna. «Per gli elfi sono speciali».

Il principe mugugnò un muto assenso e deviò verso le orecchie. Dal modo in cui la ragazza tremava fra le sue braccia, gemeva e agitava i piedi, El dedusse che il libro diceva il vero.

Vi passò la lingua intorno, delicatamente, solleticandole senza fretta: avevano un sapore lievemente speziato. Symrustar gemette quando El decise di portare a termine l’impresa e affondò rapidamente la lingua nell’incavo. Le dita della donna gli graffiarono la schiena, ferendolo attraverso la camicia.

«Elminster», sibilò, poi ripeté il suo nome facendolo rotolare sulla lingua come fosse una parola sacra da cantare. «Principe di una terra distante», aggiunse, con tono sempre più bramoso, mostratemi com’è l’amore di un uomo».

La sua chioma sciolta turbinò attorno a loro, le sue ciocche, per un ordine tacito, iniziarono a strappare i vestiti di El come una decina di piccole mani insistenti. Infine gli aprirono la camicia e lo attirarono verso il letto.

Improvvisamente Symrustar gemette ancora ed esclamò: «Non posso più attendere. La bocca… Elminster, baciami!»

Le loro labbra si unirono, le lingue s’intrecciarono, ed El si trovò a parare l’aggressione che stava aspettando.

Le scintille luminose di un incantesimo sembrarono saettare nella sua mente, accompagnate dalla volontà di Symrustar. La donna stava cercando di controllarlo, mente e corpo, come fosse un pupazzo, mentre frugava tra le sue memorie per apprendere tutto ciò che poteva, in particolare la magia umana. El la lasciò fare, mentre anch’egli leggeva ciò che voleva nella sua mente esposta.

Per tutti gli dei, era una creatura spietata e malvagia. Vide una statuetta di ossidiana da lei preparata, e seppe che sarebbe stato incolpato dell’accaduto. Vide le sue trecce salire a spirale per avvinghiare la sua gola proprio in quel momento, per strozzarlo se avesse tentato di usare qualsiasi arma contro di lei. Vide i suoi piani per intrappolare un numero di elfi a corte, dal Coronal a un certo rivale e corteggiatore, Elandorr Waelvor, al Supremo Mago di Corte Earynspieir. L’altro mago era già suo, irretito e manipolato, e inviato ad attaccare qualcuno che lei non osava affrontare: la Srinshee!

A quel punto Elminster fu tentato di colpirla, sapendo che con un semplice incantesimo avrebbe potuto spezzarle il collo come un ramoscello, capelli o non capelli. Invece trasformò il lampo luminoso della sua rabbia in una morsa d’acciaio sulla sua mente, e strinse fino a farla gridare silenziosamente, in preda allo shock e al terrore. Il giovane troncò il collegamento visivo con fretta brutale, lasciando la ragazza accecata e stordita, e la tenne in tale stato mentre recuperava lo scettro, che le trecce gli avevano tanto abilmente sottratto, e duplicava l’incantesimo dello scambio di corpo che la Srinshee aveva fatto su di lui precedentemente.

Poi tornò al lavoro nella mente di Symrustar, sopraffacendo ogni parvenza di riserbo e di controllo che le rimanevano, e obbligandola a rimanere esposta e vulnerabile, i suoi piani, i suoi ricordi, e i suoi pensieri leggibili da chiunque la toccasse. El la riportò al culmine del desiderio e dell’urgenza, dopodiché mormorò l’incantesimo, e si proiettò nel luogo il cui Elandorr Waelvor teneva languidamente il bicchiere fra le mani, nel mezzo della festa. L’elfo, di conseguenza, venne scaraventato nel giardino nascosto, tra le braccia di Symrustar, la mente della donna, con tutte le malvagità e i piani riguardanti Elandorr stesso, a sua completa disposizione.

El intravide per pochi istanti gli occhi selvaggi della ragazza fissi in quelli di Elandorr quando si rese conto di chi fosse in realtà e che cosa stesse vedendo nella sua mente mentre la baciava, nuda, a due rapidi passi dal suo letto. Quando i due elfi s’irrigidirono e urlarono spaventati, la bocca e la mente unite, Elminster interruppe il contatto.

Stava in piedi in uno spazio tenuemente illuminato dove si trovava prima Elandorr, in mezzo a un gruppo di elfi molto perplessi. Altri, vestiti di soli campanelli, danzavano nell’aria e ridevano tranquillamente. Bicchieri di vino si innalzavano verso di loro, come vespe zelanti, da vassoi fluttuanti tra elfi annoiati e spossati in abiti elegantissimi, che stavano discutendo della decadenza del regno.

«Ricordate i progetti folli di Mythanthar riguardanti i “mythal” per proteggere tutti? Perch…»

«Quand’ero giovane, non ci abbandonavamo a tali ostentazioni eccess…»

«Be’, che cosa si aspetta? Non tutti i giovani armathor del regno pos…»

All’improvviso piombò il silenzio, come se tutte le gole fossero state tagliate dalla stessa spada, e tutti gli occhi si voltarono a guardare la figura alta apparsa tra loro.

El stava loro di fronte, un maschio umano con i vestiti in disordine e uno scettro in mano, che respirava affannosamente e sanguinava da un angolo della bocca, dove Symrustar l’aveva morso.

I festanti lo fissarono attoniti, poi lo riconobbero e s’infuriarono. «Che cos’hai fatto a Elandorr?»

«Ha ucciso Elandorr!»

«Disintegratelo… come ha fatto lui con Arandron, Inchel e tutti gli altri alla piscina!»

«Tutti in guardia! L’umano assassino è tra noi!»

«Uccidiamolo! Uccidiamolo ora, prima che lo faccia lui!»

«Per l’onore dei Waelvor!»

«Ammazzate quel cane!»

Numerose spade comparvero improvvisamente dal nulla nelle mani dei proprietari, evocate magicamente da foderi e stanze distanti; El girò su se stesso e gridò con voce forte e profonda: «Elandorr è vivo: l’ho mandato ad affrontare l’assassina che ha ucciso le guardie alla piscina!»

«Sentite che cosa dice l’umano!», ringhiò un elfo, la spada scintillante sollevata. «Forse pensa che noi elfi siamo tanto ingenui da credergli!»

«Sono innocente», ruggì Elminster, sollevando lo scettro. D’un tratto ne scaturì un fuoco scintillante che formò un cerchio attorno a lui, e scaraventò per terra spade e spadaccini.

«Ha uno scettro di corte! Ladro!»

«Deve aver ucciso uno dei maghi per averlo! Uccidiamo l’umano!»

El si strinse nelle spalle e utilizzò l’unico incantesimo che poteva, svanendo un istante prima che mezza dozzina di spade s’incrociassero nel punto in cui si trovava.

Nel silenzio improvviso, prima che s’innalzassero urla di delusione, un anziano elfo asserì chiaramente: «Ai miei tempi, giovanotti, facevamo processi prima di usare le armi! Un semplice tocco della mente rivelerà la verità! Se lo troveremo colpevole, allora potremo ucciderlo!»

«Tacete, padre», sbottò un’altra voce. «Ne abbiamo abbastanza di ascoltare come dovrebbero esser fatte le cose, o come si facevano all’alba dei tempi. Non vedete che quell’umano è colpevole?»

«Ivran Selorn», esclamò un’altra voce anziana con tono offeso, «temevo sarebbe venuto il giorno in cui ti avrei udito parlare in tal modo a tuo nonno! Non ti vergogni?»

«No», rispose stizzosamente Ivran, agitando la spada. La lama scintillò nella luce incantata, mostrando il brandello di stoffa infilzato su di essa. «Lo abbiamo in pugno», esordì trionfante, tenendo l’arma sollevata affinché tutti vedessero il pezzo di vestito. «Con questo la mia magia è in grado di rintracciarlo. Lo uccideremo prima dell’alba».

11. Caccia all’uomo

Non esiste bestia più pericolosa da cacciare che un uomo preavvisato, eccetto una: un mago umano preavvisato.


Antarn il Saggio

Da La grande storia della potenza degli arcimaghi faerûniani

Pubblicata approssimativamente nell’Anno del Bastone

Si ritrovò in piedi nell’oscurità più assoluta, ma era un’oscurità che sapeva di buono. Era umido, e intorno a lui non vi era nulla. Recitò una formula mentale, e lo scettro nelle sue mani emanò un tenue bagliore verde.

La stanza al centro del Castello dei Dlardrageth era vuota. Solo una zona di roccia frantumata e sciolta – avrebbe dovuto domandare spiegazioni a Lady Oluevaera quando si sarebbe presentata l’occasione – rimaneva a indicare che lui e la Srinshee erano stati in quel luogo. La maga aveva portato il Coronal altrove.

Qualcosa saettò mugugnando nella penombra sopra la sua testa, verso la parte opposta della stanza. El sorrise. Buon giorno, fantasmi.

La luce dello scettro assunse un color porpora e bianco che denotava la presenza della magia. Laggiù! La Srinshee glielo aveva lasciato!

Invisibile all’interno di tre sfere magiche, l’una dentro l’altra, fluttuanti nell’aria alla sua portata, a poca distanza da una parete, era sospeso il suo libro degli incantesimi. El sorrise ed esclamò: «Oluevaera», ad alta voce, mentre toccava la sfera più esterna e la guardava sciogliersi silenziosamente. La seconda discese sulla sua mano e il giovane pronunciò ancora il nome della Srinshee. Quando l’ultima sfera scomparve, il libro cadde nelle sue mani.

El fece tornare di nuovo verde il bagliore dello scettro, depose quest’ultimo tra due pietre in alto sul muro, e si sedette sotto la sua luce per studiare gli incantesimi. Se doveva essere perseguitato da tutti i giovani elfi assetati di sangue, era meglio aver pronta una serie di sortilegi ai quali ricorrere.


«Le notizie peggiorano sempre più, Onorato Signore». La voce di Uldreiyn Starym era grave, e Lord Eltargrim sollevò lo sguardo. «E come potrebbero?», chiese questi tranquillamente. «Oggi sessantatré spade sono state spezzate davanti ai miei occhi». Le sue labbra si serrarono in ciò che avrebbe potuto essere il principio di un sorriso forzato. «Per quanto io ne sappia».

L’anziano e corpulento arcimago della famiglia Starym si passò una mano stanca fra i radi capelli bianchi e ribatté: «Si dice che agli Hallows l’armathor umano abbia operato una magia mortale, causando uno scoppio che ha distrutto Narnpool e almeno una decina di giovani signori e guerrieri riuniti in quel luogo. Inoltre, Lady Symrustar e Lord Elandorr sono entrambi scomparsi, e l’erede della Casata Waelvor è stato sequestrato mediante un incantesimo mentre stava parlando con altre persone, per essere sostituito immediatamente dall’umano, che ha dichiarato la sua innocenza, ma, ahimè, aveva in mano uno scettro di corte. Quando alcuni dei festanti l’hanno minacciato con le spade è svanito nel nulla. Nessuno sa dove sia ora, ma alcuni guerrieri stanno cercando di rintracciarlo con la magia».

Nell’ombra intorno al tavolo una testa dai capelli chiari si sollevò bruscamente, gli occhi in fiamme. «Mia cugina era con Lord Elminster. Stavano passeggiando insieme quando ci hanno lasciati!»

«Piano», aggiunse il Supremo Mago di Corte Earynspieir seduto accanto alla ragazza. «Avrebbero potuto essersi già separati quando sono iniziati i guai».

«Conosco Symma», ribatté la donna, rivolgendosi a lui, «e so che progettava di… di…» Divenne rossa in volto e abbassò lo sguardo, mordendosi le labbra.

«Di portarsi a letto l’umano, nella parte privata dei giardini Auglamyr?», domandò la Srinshee. Amaranthae si irrigidì, e la maga minuta aggiunse gentilmente: «Non disturbarti a mostrare quanto sei scandalizzata, ragazza: mezza Cormanthor conosce la sua carriera».

«Sappiamo anche qualcosa del potere della sua magia», esclamò pensieroso Naeryndam Alastrarra. «Probabilmente molto di più di quanto lei desideri farci sapere o sospettare. Se erano nel suo giardino, dubito che Elminster abbia poteri sufficienti per farle del male, con tutta la magia che ha a disposizione in quel luogo. Se la caccia all’uomo intrapresa da quelle teste di rapa li guiderà laggiù, loro potrebbero correre seri rischi».

Amaranthae voltò il capo per guardare il vecchio mago, la faccia e le labbra pallide. «Voi anziani sapete proprio tutto

«Abbastanza per intrattenerci», rispose seccamente la Srinshee, e Uldreiyn Starym annuì.

«È un errore comune dei giovani e dei vigorosi», affermò rivolto a tutti i presenti, «quello di credere che gli anziani si siano scordati di vedere, di pensare o di ricordare le cose, quando l’unica cosa che abbiamo scordato di fare è intimorire i giovani, spesso e seriamente, in modo che ci rispettino».

Lady Amaranthae emise un sospiro rumoroso che denotava tutta la sua ansia e disperazione. «Symma potrebbe essere morta», sussurrò, un attimo prima che Earynspieir la prendesse tra le braccia e la tranquillizzasse mormorando: «Andremo al giardino, a vedere di persona».

«Ma se non è in pericolo, si infurierà per la nostra intrusione», protestò la ragazza.

Il Coronal sollevò lo sguardo. «Ditele che il Coronal vi ha ordinato di accertarvi che sia incolume e lasciate che riversi la sua ira presso di me». L’anziano elfo sorrise e aggiunse tristemente: «Così probabilmente si perderà in una ridda di lamentele e di rimostranze».

Lord Earynspieir ringraziò silenziosamente il governatore, poi si alzò e condusse via la fanciulla turbata.

Lord Starym esordì severo: «Gli assassinii perpetrati tra noi da quell’uomo – o ritenuti opera sua da gran parte dei cittadini – minacciano il vostro progetto, Onorato Signore, di aprire la città ad altre razze. Soltanto voi sapete quanto profondamente avversasse quest’Apertura mia sorella Ildilyntra. Noi Starym ci opponiamo anche ora. Per amore di tutti gli dei, vi supplico, non costringeteci a farlo con la forza».

«Lord Uldreiyn, rispetto il vostro consiglio», rispose gentilmente il Coronal, «come ho sempre fatto. Voi siete l’arcimago più anziano della vostra casata, uno dei maghi più potenti di tutta Faerûn. Ma ciò vi rende abbastanza potente da resistere al vigore crescente degli uomini più avidi, la cui magia aumenta di anno in anno? Io sono ancora convinto – e desidero che anche voi ci riflettiate a lungo, per vedere se riuscite a giungere ad altre conclusioni – che dobbiamo trattare con l’umanità, in questo momento e alle nostre condizioni, oppure, tra qualche secolo, verremo sopraffatti e distrutti dagli uomini che si riverseranno a frotte nel nostro regno».

«Ci penserò», esclamò l’arcimago Starym, chinando il capo, «ancora una volta anche se ci ho già riflettuto, e non sono giunto alle vostre stesse conclusioni. Non può accadere che il Coronal si sbagli?»

«Naturalmente mi posso sbagliare», rispose Eltargrim con un sospiro. «Ho commesso molti errori in passato. Ma conosco il mondo oltre la foresta meglio di qualsiasi altro cittadino di Cormanthor, eccetto il giovane umano, naturalmente. Io vedo all’opera forze che a gran parte dei Cormyth anziani, nonché ai nostri giovani, sembrano pura fantasia. Quante volte nelle ultime lune ho udito voci a corte come “Oh, ma gli uomini non sarebbero mai in grado di fare ciò!” Che cosa credono che siano gli uomini, mucchi di pietre? Ogni tanto questi tengono una sorta di fiere della magia…»

«Vendono la magia? Come in una sorta di bazar?» L’arcimago increspò le labbra, incredulo e disgustato.

«Somiglia di più a un raduno familiare frequentato da molti maghi: umani, gnomi, mezzo sangue, e persino elfi di altre terre», gli spiegò il Coronal, «nonostante sia convinto che alcune pergamene e rari componenti magici vengano effettivamente venduti. Ma il ritornello della mia canzone è sempre il medesimo: all’ultima fiera che vidi, ai tempi in cui ero un guerriero errante, due maghi umani ingaggiarono un duello. Gli incantesimi che sferrarono erano di molto inferiori alla nostra Grande Magia, questo è vero, ma avrebbero comunque sbigottito e umiliato gran parte dei maghi di Cormanthor! È sempre un errore sottovalutare gli uomini».

«L’intera Casata Alastrarra credo sia d’accordo con ciò che affermate», si intromise Naeryndam. «Elminster ha portato la kiira più abilmente di quanto non sia ancora riuscito a fare il nostro erede. Non intendo denigrare Ornthalas, che sicuramente imparerà a comandarla tanto bene quanto Iymbryl prima di lui, ma devo ammettere che l’umano ha appreso più rapidamente».

«Troppo rapidamente, se queste notizie di morte sono vere», mormorò Uldreiyn. «Molto bene, continueremo a dissent…»

Il tavolo si illuminò di un improvviso bagliore scintillante, accompagnato dalle note di un corno distante. Lord Starym assunse un’espressione sorpresa.

«La mia messaggera si avvicina», gli spiegò il Coronal. «Quando le barriere sono attive, il suo passaggio attiva tale avvertimento».

L’arcimago Starym si accigliò. «“La mia messaggera?”» domandò. «Ma…»

La porta della stanza si aprì da sola, lasciando entrare una nuvola di fiamme turbinanti color bianco e verde pallido. Questa si sollevò e si assottigliò sotto gli occhi di Lord Uldreiyn, oscillando rapidamente fino a dissolversi per rivelare nel suo centro una ragazza elfa, con un elmo e un mantello screziato di grigio. «Ave, grande Coronal», esclamò in saluto.

«Che notizie portate, mia Messaggera?»

«L’erede della Casata degli Echorn è stato trovato morto in cima alla Roccia di Druindar, ucciso in una battaglia d’incantesimi, si pensa», rispose l’araldo con tono grave. «Casa Echorn vi supplica di concederle vendetta».

Il Coronal assottigliò le labbra. «Su chi?»

«Vogliono vendicarsi dell’armathor umano Elminster di Athalantar, uccisore di Delmuth Echorn».

Eltargrim batté una mano sul tavolo. «È un uomo solo, non una forza della natura! Come potrebbe aver mietuto vittime nella foresta e negli Hallows contemporaneamente?»

«Forse», affermò Lord Uldreiyn, «essendo un uomo, apprende rapidamente».

Mentre Naeryndam Alastrarra gli lanciò un’occhiata disgustata, la Srinshee sorprese tutti: «Delmuth è stato ucciso dal suo stesso incantesimo. Io ho seguito la lotta nel mio cristallo; egli ha distolto Elminster dai suoi studi e ha cercato di uccidere l’umano, che ha elaborato una magia in grado di rimandare a Delmuth i suoi stessi attacchi. Sapendo ciò, Echorn ha fatto l’errore di fidarsi del suo mantello e ha continuato la sua offensiva. Elminster lo ha pregato più volte di fare pace, ma gli è stata rifiutata seccamente. Non vi è alcuna colpa da vendicare; Delmuth è morto a causa del suo stesso piano e del suo stesso incantesimo».

«Un uomo non avvisato? Ha sconfitto un erede di una delle casate più antiche del regno?» Uldreiyn Starym era evidentemente scioccato. Fissò la Srinshee incredulo, ma quando la maga si limitò a scrollare le spalle, l’elfo scosse il capo e aggiunse: «Una ragione in più per fermare immediatamente le intrusioni umane».

«Quale risposta devo comunicare a Casa Echorn?», domandò la giovane messaggera.

«Di’ loro che Delmuth è l’unico responsabile della propria morte», rispose il Coronal, «e che ciò è stato testimoniato da un arcimago del regno, ma che investigherò ulteriormente».

L’araldo si inginocchiò, evocò intorno a sé le fiamme turbinanti e uscì.

«Quando prenderete questo Elminster, il suo cervello si scioglierà come cera per il tanto scrutare che si farà nella sua mente», osservò Lord Uldreiyn.

«Se i nostri giovani intrepidi ce lo lasceranno intero per farne qualcosa», ribatté Naeryndam.

L’anziano elfo sorrise e scrollò le spalle. «Quando», domandò al Coronal, «avete reclutato un araldo donna? Pensavo fosse Mlartlar l’araldo di Cormanthor».

«Lo era», rispose truce il governatore, «finché non si credette uno spadaccino migliore del suo Coronal. La vostra casata non è l’unica che si oppone al progetto di Apertura, Lord Starym».

«Ma dove l’avete trovata?», chiese tranquillamente Uldreiyn. «Con tutto il rispetto, la carica di araldo è sempre stata prerogativa delle famiglie antiche del regno».

«L’araldo di Cormanthor», s’intromise la Srinshee, «dev’essere innanzitutto fedele al Coronal: una qualità oggi impossibile da ottenere, a quanto sembra, nelle tre casate che si ritengono tali».

«Mi dispiace molto», affermò debolmente Lord Starym, impallidendo.

«Vennero interpellati tre candidati», ribatté fermamente la maga. «Due declinarono l’offerta, uno molto sgarbatamente. Il terzo – Glarald, della vostra casata, Signore – accettò, e venne messo alla prova. Ciò che scoprimmo nella sua mente è una questione fra noi e lui, ma quando egli seppe quello che avevamo appreso, tentò di colpire me e Lord Earynspieir con incantesimi».

«Glarald?», mormorò incredulo Uldreiyn Starym.

«Sì, Uldreiyn: Glarald dai facili sorrisi. Sapete in che modo sperava di sconfiggerci e ingannarci? Sottrasse uno degli incantesimi proibiti dalla tomba di Felaern Starym, e lo alterò per controllare non solo bacchette magiche e scettri da lontano – quali il vostro scettro della tempesta, che temo sia andato distrutto nel litigio – bensì anche le menti; le menti di due unicorni e di una giovane maga della Casata dei Dree».

Il viso di Lord Starym era diventato bianco come un lenzuolo. «Io – non riesco a credere – la sua amata, Alais?»

«Dubito che il suo affetto fosse tanto profondo», gli rispose seccamente la Srinshee, «ma amoreggiò con lei un tempo sufficientemente lungo per elaborare un incantesimo di sangue – altra magia proibita, naturalmente – e costringerla a sferrare incantesimi a suo comando. Lady Aubaudameira Dree, o “Alais”, come voi la conoscete, attaccò Lord Earynspieir nel bel mezzo della nostra indagine».

L’anziano signore degli Starym scosse il capo sbalordito. Il Coronal e Naeryndam confermarono con un cenno del capo le parole della maga.

«I suoi incantesimi erano formidabili», continuò Oluevaera. «Il nostro Supremo Mago di Corte deve la vita alla mia magia. Come pure Glarald, poiché Alais non fu affatto contenta di lui dopo che ruppi la sua schiavitù. Ci hanno pensato gli unicorni a punirlo; una volta indebolito dai miei incantesimi, non riuscì più a controllare la loro natura recalcitrante, e il suo intero sistema di contatti venne meno. E fu così che il Coronal ci guadagnò una messaggera».

«Quella era Alais?», chiese Lord Uldreiyn, scuotendo il capo e indicando la porta da cui era uscito l’araldo. «Ma era molto più…»

«Più procace?», terminò bruscamente la Srinshee al posto suo. «Infatti. Voi la vedeste quand’era già ridotta in schiavitù, ed era stata costretta a mutare il proprio corpo per soddisfare i gusti di Glarald».

Lord Starym chiuse gli occhi e scosse nuovamente la testa, come per scacciare quelle notizie spiacevoli. «Glarald è ancora vivo?», chiese lentamente.

«È ancora vivo», rispose grave il Coronal. «Sebbene sia profondamente ferito nello spirito. Gli unicorni non furono gentili, allora egli ricorse a uno degli scettri quando il suo controllo stava svanendo, e lo puntò contro di loro; essi, tuttavia, fecero in modo che il suo effetto si ritorcesse contro di lui. Ora si nasconde, e sta lottando contro la sua vergogna all’Albero di Thurdan, al confine meridionale del regno».

«Mi avete tenuto all’oscuro di tutto!», sbottò Lord Uldreiyn. «Perch…»

«Aspettate!», esclamò la Srinshee, con uguale rabbia, tanto che l’anziano elfo rimase a bocca aperta.

«Ne ho abbastanza, Lord!», continuò la maga con tono più controllato: «Le grandi casate del regno sbraitano per i loro diritti sull’inviolabilità della mente e degli affari individuali quando il Coronal o la Corte chiedono loro qualcosa in proposito, e poi si aspettano che violiamo tali diritti quando una questione li riguarda personalmente. Dunque noi non dobbiamo ficcare il naso nei vostri affari, mio signore, o in quelli dei vostri guerrieri o dei vostri cavalli o dei vostri gatti, ma dobbiamo rivelare a voi i fatti di un altro membro della vostra casata? Glarald non è vostro figlio né erede, e se sceglie di non confidarsi con voi, non sono – come voi stesso e i portavoce di Casa Echorn e Casa Waelvor hanno pungentemente ribadito in molte occasioni – affari vostri».

Uldreiyn la fissò, ammutolito.

«Da quando ci siamo incontrati stasera», continuò la Srinshee, «desiderate ardentemente chiedermi della scomparsa delle mie rughe, e vi state lambiccando il cervello per trovare un modo gentile d’introdurre la domanda nel discorso senza dover essere troppo diretto. Sapete infatti che non sono affari vostri. Voi rispettate la regola, e vi aspettate che noi facciamo altrettanto, finché però la nostra osservanza non vi disturba, allora ci chiedete di infrangerla. E tuttavia vi domandate perché la Corte consideri nemiche le tre casate più anziane, in particolare, e tutte quelle importanti, in generale».

Lord Starym socchiuse gli occhi, sospirò, e si appoggiò allo schienale della sedia. «Io non posso non dar credito alle vostre parole, né difendermi», affermò con tono grave. «In questo, siamo colpevoli».

«Per quanto riguarda i progetti di Glarald, in particolare il suo uso ambizioso, creativo e proibito della magia», continuò inesorabilmente Oluevaera, «questo è il genere di cose di cui sono capaci i nostri giovani, Mio Signor Uldreiyn, mentre voi e i vostri familiari non fate altro che screditare i nostri sogni d’Apertura, e vi aggrappate a false concezioni della purezza e della nobiltà d’animo della Gente».

«Preferite essere rovesciato dall’interno, grande Lord, o assalito dall’esterno?», domandò mite Naeryndam Alastrarra.

Lord Starym lo fissò, poi emise un sospiro e asserì: «Mi sono quasi convinto, ascoltando voi tre, che le casate antiche rappresentino per Cormanthor il pericolo maggiore. Quasi. Rimane il fatto, Onorato Signore, che voi tollerate la presenza di un uomo nel cuore del regno, e fin dal suo arrivo abbiamo assistito a una serie di uccisioni, a un’ondata di violenza inaudita che non si verificava da quando l’ultima orda di orchi fu tanto sciocca da oltrepassare i nostri confini. Che cosa avete intenzione di fare per impedire un ulteriore spargimento di sangue?»

«Non esiste quasi nulla che possa fare a questo proposito», rispose il Coronal con voce triste. «Le teste calde che erano alla festa quando Elandorr è scomparso stanno dando la caccia all’umano proprio mentre parliamo. E, se lo trovano, qualcuno troverà anche la morte».

«E quel qualcuno, temo verrà depositato sulla vostra soglia», osservò Uldreiyn Starym. «Insieme agli altri».

Eltargrim annuì. «Questo, mio signore», affermò stanco, «è ciò che significa essere il Coronal di Cormanthor. Talora penso che le casate antiche del regno se lo siano dimenticato».


Uno degli elfi si fermò bruscamente. «Quello è il Castello Fantasma dei Dlardrageth!»

«E allora?», domandò freddo Ivran Selorn. «Abbiamo forse paura dei fantasmi?»

Si erano fermati, e alcuni giovani guardarono Ivran un po’ turbati.

«Mio nonno mi ha detto che reca una terribile maledizione», affermò riluttante Tlannatar Wrathtree, «che ricade su chiunque vi metta piede».

«I fantasmi in agguato nel castello», s’intromise un altro elfo, «non temono né la spada né gli incantesimi».

«Sciocche menzogne!», rise Ivran. «Perché mai Ylyndar Starscatter avrebbe portato le sue donne in questo luogo per sei estati di seguito? Pensate che l’avrebbe fatto se i fantasmi avessero rappresentato una minaccia?»

«Già, ma Ylyndar è uno dei maghi più folli di tutta Cormanthor! Crede persino nei mythal del vecchio Mythanthar! E una delle sue donne non ha forse tentato di mangiarsi la propria mano?»

Ivran emise un suono aspro. «Come se ciò avesse qualcosa a che fare col quel castello!» Rise nuovamente, lanciò la spada in aria, la riprese e aggiunse: «Bene, voi femminucce fate come vi pare, io ho intenzione di fare a pezzi quel piccolo uomo, per regalarne alcuni a Sua Pazzia il Coronal, e a Casa Waelvor, e appenderne altri nella mia sala dei trofei!»

Poi riprese a correre, urlando e facendo mulinare la spada sopra la testa. Dopo qualche istante di esitazione, Tlannatar lo seguì, e lo stesso fecero altri due. Un altro paio di elfi si guardarono, si strinsero le spalle, e s’incamminarono, sebbene un po’ più cautamente. Lo stesso fecero gli ultimi tre rimasti.


Elminster sollevò all’improvviso lo sguardo. Una spada di metallo che colpisce una roccia emette un suono particolare, sufficiente a far alzare da terra un uomo inseguito, a fargli chiudere il libro degli incantesimi che sta leggendo e a indurlo ad ascoltare attentamente. Elminster sorrise. Anche un elfo che impreca contro un altro produce un rumore particolare.

Cercò di ricordare ciò che gli aveva detto la Srinshee sulla pianta del castello. Ma invano, purtroppo, sapeva solo che la camera in cui si trovava era “nel suo cuore”. Hmm. Gli elfi potevano essere a pochi passi da lui, o a un’ora di vagabondaggi. Che lo stessero cercando, era evidente: per quale altra ragione uno di loro avrebbe intimato a un altro di fare silenzio?

El rimase in ascolto, il libro sotto braccio, pensando al da farsi. Avrebbe potuto teletrasportarsi – una volta sola – invocando lo scettro, ma al momento non aveva la possibilità di recuperare l’incantesimo adatto. L’unico luogo a Cormanthor nel quale poteva pensare di recarsi era la Volta dei Secoli, ma chi sapeva quali difese avrebbe avuto per impedire ai ladri di entrare e uscire a piacimento? Forse, sarebbe stato meglio nascondersi. Quanto più si fosse macchiato le mani di sangue, tanto più difficile sarebbe stato per i suoi amici rimanere tali, e permettergli di restare per compiere l’opera che Mystra gli aveva affidato. Non sarebbe stato, tuttavia, molto facile nascondersi dagli elfi agili e accorti; la dea gli aveva insegnato un incantesimo mortale, non una decina. Avrebbe dovuto tuffarsi in mezzo a una banda accanita di cacciatori d’uomini, toccarne uno e uccidere.

Una forma spettrale sfrecciò oltre la sua testa, seguita dall’eco di ciò che poteva essere una risata selvaggia, e l’ultimo principe di Athalantar ghignò improvvisamente. Naturalmente! Avrebbe assunto le sembianze di un fantasma!

Fece due rapidi passi per vedere dove sarebbe svanito lo spettro, e fu ricompensato: in alto su un muro vi era una fessura; troppo piccola per lui, ma non per il libro.

Se avesse recitato l’incantesimo come gli aveva indicato Myrjala, avrebbe potuto passare dalla forma solida a quella di fantasma, e viceversa, per brevi periodi, tornando umano per non più di nove secondi alla volta, o forse meno. Un tempo più lungo avrebbe rotto l’incantesimo, e se fosse divenuto tale per la quarta volta, sarebbe terminata anche la magia.

El si trasformò in un’ombra svolazzante e sali verso il soffitto. Quando raggiunse la fessura udì un rumore strascicato provenire da molto vicino, come di un piede che scivolava sulla roccia. Evidentemente non aveva tempo da perdere.

Un essere scuro ma dal volto pallido uscì dall’oscurità, apparentemente infuriato. El si dimenò e quasi cadde per lo spavento, ma poi si scostò. Il fantasma eseguì un’agile capriola, poi corse via e sparì dietro un angolo, diretto in altre stanze. Evidentemente i Dlardrageth tolleravano gli spettri intrusi ancor meno dei mortali.

Raggiunta finalmente la fessura, El vi si insinuò, e si ritrovò in una stanza angusta: erano i resti di un locale molto più grande, il cui soffitto era crollato molto tempo addietro. Tra le macerie vi erano ossa, ossa di elfi, ed El iniziò a dubitare che i fantasmi lo avrebbero lasciato in pace se si fosse soffermato troppo a lungo in quel luogo. Tuttavia non aveva alternative. Si guardò attorno, l’aria sembrava satura di una debole foschia purpurea. Che cosa poteva essere? Magia, sì, ma di che tipo?

Qualsiasi cosa fosse, Elminster non avvertì effetti strani, e rimase un’ombra immateriale, fluttuante. Decise allora di spostarsi all’estremità opposta della piccola stanza.

Oltre il muro più distante, attraverso le cavità che un tempo sostenevano le travi, un fantasma poteva raggiungere un’altra stanza enorme: una stanza a cielo aperto, sul cui muro il primo elfo si stava arrampicando prudentemente, con la spada sguainata. Selorn, se la memoria del principe non l’ingannava: un giovane assetato di sangue.

A un’estremità della stanza crollata vi era un buco frastagliato, attraverso il quale si sarebbe potuto tuffare, se avesse voluto morire sulle pietre rotte sottostanti. Da esso El poté vedere la via che collegava la stanza aperta, in cui si trovava Ivran, e la camera in cui stava studiando poco prima. Il buco si apriva su una cascata di rovine che si riversava in una stanza rotonda, un tempo alla base di una torre ormai crollata. Un corridoio partiva dalla stanza di Ivran, raggiungeva un’anticamera, e di lì attraversava la stanza della torre, dalla quale si snodava a sua volta uno stretto passaggio colmo di detriti, che terminava nella stanza in cui era nascosto il libro degli incantesimi di El. Il percorso non era lungo, e Ivran, coraggioso e zelante, si muoveva con estrema rapidità.

Al principe di Athalantar rimaneva molto poco tempo. El si inginocchiò nella stanza delle ossa, tornò alla forma solida e si abbassò i pantaloni.

L’unico retaggio dei suoi giorni da ladro era ciò che portava sempre sotto i vestiti: una corda incerata, nera, lunga e sottile, avvolta intorno alla vita. La srotolò e la calò per gran parte della sua lunghezza fuori dalla fessura, legandone un’estremità a una trave scheggiata del soffitto della stretta stanza in cui si trovava. Tenendosi i pantaloni con una mano, El divenne nuovamente fantasma, e tornò dal libro degli incantesimi.

Mentre riassumeva forma umana e legava l’estremità libera della fune più volte attorno al libro, i rumori furtivi che provenivano dai corridoi gli indicarono che Ivran e gli altri cacciatori stavano già entrando nella stanza della torre: pochi passi nella giusta direzione e avrebbero potuto vederlo, mentre legava febbrilmente la corda attorno a un libro, con i pantaloni abbassati alle caviglie.

Allora assunse di nuovo le sembianze di un fantasma e spiccò una sorta di balzo nell’aria, salendo rapidamente verso la fessura.

Tornato nella stanza delle ossa, El ridivenne solido e iniziò a recuperare la corda, ansimando per la fretta. Non gli rimaneva molto tempo prima che la magia svanisse, perciò una volta tratto in salvo il libro, si allacciò i pantaloni e tornò ombra, lasciando libro e corda per dopo.

Sotto forma di nebbia impalpabile sbirciò dalla fessura. Ivran stava entrando nella stanza proprio in quel momento. L’elfo aveva notato la nuvola di polvere proveniente dalla parete sbrecciata, ed El si ritirò rapidamente prima che potesse guardare in alto e vederlo. Poi fluttuò nell’oscurità, cercando di pensare alla prossima mossa, che sarebbe stata probabilmente determinata da quella degli inseguitori.

Ma un istante più tardi il principe si ritrovò a gambe all’aria nella stanza dal soffitto crollato, tremante e infreddolito: il fantasma, quello vero, che lo aveva ridotto in tale stato passandogli attraverso si stava dirigendo brontolando nella stanza piena di elfi.

Si udirono urla, e si vide il bagliore di un incantesimo. El sorrise truce e passò attraverso la cavità della trave nell’altra stanza, per aleggiare intorno al castello e rendersi conto di ciò che lo aspettava.

La scoperta non fu affatto rincuorante. Il castello era una rovina imponente, ma pur sempre una rovina; l’unico vano non ostruito era nella stanza della torre che già aveva visto, e non meno di nove elfi, con spade sguainate e un numero indefinito di incantesimi nelle maniche, si stavano aggirando furtivamente nella fortezza, un tempo splendida, dei Dlardrageth. Almeno tre fantasmi li stavano seguendo come pipistrelli tenebrosi, tra picchiate e giravolte, incapaci in realtà di far loro alcun male.

Il vero problema, tuttavia, era costituito dai quattro maghi elfi seduti su una collina non lontana dalle rovine, e dalla potente barriera che avevano creato sull’intera area: la fonte della foschia apparsa quand’era entrato nella stanza delle ossa. Il castello ne era completamente circondato.

El tornò nella stanza angusta, e riassunse la sua forma normale. Appoggiò la schiena sulle dure macerie, e sospirò più piano possibile; per un po’ non avrebbe più potuto diventare un fantasma.

Estraendo lo scettro dalla cintola, lo sollevò nell’aria e ne attivò cautamente i poteri. Il formicolio che gli percorse le dita indicò che gli elfi stavano usando un sortilegio che poteva individuare quelli dell’oggetto magico – il che venne immediatamente confermato da un urlo proveniente da sotto -, ciononostante, lo scettro fece ciò di cui El aveva bisogno. Nell’immagazzinare un duplicato della foschia purpurea che avvolgeva il castello, esso gli indicò che cosa fosse: un campo di sorveglianza che avrebbe trasformato un incantesimo di teletrasporto, o qualsiasi altra magia simile, in fuoco devastante nel corpo dell’artefice.

Il principe era intrappolato nel castello, a meno che non fosse riuscito a fuggire a piedi o a memorizzare un altro sortilegio, o a sbaragliare quei cacciatori tanto ansiosi di ucciderlo, ma solo per imbattersi nei quattro maghi, altrettanto pronti e desiderosi di distruggerlo.

El rifletté attentamente sul da farsi. Lo scettro era inattivo, di nuovo infilato nella cintura; lui era disteso nella penombra, fra le macerie, tra ossa elfe frantumate e il groviglio di una fune legata al libro degli incantesimi, con la struttura pericolante di un soffitto semicrollato a pochi centimetri dal naso. Gli elfi erano di nuovo nella stanza sotto di lui a discorrere ad alta voce sui possibili nascondigli, e a scostare macerie con la punta della spada. L’uso dello scettro aveva rivelato loro che Elminster era molto vicino; presto avrebbero pensato di scavare, o di arrampicarsi.

«Mystra», sussurrò El, chiudendo gli occhi, «aiutami. Sono in troppi, e troppa è la magia; se ora cerco battaglia, molti moriranno. Che cosa devo fare? Guidami, Grande Signora dei Misteri, affinché non metta il piede in fallo durante questa missione».

Era la sua immaginazione, oppure ora stava fluttuando, uno o due centimetri sopra le macerie? La preghiera appena mormorata sembrò diffondersi nelle vaste e oscure distanze della sua mente, e qualcosa di nero sembrò venirgli incontro dal vuoto, roteando su se stesso mentre si avvicinava. Qualcosa di liscio, di lucido e di piccolo: la kiira! La gemma del sapere della Casata degli Alastrarra!

Ma non era ormai fissa sulla fronte di Ornthalas Alastrarra? Eppure si stava dirigendo verso di lui, sempre più grande, fino ad avvolgerlo. Al che El iniziò a scivolare nel suo interno scuro e vorticante. Quello doveva essere il suo ricordo della kiira, mescolato alla marea di memorie della gemma stessa.

Oh Mystra carissima, proteggimi! Quel pensiero lo gettò in caos crescente: eco mentali imperfette e spettrali di ciò che ricordava della kiira gli venivano strappate dalla mente, ma continuavano ciò non di meno ad assillarlo. Il principe cercò di voltarsi e fuggire, ma per quanto si sforzasse, si ritrovava a correre sempre verso l’onda incessante di ricordi, sempre più vicina: ora era sopra di lui!

«Quel borbottio era un discorso umano! Dev’essere da qualche parte lassù!» Tali parole elfe, profonde e riecheggianti, sembrarono avvolgerlo da ogni parte.

Nel caos stridente e accecante che seguì quella voce assordante Elminster Aumar sputò sangue dalla bocca, dal naso, dagli occhi, e dalle orecchie, e sprofondò, fluttuando, nell’oblio oscuro…

12. Il cervo è alle strette

Il momento più pericoloso della caccia al cervo è quando l’animale, alle strette, si volta, deciso a barattare la sua vita per quella del maggior numero possibile di cacciatori. La magia elfa solitamente trasforma quegli istanti in semplici occhiate di magnifica futilità. Ma sarebbe lo stesso, mi chiedo, se il cervo avesse conosciuto una magia potente?

Shalheira Talandren, Sommo Bardo Elfo di Summerstar

Da Spade argentee e notti d’estate:

Una storia ufficiosa ma vera di Cormanthor

Pubblicata nell’Anno dell’Arpa

«Mi sta venendo addosso! Distruggilo!»

La voce dell’elfo era terrorizzata e strappò Elminster dall’oscurità fluttuante. Il giovane si ritrovò madido di sudore, ancora steso nella stanza angusta delle ossa.

Vi fu un ruggito di fiamme alla sua destra, e una pungente lingua di fuoco lambì per un attimo il soffitto pochi centimetri sopra il suo naso. El socchiuse gli occhi, cercando di vedere: un lato della faccia gli parve scottato.

Quando si fidò ad aprire nuovamente gli occhi, il fuoco era scomparso. Tre sfere luminose dall’aspetto soffice stavano fluttuando oltre la fessura, nella parte alta della stanza in cui aveva studiato con la Srinshee. Grazie alla loro luce poté vedere l’elfo che aveva urlato. Era sollevato da terra all’altezza della fessura, la spada nella mano, tuttavia levitava, non era sospeso di sua volontà. Attorno a lui, appena fuori dalla portata dell’arma pungente, svolazzava uno dei fantasmi dei Dlardrageth: l’incantesimo delle sfere di fuoco non era riuscito a distruggerlo.

Se i sortilegi comuni o di facile attuazione avessero potuto annientare i resti spettrali di Casa Dlardrageth, ovviamente i fantasmi sarebbero stati distrutti molto tempo addietro, e qualche nuova casata ambiziosa avrebbe ora abitato il castello. Esistevano, dunque, poche possibilità che uno dei giovani elfi avesse il potere di distruggere un fantasma Dlardrageth.

D’altra parte, la creatura spettrale era in grado solo di spaventare, o poco più, gli elfi vivi, e uno di essi si trovava abbastanza vicino a Elminster da potergli sferrare un incantesimo mortale, malgrado la fessura tra loro fosse troppo piccola per lasciarlo passare.

El allungò cautamente un braccio e afferrò silenziosamente il libro degli incantesimi. Non avrebbe dovuto far altro che trascinare il groviglio di corda attaccato ad esso, mentre strisciava il più lontano possibile dalla fessura.

Nonostante sentisse il corpo dolorante, come fosse stato smembrato e poi ricomposto, pezzo per pezzo, Mystra era venuta in suo aiuto. L’aveva trascinato attraverso un’infinità di ricordi alastrarrani fino a ciò che la sua mente da mago aveva immagazzinato chiaramente, nelle profondità della memoria: gli incantesimi contenuti nella gemma del sapere.

Ve n’era uno che non osava utilizzare: il suo prezzo era troppo alto. Metterlo in atto avrebbe significato cancellare dalla sua mente tre degli incantesimi più potenti e dar fondo alle energie dello scettro, ma ora tale sortilegio era necessario.

Con un sospiro Elminster fece ciò che doveva, rabbrividendo silenziosamente quando un nugolo di scintille sembrò inondargli la mente, portando via con sé alcuni incantesimi. Grazie al cielo non dovette destare nuovamente lo scettro per assorbirne il potere. Quando il nuovo incantesimo splendette luminoso dentro di lui, El cercò la nicchia più profonda del locale, in un angolo lontano della stanza collassata, e v’infilò il prezioso libro. Tirando la fune staccata dal tomo, verificò che l’estremità opposta fosse ancora saldamente ancorata alla vecchia trave del soffitto, poi gettò la matassa giù dalla cascata di pietre nella stanza della torre, e scese il più silenziosamente possibile.

Pietre e sassi rotolarono e rimbalzarono inevitabilmente, ma l’elfo levitante stava sbraitando tanto forte nella sua battaglia col fantasma che nessuno udì l’acciottolio. El raggiunse il fondo, riavvolse la matassa di corda, vi fece un nodo affinché non si rovinasse e la lanciò indietro, il più in alto possibile, sulle rocce franate, nella speranza che nessuno la vedesse.

Senza volare e senza una luce forte ciò era quasi impossibile, pensò. Dopo aver fatto un respiro profondo, iniziò il primo incantesimo: una semplice barriera, come quella usata contro Delmuth. Era tempo di affrontare la banda di Ivran.

L’incantesimo avverti gli elfi che una magia era appena stata sferrata e si udì un urlo violento provenire dalla stanza in cui stavano cercando Elminster. Presto sarebbero sbucati dallo stretto corridoio: era tempo di dar loro il benvenuto.

Il principe di Athalantar si mostrò all’imboccatura del passaggio per il tempo sufficiente ad assicurarsi che l’elfo levitante non stesse tentando di trovare una via attraverso il soffitto, ma vide che stava scendendo rapidamente. Bene. El fece un cenno gentile all’elfo più vicino, e rimase in attesa.

«Mi ha salutato!», esclamò ansioso l’elfo, dopo essersi bruscamente fermato.

Il compagno dietro di lui, Tlannatar Wrathtree, gli diede un colpetto con la parte piatta della spada e ringhiò: «Va’ avanti!»

L’elfo esitò. El gli fece un sorriso tutto denti e accennò un gesto quasi affettuoso.

L’avversario si fermò, e iniziò a indietreggiare. «Mi ha…»

«Non m’importa!», abbaiò Ivran, dalla stanza. «Non m’importa nemmeno se gli stanno crescendo ali trasparenti di sterco di gnomo! Muoviti!»

«Procedi!», aggiunse Tlannatar, spingendolo ancora con la spada, questa volta con la punta.

Il tutt’altro che impavido elfo gridò e s’incamminò frettolosamente. El diede un’ultima occhiata a quel passaggio: sarebbe stato facile sferrare un fulmine proprio in quel momento, ma uno dei cacciatori indossava sicuramente un mantello protettivo che avrebbe respinto tali incantesimi, perciò preferì indietreggiare. Attraversò la stanza della torre verso l’altro corridoio, e rimase in piedi sulla soglia. Nessuno di quei nobili cormanthoniani sembrava avere archi: lasciavano tali armi ai comuni guerrieri, grazie a Mystra. O a Corellon. O a Solonor Thelandira, il dio della caccia. O a qualsiasi altro dio.

Tuttavia, avrebbe dovuto sincronizzare perfettamente le sue mosse; ormai si era esposto, e avrebbe avuto una sola occasione. Con un sorriso truce stampato in volto attese che Tlannatar e l’elfo pauroso alla testa del gruppo uscissero allo scoperto nella stanza della torre e lo vedessero, prima di voltarsi e correre lungo i passaggi comunicanti, verso la stanza diroccata attraverso la quale i cacciatori erano entrati nel castello.

«Se non funziona, Mystra», osservò tranquillamente mentre correva, «a Cormanthor dovrai mandarci qualche altro Eletto. Se vuoi fargli un favore, scegli un elfo, d’accordo?»

Mystra non diede segno di aver udito, ma per allora El aveva raggiunto la stanza desiderata, e si stava dirigendo al cumulo di rocce che si ergeva nel centro. Gli elfi, rapidi come di consueto, gli erano alle calcagna.

El trovò un punto adatto e si voltò per affrontarli, assumendo un’espressione ansiosa e sollevando le mani come se fosse incerto sull’incantesimo da sferrare. I cacciatori giunsero di corsa nella camera, agitando le spade, e si arrestarono di colpo.

«C’è qualche cosa che non va: non sembrava tanto spaventato un attimo fa. Dev’essere un tranello», affermò con aria incerta l’elfo che aveva guidato il gruppo lungo il primo passaggio angusto.

«Silenzio!», ringhiò Ivran Selorn, spingendo da parte il collega. L’elfo pauroso scivolò sulle pietre rischiando di cadere, ma Ivran non vi prestò attenzione. Era il suo momento di gloria; avanzò verso l’uomo senza fretta, quasi danzando sulle punte dei piedi. «Dunque, ratto umano», sibilò, «sei finalmente con le spalle al muro, vero?»

«Tu lo sei», ribatté Elminster con un sorriso. L’elfo piagnucolone sollevò un nuovo grido d’allarme, ma Ivran lo zittì immediatamente e rivolse a El un sorriso senz’allegria.

«Voi barbari pelosi vi credete intelligenti», commentò, gli occhi luminosi, «e lo siete fin troppo. Sfortunatamente, negli stupidi l’intelligenza crea soltanto insolenza. Tu ne hai mostrata parecchia e sei stato tanto sfacciato da pensare di poter uccidere – e cavartela senza pagare – gli eredi di non meno di dieci casate di Cormanthor: undici, se contiamo Alastrarra, del quale portavi la gemma del sapere quando ti sei introdotto nel nostro regno; chi ci assicura che non hai ucciso Iymbryl per ottenerla? Inoltre, chi detiene il titolo di armathor serve Cormanthor diligentemente per tutta la vita e uccide meno nemici di quanti tu ne abbia già assassinati».

Con un’esagerata aria di sorpresa, Selorn guardò i compagni e poi ancora Elminster. «Vedi? Qui ce ne sono molti altri. Che splendida opportunità di allungare il tuo elenco! Perché non attacchi? Hai forse paura?»

Elminster abbozzò un mezzo sorriso. «La violenza non è mai stata propria di Mystra».

«Oh, davvero?», esclamò Ivran, la voce acuta e incredula. «Che cos’era quell’esplosione alla piscina? Un fenomeno naturale, forse?»

Con un sorriso serrato e crudele, ordinò agli altri di circondare Elminster, ed essi ubbidirono silenziosamente, mantenendosi a debita distanza dall’uomo. Poi il leader della banda si voltò verso la sua preda e affermò: «Lascia che ti elenchi i nomi degli eredi che hai ucciso, oh potente armathor: Waelvor, e un sanguinoso raccolto alla piscina: Yeschant, Amarthen, Ibryiil, Gwaelon, Tassarion, Ortauré, Bellas e – ho udito dai maghi – anche Echorn e Auglamyr!»

Ivran avanzò ancora, lentamente, lanciando in aria la sua lunga ed esile spada, per poi riprenderla con estrema destrezza, ed Elminster intuì che l’avrebbe presto lanciata. «Anche per l’uccisione di uno solo di quegli eredi, per non parlare della dozzina di servi e di guerrieri che hai atterrato lungo la strada, si merita la morte, umano. Anche per uno solo! Ora ti abbiamo finalmente in pugno e dobbiamo risolvere il difficile problema di come ucciderti adeguatamente dieci volte, o forse undici?»

Selorn si avvicinò ulteriormente al principe. «Due dei cavalieri da te assassinati erano amici miei. E tutti noi siamo rattristati dalla perdita di Lady Symrustar, le cui promesse ci allietavano da tre anni a questa parte. Li hai strappati da noi, verme umano. Hai qualcosa di inutile da dire a tua discolpa? Qualcosa per intrattenerci mentre ti facciamo a pezzi

Mentre urlava quelle ultime parole, Ivran si lanciò all’attacco, scagliando la sua spada in una foschia argentea. Era diretta a colpire la mano di El e a rovinare il suo incantesimo, prima che gli altri elfi, balzando da tutte le direzioni, lo raggiungessero.

Con un sorriso torvo sul volto, Elminster elaborò l’incantesimo, e divenne una colonna vorticante di scintille bianche. Gli elfi sbatterono l’uno contro l’altro, affondando le lame; si piegarono per il dolore, e urlarono, oppure iniziarono a tossire afferrati all’elsa delle spade conficcate fino in fondo nei loro corpi, e vomitarono sangue sul pavimento.

La colonna turbinante di scintille bianche cominciò ad allontanarsi, diretta verso il passaggio da cui El era entrato. Ringhiando affannosamente, con due spade non sue fuoriuscenti dal corpo, Ivran urlò: «Uccidete l’umano! Usate l’incantesimo della punta di spada!»

La sua ultima parola venne soffocata da una bolla di sangue e un elfo ferito alla fronte, il più timoroso della banda, si affrettò a sostenere il vacillante Ivran, le mani cariche di magia guaritrice.

Tlannatar Wrathtree seguì l’ordine del capo e gridò: «Ho l’incantesimo! Lanciate la spada in alto

Obbedienti, gli elfi che ancora potevano gettarono spade e pugnali in aria, sopra le loro teste. Il sortilegio, che creò stelle di forza di colore blu-bianco attorno alle mani di Tlannatar, prese possesso delle armi e le inviò, raggruppate in uno sciame mortale, attraverso la stanza.

La colonna bianca turbinante si fermò all’entrata del passaggio, e le spade e i pugnali deviarono dalla loro traiettoria, la aggirarono, e con rinnovata velocità tornarono da dove erano venuti come una gragnola di dardi assassini, lanciati in ogni direzione. Tlannatar urlò quando una lama lo colpì all’orecchio, e cadde con la bocca ancora aperta. Ivran, sostenuto dal suo guaritore, venne colpito alla gola e sputò sangue verso il soffitto in un ultimo grido, e un altro elfo cadde, trafitto da una spada nella parte più lontana della stanza. Fece due passi incerti verso il cumulo di rocce dietro cui stava cercando rifugio, poi vi cadde sopra e rimase immobile, per sempre.

Quando la colonna di luci e scintille bianche scomparve nel corridoio e nella stanza ripiombò il silenzio, l’elfo pauroso si guardò intorno. Era l’unico sopravvissuto, nonostante qualcuno stesse gemendo flebilmente accanto a un muro.

Stordito dal dolore, fece qualche passo in quella direzione, sperando che l’unico incantesimo guaritore rimastogli fosse sufficiente. Ma quando raggiunse il compagno, questi era immobile e silenzioso. L’elfo lo scosse e sussurrò il suo nome, ma dalla bocca esanime non giunse alcuna risposta.

«Quanti di noi», domandò alla stanza vuota con voce tremante, «dovranno sacrificarsi per comprare la vita di un solo umano? Padre Corellon! Quanti?»


Energia allo stato primitivo stava pervadendo il corpo di Elminster – più di quanta ne avesse mai sperimentata al di fuori dell’abbraccio di Mystra – e il giovane si sentì più forte, più caldo e più potente attimo dopo attimo. Mentre vorticava, la foschia purpurea evocata dai maghi veniva assorbita dentro di lui, conferendogli potere: selvaggio, libero e magnifico!

Ridendo incontrollabilmente, il principe di Athalantar si sentì sempre più alto e brillante, a mano a mano che si sollevava dalla base in frantumi della torre.

Era cosciente anche del fatto che i quattro maghi stavano fuggendo in preda al panico. Allora vorticò nella loro direzione, ebbro del suo potere, desideroso di uccidere, di distruggere e…

I maghi stavano recitando un incantesimo all’unisono. El si protese verso di loro, cercando di raggiungerli prima che potessero scappare, o fare qualsiasi altra cosa stessero tentando di fare, ma nella sua forma vorticante non riusciva a procedere rapidamente come avrebbe voluto. Cercò di chinarsi e di spazzarli via, ma non riuscì ad abbassarsi a sufficienza, poiché la rotazione lo rispedì verso l’alto. Ora si stava avvicinando nuovamente, stava…

Troppo tardi. I quattro elfi riabbassarono le mani lungo i fianchi – mani infuocate – e rimasero a guardarlo, in attesa. Non accennavano a fuggire, né sembravano allarmati.

Un istante più tardi Faerûn esplose ed Elminster si sentì torcere e scagliare in tutte le direzioni, come erba spazzata da un vento violento. «Mystra!» gridò, o perlomeno tentò di farlo, ma non vi era altro che il ruggito e le luci, ed El stava precipitando: molti El stavano precipitando, su molte cime di alberi…


«E poi che cosa accadde?» La voce del Supremo Mago di Corte Earynspieir era carica di rabbia e di esasperazione. Perché, oh Corellon dimmi perché, i giovani del regno devono essere tanto assetati di sangue?

Il mago elfo tremante davanti a lui iniziò a piangere, e s’inginocchiò implorando pietà.

«Oh, alzati!», esclamò disgustato Lord Earynspieir. «Ormai è fatta. Sei sicuro che l’umano sia morto?»

«L’abbiamo fatto esplodere, Si… signore», blaterò un altro mago. «Dopodiché ho controllato eventuali usi di magia o la presenza di creature invisibili, ma non ne ho trovato tracce».

Earynspieir annuì con fare quasi assente. «Chi è sopravvissuto della banda che entrò nel castello?»

«Rotheloe Tyrneladhelu, Signore. Non… non è ferito, ma non ha ancora smesso di piangere. Dev’essere uscito di senno».

«Dunque abbiamo otto morti e un sofferente», concluse freddo il mago supremo, «e voi quattro illesi e trionfanti». Diede uno sguardo alle rovine del castello. «Ma nessuna prova che l’umano sia morto. Davvero una grande vittoria».

«Be’, lo è stata!», urlò il quarto mago, colto da una furia improvvisa. «Non vi ho visto qui, gomito a gomito con noi, mentre sferravamo incantesimi all’Ammazzaeredi! È uscito vorticante dal castello, come una sorta di dio, una colonna mortale di fuoco e scintille, alta più di trenta metri, che lanciava incantesimi in tutte le direzioni! La maggior parte degli elfi sarebbero fuggiti, ve lo giuro, ma noi quattro siamo rimasti, abbiamo mantenuto la calma e l’abbiamo abbattuto! E…», guardò le facce silenziose e cupe dei maghi e delle maghe di corte, e delle guardie attorno a lui, queste ultime tutti eroi di guerre passate, i loro volti inespressivi segnati dal tempo, e terminò in modo poco convincente: «… sono fiero di ciò che abbiamo fatto».

«Ne prendo atto», affermò Earynspieir ironicamente. «Sylmae? Holone? Ipnotizzate questi quattro, e Tyrneladhelu, per vedere che cosa rimane della sua mente. Dobbiamo sapere la verità». Il mago si voltò, e le colleghe annuirono.

Quando le maghe avanzarono, uno dei maghi sollevò le mani, e attorno a esse comparvero anelli rossi di fuoco. «State indietro, sgualdrine», esclamò l’elfo con tono d’avvertimento.

Sylmae increspò le labbra. «Saresti molto meno bello con quei cerchi di fuoco sul di dietro, giovanotto presuntuoso. Finiscila con le sciocchezze, altrimenti Holone e io ci arrabbieremo seriamente».

«Osate frugare nella mia mente? Nella mente di un erede?»

Sylmae scrollò le spalle. «Naturalmente. Agiamo nell’autorità del Coronal».

«Quale autorità?», sibilò il mago facendo un passo indietro, le fiamme sempre intorno alle mani. «Tutto il regno sa che il Coronal è impazzito!»

Il Supremo Mago di Corte si voltò lentamente, una figura esile ma minacciosa nella tunica nera, e affermò grave: «Dopo che il tuo sedere avrà assaggiato le fiamme di cui vai tanto fiero, Selgauth Cathdeiryn, e la tua mente sarà stata esaminata a fondo, sarai condotto dal Coronal sotto scorta. In tal modo sarai libero di fare tale osservazione all’Onorato Signore in persona. Se sei saggio, avrai l’accortezza di farlo con più gentilezza».

Galan Goadulphyn guardò la superficie dello specchio d’acqua un’ultima volta, e sospirò. Se fosse stato meno orgoglioso avrebbe versato qualche lacrima, ma era un guerriero di Cormanthor, non una di quelle femminucce blese e profumate che le casate nobili osavano chiamare eredi. Lui era duro come la roccia, come le radici di un vecchio albero. Avrebbe sopportato senza lamentarsi e si sarebbe risollevato. Un giorno.

La figura riflessa dall’acqua non era per nulla ispiratrice. Il suo volto era una maschera di sangue secco, la linea sottile della mandibola era sfigurata nel punto in cui un brandello di pelle penzolante rendeva il suo mento squadrato come quello di un umano. La punta di un orecchio era scomparsa, e i capelli erano arruffati come le zampe di un ragno morto, le ciocche impastate nelle croste scure che coprivano i solchi provocati dalla caduta dei sassi sulla sua testa.

Galan riabbassò lo sguardo sull’acqua. Increspò le labbra in un sorriso triste e abbozzò un rigido inchino. Poi si voltò e calciò una pietra al centro dello stagno, increspandone la superficie liscia.

Sentendosi molto meglio, controllò spada e pugnale per assicurarsi che fossero pronti nel fodero e si avviò nella foresta. Il suo stomaco ricominciò a brontolare, ricordandogli che per vivere non si possono mangiare monete.

Ci sarebbero voluti due giorni di cammino attraverso il bosco per giungere ad Assamboryl, e un’altra giornata per le Sei Spine. Le ore sembravano più lunghe senza le sciocchezze infinite di Athtar. Non che non si godesse quella relativa quiete, per una volta, ma era tanto irrigidito, e qualsiasi cosa l’avesse colpito alla gamba gli aveva procurato un dolore bruciante e ora lo faceva zoppicare tra il muschio e le foglie morte come un uomo goffo.

Grazie al cielo nei dintorni vivevano pochi elfi, a causa dei mostri alati. In quel preciso istante ve ne era uno che volteggiava fra gli alberi e lo seguiva a debita distanza.

Hmmph. Al momento poteva anche non essere assetato di sangue, ma se l’elfo stava per caso andando incontro ai suoi simili, prima di sera di Galan il Coraggioso non sarebbe rimasto altro che un involucro di pelle.

Che allegro pensiero!

Un carretto da funghi si sollevò da dietro un banco di felci alla sua sinistra. L’elfo arricciò il naso. Era stipato di limecap, i loro gambi color marrone screziato secernevano la linfa bianca che indicava che erano appena stati colti. Lo stomaco gli brontolò per l’ennesima volta e senza pensarci due volte prese una manciata di funghi e se li infilò in bocca.

«Oh!»

Nella foga si era dimenticato che i carretti hanno bisogno di qualcuno che li spinga. O che li traini, cosa che si accingeva a fare l’elfo dall’aspetto infuriato che spuntò un attimo dopo con un pugnale in mano.

Galan fu, tuttavia, più lesto e lo disarmò, poi passò sotto il carretto e riapparve dall’altra parte, con la spada sguainata.

L’elfo urlò e, arretrando, inciampò finendo contro un albero. Galan gli si avvicinò lentamente, minaccioso, e gli puntò la spada alla gola.

Il contadino, terrorizzato, iniziò a balbettare, implorando pietà e fornendogli frettolosamente ogni sorta d’informazione sul suo nome, sul suo lignaggio, sulla proprietà di quella coltivazione di funghi, su quanto fossero raffinati, sul tempo meraviglioso che avevano avuto ultimamente e…

Galan gli rivolse un sorriso malizioso e sollevò una mano. L’elfo fraintese il gesto.

«Naturalmente, signore! Per favore, perdonate la mia lentezza nel comprendere i vostri bisogni! Possiedo poco, essendo un povero contadino, ma è tutto vostro: tutto!» Con gesti frenetici il contadino si slacciò la cintura, ne sfilò la borsa e la porse a Galan con mani tremanti, mentre i pantaloni ampi e sudici gli cadevano alle caviglie.

La borsa era colma di monete: di piccolo taglio, senza dubbio, ma pur sempre dei buoni thalver e bedoar e thammarch del regno. Quando Galan la sollevò incredulo, l’elfo fraintese la sua espressione e farfugliò: «Ma certo, ne ho ancora! Non mi sognerei di ingannare un grande armathor che Corellon stesso ha inviato al nostro governatore per sopperire alla decadenza del regno! Ecco a voi!»

Questa volta il contadino si sfilò un sacchetto da una striscia di cuoio che portava intorno al collo: un sacchetto rigonfio di gemme. Galan lo prese spalancando gli occhi d’incredulità, al che l’elfo scoppiò in lacrime e gridò: «Non mi uccidere, oh potente armathor! Non ho altro da darvi se non il mio carretto di funghi e il mio pranzo!»

Galan accolse quell’ultima parola con un grugnito – be’, dopo tutto, come avrebbe parlato un potente armathor? – e allungò una mano insistente. Quando il contadino rimase a fissarla per un attimo, questi lo incalzò con la spada.

«Ah, ah, funghi?», urlò l’elfo sbigottito, in preda al panico. Galan aggrottò le ciglia, scosse il capo, e allungò nuovamente la mano.

«Uh… pranzo?», domandò timidamente il contadino. L’elfo col volto imbrattato di sangue annuì lentamente, enfatico, e abbozzò un sorriso.

Chili di funghi volarono in aria quando il contadino si mise a frugare in un angolo del carro; non trovando ciò che cercava imprecò tra le lacrime, farfugliò qualche scusa, e corse all’angolo opposto, dove altri funghi vennero scaraventati in aria.

Galan afferrò un fagotto avvolto nel panno, lo soppesò, e restituì la borsa di pietre preziose al contadino. Le gemme erano insidiose; troppe, a Cormanthor, nascondevano incantesimi di rintracciamento, o persino magie innescabili da lontano. Le monete erano di gran lunga più sicure.

Il coltivatore di funghi scoppiò a piangere e s’inginocchiò per ringraziare ad alta voce Corellon, e la quantità di lodi fu tale che Galan fu fortemente tentato di trafiggerlo sul posto.

Tuttavia, puntò la spada verso la caverna, intimando al contadino di entrarvi immediatamente. L’elfo piagnucolante non la vide, perciò Galan grugnì rumorosamente.

Nell’improvviso e totale silenzio che seguì, egli ripeté il gesto, facendo oscillare grandiosamente la spada, e quando la riabbassò sentì di aver colpito qualcosa. Galan aprì la bocca per pronunciare un’imprecazione quando vide un pezzo di mostro alato cadere dalla lama della spada, e udì il tonfo causato dal resto del corpo che si schiantava al suolo a poca distanza da lui. Ma il contadino iniziò a ringraziarlo con tale veemenza che l’unico Goadulphyn vivente – capo della casata, erede, guerriero, saggio e quant’altro – decise che non poteva più sopportarlo (era peggio di Athtar) e che era il caso di proseguire verso nord. Avrebbe aperto il fagotto e mangiato il contenuto solo quando fosse stato ben lontano da quel territorio abitato da coltivatori di funghi petulanti e creduloni.

Galan si trascinò per qualche chilometro, scuotendo continuamente il capo, finché non trovò un albero abbastanza vecchio e grande da contenere la consapevolezza di Corellon. Si diresse dritto verso di esso e mormorò con stupore: «Avete il senso dell’umorismo, Sacri Madre e Padre, non è vero?»

L’albero non rispose, ma Corellon, probabilmente, aveva udito. Perciò Galan si sedette ai piedi dell’albero e divorò con gusto il pranzo del contadino. Il dio non fece obiezioni.


«Eredi abbattuti come uccelli lajauva in primavera! Armathor che spezzano e lanciano le spade per protesta! Che cosa sta diventando Cormanthor?» Lord Ihimbraskar Evendusk stava urlando ancora, il volto rosso e gli occhi ancor di più rossi. Una serva, irrigiditasi per il terrore causato dal suo improvviso impeto di rabbia, si ritrovò spiacevolmente sulla sua strada.

L’elfo si fermò, il pungolo per il cavallo ancora in mano. La frusta di pelle schioccò una, due, tre volte, e poi un sonoro manrovescio scaraventò la serva per terra. I dolci del vassoio si sparpagliarono sul pavimento e li rimasero, dimenticati.

Duilya rabbrividì. «Oh, dei», piagnucolò, «devo farlo per forza?»

Sì, Duilya… o prima o poi ti farà a pezzi con la frusta!

Duilya sospirò.

Non preoccuparti; ci siamo noi. Fai come d’accordo.

«È il Coronal, ecco chi è!», ringhiò Evendusk. «Eltargrim deve aver avuto strane idee in tesa quando bighellonava per Faerûn, frequentando sgualdrine umane e ascoltando ogni notte le loro impertinenze».

La consueta sfuriata mattutina di Lord Evendusk terminò con un assurdo silenzio. La sua sedia preferita si trovava al solito posto, e sul tavolo accanto ad essa, il tavolo su cui avrebbero dovuto poggiare un bicchiere di rubythrymm e una gemma visiva contenente le scene della festa della sera precedente, c’era un’intera bottiglia del suo migliore sherry triplo.

La moglie era seduta sulla sua sedia, avvolta in una tunica che gli avrebbe fatto accelerare le pulsazioni se Duilya fosse stata quaranta estati più giovane, due volte più magra, e un po’ meno familiare. Lei, tuttavia, sembrava non averlo notato.

Mentre la osservava, spostando il peso da un piede all’altro e respirando affannosamente, la donna raccolse un bicchiere vuoto dal pavimento, si strinse nelle spalle, e subito dopo lo ripose.

Poi stappò tranquillamente la bottiglia di sherry, la sollevò nella luce mattutina, mormorò un commento entusiasta e ne trangugiò l’intero contenuto, lentamente ma senza fermarsi, gli occhi chiusi e la gola che si muoveva ritmicamente.

La rabbia silenziosa di Lord Evendusk scomparve improvvisamente quando notò quanto fosse bella la gola della moglie. Non se n’era mai accorto.

Duilya ripose la bottiglia vuota sul tavolo – sì, vuota; l’aveva bevuta tutta! - sorrise ed esclamò ad alta voce: «Era tanto buona che credo ne berrò ancora».

Fece per raggiungere il campanello, quando il marito si riprese dalla sorpresa, ricominciò e diede libero sfogo alla sua collera, ora violenta. «Duilya! Per tutte le tane degli stramaledetti ragni, che cosa diamine pensi di fare?», abbaiò.

Suonato il campanello la moglie voltò la faccia stupida e solitamente ingenua verso Lord Evendusk, sorrise quasi timidamente, ed esclamò: «Buon giorno, mio signore».

«Ebbene?», ringhiò lui, avanzando di qualche passo. «Che cosa significa tutto ciò?», domandò indicando la bottiglia con il pungolo, e poi di nuovo la moglie.

La donna si accigliò lievemente, e sembrò ascoltare qualche cosa.

Ihimbraskar la prese bruscamente per le spalle e la scosse. «Duilya!», le gridò vicino alla faccia. «Rispondimi, altrimenti…»

Rosso in volto, l’elfo sollevò la frusta, e la tenne alzata, pronta a colpire, con mano tremante. Dietro di lui la stanza si riempì di servi preoccupati.

Duilya gli sorrise, e si aprì la tunica. Il nome del marito era scritto con le gemme sui suoi seni altrimenti nudi. «Ihimbraskar», saliva e scendeva a ogni respiro della donna mentre lui fissava, la bocca spalancata. Nel silenzio che si venne a creare la moglie affermò ad alta voce: «Non sarebbe meglio farlo in camera da letto, signore? Dove avrai più libertà d’azione?»

L’elfa gli sorrise lievemente e aggiunse: «Malgrado debba confessare che mi piaccia di più quando indossi le mie tuniche e mi lasci usare la frusta».

Lord Evendusk, che stava per diventare rosso in volto, impallidì improvvisamente. Uno dei servi sbuffò per sopprimere una risata, ma quando il padrone si voltò, e li guardò tutti con occhi spalancati, essi assunsero un’aria inespressiva e con voce stridula domandarono all’unisono: «Avete chiamato, grande Signora?»

Duilya sorrise dolcemente. «Sì, e vi ringrazio per la celerità. Naertho, vorrei un’altra bottiglia di sherry triplo accanto al mio letto, immediatamente. Niente bicchieri. Voi altri, aspettate per favore, nel caso mio marito necessiti di qualche cosa».

«Necessitare di qualcosa?», ringhiò Lord Evendusk, voltandosi. «Già, voglio immediatamente una spiegazione, sgualdrina, del tuo… questo…», agitò selvaggiamente le braccia, senza più parole, mentre i servi avevano ancora la bocca aperta per il termine offensivo, e poi terminò quasi disperatamente: «… comportamento!»

«Naturalmente», rispose Duilya, apparendo per un attimo quasi impaurita. L’elfa guardò i servi, fece un respiro profondo, sollevò il mento, quasi come se stesse seguendo istruzioni silenziose, e continuò vivace: «Sera dopo sera ti rechi alle feste, trascurando la tua famiglia. Mai mi hai portato con te, e avresti potuto portare una delle tue serve, se proprio non volevi che io assistessi a ciò che fai in tali occasioni, ma non l’hai mai fatto. Jhalass, laggiù, e Rubrae sono molto più giovani e carine di me; perché non le fai conoscere e non lasci che si divertano come fai tu?»

Sia la servitù sia Lord Evendusk la fissarono con occhi spalancati. Duilya si appoggiò allo schienale della sedia e accavallò le gambe com’era solita fare, poi, indicando se stessa esclamò: «Questo è tutto ciò che vedo di te al mattino, signore. Questo e un sacco di scenate e di grugniti. Perciò ho deciso di provare questa roba, per vedere quale attrattiva possa avere».

La donna arricciò il naso. «Sento soltanto un impellente bisogno di fare pipì, e a parte ciò, non mi sembra che lo sherry triplo sia poi tanto buono da doversene scolare ogni notte una bottiglia. Forse un altro assaggio mi convincerà del contrario? Per questo ho ordinato la seconda bottiglia accanto al letto… dove andremo ora, marito».

Lord Evendusk arrossì nuovamente e ricominciò a tremare, ma quando domandò: «Andare ora? Perché?», la sua voce era tranquilla.

«Bere tutte le notti non è una scusa per trascorrere la mattina barcollando come un idiota, infischiandosene degli onori di casa, e trascurandomi, notte dopo notte, e giorno dopo giorno. Siamo compagni, mio caro, ed è tempo che mi tratti come tale».

Ihimbraskar Evendusk sollevò la testa come fa un cervo, per prender fiato prima di abbeverarsi allo stagno. Quando la riabbassò, sembrava quasi calmo. «Potresti specificare meglio che cosa vuoi che faccia in proposito, moglie?», chiese con tono insinuante.

«Sederti e parlare», sbottò Duilya. «Qui. Adesso. Del Coronal, delle morti e del tumulto causato dall’umano».

«E che cosa sai tu di tutto ciò?», chiese l’elfo rimanendo in piedi e picchiettando il frustino sul palmo della mano.

Duilya indicò una sedia vuota. Lord Evendusk posò lo sguardo su di essa e di nuovo sulla donna, che, col braccio teso e immobile, indicava ancora la sedia.

Lentamente l’elfo si diresse verso di essa, vi piazzò sopra uno stivale e appoggiò i gomiti sul ginocchio. «Parla», esclamò dolcemente. Quando la guardò, qualcosa nei suoi occhi era cambiato.

«So che tu – e altri signori come te – siete la spina dorsale di Cormanthor», riprese Duilya guardandolo negli occhi. Le sue labbra tremarono per un istante, come se stesse per piangere, ma fece un respiro profondo e continuò cautamente: «Sulle vostre spalle poggia la grandezza e lo splendore di tutti noi. Non pensare mai, nemmeno per un istante, che io non ti riverisca per il lavoro che fai, e per l’onore che hai conquistato».

Uno dei servi si stirò, ma nella stanza non volò una mosca.

Lady Evendusk continuò. «Ihimbraskar, non voglio perdere quell’onore. Non voglio perdere te. Altri signori e le loro casate hanno brandito le spade, sferrato incantesimi, e sfidato apertamente il Coronal, il tutto per un uomo. Temo che qualcuno possa trafiggere con la spada il mio Signor Evendusk».

Marito e moglie rimasero in silenzio per un istante, senza togliersi gli occhi di dosso, dopodiché Duilya proseguì, le parole echeggianti nella stanza silenziosa.

«Nulla vale tutto ciò. Per nessun uomo vale la pena di scatenare faide, di versare sangue e distruggere Cormanthor. Io parlo con le altre donne, giorno dopo giorno, e vedo svolgersi la vita del regno. Ma tu non mi domandi mai che cosa ho visto o udito, né discuti mai con me. Mi sprechi, mio caro. Mi tratti come una sedia, o come un clown dai ridicoli fronzoli, quando ti vanti con gli amici di quanti soldi spreco per gioielli e vestiti!»

La donna si alzò, si tolse la tunica, e la porse al marito. «Sono molto più di questo, Ihimbraskar. Vedi?»

Gli occhi del marito tremolarono; l’elfa fece due rapidi passi verso di lui, la tunica in mano, ed esclamò appassionata: «Sono tua amica. Sono la persona con cui dovresti confidarti, con cui dovresti condividere barzellette volgari, con cui discutere. Hai dimenticato che cosa significa scambiare idee – non baci o pizzicotti, ma idee, ad alta voce – con una donna elfa? Ora vieni con me, t’insegnerò. Abbiamo un regno da salvare».

Duilya si voltò e si incamminò verso la stanza con passo determinato. Lord Evendusk la guardò allontanarsi, i fianchi nudi ondeggianti, si schiarì la gola rumorosamente e si rivolse ai servi: «Ah… avete udito la mia signora. A meno che non udiate il campanello, per favore non disturbateci: abbiamo molto di cui parlare».

Si voltò verso la porta dalla quale era uscita Lady Evendusk, fece due rapidi passi, quindi si girò di nuovo verso la servitù, gettò il frustino sul tavolo ed esclamò: «Ancora una cosa. Uh… le mie scuse».

Dopodiché si mise a correre verso la stanza. I servi rimasero in silenzio finché non furono sicuri che il padrone si trovasse fuori portata di voce.

Ma la conversazione allegra ed eccitata che seguì fu nuovamente interrotta quando Naertho entrò nella stanza. In mano aveva la seconda bottiglia di sherry triplo. «Il padrone e la padrona han detto che è per noi!», affermò con voce roca.

Quando le grida di stupore suscitate da quella frase si furono placate, il servo guardò gli alberi fuori dalla finestra, gli occhi scintillanti, e aggiunse: «Grazie a te, Corellon. Mandaci un uomo tutti i mesi, se l’effetto è questo!»


Nella piscina di un giardino privato, quattro donne si abbracciarono e versarono lacrime di gioia. I loro bicchieri di sherry triplo fluttuavano, dimenticati, attorno a loro.

13. Alla deriva

Per un certo periodo, Elminster divenne un fantasma e vagabondò silenzioso e invisibile nel cuore di Cormanthor. Gli elfi non vi fecero caso, ed egli poté imparare molto: non che gli fosse rimasta una gran vita per poter far uso degli insegnamenti ricevuti.

Antarn il Saggio

Da La grande storia della potenza degli arcimaghi faerûniani

Pubblicata approssimativamente nell’Anno del Bastone

Trascorse un bel po’ di tempo prima che Faerûn ricomparisse. Fino ad allora Elminster era stato a malapena consapevole di se stesso come nuvola di pensieri, alla deriva in un vuoto scuro e infinito, attraverso il quale rumori – esplosioni di forza, più che altro – brontolavano ed echeggiavano di tanto in tanto.

Dopo aver fluttuato per un tempo infinito, appena cosciente di chi o di che cosa fosse, El vide apparire alcune luci: bagliori pungenti, fugaci, che comparivano talora nel vuoto intorno a lui.

Poi suoni e luci divennero più frequenti e i ricordi incominciarono ad animarsi, come serpenti irrequieti che si srotolano, in quel barlume di autoconsapevolezza che era in quel momento il principe di Athalantar, l’Eletto di Mystra. Egli vide spade sollevarsi e ricadere, e una gemma che conteneva un caos turbinante di immagini, i ricordi di altri, lo investi come un mare in burrasca e lo sollevò alla presenza di una fanciulla fantasma nei giardini notturni di un palazzo: il palazzo di un elfo anziano e gentile in tunica bianca, il governatore di seguaci che cavalcavano unicorni e destrieri alati, il governatore di… di…

Il Coronal. Quel titolo avvampò come fuoco bianco nella sua memoria, come l’armonia grande e spaventosa di una fanfara trionfale: la marcia favorita dai Signori Maghi nell’Athalantar della sua giovinezza, che risuonava attraverso la città di Hastarl, echeggiando di torre in torre, quando i maghi si riunivano per prendere decisioni importanti.

Gli stessi che aveva alla fine sconfitto, per rivendicare il suo trono, e poi rinunciarvi. Era un principe, il nipote del Re Cervo. Era un reale di Athalantar, della famiglia Aumar, l’ultimo di molti principi. Era un ragazzo che correva fra gli alberi di Heldon, un fuorilegge e un ladro di Hastarl, un sacerdote – o una sacerdotessa? Non era stato una donna? – di Mystra. La Signora dei Misteri, la Madre della Magia, la sua maestra Myrjala che divenne poi Mystra, sua padrona e guida divina, che fece di lui il suo Eletto, il suo… Elminster!

Era Elminster! Armathor umano di Cormanthor, nominato tale dal Coronal, inviato da Mystra per svolgere una missione importante a lui ancora sconosciuta, e attaccato da tutti i lati dai giovani elfi ambiziosi, spietati e arrogantemente potenti di quel regno, insofferenti delle vecchie maniere e dei nuovi decreti del Coronal e della sua corte: ardavanshee, come li definivano gli anziani, o «giovani irrequieti». Ardavanshee che forse l’avevano già ucciso, poiché se Elminster Aumar non era morto, in quale altro modo poteva spiegarsi la sua condizione attuale?

Fluttuante, nel caos oscuro…

Sprofondò nuovamente nei suoi pensieri, che ora scorrevano come un fiume in piena. Ardavanshee che sfidavano la volontà degli anziani, ma che difendevano l’orgoglio della famiglia di nascita. Ardavanshee che temevano, e tuttavia screditavano, il potere dei Supremi Maghi di Corte, del Coronal e del suo consigliere più anziano, la Srinshee.

Quel titolo sembrò aprire un’altra porta nella mente del giovane principe, dalla quale entro un’ondata di luminosità e di vividi ricordi, nonché una più forte sensazione di essere Elminster. Lady Oluevaera Estelda gli sorrise da un volto nobile e rugoso e poi, inconcepibilmente, da un viso molto più giovane, che aveva tuttavia mantenuto gli occhi vecchi e saggi: la Srinshee, più anziana degli alberi dalle radici più profonde, camminava nella Volta dei Secoli stipata di gioielli, con riverenza per i morti e gli scomparsi, serbando nella sua mente l’intero sapere e il lungo lignaggio dei prodi elfi cormanthoniani, nella volta dietro ai suoi occhi, tanto più ampia di quella in cui passeggiava con un giovane umano impaziente dal naso adunco.

L’intruso umano odiato da tutti e ricercato dagli ardavanshee per gli omicidi commessi, ardavanshee capeggiati dalla casata degli Echorn e degli Starym e dei Waelvor. Waelvor, il cui rampollo era Elandorr, pretendente e rivale di Lady Symrustar.

Symrustar! Quel viso perfetto, quelle trecce blu che gli strappavano i vestiti, quel dragone sul ventre e sul seno, gli occhi come due fiamme blu luccicanti di promesse, e le labbra socchiuse in un sorriso astuto, quella strega spietata e ambiziosa, la cui mente era altrettanto putrida di quella dei Signori Maghi, che considerava gli elfi, e gli uomini, stupide bestie da usare nella sua scalata verso una meta ancora lontana.

La ragazza che aveva quasi aperto la sua mente per fare di lui il suo giocattolo e la sua fonte d’incantesimi. La ragazza che egli aveva a sua volta tradito e consegnato al suo rivale, Elandorr. Di entrambi non aveva più notizie.

Già. Ora sapeva chi era. Elminster, sfidato da Delmuth Echorn e successivamente da una banda di ardavanshee guidati da Ivran Selorn, che gli avevano dato la caccia nel castello dei Dlardrageth. Elminster l’Eletto presuntuoso e disattento. Elminster che, ebbro di potere, si era lanciato diritto nell’incantesimo in attesa dei quattro maghi: un incantesimo che lo aveva distrutto.

Era ancora tutto d’un pezzo? Oppure era solo un fantasma, la sua vita mortale ormai terminata? Forse Mystra lo aveva mantenuto in vita – sempreché ciò significasse essere vivo – per compiere i suoi progetti, un fallimento causato per completare la missione.

Elminster fu improvvisamente consapevole di potersi muovere nel vuoto, di poter correre in questa o in quella direzione col semplice pensiero. Tuttavia ciò significava ben poco quando non c’era un punto verso il quale recarsi, bensì vuoto oscuro da tutte le parti, luci e rumori disseminati qua e là apparentemente a caso, dappertutto e in nessun posto.

Il mondo intorno a lui era sempre stato, fino ad allora, una serie di «dove» specifici, un paesaggio di mete diverse e spesso precise, dalle distese desolate dei fuorilegge, al di là di Athalantar, alla profonda foresta di Cormanthor.

Forse quella era la morte. Faerûn e un corpo col quale camminare erano ciò che gli mancava. Quasi senza pensare si lanciò in una corsa disperata nel vuoto, alla ricerca di una fine nell’infinito, di un limite, magari di una fessura dalla quale intravedere la luce di Faerûn in tutta la sua familiare gloria.

E mentre continuava nel suo movimento rapido e inutile, si rivolse a Mystra con un grido mentale silenzioso: Mystra, dove sei? Aiutami. Sii la mia guida, ti scongiuro.

Trascorse un momento buio, durante il quale le parole nella sua testa sembrarono rotolare all’infinito. Poi vi fu uno scoppio di luce brillante, quasi accecante, accompagnato da uno squillo di tromba che echeggiò stridente attraverso di lui, scuotendolo da parte a parte nel suo frastuono assordante. Quando tutto terminò, El si ritrovò a ripercorrere a ritroso la via da cui era venuto, lo stesso medesimo percorso, malgrado non capisse come facesse a sapere ciò che gli stava accadendo.

Alla fine, nel vuoto comparve un orizzonte, una linea di foschia blu con un punto luminoso al centro, come una gemma su un anello: ed Elminster di Athalantar era diretto verso quel punto lontano.

La distanza sembrava enorme, ma il giovane parve acquistare una velocità vertiginosa e liberarsi di qualcosa durante la folle corsa, finché, finalmente, abbandonò l’oscurità e schizzò fuori nella luce. La luce di un sole morente sopra gli alberi di Cormanthor, le rovine scure di Castel Dlardrageth all’orizzonte, e qualcosa che lo esortava in un’altra direzione. Seguì quello strano impulso, dubitando di poter fare altrimenti, e volò basso sopra le cime degli alberi, veloce come fosse inseguito da un drago.

Qua e là, sotto di lui, intravide sentieri e piccoli ponti di legno tesi di albero in albero, che facevano dei giganti della foresta le case viventi di elfi. Stava attraversando Cormanthor a una velocità formidabile. Ora discese e rallentò, come guidato da una grande mano invisibile.

Grazie mille, Mystra, pensò, sapendo chi ringraziare. Sorvolò alcuni giardini e si ritrovò nel centro vitale della città di Cormanthor.

Rallentò ulteriormente, come non fosse altro che una foglia sollevata da una brezza gentile. In verità non udiva il minimo soffio di vento, né sentiva muoversi l’aria fredda o umida. Torrette e sfere fluttuanti, vagamente luminose, gli passarono accanto mentre il suo volo guidato terminava, ed egli incominciò a muoversi liberamente.

Iniziò a spostarsi di qua e di là verso qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione. Mentre volava passò in mezzo ad alcuni elfi che non lo videro e – come scoprì quando si ritrovò a sbattere contro un carretto stracarico di funghi che gli passò attraverso come nulla fosse – nemmeno lo sentirono. Era davvero un fantasma, a quanto pareva: un’ombra invisibile, silenziosa, in grado di volare inosservata.

Mentre gironzolava spiando la vita fervente di Cormanthor, iniziò anche a udire. Dapprima un mormorio flebile e confuso, rotto da rumori più forti, che via via crebbero fino a diventare un chiacchierio assordante. Sembrava essere l’insieme delle conversazioni e dei versi di migliaia di elfi, come se potesse udire tutta Cormanthor, indipendentemente dalle distanze, dai muri e dalle profondità delle cantine.

Si librò per qualche istante in un groviglio di cespugli, fra tre alberi poco distanti fra loro, in attesa che il chiasso svanisse o di perdere completamente il senno. Lentamente, i rumori si affievolirono, ed El cominciò a udire soltanto ciò che avrebbe percepito l’orecchio normale: i suoni vicini, il fruscio gentile e incessante di foglie agitate dal vento. Si rilassò, di nuovo in grado di pensare, finché tale pensiero non divenne curiosità e desiderio di sapere ciò che stava accadendo a Cormanthor.

Dunque era invisibile, silenzioso, e inodore, anche per gli elfi più vigili. L’ideale per spiare le loro azioni. Ma forse era meglio assicurarsi della sua trasparenza prima di cacciarsi in qualche guaio.

Iniziò allora a scagliarsi sugli elfi nelle strade e sui ponti, gridando e cercando di spaventarli. Passò anche attraverso alcuni di loro mentre cercava di afferrarli e li insultava. El riusciva a sentire benissimo ciò che diceva e riusciva anche a plasmare membra fantasma per colpire e sferzare: membra che finalmente poteva sentire e nelle quali percepiva dolore se le strofinava forte.

I suoi bersagli elfi, tuttavia, non lo notavano. Ridevano e chiacchieravano in un modo in cui mai si sarebbero sognati di fare se avessero avvertito la presenza di un uomo nelle vicinanze. El si levò a mezz’aria dopo essere passato attraverso una signora d’alto rango e dall’aspetto particolarmente glaciale, e rifletté che forse non aveva molto tempo per godere di quello stato. Dopo tutto, nessuno dei suoi poteri dal momento del risveglio era rimasto immutato a lungo. Perciò meglio iniziare l’opera di spionaggio.

Innanzitutto, doveva controllare una cosa.

Aveva un ricordo indistinto delle strade: era già passato di là, pensò, il suo primo giorno in città, quando cercava Casa Alastrarra. Un edificio particolarmente imponente, nel cuore di un giardino circondato da mura; avrebbe dovuto trovarsi in quella direzione.

La sua memoria non lo tradì. Fu questione di un secondo oltrepassare il cancello inosservato, e cercare la grande casa; scoprì di poter passare attraverso piccole strutture, specialmente di legno, ma scoprì anche che pietra e metallo costituivano un problema, e non riusciva a infiltrarsi nelle pareti solide. Una finestra, tuttavia, fu più che sufficiente, ed El entrò nello splendore tappezzato di una casa riccamente ornata. I pavimenti erano coperti da tappeti di pelliccia, e tutte le pareti erano dotate di sedili e divani di legno levigato. Le ricche famiglie elfe sembravano amare in particolare il vetro soffiato multicolore e le sedie. El vi passò accanto come un filo di fumo risoluto, alla ricerca di una cosa particolare.

La trovò in una stanza da letto decorata, in cui una coppia di elfi nudi stavano fluttuando abbracciati sopra il letto, discutendo seriamente – quasi rabbiosamente – degli affari del regno. Elminster giudicò gli argomenti avanzati dal signore e dalla signora Evendusk tanto affascinanti che si fermò a lungo ad ascoltarli, prima che una disputa puramente personale sulla moderazione e sul consumo di sherry triplo lo facesse finire steso sul pavimento. Lì, poco distante dal tappeto, era chiaramente visibile l’incantesimo pulsante che circondava il boudoir di Duilya Evendusk.

Era costume di Cormanthor che le donne abbienti avessero una sorta di portagioie portatile, somigliante a una portantina con baldacchino. I loro gioielli erano disposti al suo interno o custoditi in speciali cassettini, intagliati uno per uno per adattarsi alle pareti di legno. Tali boudoir erano equipaggiati con piccoli specchi pensili, minuscole sfere di vetro luminose che brillavano se toccate con un dito, e piccoli sedili. Inoltre contenevano potenti incantesimi per tenere alla larga chiunque fosse attratto dalla bellezza delle pietre in essi conservate; incantesimi che permettevano l’entrata solo alla proprietaria. Quei «veli» erano tanto potenti da emanare un bagliore blu intenso, mentre ondeggiavano attorno al boudoir formando un involucro magico.

Erano abbastanza potenti, si ricordò El dai commenti della Srinshee, da scagliare gli intrusi a grande distanza, e da non cedere alla carica del più forte dei guerrieri, nemmeno se aiutato da altri uomini armati di lance. Si sarebbero comportati nello stesso modo con un fantasma umano? L’avrebbero respinto?

El si avvicinò cautamente al boudoir, muovendosi con infinita pazienza, estendendo la propaggine più sottile di sé fino a toccare il bagliore blu pulsante.

Questo rimase immutato, ed Elminster non sentì nulla. Allora allungò un dito fantasma e toccò le tre gemme appese da fini catene al soffitto curvo del boudoir di Duilya Evendusk.

Di nuovo non senti dolore, e l’incantesimo sembrò non mutare. Riluttante, il principe sfiorò col suo corpo evanescente il bagliore, ma anche questa volta non accadde nulla di spiacevole. Poi si allontanò dal boudoir, volteggiò attorno a Lord e Lady Evendusk per un attimo, mentre i due si sussurravano parole gentili pervasi da un desiderio crescente, dopodiché si lanciò attraverso la stanza contro la portantina magica.

Senza nemmeno disturbare un anello, superò la barriera, passò attraverso il baldacchino, e uscì come un fulmine silenzioso dall’altra parte, fermandosi a pochi millimetri dal muro.

Dietro di lui la luminosità del velo rimase inalterata. El si voltò e guardò il boudoir con una certa soddisfazione; la coppia di elfi fluttuava languida a mezz’aria nella sua danza amorosa, il giovane sorrise – o tentò di farlo – poi uscì da una finestra ovale nel giardino muschioso, in cerca d’informazioni.

Desiderava trovare il Coronal, per assicurasi che gli ardavanshee assetati di sangue, o peggio, i maghi anziani delle casate arroganti a cui appartenevano i giovani avventati, non si fossero azzardati a colpire il cuore e la mente del regno.

Dopodiché, supponendo che l’Onorato Signore, Sua Altezza di Cormanthor, fosse ancora illeso, sarebbe stato tempo di cercare la Srinshee, affinché potesse restituire un corpo a un certo armathor umano fino ad allora tanto bistrattato, se mai la sua condizione non fosse per allora cambiata.

El voltò in direzione del palazzo reale, salì all’altezza delle cime degli alberi e delle torri e zigzagò fra esse, ammirando l’immensa bellezza di Cormanthor.

Giardini circolari che apparivano come piccoli pozzi verdi, e alberi piantati a formare mezze lune attorno a prati di muschio, si estendevano a perdita d’occhio sotto di lui. Vide guglie di pietra, attorno alle quali alberi giganti si attorcigliavano formando eliche viventi di foglie, di rami sapientemente modellati, e di piccole finestrelle aperte nella corteccia, nelle quali si intravedevano le sagome di bambini elfi intenti a giocare, ballare e lottare; vide vessilli di seta traslucida che cavalcavano i venti con leggerezza infinita, come fossero tele di ragno, sostenuti da alberi modellati come le dita di una mano aperta, con una stanza dal soffitto a cupola, accoccolata come un uovo nel palmo aperto di quella mano. Sorvolò case che ruotavano e riflettevano il sole mediante ornamenti di vetro girevoli, pendenti simili a gocce di pioggia gelate sui balconi e sui telai delle finestre.

El guardò tutto ciò con nuova meraviglia. In mezzo alla confusione e ai combattimenti seguiti al suo arrivo in città, aveva dimenticato quanto fossero meravigliose le opere elfe. Se le antiche casate l’avessero avuta vinta, naturalmente gli uomini non avrebbero mai visto tali capolavori, e quei pochi intrusi che l’avessero fatto, quali Elminster Aumar, non sarebbero vissuti abbastanza a lungo per raccontarle.

Dopo un po’ usci da un gruppetto di alberi-abitazione e di case a guglia, dalle molte finestre, e sorvolò un muro protetto da numerosi incantesimi, oltre il quale si estendeva un giardino pieno di piscine e di statue, un giardino enorme, pensò El mentre avanzava senza sosta.

E tuttavia non sembrava quello del Coronal. Dove si trovava il…?

No, quello non era il suo palazzo. Era una casa grandiosa, sì… una collinetta munita di finestre e irta di torri slanciate. I suoi fianchi ammantati d’edera digradavano nelle curve pigre di un ruscello, che scivolava placido oltre alcune isole, simili a enormi cuscini di muschio collegati da ponticelli arcuati.

Era l’edificio più bello che il principe avesse mai visto. Sempre volando, virò verso la grande finestra più vicina. Come molte altre era priva di vetri, e protetta da un invisibile campo magico che impediva il passaggio di tutti gli oggetti solidi, ma lasciava entrare indisturbata la brezza. Due elfi ben vestiti erano appoggiati alla barriera magica con un calice in mano.

«Mio caro Lord Maendellyn», esclamò una voce dal tono altezzoso, «è sicuramente insolito per uno della mia casata trovare tanto rapidamente una causa comune con quelle di più giovane retaggio; questa è davvero una cosa che colpisce tutti».

«Abbiamo dunque, Llombaerth, il pieno appoggio di Casa Starym?»

«Oh, non credo sia necessario. Chi desidera riformare Cormanthor e sentirsi fiero di farlo deve talora esser visto fare cose per se stesso e accettarne le conseguenze».

«Mentre gli Starym guardano, sorridenti, dai bordi del campo», affermò ironica una terza voce, «pronti ad applaudire tali coraggiose casate in caso di successo, o ad accusarle di tradimento se falliscono. Già, è così che una casata vive da lungo tempo e trae molti profitti. Nel contempo, però, lascia i membri della famiglia in questione su un terreno scomodo quando pretende di istruire gli altri sulla tattica, o sull’etica, o sul bene del regno».

«Mio caro Lord Yeschant», ribatté fredda la voce altezzosa, «il tono delle vostre osservazioni non mi tocca minimamente».

«Eppure, Signor Portavoce degli Starym, voi volete unirvi a noi in nome di una causa comune, poiché voi avete da perdere più di tutti».

«Come sarebbe?»

«Casa Starym detiene attualmente il rango più alto. Se si permetterà al Coronal di mettere in atto il suo folle progetto per Cormanthor, la vostra casata avrà molto più da perdere che, diciamo, quella Yridnae».

«Esiste una Casata Yridnae?», chiese qualcuno in sottofondo, ma El, avvicinatosi, non udì risposta.

«Signori miei», osservò Lord Maendellyn frettolosamente, «mettiamo da parte questa divergenza e occupiamoci della questione più urgente: la necessità di porre termine al governo del nostro attuale Coronal, e alla sua follia di Apertura, per il bene di tutti».

«Qualsiasi cosa faremo», esclamò una voce profonda con aria disperata, «non mi ridarà mio figlio. È stato l’umano a ucciderlo, ed è stato il Coronal a introdurlo nel regno; perciò, anche il Coronal deve morire, affinché il mio Aerendyl sia vendicato».

«Anch’io ho perso un figlio, Lord Tassarion», asserì una nuova voce, «ma ciò non significa che la morte di Leayonadas debba essere vendicata col sangue del governatore di Cormanthor. Se Eltargrim deve morire, lasciate che sia una decisione ragionata, presa per il futuro del regno, e non un mero atto di vendetta».

«La Casata degli Starym conosce meglio di chiunque altro il dolore causato da una perdita e il peso della vendetta», si intromise la voce sdegnosa di Llombaerth, portavoce della sua casata. «Non desideriamo sminuire il dolore di una perdita altrui, e sentiamo il forte, e innegabile, richiamo della giustizia. Eppure, anche noi, siamo dell’opinione che la questione del governo del Coronal debba essere trattata come un affare di stato. Il cattivo governatore deve pagare per le sue idee scandalose e per la sua incapacità di guidare il regno, indipendentemente da quanti figli coraggiosi siano morti per i suoi errori».

«Col vostro permesso», si intromise una voce blesa, «proporrei di risolvere la questione con l’uccisione del Coronal. In tal modo chi di noi desidera vendetta – io stesso, Lord Yeschant, Lord Tassarion, e Lord Ortauré – potrà accordarsi su chi dovrà essere l’esecutore materiale dell’assassinio, cosicché l’onore possa essere salvato. Ciò permetterà, a sua volta, a Casa Starym e a chi non desidera partecipare attivamente allo spargimento di sangue, di adoperarsi per raggiungere uno scopo comune senza sporcarsi le mani».

«Ben detto, carissimo Lord Bellas», assentì Maendellyn. «Siamo dunque d’accordo sul fatto che il Coronal debba morire?»

«Sì», esclamarono tutti in un coro rauco.

«E siamo d’accordo su quando, dove e su chi dovrà accedere al titolo di governatore dopo Eltargrim?»

Vi fu un momento di silenzio, poi i presenti iniziarono a parlare simultaneamente. Ora El riusciva a vederli: i cinque capocasata e l’inviato degli Starym, seduti attorno a un tavolo di legno lucidato con bottiglie e calici, attorno ai quali ammiccava il riflesso di una barriera anti-veleno.

«Silenzio, vi prego!», sbottò Lord Yeschant, dopo qualche istante. «È chiaro che non siamo d’accordo su tale faccenda. Sospetto che la questione su chi dovrà essere il prossimo Coronal sia quella più controversa, da affrontare dunque per ultima; nonostante debba sottolineare, signori, che recheremo un grave danno a Cormanthor se, prima di colpire, non sceglieremo un nuovo governatore e non lo sosterremo con la medesima risolutezza unanime che mostriamo nel rimuovere quello vecchio. Nessuno di noi beneficerà di un regno in balia del caos». Tacque per un istante, poi, con voce tranquilla domandò: «Lord Maendellyn?»

«Molte grazie, Lord Yeschant. Forse, “il modo” con cui eliminare il Coronal è un argomento più facile da affrontare?»

«Dobbiamo trovare un modo che ci permetta di colpirlo personalmente», asserì Lord Tassarion rapidamente.

«Tuttavia sarebbe meglio», si intromise il portavoce degli Starym, «non farlo in una riunione formale o in altre occasioni in cui un Coronal sospettoso potrebbe radunare formidabili forze difensive. Ciò aumenterebbe il rischio di eventuali perdite, inoltre ritarderebbe il nostro successo e metterebbe in pericolo il regno scatenando conflitti e incertezza».

«Come faremo a costringerlo a incontrarsi con noi?»

«Potremmo adottare travestimenti, ad esempio, diventare suoi consiglieri: quelle sei maghe con cui si gingilla».

Lord Yeschant e Lord Tassarion aggrottarono simultaneamente le sopracciglia. «Non mi piace l’idea di aggiungere complicazioni a ciò che facciamo», affermò Yeschant. «Se una di loro ci osservasse, attaccherebbe senza indugio, e scatenerebbe una battaglia d’incantesimi molto più potente di quella che dovremo affrontare se colpiremo Eltargrim da solo».

«Bah! Quale Coronal egli può chiamare ed evocare un numero infinito di sortilegi», intervenne l’inviato Starym con fare sdegnoso.

«Già, ma se tali aiuti giungono e lo trovano morto», osservò Tassarion pensieroso, «sarà ben diverso che ingaggiare battaglia con una o con tutte le sei maghe, appartenenti anch’esse a casate nobili, non lo dimentichiamo. E la loro morte scatenerebbe inevitabilmente altre vendette. Non desidero essere coinvolto in una battaglia attraverso mezzo regno con sei maghe ostili capaci di teletrasportarsi a piacere fuori e dentro di noi, non prima d’esser certi di poter sistemare il governatore in modo rapido e sicuro, qualsiasi sia il prezzo da pagare».

«Ora come ora, credo che non siamo ancora pronti per uccidere un Coronal», mormorò Lord Bellas. «È chiaro che siamo ancora indecisi fra tre alternative: sfidare pubblicamente il suo governo, ucciderlo o trovarci per caso nelle vicinanze quando il nostro amato governatore rimarrà vittima di uno “sfortunato incidente”».

«Signori», affermò risoluto il padrone di casa, «è evidente che occorrerà tempo per metterci d’accordo su tali questioni. Io ho un impegno stasera, e quanto più rimarremo riuniti in questo luogo, tanto più grande sarà la possibilità che qualcuno nel regno possa udire o sospettare qualcosa». Lord Maendellyn si guardò attorno e aggiunse: «Se ora ci separiamo, e ognuno di noi rifletterà su quanto ci ha abilmente illustrato Lord Yeschant, sono certo che quando, fra tre giorni, vi manderò a chiamare, potremo incontrarci armati di tutto il necessario per concludere un accordo».

«Ben detto», mormorò qualcuno. «D’accordo», esclamarono gli altri intorno al tavolo, e tutti si alzarono per raggiungere rapidamente le porte.

Per un attimo El fu tentato di seguire uno o più cospiratori, ma le loro case o castelli erano facilmente individuabili nella città, ed egli aveva le sue faccende da sbrigare. Doveva vedere con i suoi occhi se Cormanthor avesse ancora un Coronal da assassinare, o se qualcun altro avesse battuto su tempo quegli esaltati signori.

Il giovane fantasma volò fuori dalla finestra e aggirò Castel Maendellyn senza perdere un minuto di tempo, superando rapidamente torri e torrette nella direzione presa originariamente. I magnifici giardini si estendevano a perdita d’occhio sotto di lui. Magnifici, e ben protetti: in ognuno non meno di tre barriere baluginavano davanti a lui, ma per El non costituivano un ostacolo.

I giardini terminarono finalmente in un grande muro coperto da un fitto groviglio di alberi. Dietro di esso una strada e una schiera di case, i cui giardini rigogliosi davano su un’altra via. Sul suo lato opposto ecco le mura dei giardini reali.

I guardiani fantasma sarebbero forse stati in grado di vederlo, ma El doveva a tutti i costi raggiungere il palazzo, perciò proseguì, cautamente, per paura che gli incantesimi difensivi della Grande Casa di Cormanthor potessero essere più potenti di quelli incontrati fino ad allora.

Forse lo erano, ma El passò ugualmente inosservato, senza nemmeno svegliare i guardiani spettrali. Il principe scivolò nel palazzo da una finestra superiore, e percorse su e giù le sue stanze, sentendosi stranamente a disagio. Il luogo era splendido, ma il piano superiore era quasi deserto, eccezion fatta per alcuni servi che si muovevano con passo felpato e spolveravano distrattamente con l’aiuto di piccoli incantesimi.

Del Coronal nessuna traccia, ma in una piccola torre isolata, sul lato nord del castello, El trovò una riunione stranamente simile a quella a cui aveva appena assistito da Maendellyn: sei nobili signori, a lui sconosciuti, seduti attorno a un tavolo levigato, e un settimo elfo dalla faccia grave: il Supremo Mago di Corte Earynspieir.

Lord Earynspieir era in piedi e misurava la stanza a grandi passi. El entrò nella torre e prese posto intorno al tavolo, naturalmente inosservato.

«Sappiamo che qualcuno in questo momento sta tramando complotti», esclamò un elfo anziano e piuttosto paffuto all’estremità del tavolo. «Ogni raduno, sia esso una festa o una riunione formale, d’ora in poi deve esser considerato come una potenziale occasione di battaglia».

«Più che altro come una potenziale sede di un’imboscata», commentò un altro.

Il Supremo Mago di Corte si voltò. «Lord Droth», esclamò con un cenno di capo all’elfo grassoccio, «e Lord Bowharp, state certi che ne abbiamo preso atto e stiamo prendendo provvedimenti. Ci rendiamo conto che non possiamo nascondere il Coronal dietro guardie armate fino ai denti».

«Quali provvedimenti?», chiese un altro signore senza convenevoli. Le cicatrici, la spada pronta: sembrava in tutto e per tutto un vero comandante di battaglia. Quando si protese per fare quella domanda, la sua voce aveva il piglio del comando.

«Provvedimenti segreti, mio caro Lord Paeral», ribatté Earynspieir.

Un signore accanto al capo della Casata Paeral, un elfo dorato, il più bello di tutte le specie che Elminster avesse mai visto, sollevò i magnifici occhi argentei e affermò: «Se non vi fidate di noi, Signor Mago Supremo, Cormanthor è condannata. Non è più tempo di tenere segreti. Se chi è rimasto fedele al Coronal non saprà esattamente dove e quando si svolgono i fatti del regno, egli non avrà scampo».

Earynspieir fece una smorfia, quasi di dolore, prima di abbozzare un sorriso spento. «Ben detto, come sempre, mio caro Lord Unicorn. Tuttavia, come ha sottolineato precedentemente Lord Adorellan, ogni parola che sfugge dalle nostre labbra costituisce un altro punto debole nell’armatura di Eltargrim. Sua Altezza è ora nascosto, dietro mia raccomandazione e…»

«Chi lo sta proteggendo?», domandarono Droth e Paeral quasi all’unisono.

«Maghi di corte», rispose Earynspieir, lasciando intuire che preferiva non aggiungere altro.

«“Le Sei Sorelle Badanti”?», chiese il sesto elfo presente, inarcando un sopracciglio. «Saranno davvero le persone più adatte per respingere un attacco, considerato il fatto che alcune di loro appartengono a casate a cui non dispiacerebbe affatto vedere morto Eltargrim?»

«Lord Siirist», esclamò severo il Supremo Mago di Corte, «non comprendo perché parliate in questo modo di signore che servono il regno con tanta competenza. E apprezzo ancor meno il timore per la loro fedeltà. Ciononostante, altri condividono la vostra opinione, e la mente delle sei maghe è stata scrutata dallo stesso esperto che anche ora è a fianco del Coronal, incantesimi alla mano».

«Ossia?», lo incalzò fermamente Lord Unicorn.

«La Srinshee», rispose Earynspieir, ormai esasperato. «E se non ci fidiamo di lei, signori, di chi altro potremo mai fidarci in tutto il regno di Cormanthor?»

Col procedere delle discussioni El comprese che Lord Earynspieir non avrebbe aggiunto altro sui misteriosi provvedimenti menzionati. Al contrario, stava tentando di convincere gli elfi presenti a radunare maghi e guerrieri in vari luoghi, sotto comandanti che avrebbero obbedito a chiunque avesse pronunciato certe frasi segrete. Non aveva nessuna intenzione di rivelare il nome di individui o casate a lui noti come traditori, né di svelare il nascondiglio del Coronal e della Srinshee.

Senza un mezzo di teletrasporto, El non poteva nemmeno guardare nella Volta dei Secoli, metri e metri sotto terra, in un luogo a lui sconosciuto.

Improvvisamente esasperato, il principe uscì fluttuando dalla stanza, si lanciò per il palazzo come una freccia in cerca del nemico, diretto a nord, fuori dalla città. Aveva bisogno nuovamente della quiete degli alberi, per riflettere. Forse, sarebbe finito a ficcare il naso e a spiare le vite degli elfi in tutta la città, per raccogliere il maggior numero di informazioni utili. Non sapeva davvero come molti elfi si guadagnassero i soldi che spendevano, per esempio…

Qualcosa si mosse sotto gli alberi davanti a lui. Qualcosa che gli parve disgustosamente familiare.

El rallentò bruscamente, virando per ottenere una prospettiva migliore. Ora si trovava nella foresta, oltre la zona in cui solevano passare le pattuglie regolari, al margine di una regione di forre tortuose e di rovi contorti.

La cosa che stava osservando era piena di graffi e si trascinava faticosamente carponi tra i rovi, senza una meta precisa: solo una mano poggiava completamente a terra, l’altra, simile a un artiglio rattrappito, era piegata all’indietro. La creatura gemente era costretta a procedere sul polso. Un polso, che insieme ad altre parti del corpo, era stato lacerato da ramoscelli appuntiti o da rocce e spine, e lasciava dietro di sé una striscia di sangue. Presto qualche bestia famelica avrebbe divorato quell’essere debole e impotente.

El planò fino a pochi centimetri da terra, e guardò con interesse, attraverso quella foresta sudicia e aggrovigliata di trecce blu, gli occhi pieni di lacrime del vanto degli ardavanshee: Lady Symrustar Auglamyr.

14. Rabbia a corte

Ancora oggi gli elfi sono soliti dire «Splendido come la corte del Coronal» quando descrivono il lusso o un’opera di squisita bellezza, e la memoria di quello splendore, ora estinto, non morrà mai. La corte del Coronal era nota per le sue decorazioni, e persino i rampolli delle casate più potenti solevano fermarsi in ammirazione e stupore davanti al suo sfarzo, e misuravano parole e azioni con somma grazia; dal Trono di Cormanthor, fluttuante sopra di essi, venivano emessi i giudizi più solenni e più nobili di quel tempo.

Shalheira Talandren, Sommo Bardo Elfo di Summerstar

Da Spade argentee e notti d’estate:

Una storia ufficiosa ma vera di Cormanthor

Pubblicata nell’Anno dell’Arpa

Si udì un suono stridulo e acuto, come quello di numerose corde d’arpa toccate all’unisono, e la voce gentile, magicamente amplificata, dell’araldo di corte rombò lungo il pavimento liscio della grande Camera delle Corte: «Lord Haladavar; Lord Urddusk; Lord Malgath».

L’agitazione s’impadronì dei cortigiani e si levarono brevi conversazioni che subito si spensero in un silenzio di eccitazione, quando i tre anziani signori entrarono camminando a mezz’aria, vestiti con la tunica d’onore. I loro servi si ritirarono e raggiunsero gli armathor alle porte della corte, e i tre capocasata procedettero, nel silenzio teso, lungo la sala aperta fino alla Piscina.

Nella loro scia si udì un gran fruscio, poiché i cortigiani di entrambi i lati della sala si agitarono per ottenere un posto in prima fila. Nel mezzo di quel trambusto una figura piccola, esile, quasi fanciullesca scivolò dietro uno degli arazzi che nascondevano le uscite, e svanì.

Fluttuante sopra la Piscina della Rimembranza, luminosa e circolare, vi era il Trono del Coronal, magnifico nella sua struttura alta e arcuata, sul quale sedeva a suo agio il vecchio Eltargrim, la tunica bianca splendente. «Avvicinatevi e siate i benvenuti», esclamò formale, ma non senza calore. «Di che cosa parlerete, qui di fronte a tutta Cormanthor?»

Lord Haladavar allargò le mani. «Vorremmo parlare del vostro progetto di Apertura; nutriamo numerose apprensioni a tale proposito».

«Apprezzo la vostra schiettezza e il vostro spirito: procedete», affermò tranquillo Eltargrim.

All’unisono i tre signori scostarono la fascia delle loro tuniche, e piccoli fulmini crepitarono attorno all’elsa di tre spade da tempesta. I cortigiani emisero un mormorio di terrore per la violazione del protocollo, nonché per il pericolo che avrebbero potuto costituire tali armi se brandite in quella stanza piena di incantesimi.

Alcuni armathor si accinsero, con facce torve, a raggiungere il Coronal, ma Eltargrim fece loro cenno di fermarsi e sollevò una mano, il palmo verso l’alto, per chiedere silenzio. Ottenutolo, indicò le luci scintillanti che ammiccavano vivaci nella piscina alle sue spalle, e affermò tranquillo: «Eravamo già consapevoli delle vostre spade, e siamo dell’opinione che siano frutto di un errore di giudizio, commesso nell’intento di sottolineare la vostra solenne determinatezza».

«Esattamente, Onorato Signore», rispose Haladavar, e poi aggiunse ciò che il suo tono aveva già messo in chiaro: «Sono sollevato dal fatto che la pensiate in tal modo».

«Vorrei essere della stessa opinione», mormorò la Srinshee, sistemandosi sulla barriera decorata del soffitto, al di sopra di tutti i cortigiani e puntando il Bastone della Scissione verso i tre nobili. «Ora che avete fatto la vostra dimostrazione, signori, comportatevi bene», mormorò la maga, come se fossero ancora bambini, e lei la loro tutrice. «Cormanthor ve ne sarà grata».

Sollevando lo sguardo, la donna vide che le numerose bacchette magiche puntate verso il basso erano al loro posto, in attesa del tocco che ne avrebbe scatenati i poteri. «Corellon fa che non sia necessario», sussurrò Oluevaera, prima di concentrarsi sugli eventi che si svolgevano di sotto.

Inconsapevoli del pericolo sospeso sulle loro teste, i tre signori si allinearono di fronte alla Piscina, e Urddusk iniziò la conversazione.

«Onorato Signore», affermò brevemente, «non mi è stato concesso il dono di una lingua abile e dolce, perciò sono solito esprimermi con poche, schiette parole. Spero non vi offendiate per ciò che vi dirò, poiché trovo giusto che voi sappiate: se non ci ascolterete, o congederete le nostre preoccupazioni senza un colloquio, tenteremo di usare le spade contro di voi. Mi dispiacerebbe molto, e spero non sia necessario. Ma, Vostra Altezza, dovrete ascoltarci. Mancheremmo ai nostri impegni verso Cormanthor se ora restassimo in silenzio».

«Vi ascolterò», ribatté dolcemente il Coronal. «Sono qui per questo. Parlate».

Lord Urddusk guardò il terzo nobile; Malgath era noto per essere un buon parlatore: qualcuno avrebbe anche usato l’aggettivo «scaltro». In quel momento, sentendosi addosso gli occhi di tutta la corte, questi non poté resistere alla tentazione di atteggiarsi.

«Vostra Altezza», mormorò sornione, «temiamo che il regno, come noi lo conosciamo, venga spazzato via, se gnomi, halfling, mezzo sangue, e razze ancor peggiori, verranno lasciate libere di scorrazzare a Cormanthor, di abbattere alberi e di invadere il nostro spazio vitale. Oh, ho udito che progettate di mettere noi signori a capo della gestione forestale, per decretare quali alberi si debbano abbattere e quali no. Ma, Lord Eltargrim, riflettete: quando un albero è tagliato, e muore, il danno è fatto, e nessun tipo di scuse lacrimose per aver scelto quello sbagliato lo riporteranno in vita. Potrà farlo la magia, certo, ma quanta saggezza ed energia dei nostri migliori maghi è andata sprecata, nei dodici inverni passati, per escogitare nuovi incantesimi che facessero crescere gli alberi dai ceppi, e che rendessero la foresta più vitale? Tali magie non sarebbero necessarie se impedissimo semplicemente agli uomini di entrare. Prima avete detto che la pigrizia degli uomini farà sì che la maggior parte di essi non causino guai. Forse è vero, ma troppo spesso vediamo un altro tipo di uomini: gli avventurieri irrequieti, quelli che devono esplorare per curiosità e distruggere per brama di dominio. Sappiamo inoltre che gli uomini sono avidi, quasi come i nani. E voi progettate di invitarli nel cuore di Cormanthor. Loro abbatteranno gli alberi, e i nani faranno altrettanto per alimentare i fuochi delle loro fucine

Quando Lord Malgath pronunciò tali parole, si levarono alcune grida di assenso; il Coronal allora attese il ritorno al silenzio e domandò: «È questa la vostra unica preoccupazione, signori? Che il regno di oggi venga spazzato via se mai consentiremo ad altre razze di insediarsi nella nostra città, e in altre aree a noi care? Gli halfling in particolare, molti mezzo sangue, e persino alcuni uomini hanno abitato per anni ai confini del nostro regno e tuttavia noi oggi siamo qui, liberi di discutere. Manderò alcuni armathor a controllare, se desiderate, ma sono sicuro che nessun uomo ha oltrepassato la soglia di questa corte oggi».

Vi fu un lieve scroscio di risa, ma Lord Haladavar ringhiò: «Trovo che ciò non sia affatto divertente, Onorato Signore. Uomini e nani, in particolare, hanno l’abitudine di ignorare o distorcere ogni autorità imposta, e di sfidare la Gente ogni volta capiti loro l’occasione. Se li lasceremo entrare, ci scalzeranno, ci inganneranno, e ci supereranno per numero. Molto presto verremmo costretti ad abbandonare Cormanthor!»

«Ah, Lord Haladavar», esclamò Eltargrim, sporgendosi dal trono, «avete sollevato la ragione precisa per cui proposi quest’Apertura: se non permetteremo agli uomini di condividere il regno ora, alle nostre condizioni e sotto il nostro governo, essi lo invaderanno, esercito dopo esercito, e sopraffaranno la Gente in uno o due secoli al massimo. Per allora saremo tutti morti e nessuno potrà più esser cacciato da Cormanthor».

«Pura fantasia!», protestò Lord Urddusk. «Gli umani non sono in grado di schierare eserciti capaci di vincere la minima scaramuccia contro l’orgoglio del regno!»

«Già», affermò serio Haladavar. «Nemmeno io riesco a credere a tale minaccia».

Lord Malgath si limitò a sollevare un sopracciglio in segno d’incredulità.

Il Coronal reagì imponendo il silenzio e chiamò: «Mia messaggera, venite avanti!»

Alais Dree lasciò la soglia della Camera della Corte. Dopo tre passi dalla sua tunica ufficiale, luminosissima, spuntarono un paio d’ali, e la donna volò oltre i tre signori minacciosi per inginocchiarsi davanti al trono. «Grande Signore, che cosa desiderate?»

«Questi signori mettono in dubbio la capacità della macchina da guerra umana, e temono che le mie affermazioni siano tese solo a sostenere la mia proposta. Svelate loro che cosa avete visto nelle terre degli uomini».

Alais si alzò, fece un inchino, e si voltò. Guardò a uno a uno i tre nobili, e affermò bruscamente: «Non sono un burattino del trono, signori, né debole di carattere in quanto giovane, o in quanto donna, e conosco gli uomini e le loro azioni meglio di voi tre messi insieme».

Vi fu un altro mormorio di allarme nella sala quando i tre capo-casata scostarono nuovamente la tunica per rivelare le spade; Alais si strinse nelle spalle. Sette spade apparirono dal nulla davanti a lei, la punta vibrante puntata contro gli elfi, per scomparire dopo pochi istanti. La messaggera non vi prestò attenzione e continuò: «Da ciò che ho potuto vedere, gli umani hanno le proprie faide, e sono molto disorganizzati, nonché indisciplinati e poco istruiti in materia di foreste. Tuttavia, il loro numero è superiore al nostro, di venti a uno, e molti più uomini che elfi sanno maneggiare seriamente una spada. In battaglia sono crudeli, rapidi, e abili, e possiedono un grande spirito di adattamento a ogni situazione; se ci invadono, signori, riusciremo probabilmente a strappar loro due o tre vittorie, magari anche un massacro decisivo. Ma essi si riprenderanno, e ci perseguiteranno nuovamente prima del trascorrere di due stagioni. Credetemi, per favore: non voglio che il regno si addolori per voi quando vi ricrederete nella morte».

Alais continuò: «A coloro che, udendomi, diranno: “Allora partiamo, e distruggiamo tutti i regni umani, cosicché non possano più inviare eserciti contro di noi”, io risponderò soltanto: no. Gli uomini si uniranno per distruggere un nemico comune; noi saremo uccisi fuori dal nostro regno, solo per lasciarlo indifeso quando giungerà il contrattacco. Inoltre, chiunque faccia guerra agli uomini, si fa di essi un nemico eterno: essi serbano rancore, signori, proprio come noi. Colpire ora una terra, o semplicemente umiliarla, significa far sì che la sua prossima generazione, o quella successiva, torni da noi in cerca di vendetta, e gli uomini hanno venti o più generazioni per ognuna delle nostre».

«Accetterete, signori», domandò il Coronal dolcemente, «la testimonianza della nostra messaggera? Ammetterete che ha probabilmente ragione?»

I tre nobili spostarono il peso da un piede all’altro, a disagio, poi Urddusk sbottò: «E se lo faremo?»

«Se lo farete, signori», rispose Alais, sorprendendo tutti, tranne Eltargrim, per la sua intromissione, «allora vi dichiarerete d’accordo col Coronal a combattere per salvare Cormanthor, e resterà da discutere solo il modo per farlo».

La donna si volse verso il trono, il governatore la ringraziò con un sorriso e la congedò. Mentre la messaggera si accinse a ritirarsi, egli parlò nuovamente: «Ascoltate la mia volontà, signori. L’Apertura procederà, ma solo quando avrò sistemato una certa cosa».

Tutti i cortigiani pendevano ora dalle sue labbra in un silenzio attonito.

«Miei signori, voi tutti avete sollevato preoccupazioni giuste e serie riguardo la sicurezza della Gente in una Cormanthor “aperta”. Invitare altre razze senza che gli elfi di questo regno detengano una sorta di controllo e siano completamente protetti è sicuramente impensabile. La protezione, tuttavia, non potrà essere garantita solo dalla legge, poiché potremmo benissimo venire travolti ed essere incapaci di imporla con la forza. Malgrado ciò, la nostra razza è ancora superiore agli uomini in un campo, almeno per qualche stagione ancora: la magia».

Il Coronal fece un cenno e improvvisamente numerosi cortigiani vennero avvolti da un’aurea dorata, qua e là per la sala. Essi si guardarono sorpresi il corpo, mentre gli altri si allontanavano. Eltargrim puntò un dito verso gli elfi illuminati, e osservò: «Coloro che hanno i mezzi, o l’abilità, si sono da sempre confezionati mantelli di difesa personale, o hanno ingaggiato altri per crearli. Noi abbiamo bisogno di un mantello che avvolga l’intera Cormanthor. Avremo una tale protezione prima che la città sia aperta a chi non è di puro sangue elfo».

«Ma ciò che dite è impossibile da realizzare!», mormorò Lord Urddusk.

Il Coronal si mise a ridere. «“Impossibile” è un termine che non mi piace venga pronunciato a Cormanthor, mio signore. Poiché costituisce quasi sempre motivo di imbarazzo per chiunque lo proferisca!»

Haladavar accostò il viso all’orecchio di Urddusk e mormorò: «State tranquillo! Lo dice solo per poter rinunciare al suo progetto con dignità! Abbiamo vinto!»

Sfortunatamente, Alais Dree sembrò aver lasciato qualche traccia della sua magia amplificatrice, poiché le parole sussurrate raggiunsero ogni angolo della stanza. Il viso di lord Haladavar divenne rosso fuoco, ma Eltargrim rise allegramente e puntualizzò: «No, signori, io dico sul serio! L’Apertura avrà luogo, ma la Gente sarà ben protetta!»

«Suppongo che ora sperpereremo gli sforzi migliori dei nostri giovani maghi per questa follia, per le prossime quaranta stagioni, non è vero?», domandò furioso Lord Malgath.

Il bagliore di una delle piccole sfere antiquate, note come segnali di arrivo, si riversò tra i cortigiani, e tutti si voltarono per vederne la fonte. Il commento di Malgath rimase sospeso senza risposta e nella sala si levò un lieve brusio, finché la messaggera del Coronal non scivolò fra la schiera di elfi ben vestiti, dall’aria pressoché inebetita, come una vespa che cerca di pungere, e raggiunse infine un elfo anziano avvolto da una tunica nera, disadorna. La donna sorrise, si volse verso il trono e annunciò: «Mythanthar vorrebbe parlare».

I tre signori aggrottarono perplessi le sopracciglia e i cortigiani mormorarono nuovamente eccitati. Eltargrim, tuttavia, impose il silenzio con un semplice gesto. Fu allora che Alais Dree toccò il vecchio mago con una manica e, per magia, la sua voce sottile e tremante si udì forte e chiara nell’ampia sala. «Vorrei ricordare ai cormanthoniani i “campi magici” che tentai di sviluppare da mantelli protettivi tremila anni orsono, a uso dei nostri capitani di guerra. A quel tempo non ce ne fu più bisogno, e io mi dedicai ad altre faccende, ma ora so in quale direzione lavorare ed ho compreso cose che allora mi erano sconosciute. In passato, i nostri tessitori di magia potevano facilmente alterarne l’effetto in una determinata area. Io elaborerò un incantesimo che faccia lo stesso, e darò a Cormanthor il suo mantello. Da capo a capo di questa splendida città vi sarà un “mythal”. Datemi tre stagioni per organizzarmi, e vi saprò dire di quante ancora avrò bisogno».

Seguì un momentaneo silenzio, in attesa di altre parole, ma Mythanthar fece un gesto di congedo, e si allontanò dalla messaggera, al che la corte proruppe in un chiacchierio concitato.

«Mio signore», sbottò Lord Malgath, avvicinandosi al trono e sollevando le braccia nell’impazienza di essere ascoltato (sopra le teste ignare la Srinshee puntò due scettri contro di lui, il viso contratto e serio). «Per favore ascoltatemi: è imperativo che questo “mythal” impedisca l’uso della magia a tutti i non elfi: in pratica a tutti coloro che non possiedono puro sangue di Cormanthor!»

«E deve essere noto a tutti i popoli che vi entreranno», affermò eccitato Lord Haladavar, «per proteggerci dalle bestie mutaforma e da tutti coloro che osano impersonare elfi, o signori elfi specifici!»

«Sono d’accordo!», esclamò Lord Urddusk. «Dovrebbe inoltre, per la stessa ragione, rendere visibili le cose che non lo sono, e prevenire il teletrasporto fuori e dentro di esso, altrimenti saremo invasi ogni notte da avventurieri!»

Quasi tutti gli elfi di corte ora gridavano, spingevano, agitavano testa e braccia per proporre ognuno il proprio suggerimento; mentre il chiasso imperversava, il Coronal tese le braccia rassegnato e premette uno dei bottoni nascosti in un bracciolo del trono.

Quando l’onda luminosa d’urto ebbe effetto, vi fu un bagliore accecante, che impedì a quasi tutti i presenti di vedere il pugnale lanciato a Eltargrim dalle fila di cortigiani. L’arma colpì il campo magico creato dallo scettro che la Srinshee teneva nella mano sinistra, e fu trasportata in una cantina nelle profondità dell’ala settentrionale del palazzo.

L’espediente ebbe l’effetto voluto: tutti, eccetto il Coronal sul trono, arretrarono e ammutolirono.

Nel mormorio sommesso che seguì, mentre la corte si sfregava gli occhi, il governatore di Cormanthor affermò gentilmente: «Nessun mythal può sperare di includere tutti i desideri espressi da ogni cittadino del regno, ma prometto di esaminare i vostri suggerimenti. Per favore, che ognuno riferisca i propri desideri alla messaggera di corte; lei li farà pervenire a me e ai maghi anziani. Mythanthar, vi ringrazio sentitamente, e spero che tutta Cormanthor farà presto eco ai miei ringraziamenti. Desidero che elaboriate una versione iniziale del vostro mythal, non importa quanto incompleta o grezza, il più presto possibile, per sottoporla alla corte».

«Onorato Signore, farò come desiderate», rispose l’anziano mago con un profondo inchino. Si voltò nuovamente, e in alto sopra di lui, la Srinshee spalancò gli occhi. C’era stato, o non c’era stato, per un istante un cerchio di nove scintille attorno alla testa di Mythanthar?

Be’, ora non c’era nessun cerchio. Accigliata, Oluevaera lo osservò allontanarsi con passo incerto verso uno degli arazzi, il volto pensieroso. I suoi occhi si spalancarono ancora un istante, e questa volta uno degli scettri nelle sue mani sobbalzò lievemente ed emise un incantesimo.

Il vecchio mago passò fra gli arazzi, e la Srinshee fu lieta di notare che due dei migliori giovani armathor del Coronal scattarono davanti e dietro di lui, formando un campo antimetallo con i loro mezzi mantelli ornamentali, chiaramente visibile alla sua vista da maga. Il mantello di Mythanthar stesso avrebbe dovuto tenere a bada qualsiasi incantesimo, e l’anziano presto sarebbe stato nuovamente al sicuro nella sua torre.

La Srinshee osservò truce un cortigiano con una tunica color prugna, di cui non conosceva né nome né lignaggio, accasciarsi contro un muro, guardandosi la mano. Aveva il volto cadaverico e la bocca, aperta per lo shock, non emetteva alcun suono.

La mira della maga era stata eccellente; quella mano ora somigliava a un artiglio secco, chiazzato dalla vecchiaia, e troppo debole per impugnare il pugnale a tripla lama giacente sul pavimento davanti a lui.


«Devo confessare che sto ancora gongolando per il successo ottenuto da Duilya», esclamò Alaglossa Tornglara, una volta allontanatasi dai servi. I due gruppetti di paggi in uniforme appoggiarono cautamente gli acquisti delle padrone sul ciglio della strada, e rimasero in paziente attesa, a guardia dei pacchi.

«Non sarà sempre tanto facile, temo», mormorò Ithrythra Mornmist.

«Hai ragione; hai visto Lady Auglamyr? Amaranthae, intendo. Oggi era quieta e silenziosa come una statua; mi domando se il corteggiamento di un certo mago supremo non la stia infastidendo».

«No», rispose lentamente Ithrythra, «si tratta di qualcosa d’altro. È preoccupata per qualcuno, non per se stessa. Bada appena a ciò che indossa, e invia paggi per continue commissioni. Ha perso qualcosa… o qualcuno».

«Mi domando che cosa possa essere accaduto», sospirò Lady Tornglara, i bei lineamenti improvvisamente oscurati da un velo di solennità. «Deve trattarsi di qualche cosa di serio, ci scommetto».

«Ora si tessono intrighi per strada?» La voce che le colse di sorpresa aveva un non so che di arrogante; Elandorr Waelvor, fiore all’occhiello della terza casata più antica del regno, aveva un’aria molto allegra.

Era elegante col suo giustacuore di velluto nero bordato da fulmini bianchi, col mantello purpureo dalla fodera color magenta e con gli stivali di un nero sfavillante, alti fino alle cosce. Le sue dita sottili erano adorne di anelli, e il fodero d’argento gemmato della spada d’onore era tanto lungo da sbattergli a ogni passo contro la caviglia. Le due donne osservarono il suo incedere impettito, i volti inespressivi.

Elandorr sembrò percepire la loro tacita disapprovazione; abbassò la testa, intrecciò le mani dietro la schiena e cominciò a girare loro intorno.

«Nonostante sia piacevole vedere le casate più giovani e vigorose di Cormanthor interessate ai fatti del regno», affermò con disinvoltura, «debbo avvertirvi, signore, che troppe chiacchiere sugli affari importanti potrebbero portare guai. Recentemente sono stato costretto, mio malgrado, a stroncare gli eccessi comportamentali della capricciosa Lady Symrustar, della casata novella degli Auglamyr. Avrete certo udito qualche notizia, trasportata dai deplorevoli venti del pettegolezzo, da cui sembra essere afflitta tanto intollerabilmente la nostra amata città.

L’impennata della sua voce, il tono inquisitorio e la fronte aggrottata esigevano naturalmente una risposta, e il mago rimase momentaneamente disorientato quando le due signore sollevarono silenziosamente un sopracciglio di sdegno, lo fissarono simultaneamente e non proferirono parola.

Elandorr, gli occhi brillanti d’irritazione, si sottrasse ai loro sguardi, e spostò il mantello con un gesto solenne. Poi si portò la mano al petto, sospirò teatralmente, e si volse nuovamente verso di loro. «Mi dispiacerebbe profondamente», affermò con tono accorato, «udire in città la medesima tragica notizia riguardante le fiere signore Mornmist e Tornglara. Tuttavia tali disgrazie succedono molto spesso alle donne che non stanno al proprio posto, nella nuova Cormanthor».

«Di quale “nuova Cormanthor” parlate, Lord Waelvor?», domandò piano Alaglossa, gli occhi spalancati.

«Suvvia, del regno che ci circonda, conosciuto e amato da tutti i veri cormanthoniani. Di questo reame, come sarà tra una luna o due, rinnovato e rimesso sulla giusta strada, quella dei nostri antenati, e di quelli prima di loro».

«Rinnovato? Da chi, e come?», s’intromise maliziosa Ithrythra. «Da giovanotti timidi e gongolanti?»

Elandorr la guardò in cagnesco, e le mostrò i denti in un sorriso poco amichevole. «Non dimenticherò la vostra insolenza, “Signora”, e agirò di conseguenza: statene certa!»

«Lord, vi aspetterò», esclamò l’elfa, abbassando il capo con rispetto, roteando nel contempo gli occhi.

Con un grugnito Elandorr la superò, allargando deliberatamente un gomito per colpirla sulla testa ma, mentre la donna si toglieva dalla sua portata, si ritrovò a colpire la schiena di un servo apparso dal nulla per assistere Lady Tornglara. Il mago si guardò attorno rabbiosamente e vide i servi di entrambe le donne stringersi su di lui con pugnali e fruste tra le mani. Il rampollo dei Waelvor ringhiò e affrettò il passo, sottraendosi agli elfi armati.

I servi allora si radunarono intorno alle padrone, che si guardarono in faccia e scoprirono che entrambe avevano gli occhi più scuri, il respiro affannoso, le narici fumanti, e la punta delle orecchie rossa di rabbia.

«Un nemico pericoloso, e ora pienamente consapevole di te, Ithrythra», la avvertì delicatamente Alaglossa.

«Ah, ma guarda quanto ha spifferato sui progetti futuri di qualcuno, solo per aver perso la calma», ribatté Ithrythra. Poi guardò i servitori attorno a loro ed esclamò: «Vi ringrazio tutti. È stato coraggioso da parte vostra gettarvi nel pericolo, quando avreste potuto – dovuto – starvene al sicuro».

«No, Signora; era tutto ciò che potevamo fare, anche per mantenere il nostro onore», mormorò uno dei più anziani.

Ithrythra gli sorrise e rispose: «Bene, se mai mi dovessi comportare tanto maleducatamente come quel giovanotto, avete il mio permesso di gettarmi nel fango e di usare quel frustino una o due volte sul mio posteriore!»

Vi fu un generale scroscio di risa, che dopo pochi istanti si affievolì lentamente, quando, uno alla volta, servi e padrone, si voltarono e guardarono lungo la strada, per scoprire che Elandorr Waelvor non si era, dopotutto, allontanato tanto. Il mago ovviamente pensò che stessero ridendo alle sue spalle, e rimase a fissarli con gli occhi colmi d’odio.


Lord Ihimbraskar Evendusk fluttuava a suo agio parecchi centimetri sopra il letto, nudo come il giorno della sua nascita, e sorrideva alla sua signora come un giovane elfo innamorato.

Lady Duilya Evendusk ricambiò il sorriso, il mento appoggiato sulle mani, i gomiti in aria. Indossava soltanto sottili catene d’oro tempestate di gemme, che penzolavano sul letto sottostante.

«Dunque, marito mio, quali sono le novità di oggi?», mormorò, ancora soddisfatta che Ihimbraskar, dopo la riunione di corte, si fosse precipitato a casa a svestirsi, e che avesse reagito con gioia, e non con irritazione, trovandola in attesa a letto. La bottiglia di sherry triplo, formalmente ignorata, era ancora sul pavimento dove la donna aveva ordinato che fosse messa; Duilya dubitava che il marito ne avesse bevuto una sola goccia da quando lei si era scolata l’intera bottiglia. Si domandava quando – e soprattutto se – avrebbe osato rivelargli della magia compiuta dalle sue amiche per consentirle di bere tanto.

«Tre nobili», le raccontò Ihimbraskar, «Haladavar, Urddusk e quel serpente di Malgath, sono venuti a Corte e hanno domandato al Coronal di riconsiderare l’Apertura. Avevano spade da tempesta, e minacciarono di usarle».

«E sono ancora vivi?», domandò ironicamente Duilya.

«Sì. Eltargrim ha scelto di considerare le loro armi quali “errori di giudizio”».

Duilya sbuffò. «L’armathor nemico sputò sangue quando il mio errore di giudizio lo colpì nelle parti vitali», dichiarò animatamente, agitando una mano. L’elfo ridacchiò.

«Aspetta, tesoro, c’è dell’altro», affermò, rotolandosi. Lei alzò le spalle affinché parlasse, e i capelli le scivolarono sulla schiena.

Ihimbraskar osservò le sue trecce oscillare avanti e indietro, poi continuò: «Il Coronal ha osservato che le loro preoccupazioni erano valide, ha domandato alla sua messaggera di spaventarci tutti con testimonianze sulla potenza bellica umana, e affermato che l’Apertura si farà: ma solo dopo che la città sarà stata avvolta da un gigantesco mantello magico!»

Duilya si accigliò. «Che cosa? Ancora il “mythal” del vecchio e folle Mythanthar? A che cosa servirà, se il regno sarà aperto a tutti?»

«Sì, Mythanthar, e il mantello ci consentiranno di controllare ciò che faranno gli intrusi non elfi, le loro eventuali magie, e tutto quello che nascondono», rispose il marito.

Duilya si avvicinò a lui, e mentre allungava una mano per accarezzargli il petto, aggiunse dolcemente: «Anche ciò che faranno gli elfi, mio signore: anche gli elfi!»

Lord Evendusk iniziò a scuotere il capo, poi s’irrigidì, assunse un’aria molto pensierosa, ed esordì sotto voce: «Duilya, come ho fatto ad astenermi dalla stupidità assoluta, in tutti questi anni in cui ti ho ignorato? Gli incantesimi possono esser creati in modo da avere effetto solo su creature di certe razze, e ignorare le altre: ma sarà davvero così? Che arma nelle mani di un Coronal!»

«Credo sia meglio, caro», iniziò Duilya, girandosi per appoggiare il lato della faccia contro quella di Ihimbraskar e guardarlo con occhi solenni, «lavorare sodo per far sì che Eltargrim rimanga il nostro Coronal, e che non venga sostituito da uno di quegli ambiziosi ardavanshee: magari uno degli odiosi figli delle tre casate maggiori. Essi vedono gli uomini come serpenti striscianti o viscide lumache, ma considerano noi altri elfi di Cormanthor alla stregua del bestiame. Con l’Apertura il loro nobile status verrà messo in discussione, ed essi diventeranno spietati e disperati nelle loro azioni».

«Perché non sei un consigliere di corte?», sospirò Ihimbraskar.

Duilya si portò sopra di lui e rispose dolcemente: «Lo sono. Io consiglio la corte mediante te».

Lord Evendusk grugnì. «Già. Mi fai sembrare una sorta di lacchè che ogni giorno mandi allo sbaraglio per divulgare le tue idee».

L’elfa sorrise e rimase in silenzio. I loro sguardi s’incrociarono, e i due rimasero a fissarsi. Negli occhi di Duilya vi era un brillante luccichio.

Un lieve sorriso increspò la bocca di Ihimbraskar, solitamente dura e seria. «Corellon ti elogi e ti condanni, moglie mia», affermò, un istante prima di mettersi a ridere a crepapelle.

15. Finalmente un Mythal?

Accadde che Elminster venne ucciso dagli elfi, o quasi, e che per grazia di Mystra aleggiò su Cormanthor sotto forma di fantasma, impotente e invisibile: simile, hanno affermato alcuni, alle numerose sguattere al servizio di una nobile signora. Come per tali fanciulle, la sventura si sarebbe abbattuta sull’ultimo principe di Athalantar se fosse stato notato dai potenti. Le maghe maestre degli elfi erano potenti a quei tempi, e rapide nell’ingaggiare guerra e nello sferrare incantesimi sconsiderati. Esse vedevano il mondo attorno a loro, e tutti gli uomini in esso, come giocattoli ribelli da domare spesso, velocemente, e duramente. Ancora oggi molti elfi non hanno cambiato opinione.

Antarn il Saggio

Da La grande storia della potenza degli arcimaghi faerûniani

Pubblicata approssimativamente nell’Anno del Bastone

Symrustar era nuda, il viso ridotto a una maschera scura di sangue secco. Aveva lo sguardo fisso oltre l’ombra dei capelli penzolanti, ma non vedeva né Elminster né le cose che la circondavano. Ansimava e piagnucolava, e una schiuma densa fuoriusciva dagli angoli della sua bocca tremante. Se dietro a quegli occhi vi era ancora una mente sana, Elminster non riusciva a capirlo.

Elandorr doveva essere un rivale ancor più sadico di quanto Symrustar avesse immaginato. El si sentì male. Era lui la causa di ciò, poiché aveva permesso a Elandorr di oltrepassare le difese della ragazza e vedere nella sua mente. E lui avrebbe fatto il possibile per rimediarvi.

Lady, esclamò, o perlomeno tentò di farlo. Symrustar Auglamyr, chiamò piano, sapendo di non emettere alcun suono. Forse se fosse entrato direttamente nella sua testa… o ciò le avrebbe fatto ancor più male?

In quel momento l’elfa rischiò di cadere sulla faccia, dopo essere inciampata in un’asperità del terreno, ed Elminster si strinse nelle spalle. Peggio di così non poteva diventare! Il pericolo di un predatore era reale, e sarebbe aumentato al calar del sole. El oltrepassò i suoi occhi ed entrò nell’oscurità confusa della sua mente, cercando di percepire qualcosa intorno a sé mentre pronunciava nuovamente il suo nome. Nulla.

Il principe si mosse attraverso il corpo della ragazza torturata, e guardò triste il suo sedere mentre l’elfa si allontanava carponi, emettendo curiosi versi con la bocca gocciolante di saliva. El non poteva fare nulla.

Nel suo stato attuale non poteva nemmeno accarezzarla dolcemente o parlarle. Era davvero un fantasma, e lei stava forse morendo, probabilmente pazza. La Srinshee avrebbe potuto aiutarla, ma egli non sapeva davvero dove trovarla.

Mystra, gridò ancora, aiutami! Per favore!

Il principe rimase in attesa, guardando ansiosamente, di tanto in tanto, negli occhi spenti di Symrustar, che continuava a trascinarsi per terra, ma per quanto a lungo strillasse, El non udiva risposta. Incerto sul da farsi, fluttuò accanto alla maga gemente, che proseguiva il suo doloroso viaggio nel sottobosco.

Una volta esclamò: «Elandorr, no!» e il giovane fantasma sperò di sentire altre parole compiute, ma l’elfa grugnì, emise una sorta di guaiti, e poi scoppiò in lacrime: lacrime che si trasformarono nuovamente in un sordo mormorio.

Forse nemmeno Mystra poteva udirlo. No, che sciocchezze stava pensando; doveva essere stata lei a rimetterlo insieme dopo la sua follia al castello diroccato. Ma, a quanto pareva, voleva che il suo Eletto imparasse una lezione.

Se avesse oltrepassato le montagne e il deserto e avesse raggiunto il tempio della dea oltre il regno di Athalantar, o uno degli altri luoghi sacri di cui aveva sentito parlare, forse i sacerdoti avrebbero potuto restituirgli un corpo solido.

Sempre che fossero capaci di percepirlo, s’intende. Chi gli assicurava che vi sarebbero riusciti se nemmeno gli elfi di Cormanthor potevano vederlo?

Forse sarebbe stato notato se fosse passato attraverso un incantesimo rivelatore, o si fosse imbattuto nelle stanze di un mago intento a creare un nuovo sortilegio. Se, tuttavia, avesse abbandonato Symrustar…

Si librò in alto, colto da una profonda esasperazione, e giunse a una dolorosa conclusione: se fosse stata attaccata o uccisa, non avrebbe potuto far altro che stare a guardare. Se fosse riuscito a riavere il suo corpo, sicuramente avrebbe potuto ricorrere agli incantesimi per rintracciarla, o almeno mandare qualcuno a soccorrerla; la Srinshee, per esempio. Non avrebbe infatti avuto molte probabilità di convincere Casa Auglamyr che lui, l’odiato armathor umano, sapeva che Elandorr Waelvor aveva lasciato la loro carissima figlia ed erede strisciare nella foresta come un animale impazzito.

No, non poteva far nulla per Symrustar. Non sarebbe certo stato come lasciar morire un’innocente che nulla aveva fatto per attirare su di sé tale disgrazia. No, per tutti gli dei del cielo, si meritava tutto ciò, e anche di peggio, prima ancora che l’umano Elminster apparisse nella sua vita e diventasse una facile vittima della sua crudeltà.

E, ciononostante, si sentiva colpevole della sua presente condizione, come fosse stato lui a distruggerle mente e corpo.

Doveva tornare in città, e sperare di riuscire a comunicare con qualcuno. Animato da quel pensiero, El si lanciò tra gli alberi, senza disturbarsi di schivarli, e raggiunse poco dopo le strade e le magnifiche abitazioni di Cormanthor. Passò persino attraverso l’armatura lucente di un capo pattuglia che stava disponendo i suoi guerrieri in formazione per lasciare la città.

Presto sarebbe stato buio. El si lanciò attraverso una fila di sfere luminose sospese sulla seconda strada incrociata, nella quale si stava svolgendo una festa improvvisata; una di esse sembrò oscillare e tremolare al suo passaggio, ma il giovane non sentì nulla.

Svoltò nuovamente verso il palazzo del Coronal, e vide un bagliore tenue provenire da una torre mai notata prima. L’ultima luce del giorno stava abbandonando i giardini; El rallentò vicino alla finestra e vide, nella stanza all’interno della torre, il Coronal seduto su una sedia, apparentemente addormentato, e la Srinshee, appoggiata a uno dei braccioli, che stava parlando con le sei maghe di corte, sedute in cerchio attorno alla sedia.

Se mai avesse avuto una speranza di trovare aiuto a Cormanthor, questa si trovava proprio in quella camera. Elminster perlustrò rapidamente le mura del palazzo in cerca di una via d’entrata.

Trovò quasi subito una finestra lievemente aperta, ma scoprì che dava su un magazzino isolato dal resto del palazzo. Uscì rapidamente, colmo di frustrazione, poiché la conversazione in atto nella stanza illuminata avrebbe potuto terminare da un momento all’altro, senza che lui avesse udito nemmeno una parola. Scrutò il muro palmo a palmo, sinché non trovò una di quelle grandi finestre i cui “vetri” non sono affatto tali, bensì invisibili campi magici.

Quando vi passò attraverso percepì un lieve formicolio, e si voltò con l’intenzione di attraversarla nuovamente, nella speranza che ciò annunciasse un ritorno alla solidità, ma no… forse più tardi. Ora doveva origliare.

Sapeva qual era la stanza. Prese la direzione giusta, come confermarono le tre sensazioni di formicolio che percepì a mano a mano che si avvicinava, incontrando un incantesimo dopo l’altro. La Srinshee non desiderava certamente che qualcuno udisse per caso quanto si stava dicendo in quella stanza.

La porta era vecchia e massiccia, ma talmente consumata che attorno al telaio si era formata una fessura di grandi dimensioni. El vi si precipitò attraverso, e raggiunse il cerchio di maghe in ascolto attorno alla minuscola figura.

Oluevaera non diede alcun segno di percepirlo né di udirlo, quando El urlò il suo nome e agitò le mani dentro di lei. Il principe sospirò, rassegnato alla sua condizione di fantasma silenzioso, e si sedette sul bracciolo libero della sedia del Coronal, per udire la conversazione. Sembrava fosse arrivato in tempo – grazie a Mystra – per la parte migliore.

«Bhuraelea e Mladris», stava dicendo la Srinshee, «devono proteggere il corpo di Mythanthar tutto il tempo, oltre che loro stesse, poiché ogni nemico respinto in un attacco iniziale a Emmyth cercherà sicuramente la fonte della sua protezione e tenterà di eliminarla. Il suo mantello supera i nostri, e suggerisco solo un’aggiunta: Sylmae, tu getterai la rete di osservazione che ti ho dato in modo da collegarti col mantello di Emmyth. Tu e Holone farete a turno a osservarlo. Esso si rivolterà contro chiunque tenti di penetrarlo con incantesimi, sì, ma tali aggressori potrebbero essere ben protetti e non subire alcun danno. Desidero che voi non li colpiate, e vi limitiate a identificarli e a informarci il più presto possibile».

«Questo ci lascia ancora una volta disoccupate», esclamò triste la maga Ajhalanda, indicando se stessa e Yathlanae, la ragazza elfa che sedeva al suo fianco.

«Assolutamente no», sorrise loro la Srinshee. «Il vostro compito comune sarà di effettuare incantesimi che permettano di ascoltare chiunque nel regno pronunci i nomi «Emmyth», o «Mythanthar» o persino «Lord Iydril», nonostante io sospetti che pochi del Cormyth odierno ricordino quel titolo. Identificateli, cercate di capire ciò che dicono, e fate rapporto».

«C’è altro?», domandò Holone con aria annoiata.

«So che cosa significa essere giovani, e impazienti di agire», affermò piano Oluevaera. «Osservare e attendere è il lavoro più faticoso, ragazze. Credo sia meglio rincontrarci qui fra quattro giorni e scambiarci i ruoli».

«Voi che cosa farete?», domandò Sylmae, approvando con un cenno di capo il piano della Srinshee.

«La guardia al Coronal, naturalmente», rispose Oluevaera con un sorriso. «Qualcuno dovrà pur farlo».

Le maghe incresparono le labbra, divertite, mentre la Srinshee abbozzava un mezzo sorriso e guardava le maghe a una a una per ricevere da tutte lievi cenni di consenso.

«So che per voi sei è irritante lavorare senza ostacoli», aggiunse dolcemente, «ma sospetto che quel tempo giungerà presto, quando le casate più fiere del regno si renderanno conto che un mythal porrà fine ai loro incantesimi e alle loro attività segrete. Allora sì che inizieranno i guai seri».

«Fino a che punto possiamo spingerci, se le cose dovessero precipitare e scatenare una battaglia d’incantesimi?», domandò tranquilla Holone.

«Oh, questo accadrà di sicuro, collega», rispose la Srinshee. «Allora sarete libere di fare tutto il necessario: fulminare il nemico a piacimento, fino alla sua morte e oltre. Non esitate a colpire qualsiasi cormanthoniano di cui conoscete le intenzioni, e che operi contro il Coronal o contro la creazione di un mythal. È in gioco il futuro del regno: nessun prezzo è troppo alto da pagare».

Le maghe annuirono in un cupo silenzio. Il Coronal scelse proprio quell’istante per iniziare a russare; la Srinshee lo guardò con tenerezza mentre le sei donne si accingevano ad alzarsi, sorridendo.

«Affrettatevi!», le esortò con sguardo scintillante. «Siete le guardiane di Cormanthor, e il suo futuro. Andate, e tornate vincitrici!»

«Agli ordini», intonò Sylmae imitando la voce di un uomo e battendosi il petto, «Regina degli Incantesimi!»

Si trattava evidentemente di una sorta di citazione; vi fu un brusio di risa, ma subito le sei maghe si avviarono verso l’uscita in un turbinio grazioso di lunghi capelli e tuniche e di gambe ancor più lunghe. El lanciò un’occhiata breve e triste alla Srinshee, che ancora non riusciva a udirlo; seguì la maga chiamata Bhuraelea, e osservò il viso e la forma di Mladris, nel caso fosse invece necessario scortare silenziosamente quest’ultima.

Per combinazione, le due donne, alte e slanciate, rimasero insieme e proseguirono per un corridoio con la velocità di un vento tempestoso. «Sarà il caso di mangiare qualcosa, che ne pensi?», chiese Bhuraelea alla collega, mentre oltrepassavano l’ultima barriera magica del palazzo e si rendevano invisibili. El, a poca distanza da loro, fu sollevato nel constatare che alla sua vista rimanevano chiaramente visibili, nonostante i loro corpi ora sembrassero orlati da un bagliore bluastro, simile alla forte luce invernale delle stelle riflessa dalla neve.

«Ho provveduto a raccogliere un po’ di cibo», rispose Mladris. «Lo evocherò prima di penetrare la prima difesa», aggiunse arricciando il naso. «Aspetta di vedere la torre; alcuni vecchi concepiscono la casa come una discarica».


Le due maghe si passavano a vicenda una caraffa di acqua e menta e una torta fredda di gallo cedrone mentre scivolavano attraverso le barriere luminose che circondavano la torre piuttosto sgangherata del mago Mythanthar. Strarfall Turret somigliava a un lungo tumulo funerario ricoperto di erba, solcato, da un lato, da numerose finestre, e terminava a nord in una tozza torre dai muri di pietra grezza. Il giardino era un intrico di ceppi, alberi caduti, cespugli e rampicanti, che alla luce del crepuscolo apparivano come un guazzabuglio scuro di dita di giganti che si stagliavano nel cielo.

«Per tutti gli dei», mormorò Bhuraelea. «Difendere tutto ciò da nemici furtivi richiederebbe un esercito».

«E noi che cosa siamo?!», esclamò allegramente Mladris. «Grazie al cielo i nostri nemici non saranno probabilmente molto furtivi. Tenteranno piuttosto di annientare le barriere con incantesimi da far tremare il mondo», aggiunse la maga.

«Tre barriere… no, quattro. Dovranno darsi un bel da fare», osservò Bhuraelea, dopo aver terminato la torta ed essersi leccata le dita. Una luce si accese brevemente in una delle finestre superiori della torre.

«Ci sta già lavorando», concluse Mladris.

Bhuraelea fece una smorfia. «Probabilmente ha iniziato appena ha messo piede fuori dalla Camera della Corte», rispose. «Lady Oluevaera mi ha riferito che quando è intento a perseguire uno scopo, è come se avesse i paraocchi. Potremmo danzare nude attorno a lui e cantargli seducenti canzoni all’orecchio, ma egli si limiterebbe a mormorare quanto sia piacevole avere intorno una tale energia e ci chiederebbe di passargli per favore questa e quella polvere!»

«Oh, dei», implorò Mladris roteando gli occhi «fate che non diventi tanto vecchia da ridurmi in quel modo».

«Il tuo desiderio sarà esaudito», esclamò compiaciuta una voce glaciale.

Un istante più tardi Faerûn esplose in un numero infinito di fulmini scoppiettanti e luminosi che sfrecciarono feroci nell’aria fino a colpire le maghe vacillanti e ammutolite, per poi proseguire la loro corsa. Mladris e Bhuraelea furono scalzate dai loro stivali finemente lavorati e scagliate in mezzo ai rovi; dalla bocca usciva loro fumo e dagli occhi fiamme intermittenti.

Persino Elminster fu colto di sorpresa: come aveva fatto a non vedere il mago elfo dalla faccia crudele, quella colonna vendicativa di nebbia che ora si stava solidificando sopra il giardino intricato? Nuvole luminose provenienti da ogni direzione si univano alla forma del mago, sempre più consistente. Mentre cresceva in altezza e diventava più solido, continuava tranquillo a colpire le sue due vittime, ora gementi, con una successione di fulmini sfrigolanti, non lasciando loro tempo di riprendersi o di fuggire.

Il mago avanzò a mezz’aria con andatura spavalda e una pioggia di scintille gli fuoriusciva dalle mani. El sentì un dolore pungente quando esse attraversarono il suo corpo immateriale. Aggirò allora il mago, avventandosi su di lui e gridando inutilmente.

La barriera più interna non era affatto una barriera, ma la forma vigile e nebulosa del mago, in attesa di aiuto, intenzionale o meno!

«Haemir Waelvor, al vostro servizio», esclamò l’elfo rivolto alle due signore, quando i loro corpi escoriati e tremanti furono tanto avvolti dai fulmini da non potersi nemmeno muovere. «Gli Starym sembrano essere in ritardo; forse volevano che facessi il lavoro sporco prima di degnarsi di apparire. Poco importa, ora che le vostre energie vitali nutrono il mio scudo. Siete qui per proteggere quel rammollito del vecchio Mythanthar, scommetto? Che peccato: sarete proprio voi la sua morte».

Bhuraelea riuscì ad emettere un grugnito di protesta; piccole fiamme nere le fuoriuscirono dalla bocca. Il corpo di Mladris penzolava flaccido, gli occhi scuri, aperti e fissi nel vuoto. Solo la pulsazione della sua gola indicava che era ancora viva.

El sentì un impeto di rabbia crescere dentro di lui come una marea purpurea, impaziente di riversarsi all’esterno. Si voltò pesantemente, lasciò che la rabbia si trasformasse in energia distruttrice, e finalmente esplose in una lunga e silenziosa carica, che lo portò attraverso i fulmini che immobilizzavano le due maghe, diritto verso Waelvor.

A metà strada si inarcò e si mise a strillare silenziosamente per il dolore e la sorpresa. Riusciva a sentire i fulmini! E anche il mago poté vedere e sentire il suo contatto; Haemir socchiuse gli occhi vedendo i suoi fulmini improvvisamente oscurati. Perché si comportavano in quel modo?

Waelvor serrò forte le labbra. Era il vecchio Mythanthar, o qualche altro ficcanaso? Poco importava. Ringhiò alcune parole, e agitò la mano per formulare un rapido incantesimo che mandò una decina di spade roteanti verso l’interferenza.

El guardò le spade apparire e cozzare a terra dietro di lui, al che si sollevò sopra i fulmini, dolorante ma esilarato. Parte della loro energia stava vorticando dentro di lui, solleticandolo spiacevolmente, facendogli uscire scintille dagli occhi e dalla bocca.

Waelvor spalancò gli occhi per la sorpresa quando percepì la sagoma indistinta, attraversata dai fulmini, di un elfo – o di un umano? – un attimo prima che questa si abbattesse su di lui.

El colpì con tutta la sua forza, sferzando e squarciando, nel tentativo di sopraffare Haemir Waelvor con la semplice ferocia. Quando «toccò» il mago, non percepì solidità, bensì solo formicolio mentre i fulmini uscivano dal suo corpo immateriale, poi avvertì un dolore bruciante quando gli incantesimi intrecciati del suo mantello cercarono di farlo a pezzi.

Quando Elminster rotolò nell’aria gridando silenziosamente dal dolore, Waelvor scosse il capo, ruggendo, e i suoi stessi fulmini gli uscirono arrotolati dalla bocca. Le sue pupille si fecero improvvisamente biancastre e luccicanti come un opale bianco: uno sguardo che El aveva veduto l’ultima volta anni addietro, negli occhi di un mago caduto vittima del suo stesso incantesimo.

El scosse a sua volta la testa e gridò ancora, cercando di riacquistare il controllo sulla sua forma distorta dal dolore. Dunque era in grado di far male, o almeno di generare confusione e dolore alla gente che attraversava, possibile?

Rabbrividì e volò verso un punto d’osservazione distante, consapevole di non poter far nulla per aiutare le due maghe, che giacevano inerti, ma finalmente liberate dai fulmini.

Doveva assolutamente sapere quanto tempo sarebbe occorso a un mago per riprendersi, e se passare attraverso il suo corpo mentre sferrava un incantesimo avesse rovinato il sortilegio.

Mystra, fa che quest’elfo impieghi tanto tempo a riprendersi, mormorò Elminster in fervente preghiera. Ma sembrava che Mystra, quel giorno, gli fosse avversa, o per lo meno che fosse dura d’orecchie: Haemir stava già barcollando e imprecando debolmente, una mano tesa per saggiare i dintorni, e una sulla testa. Il principe fantasma fu molto tentato di farsi coraggio e di lanciarsi nuovamente nel mago, ma doveva assolutamente conoscere che tipo di danno gli aveva causato. E quell’elfo borioso non aveva forse accennato all’imminente comparsa degli Starym? Sarebbe stato meglio non rendersi chiaramente visibile se fosse arrivato un gruppo di maghi crudeli, in cerca di guai.

Waelvor scosse piano il capo per schiarirsi le idee, e le sue imprecazione si fecero più forti.

Sembrava stesse per riprendersi, mentre El era ancora molto dolorante in ogni parte del corpo.

Che Mystra lo maledicesse. Avrebbe ridotto in cenere le due maghe mentre l’ultimo principe di Athalantar stava a guardare sopra di lui, senza speranza di poterlo fermare!

Naturalmente, rifletté con ironia Elminster, un istante più tardi le cose avrebbero potuto peggiorare, e molto. In quel momento, per esempio.

Una dopo l’altra, le barriere esterne vennero meno: si spaccarono in un punto con un’esplosione silenziosa di scintille, e da li scomparvero verso l’esterno. Il centro e la causa di tale distruzione era qualcosa di simile a un’alta fiamma nera, che prontamente si divise oltrepassando l’ultimo campo magico, e svanì per rivelare tre elfi di alta statura e dai lineamenti fini, avvolti in tuniche, le cui fasce di seta color fiamma recavano il simbolo dei draghi gemelli. Gli Starym erano arrivati.

«Salve, Lord Waelvor», esclamò uno di loro con tono vellutato, mentre le tre figure avanzavano insieme, calpestando l’aria con fare languido di fredda superiorità. «Che cosa ti ha disturbato, in questa notte vuota? Quelle signore hanno tentato di difendersi?»

«Un fantasma guardiano», sibilò Haemir, gli occhi rossi di dolore e di rabbia. «Ha atteso, e mi ha colpito. L’ho respinto, ma il dolore resta. E voi come state, signori miei?»

«Siamo annoiati», rispose uno di loro senza tanti complimenti. «Ma forse il vecchio pazzo ci farà divertire un po’ prima di finire ridotto in polvere. Vedremo».

Il mago che aveva appena parlato avanzò, e gli altri due Starym lo affiancarono e lo seguirono, effettuando potenti incantesimi di battaglia. Superarono Waelvor e i corpi mal ridotti delle maghe. El si portò accanto ad Haemir, temendo che potesse sfogare la rabbia sulle donne, e guardò gli Starym colpire.

Dai palmi stretti a coppa di uno dei maghi fuoriuscì un fuoco bianco, che salì verso le stelle in una sinuosa spirale, per poi formare tre lunghi colli serpentini, alle cui estremità spuntarono enormi fauci di drago. Le tre teste si agitarono selvaggiamente, poi si piegarono e morsero la vecchia torre di pietra. A contatto con i loro denti, la roccia svaniva silenziosamente, fondendosi col vuoto, mettendo a nudo le stanze dietro di essa.

Dalle dita del secondo mago eruppero lance rosse di fuoco, che si avventarono sulle stanze di Mythanthar e colpirono alcuni oggetti magici. Alcuni di essi esplosero, scuotendo Starfall Turret e scagliando frammenti di roccia nell’oscurità crescente. Altri liberarono impetuose fiamme rosse, che si trasformarono in girandole vorticanti.

Dalla mano del terzo Starym si levò una nuvola verde, dalla quale, con incredibile rapidità, spuntarono denti e molte membra artigliate. La nube volò nella torre, alla ricerca di Mythanthar.

Un istante dopo che si fu tuffata nella Starfall Turret, qualcosa si illuminò di rosso vivo e dalle profondità di quelle pietre distrutte si sprigionò un fulmine brillante, che disseminò in ogni dove gli artigli del mostro verde. Haemir Waelvor li guardò precipitare nel giardino incolto e imprecò per la paura.

I tre Starym trasalirono e indietreggiarono dalla torre, facendo eco alle sue maledizioni, mentre il bagliore purpureo esplose formando tre dita enormi che presero a inseguirli.

I loro mantelli protettivi divennero improvvisamente visibili; uno dei maghi s’irrigidì, allargò le braccia quando il suo mantello svanì in un fumo nero e porpora, e poi cadde violentemente sulla faccia, restando immobile.

Gli altri due maghi si voltarono e si urlarono qualcosa che El non riuscì a cogliere, la voce stridula e distorta dal terrore. Sembrava che il vecchio pazzo li stesse facendo divertire più di quanto non si aspettassero.

Il corpo dello Starym abbattuto emise scintille e sbuffi scoppiettanti, indicativi di incantesimi morenti, mentre la vita lo abbandonava per sempre. La sua testa rimase piegata contro il vecchio moncone a un’angolazione assurda, ma il resto del corpo si sciolse lentamente sul terreno.

Waelvor lo guardò con la bocca spalancata, ma i due Starym sopravvissuti non prestarono attenzione al parente e continuarono a fare magie. Le loro dita gesticolarono rapide, e l’aria intorno ai due elfi crepitò e fluì, come olio che scivola in un vaso pieno d’acqua. Minuscoli granelli di luce scintillarono qua e là quando i maghi si lanciarono in un lungo e complicato incantesimo.

Una volta terminate le magie gemelle, due nuvole pulsanti di bagliore verde pallido apparvero sopra la testa degli Starym, emanando luce sufficiente da mettere in risalto il sudore luccicante sui loro colli tesi e sulle loro mascelle in costante movimento.

Poi, con uno svolazzamento silenzioso, una delle nuvole confluì in una sfera e cominciò a roteare. La seconda la seguì un istante più tardi, e i due globi di forza rimasero sospesi sopra gli elfi all’opera.

Haemir imprecò nuovamente, le sue fattezze affilate e bianche, come fossero scolpite in un marmo eburneo.

Una nebbia rossa fuoriuscì dalla torre semidistrutta e, in un’onda lunga e inesorabile, si diresse verso gli intrusi che, con movimenti frenetici, si misero a estrarre dalle loro fasce scettri, bacchette magiche, gemme e vari oggetti piccoli e scintillanti, per poi gettarli dentro le sfere sopra la loro testa, dove iniziavano a vorticare pigramente.

La nebbia rossa era a pochi centimetri di distanza quando uno degli Starym pronunciò rapido una parola – o forse era un nome – e tutti gli oggetti magici ospitati nella sfera esplosero simultaneamente, squarciando l’aria e creando una spaccatura che risucchiò la sfera, gli oggetti, la nebbia rossa, e gran parte del giardino e della facciata della torre, prima di svanire con un gemito acuto.

L’altro mago Starym scoppiò in una risata trionfale, poi pronunciò la parola che risvegliò gli oggetti della sua sfera.

Questi si sollevarono come uno sciame di mosche scacciato da una carogna in un giorno d’estate, e sputarono una scarica mortale di raggi luminosi dentro la torre, che si spaccò rumorosamente a metà, scatenando una pioggia di pietre tutt’intorno e rilasciando una nube di polvere color cremisi.

La spaccatura creata da tali raggi era di piccole dimensioni e risucchiò solo gli oggetti e la sfera che li aveva contenuti, dopodiché scomparve; senza dubbio era accaduto ciò che prevedeva l’incantesimo, né più né meno.

I due Starym sopravvissuti agitarono ancora le mani compiendo sortilegi non familiari, ma apparentemente potenti, lo sguardo fisso sulla torre. Dalla loro espressione Mythanthar doveva essere visibile ai loro occhi, e ancora vivo e attivo.

El prese una decisione. Volando basso attraverso il giardino ormai buio, acquistò velocità e investì Waelvor. Questa volta l’impatto fu violento; a Elminster sembrò di esser stato colpito al petto da un pesante tronco d’albero e d’un tratto gli mancò il fiato. Passò attraverso il corpo del mago e si lanciò nella testa dello Starym più vicino come una lancia.

Il colpo lo mandò a gambe all’aria nella notte. Il dolore fu tanto straziante che gli tolse nuovamente il respiro; dopodiché una dorata foschia di stordimento iniziò a turbinare attorno a lui.

Ebbe, tuttavia, la soddisfazione di vedere il mago rotolare per terra con le mani sulla testa. L’altro Starym guardò il collega, incredulo, perciò non vide la figura annerita e affumicata che si trascinò fuori dalla torre dietro di lui. Un elfo che poteva essere solo Mythanthar.

Il vecchio si voltò e guardò le minuscole fiamme che si levavano da ogni pietra della sua torre distrutta. Scosse la testa, sollevò un dito verso il mago ancora in piedi e, un istante prima che lo Starym si voltasse, svanì.

Un attimo più tardi una sfera dorata apparve nell’aria, tagliò nettamente il mago in due, a livello del torace, e inglobò la parte superiore.

Quando la sfera implose, portò con sé il torace del fiero mago elfo, lasciando solo due gambe tremanti. Esse vacillarono per un istante, poi si divisero, e caddero a terra in direzioni opposte.

«Tu!»

Il grido era nel contempo furioso e spaventato. El si voltò, ancora dolorante e confuso, e si rese conto che lo Starym sopravvissuto, nel frattempo rialzatosi da terra, chiamava proprio lui. L’elfo poteva vederlo!

Ora, se solo fosse riuscito a sopravvivere per raggiungere la Srinshee e dirle…

Il mago ringhiò qualcosa di malvagio, e sollevò le mani per scagliare un incantesimo che Elminster aveva già osservato prima: un sortilegio umano chiamato «sciame di meteore».

«Mystra, non mi abbandonare ora», mormorò l’ultimo principe di Athalantar, quando quattro sfere di fuoco scaturirono dalle mani dell’elfo, si posizionarono attorno a lui, ed esplosero.

L’ultima cosa che El vide fu il corpo di Haemir Waelvor ridursi in cenere mentre ruzzolava impotente verso di lui, sospinto da fiamme voraci che stavano consumando il mondo tutt’intorno. Faerûn si capovolse, roteò pazzamente, e poi scomparve turbinando in un fuoco furioso.

16. Maghi mascherati

La Gente guardava Elminster Aumar, ma non comprendeva ciò che stava vedendo. Egli era il primo ospite del nuovo vento mandato da Mystra. E Cormanthor era come un vecchio e possente muro, che si oppone a tali venti di cambiamento, secolo dopo secolo, finché persino i suoi costruttori non ne scordano l’esistenza ed esso non resta che una barriera inflessibile. Ma sarebbe giunto il giorno in cui tale muro sarebbe crollato, mutato dai venti invisibili e impalpabili. È ciò che accade sempre.

Per il fiero regno di Cormanthor quel giorno venne quando il Coronal nominò l’umano Elminster Aumar cavaliere del regno, ma il muro non seppe di essere stato distrutto e attese che le pietre si schiantassero a terra per degnarsi di notare l’accaduto. Il crollo corrispose all’attuazione del Mythal. Ma le pietre del muro, essendo pietre elfe, indugiarono nell’aria per un periodo straordinariamente lungo…

Shalheira Talandren, Sommo Bardo Elfo di Summerstar

Da Spade argentee e notti d’estate:

Una storia ufficiosa ma vera di Cormanthor

Pubblicata nell’Anno dell’Arpa

Sopra fluttuavano le stelle, sotto, globi oculari scintillanti. Elminster aggrottò la fronte mentre lottava per riprendere coscienza. Globi oculari? Si rotolò, o pensò di farlo, per guardare meglio. La notte circostante divenne più chiara.

Sì, certo: globi oculari. Centinaia di bulbi oculari ammiccanti e scintillanti che comparivano e scomparivano in una nuvola lampeggiante, mentre gli elfi di Cormanthor, annoiati e stanchi, udivano la notizia di quell’ultima novità e si precipitavano a guardare da una distanza di sicurezza.

Dal modo in cui si sollevarono per sbirciare, alcuni di loro avevano notato Elminster, un’increspatura immobile in mezzo alle stelle, una nuvola lacera, a forma di uomo, ormai assottigliata per aver fluttuato tanto a lungo, incosciente, sopra il moncone della torre di Mythanthar.

Quel cumulo di pietre cadute, annerito e ancora fumante, era un mare di piccole orbite, che svolazzavano di qua e di là come lucciole curiose, mentre gli occhi di elfi distanti osservavano attentamente ogni minimo dettaglio della magia rivelata del vecchio mago.

Mentre le guardava con moderato interesse fare capolino e sfrecciare in ogni direzione, Elminster si rese lentamente conto delle cose che lo circondavano e di chi fosse.

Due Starym erano morti, ma del terzo non v’era traccia. Anche i corpi delle due maghe erano svaniti, ed El sperò che la Srinshee le avesse portate al sicuro e le avesse curate prima.

Due paia di occhi fluttuanti nelle rovine sotto di lui virarono improvvisamente, come attratti improvvisamente da qualcosa. Elminster si abbassò per dare un’occhiata, spaventando numerose altre orbite.

Quegli occhi stavano guardando il nulla. O meglio, qualcosa d’indistinto e di contorto che ruotava nell’aria creando il vuoto.

Era un cono o una spirale di filamenti fumosi che si spostava deliberatamente tra le rovine, frugando qua e là tra scaffali e blocchi di pietra caduti. Dovunque appoggiasse l’estremità aperta, oggetti solidi svanivano, trasportati, forse, in un altro luogo.

El si avvicinò, tentando di vedere che cosa stesse scomparendo. Blocchi di pietra, si, ma solo per sgomberare il passo e raggiungere la stanza antistante. In quella stanza c’erano strumenti di magia! Un oggetto qui, un frammento là, un piedistallo laggiù, un crogiolo da quella parte: la spirale di fumo stava risucchiando tutti gli strumenti magici di Mythanthar.

Era opera del mago stesso, che voleva salvare ciò che poteva prima che qualcun altro se ne impadronisse? Oppure quella forza era al servizio di qualche altro maestro?

Certamente la spirale sembrava sapere bene dove cercare. El la osservò rovistare in un angolo, in un groviglio di travi crollate dal soffitto, per recuperare ciò che era rimasto sul tavolo sottostante, e poi…

Il giovane si avvicinò ulteriormente per vedere ciò che stava cercando.

Improvvisamente filamenti di fumo si misero a turbinare intorno a Elminster, e Faerûn cominciò a roteare fra essi e ad annebbiarsi. Il raccoglitore magico gli aveva deliberatamente teso un’imboscata. Ora tutto girava, ed El sospirò rumorosamente. Dove sarebbe finito questa volta?

Mystra, urlò in tono lamentoso, mentre veniva trasportato lontano, quando inizierà la mia missione? E di che diamine si tratta?


Vorticò nel buio per un tempo infinito, fino a dimenticare che cosa fossero l’immobilità e la luce. Il suo cuore e la sua mente furono assaliti dal panico, ed Elminster cercò di gridare e singhiozzare, senza tuttavia riuscirci.

Il turbinio continuò imperterrito, attraverso un vuoto senza fine, indifferente alle grida che il giovane tentava di emettere. Che importanza aveva per il vuoto se il fantasma di un umano chiamato Elminster fosse presente o meno, se fosse silenzioso o agitato?

Non era degno di attenzione, e non poteva farci nulla.

Ma se non poteva reagire, di che cosa doveva preoccuparsi? Aveva lottato, e conosciuto l’amore di una dea, e ora il suo destino era nelle mani di Mystra. Mani che sapevano essere tanto delicate, mani appartenenti a una creatura troppo saggia per gettare via uno strumento che poteva ancora esserle utile.

Come se quel pensiero fosse stato un segnale, Elminster fu avvolto improvvisamente da un’esplosione di luce e colori. La gabbia fumante in cui vorticava deviò in un’area di nebbia blu, e la attraversò rapidamente verso un orizzonte più luminoso. Stava risalendo? Si domandò mentre saettava attraverso nuvole blu fino a raggiungere una…

Una stanza mai vista prima, il pavimento una distesa di marmo nero, le pareti alte e il cielo a volta. La stanza degli incantesimi di un mago, e in essa un elfo fluttuante che muoveva le mani esili e graziose, dalle dita lunghe e pallide, in gesti quasi pigri.

Un mago mascherato, i cui occhi brillarono di sorpresa all’improvvisa apparizione di Elminster.

L’elfo lo guardò vorticare impotente attraverso la stanza e tuffarsi nella sfera di luce bianca, che sembrava emanasse fili di nebbia. I filamenti fumosi che avvolgevano il giovane si confusero col contenuto della sfera, lasciando l’umano imprigionato. El si agitò contro le pareti curve della sfera, ma erano solide come roccia, e i suoi tentativi furono vani.

Poi si fermò a guardare la fonte di una luce brillante al di fuori della sfera: il mago mascherato si stava avvicinando, il capo proteso in ovvia curiosità.

«Che cosa abbiamo qui?», domandò l’elfo innominato, in una voce sottile, fredda. «Un umano non morto? O qualcosa di più interessante?»

El annuì in un saluto solenne, come tra pari, ma non proferì parola.

La maschera sembrava essere appiccicata alla pelle attorno agli occhi del mago, e seguirne ogni movimento d’espressione. Sotto di essa l’elfo sollevò divertito un sopracciglio. «Io esigo una cosa da tutti gli esseri pensanti che incontro: il loro nome», spiegò seccamente. «Chi mi resiste, viene distrutto. Scegli rapidamente, o sarò io a farlo per te».

El scrollò le spalle. «Il mio nome non è un segreto prezioso», rispose, e la sua voce sembrò tuonare attraverso la stanza. Finalmente poteva essere udito. «Sono Elminster Aumar, un principe nel regno umano di Athalantar, e il Coronal mi ha recentemente nominato armathor di Cormanthor. Faccio magie. E sembra proprio che abbia il grande talento di sconvolgere gli elfi che incontro».

Il mago gli sorrise freddamente e annuì. «Infatti. La tua forma presente è volontaria? Adatta forse a spiare i segreti della magia elfa?»

«No», ribatté El affabile, «non direi».

«E come mai, allora, ti trovavi nella dimora in rovina del noto mago elfo Mythanthar? Hai lavorato con lui?»

«No. Né lavoro per altri maghi di Cormanthor».

El dubitò che l’elfo mascherato avrebbe considerato il Coronal un mago, e la Srinshee era una «maga donna».

«Non sono abituato a porre le domande due volte, e tu sei completamente in mio potere», affermò lo sconosciuto avvicinandosi di un passo o due.

El inarcò un sopracciglio. «Il potere di chi? Un nome per un nome: non si usa così anche tra gli elfi?»

Il mago sembrò quasi sorridere. «Puoi chiamarmi il Mascherato. Non parlare mai più se non per rispondere alle mie domande, o ti ridurrò per sempre in polvere senza nome».

El si strinse nelle spalle. «Temo che la risposta sia tanto poco rivelatrice quanto il vostro nome: la semplice curiosità mi ha condotto in quel luogo, insieme a metà degli elfi di Cormanthor, a quanto pare, poiché nuotavo in un mare di occhi».

Questa volta il mago sorrise. «Che cosa ha attirato la tua attenzione?»

«La bellezza di due maghe», rispose El. «Volevo sapere dov’erano dirette, e magari scoprire i loro nomi e il luogo in cui abitavano».

Il Mascherato abbozzò un freddo sorriso. «Consideri le donne elfe compagne adatte agli umani, è così?»

«Non ho mai riflettuto su tale questione», ribatté Elminster a suo agio. «Come molti uomini, sono attratto dalla bellezza, ovunque essa dimori. Come molti elfi, credo che non ci sia nulla di male nel guardare ciò che non posso avere, o dove non oserei mai avventurarmi».

Il mago annuì lievemente, e commentò: «Molti cormanthoniani considererebbero la stanza che ti circonda un luogo nel quale non osare avventurarsi. E hanno ragione: introdursi qui costerebbe loro la vita».

«E avete preso una decisione in materia della mia intrusione?», domandò El tranquillamente. «O quella decisione è già stata presa quando mi avete “raccolto” nelle rovine?»

Il Mascherato alzò le spalle. «Potrei distruggerti con facilità. Come fantasma visibile non vali più di una spia o di un messaggero, facilmente eliminabili con i giusti incantesimi. Come uomo intero, tuttavia, potresti servirmi».

«Come servo?», domandò El, «O come marionetta?»

Il mago serrò le labbra sottili. «Non sono avvezzo a tanta impertinenza, nemmeno da parte dei rivali, uomo: figuriamoci da parte degli apprendisti».

Entrambi rimasero in silenzio per un lungo momento.

E ora, Mystra? Quella richiesta silenziosa di consiglio venne immediatamente soddisfatta da una breve immagine di Elminster che annuiva in quella stessa stanza, mentre il mago mascherato gli mostrava qualcosa. Bene.

«Apprendisti?», domandò El, un attimo prima che la sua lunga esitazione potesse essergli fatale. «Devo interpretarla come una gentile offerta… maestro?»

Il Mascherato sorrise. «Sì. Presumo accetterai».

«Naturalmente. Ho ancora molto da imparare sulla magia, e durante l’apprendimento mi piacerebbe essere guidato da un maestro rispettabile».

L’elfo rimase in silenzio, e smise di sorridere, ma, quando si voltò, qualcosa in lui sembrò emanare soddisfazione. «Saranno necessari alcuni difficili incantesimi per farti tornare alla normale forma fisica», affermò voltando lievemente la faccia. Dopodiché si diresse verso una parete, la toccò e guardò un banco da lavoro, rovinato e macchiato, apparire dall’oscurità oltre il muro.

Subito le sue mani frugarono tra i barattoli e i vasi disseminati sul tavolo. «Rimani tranquillo e immobile finché non te lo dirò io», gli ordinò, voltandosi con un uovo rosso screziato e una chiave d’argento tra le mani. «Gli incantesimi che sto per fare non avranno all’apparenza alcun effetto; si abbarbicheranno sulla sfera, e ti raggiungeranno soltanto quando farò svanire il campo che ora ti avvolge».

Elminster annuì e il Mascherato si mise all’opera, effettuando tre incantesimi piccoli ma completamente sconosciuti sulla sfera, prima di imbarcarsi nella prima magia di cui El potesse indovinare lo scopo. Sfere come quella sembravano essere il modo con cui i maghi elfi combinavano diverse magie, affinché lavorassero insieme su un singolo bersaglio, o per un singolo fine.

Il Mascherato pronunciò piano una parola sconosciuta e la sfera prese fuoco.

El si mosse solo un po’ nell’attimo in cui il calore lo investì. Quando le fiamme rallentarono, vacillarono e improvvisamente svanirono, lasciando un filo di fumo che si innalzava solitario verso l’oscurità del soffitto, il mago era già alle prese con un altro sortilegio.

Il Mascherato si volse a guardare nuovamente la sfera, piegò il dito come un arpista che tocca una corda, e il fumo deviò improvvisamente verso di lui. Ruotò lentamente la mano, come per dirigere musicisti invisibili, e il filo di fumo serpeggiò attorno alla sfera, disponendosi nelle curve familiari della spirale che lo aveva risucchiato.

El osservò, affascinato, mentre l’elfo mascherato danzava e si agitava effettuando un altro incantesimo che fece scaturire dal nulla una musica languida. Questa accompagnò il corpo alto e slanciato del mago che ondeggiava nelle varie direzioni.

«Nassabrath», esclamò improvvisamente il Mascherato, fermandosi e inginocchiandosi. Si portò una mano davanti alla faccia, le dita aperte e il palmo rivolto verso di lui, e dalla punta di ogni dito saettarono minuscoli fulmini.

Essi si arrotolarono e si diressero verso la sfera quasi con indolenza; mentre osservava la loro lenta progressione, El invocò ancora una volta Mystra.

Nella sua mente apparve una visione, lucente e improvvisa come se qualcuno avesse tirato una tenda. Egli era nudo nella foresta, il volto segnato dal dolore, e coperto di graffi ed escoriazioni. O meglio, era quasi nudo: ai polsi e alle caviglie aveva manette luminose, attaccate a catene che si levavano nell’aria per diventare invisibili a pochi centimetri dalle sue membra. I loro anelli luccicavano degli stessi minuscoli fulmini che stavano per avvolgere la sfera che lo teneva prigioniero. Il Mascherato entrò improvvisamente nella scena, chiamandolo con un gesto quasi indifferente mentre si affrettava lungo una strada.

Elminster fu trascinato per le catene e costretto a seguire il maestro. Camminarono a fatica fra gli alberi per un lungo tratto, finché El non si appoggiò esausto a una roccia sporgente. L’elfo lo lasciò fare, mentre si chinava per esaminare una pianta, al che la visione mostrò il giovane che appoggiava il palmo della mano sulla roccia, sussurrando il nome di Mystra e concentrandosi su un simbolo particolare: una figura sconosciuta e complessa di curve dorate e scintillanti, che rimase sospesa nella mente di El e s’infiammò, come fosse stata marchiata a fuoco.

Nella scena, il corpo nudo di Elminster mutò, si inarcò e fluì nelle curve piene e lisce di una donna, una forma che aveva già assunto al servizio di Mystra. Allora era stato “Elmara”, e fu proprio Elmara che si allontanò dalla roccia, le catene svanite, e iniziò rapida un incantesimo mentre il Mascherato si rialzava e si girava bruscamente, il volto severo per lo sbalordimento e la paura. Un volto che subito svanì nel lampo di fuoco smeraldino che la donna gli lanciò. Le fiamme verdi fluirono e schizzarono nella sua testa, e la scena terminò.

El si ritrovò a scuotere il capo per cancellare quella visione abbagliante. Attraverso l’improvviso luccichio delle lacrime, vide i piccoli fulmini toccare finalmente la sfera attorno a lui, e incendiarla.

Tentò di ricordare il simbolo che aveva visto, ed esso gli tornò alla mente in tutto il suo intricato splendore. Bene; gli sarebbe bastato toccare la pietra e pensare a quel simbolo mentre chiamava Mystra ad alta voce, e si sarebbe nuovamente trasformato in una donna: un cambiamento sufficiente a spezzare i vincoli che l’infido mago elfo gli avrebbe imposto. Il Mascherato – un elfo fiero con una voce sottile e fredda, già sentita prima, ne era sicuro – ma dove?

El si strinse nelle spalle. E anche se avesse scoperto l’identità del mago? Conoscere un volto e un nome non significava nulla se conosceva poco o niente della persona. Per un abitante di Cormanthor l’identità del mago poteva benissimo essere un segreto tanto prezioso quanto letale, ma per Elminster era semplicemente una cosa sconosciuta.

Il principe sospettava che proprio la sua poca familiarità con il regno costituisse la ragione per cui era tanto prezioso per il mago, e decise di rivelare il meno possibile dei suoi veri poteri e della sua vera natura, tacendogli persino l’esperienza della kiira. Chi avrebbe potuto dire che cosa potesse comprendere di essa una mente umana sopraffatta, o che cosa potesse ricordare dopo la scomparsa della gemma?

«Guardami negli occhi», gli ordinò bruscamente il Mascherato. El sollevò in tempo lo sguardo per vedere un lungo dito fare un gesto imperioso. Vi fu un lampo di luce tutt’intorno, un rumore sibilante, e la sfera esplose in una pioggia di scintille dorate.

Per un istante El si sentì cadere; poi provò una sensazione nauseante, come se numerose anguille si stessero agitando nelle sue budella, quando le scintille entrarono nel suo corpo nebuloso.

Seguì il fuoco, e il dolore pungente di una fiamma incandescente. Elminster gettò indietro la testa e gridò: un suono che echeggiò nell’alta volta soprastante, mentre il principe cadeva per numerosi metri, questa volta per davvero, prima di essere rudemente fermato da un intrico di reti.

Le reti erano incantesimi tessuti verso il basso e attorno a lui partendo dalla spirale di fumo. El fu catturato da esse, e la sostanza di cui erano composte si fuse con la sua pelle, gli entrò nel naso e nella bocca, soffocandolo.

Cercò di respirare, si contorse, e provò a vomitare, in preda agli spasmi. D’un tratto tutto terminò, ed Elminster si ritrovò inginocchiato sul pavimento freddo; il mago elfo mascherato fluttuava nell’aria poco distante, e lo guardava dall’alto al basso con un sorriso di superiorità.

«Alzati», gli intimò freddo. El decise di verificare come stessero le cose e, fingendosi stordito, nascose la faccia tra le mani e grugnì, senza obbedire.

«Elminster!», sbottò l’elfo, ma El scosse il capo, mormorando parole sconnesse. Improvvisamente percepì nella testa una sensazione bruciante, che si estese al collo e alle spalle, e sentì uno strappo violento, che gli fece tremare gambe e braccia. Avrebbe potuto opporvi resistenza, pensò il neo apprendista, almeno per un po’, ma era meglio fingere d’essere in completa schiavitù, perciò si mise in piedi, nella posizione voluta dal Mascherato: eretto, ma con entrambe le braccia protese, affinché i polsi potessero essergli legati.

Il mago incrociò lo sguardo del giovane con occhi molto freddi e molto scuri, ed El si sentì improvvisamente muovere di nuovo. Questa volta si arrese completamente, e l’elfo gli fece allargare le braccia, piegare i gomiti, e poi schiaffeggiarsi forte il volto, una volta per mano.

Fu doloroso, e mentre El agitava le mani intorpidite e si passava la lingua sulle labbra schiacciate dai colpi contro i denti, il mago sorrise nuovamente. «Il tuo corpo sembra funzionare bene. Vieni».

El fu improvvisamente libero di muoversi a suo piacimento. Mise da parte l’istinto di opporsi, e lo seguì umilmente, lo sguardo basso. Una pesante sensazione di essere osservato gli punzecchiava le spalle, ma non si disturbò a guardare indietro o in alto per individuare gli occhi fluttuanti che sapeva presenti.

Il Mascherato toccò il muro spoglio della stanza degli incantesimi, nel quale si aprì improvvisamente una porta ovale. Sulla soglia l’elfo si voltò per contemplare il suo nuovo apprendista e si concesse un lento e freddo sorriso trionfale.

El decise di interpretarlo come un sorriso di benvenuto, e lo ricambiò, tremante. L’elfo scosse il capo ironicamente e si voltò, invitandolo a entrare.

Roteando gli occhi, ma attento a mantenere un’espressione sbalordita e ansiosa, El si affrettò a seguirlo. Sarebbe stato un lungo apprendistato.


Il chiaro di luna toccò gli alberi di Cormanthor, e in un luogo distante, da qualche parte a nord, un lupo ululò.

Si udì una risposta tra gli alberi nelle vicinanze, ma l’elfa nuda e tremante, che stava strisciando senza meta giù per un pendio intricato, sembrò non sentirla. Si trovava ora in fondo al declivio, e gran parte della strada l’aveva percorsa scivolando sulla faccia. I capelli erano un groviglio di fango, e le sue membra scintillavano nella pallida luce blu nei punti in cui la pelle era bagnata di sangue.

Il lupo si spostò sulle rocce in cima alla scarpata e si mise a guardare in basso, gli occhi scintillanti. Una facile preda. Trotterellò giù per la discesa dalla via più facile, senza affrettarsi: la donna affannata e gemente in fondo al pendio non sarebbe andata da nessuna parte.

Quando la bestia si avvicinò, essa si girò persino e gli offrì, ignara, il petto e la gola, dopodiché si adagiò nel chiarore lunare e mormorò qualcosa d’incomprensibile. Il lupo si fermò, momentaneamente insospettito da tanta audacia, dopodiché si preparò al balzo. Dopo averla sbranata, avrebbe avuto tutto il tempo di annusare tracce di eventuali prede della stessa specie.

Un ragno della foresta che da un po’ di tempo seguiva cautamente l’elfa, indietreggiò alla vista del lupo. Quella notte forse avrebbe guadagnato due pasti anziché uno.

Il lupo spiccò il balzo.

Symrustar Auglamyr non vide la stella di colore blu-bianco che comparve sopra le sue labbra socchiuse. Non udì il guaito di sorpresa quando essa si riversò nelle fauci del lupo, né la silenziosa disintegrazione dell’animale che seguì.

Pochi peli erano tutto ciò che rimase dell’animale, ed essi si posarono sulle cosce dell’elfa mentre qualcosa di invisibile esclamò: «Povera fiera creatura. La magia ti ha piegata, e la magia ti guarirà».

Un cerchio di stelle si sollevò vorticando dal terreno e avvolse Symrustar in un anello color blu-bianco. Il ragno si ritrasse dalla luce e attese. Luce significava fuoco, e il fuoco significava una morte sfrigolante.

Quando l’anello vorticante svanì e rimase solo la luce lunare, il ragno affamato scese di nuovo dall’albero zampettando rapidamente. La fame fu sopraffatta solo dalla rabbia quando, raggiunte le foglie appiattite dov’era rotolata la preda, si accorse che era svanita. Svanita senza lasciare traccia, e il lupo con lei. Il ragno furioso perlustrò la zona per qualche tempo e poi prese la strada del bosco, sospirando come avrebbe potuto fare un elfo smarrito o un umano.

Gli umani! Gli umani erano grassi, e pieni di sangue e di succhi. Vecchi ricordi si risvegliarono nel ragno, e la bestiola salì con zelo su un albero. Gli umani abitavano in quella direzione, un lungo viaggio e…

La testa del serpente gigante sbucò improvvisamente, le mascelle si chiusero rumorosamente, e il ragno scomparve, senza nemmeno il tempo di accorgersi di aver scelto l’albero sbagliato.

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