Nulla si conosce del viaggio di Elminster dalla nativa Athalantar attraverso mezzo mondo ricoperto di foreste selvagge fino al favoloso regno elfo di Cormanthor, e si può solo presumere che sia stato privo di eventi degni di nota.
Il giovane stava riflettendo intensamente sulle ultime parole pronunciate da una dea, perciò la freccia lo colse completamente alla sprovvista.
Gli sfiorò il naso, seguita da uno sciame di foglie rotte. Elminster ne seguì la traiettoria con lo sguardo, battendo le palpebre per la sorpresa. Quando guardò lungo la strada di fronte a lui, alcuni individui vestiti di pelli logore e sudice gli si pararono davanti, le spade e i pugnali sguainati. Erano sei o sette, e nessuno aveva l’aria gentile.
«A terra o morirai», annunciò uno di loro, con tono quasi affabile. El diede una rapida occhiata a destra e a sinistra: non vide nessuno dietro a sé, al che mormorò rapido una parola.
Quando schioccò le dita, un istante più tardi, tre dei briganti di fronte a lui vennero scaraventati lontano, colpiti da una forza invisibile. Le spade si sollevarono in alto, mulinando, e gli uomini sbalorditi piombarono nei rovi per poi rotolare per un certo tratto tra un’imprecazione e l’altra.
«“Ben incontrato” credo sia un saluto migliore», esclamò Elminster rivolto all’uomo che aveva parlato, e aggiunse un sorriso ironico alla sua nobile osservazione.
Il brigante divenne bianco in volto e iniziò a correre verso gli alberi. «Algan!», sbraitò. «Drace! Rinforzi!»
In risposta, dalla foresta verde uscirono, come vespe infuriate, numerose frecce.
El balzò giù dalla sella una frazione di secondo prima che due di esse colpissero la testa del suo destriero. Il fedele cavallo grigio emise un verso incredulo, soffocato, si impennò come per sfidare un nemico invisibile, poi si accasciò su un fianco e morì dopo aver scalciato un’ultima volta.
Per un soffio, tuttavia, non schiacciò il suo cavaliere, che si allontanò il più rapidamente possibile, mentre tentava di individuare l’incantesimo più utile per un uomo solo, in fuga tra felci e rovi, circondato da briganti armati di archi e nascosti dietro agli alberi.
Non voleva in nessun caso abbandonare la bisaccia. Ansimando per la fretta, El raggiunse un vecchio e grosso albero. Dopo aver notato che le foglie iniziavano ad assumere striature color oro e marrone a causa dei primi freddi dell’Anno dell’Eletto, cominciò ad arrampicarsi sul tronco coperto di muschio e, giunto a una notevole altezza, si guardò intorno fra i rami.
Lo scalpiccio gli indicava la direzione presa dai fuorilegge, che lo stavano circondando. Elminster sospirò e si appoggiò all’albero, mormorando un incantesimo che aveva deciso di utilizzare se fosse stato accerchiato da bestie feroci. Se non ne avesse fatto un uso immediato, nessuna belva lo avrebbe mai braccato. Terminò la frase, sorrise al primo brigante che sbirciava cautamente da un albero vicino… ed entrò nel tronco.
L’imprecazione sbalordita del ladro fu interrotta bruscamente quando El si fuse con il silenzio antico e paziente del gigante della foresta, e inviò i suoi pensieri lungo le sue possenti radici verso un altro albero sufficientemente grande.
Fece scorrere il suo corpo immateriale lungo la radice principale, cercando di non far caso alla sensazione di claustrofobia che faceva impazzire alcuni maghi quando tentavano tale sortilegio, ma Myrjala la considerava una delle sensazioni più importanti da saper controllare.
Tempo prima avrebbe forse potuto prevedere che cosa sarebbe accaduto quel giorno?
A quel pensiero il principe di Athalantar rabbrividì mentre saliva nell’altro albero. Tutto ciò che gli succedeva era volontà di Mystra?
E, in tal caso, che cosa sarebbe accaduto quando la sua volontà si fosse scontrata con quella di un dio, che guidava un’altra creatura?
Quella foresta, dopo tutto, l’avrebbe attraversata volando sotto le spoglie di falco, se lei non gli avesse ordinato di raggiungere a cavallo il favoloso regno elfo di Cormanthor. Un rapace sarebbe stato troppo alto per le frecce di quei briganti, se mai avessero voluto colpirlo.
Quel pensiero riportò Elminster alla luce del giorno. Il giovane uscì dal legno caldo e scuro, e si ritrovò immerso nel sole, la strada una striscia di terra fangosa alla sua sinistra, e l’abito di pelle impolverato di un brigante a due passi da lui sulla destra. Elminster non riuscì a resistere alla tentazione di fare una cosa che lo aveva divertito anni prima nelle strade di Hastarl: gli sfilò il pugnale dal fodero tanto dolcemente e abilmente che il brigante neppure se ne accorse. Sull’impugnatura era incisa la sagoma di un serpente pronto a colpire.
Poi si irrigidì, non osando fare nemmeno un passo per timore di calpestare le foglie secche, e rivelare la sua presenza. Rimase immobile come una roccia mentre l’uomo si allontanava a grandi passi, muovendosi cautamente verso la direzione che aveva preso il giovane mago.
Sarebbe riuscito a prendere la bisaccia e a fuggire senza essere notato? Anche se non avessero avuto archi e un po’ di abilità nell’usarli, gli sarebbe seccato sprecare incantesimi per una manciata di disperati laggiù, nel cuore dello Skuldaskar. Nel suo viaggio si era imbattuto in orsi, in grandi gatti delle foreste e in ragni del sonno, e aveva udito storie di bestie ancor più spaventose che cacciavano l’uomo lungo quella strada. Aveva visto le ossa rosicchiate e i carri marci, rovesciati, di una carovana che tempo prima aveva incontrato la morte e non desiderava diventare un altro monito raccapricciante ai bordi della via.
Mentre rifletteva sul da farsi un altro brigante girò attorno all’albero, frettolosamente, con la testa bassa, e si scontrò con il principe.
Caddero sul tappeto di foglie emettendo contemporaneamente un grido di sorpresa, ma El aveva il coltello a portata di mano, e lo usò senza indugi.
L’arma era affilata, con una sola mossa il giovane squarciò la fronte dell’uomo, poi scattò in piedi e corse via, assicurandosi di calpestare l’arco che il furfante aveva lasciato cadere, che scricchiolò sotto i suoi stivali. El prese a correre veloce verso la strada, mentre urla di sorpresa si levavano alle sue spalle.
L’uomo che aveva ferito sarebbe rimasto accecato dal sangue finché qualcuno non l’avesse aiutato, il che significava un brigante in meno alle calcagna di Elminster di Athalantar. Le Rapide di Berduskan erano ancora molto lontane, specialmente ora che doveva proseguire a piedi, e tornare a Elturel avrebbe richiesto un viaggio ancor più lungo. Qualsiasi direzione avesse scelto, non gli piaceva l’idea di essere inseguito giorno e notte da una banda di tagliagole.
Dopo aver sceso di corsa il pendio, raggiunse il cavallo e usò il pugnale per liberare la bisaccia e tagliare il laccio del fodero della spada. Afferrando entrambi si mise a correre veloce lungo la strada, per cercare di guadagnare un po’ di distanza prima di tentare qualche altro trucco.
Una freccia gli sibilò sopra la spalla, al che El deviò bruscamente infilandosi nella foresta dell’altro lato della strada. Complimenti per la tattica brillante, pensò fra sé.
Era necessario fermarsi e combattere. A meno che…
Freneticamente lasciò cadere la sacca e sfoderò la spada, i pugnali da entrambi gli stivali, e il coltello che teneva legato sulla schiena, l’impugnatura nascosta sotto i capelli a livello della nuca. Con un gran fragore, ammucchiò il tutto sul muschio e, a canto già iniziato, vi aggiunse anche la forchetta da cucina annerita dal fuoco e il coltello dalla lama larga, che usava per scuoiare.
Mentre i furfanti balzavano e correvano tra gli alberi, avvicinandosi sempre più, Elminster continuò imperterrito l’incantesimo: afferrò le armi una ad una e si incise la pelle in modo che alcune gocce del suo sangue cadessero sull’acciaio; toccò quindi ogni lama col groviglio di piume e i filamenti di ragnatela che aveva estratto dalla bandoliera, ringraziando Mystra che gli aveva consigliato di contrassegnare ogni tasca così da riconoscerne immediatamente il contenuto, e infine batté le mani.
Il sortilegio era terminato. El raccolse la bisaccia per farne uno scudo contro eventuali frecce, e si acquattò, mentre le sette armi che aveva incantato iniziarono a sollevarsi nell’aria, stridendo l’una contro l’altra, come stessero annusando la preda, dopodiché partirono fulminee, dirette nella foresta.
Dopo pochi istanti un brigante urlò: Elminster lo vide girare su se stesso, le mani su un occhio, e rotolare lungo il pendio fin sulla strada. Un secondo uomo imprecò e si mise ad agitare la spada forsennatamente; si udì il clangore dell’acciaio, quindi il ladro barcollò e cadde, mentre fiotti di sangue gli fuoriuscivano dalla gola squarciata.
Un altro individuo grugnì e si portò le mani al fianco, ne estrasse la forchetta e la gettò via imprecando. Poi si diede a una fuga frenetica, e fu sorpassato da alcuni compagni che cercavano disperatamente di non farsi raggiungere dalle lame assetate di sangue.
Quando l’acciaio veniva a contatto col sangue, il suo incantesimo svaniva. Elminster lasciò cadere la bisaccia e avanzò cautamente per recuperare i pugnali e la forchetta dagli uomini appena caduti. Ora sarebbe stato facile fuggire inosservato, ma non avrebbe mai saputo quanti sopravvissuti gli avrebbero dato la caccia… e non avrebbe più riavuto le sue armi.
I due che aveva visto cadere erano morti, e un’evidente traccia di sangue gli indicò che un terzo ladro non avrebbe corso a lungo prima che gli dei lo chiamassero. Un quarto brigante riuscì a raggiungere il cavallo di Elminster prima che la spada del giovane principe gli trafiggesse la schiena, poi cadde a faccia all’ingiù e rimase immobile.
El si imbatté in altri due cadaveri e recuperò tutte le armi, tranne il pugnale preso in prestito e uno dei suoi coltelli da cintola, dopodiché abbandonò quel macabro compito e riprese il viaggio. Entrambi i furfanti morti avevano armi contrassegnate grossolanamente col simbolo del serpente. Il giovane si grattò la mandibola, irritata da un principio di barba ispida, poi si strinse nelle spalle. Doveva proseguire; che importanza aveva sapere quale banda reclamasse la proprietà di quei boschi? Non trascurò di raccogliere gli archi che trovò, e li infilò all’interno di un tronco cavo a poca distanza da lì, spaventando una giovane lepre che, uscita dalla parte opposta, fuggì saltellando fra gli alberi.
El guardò l’ammasso di lame insanguinate tra le sue mani e scosse il capo, dispiaciuto. Non gli piaceva uccidere, in nessuna circostanza. Pulì le armi sul primo cuscino di muschio che trovò e proseguì il viaggio in direzione sudest, attraverso il bosco che si faceva via via più scuro.
Il cielo divenne presto grigio, e cominciò a soffiare una brezza gelida. Nonostante l’aria odorasse di pioggia, non cadde nemmeno una goccia d’acqua, ed Elminster continuò il faticoso cammino sotto il peso sempre maggiore della bisaccia.
Con gran sollievo giunse, prima del tramonto, a un piccolo avvallamento; lì vide uno sbuffo di fumo salire da un camino, una staccionata e, dietro ad essa, una serie di campi.
Su un cartello affisso a un palo di quello che sembrava un recinto per cavalli, nonostante in quel momento non fosse che una distesa di fango ed erba calpestata, si leggeva: «Benvenuti ai Corno dell’Araldo». Sotto la scritta vi era un disegno rozzo, raffigurante uno strumento d’argento di forma quasi circolare. Elminster sorrise, sollevato, e iniziò a camminare lungo lo steccato superò numerosi edifici di pietra dai quali fuoriusciva odore di luppolo, ed entrò in un cancello sovrastato da una copia mal forgiata in ferro del corno dell’araldo.
A quanto pareva, avrebbe dovuto trascorre la notte in quel luogo. El attraversò un campo fangoso e giunse a una porta, sulla quale un ragazzo dall’aria annoiata mondava ravanelli e peperoni, che gettava via via in un barile pieno d’acqua, e nel contempo attendeva i clienti.
Il ragazzo scrutò Elminster con aria interessata, ma non fece alcuna mossa per suonare il gong che aveva accanto al gomito, limitandosi a salutare il giovane dal naso adunco con un cenno inespressivo del capo. El contraccambiò ed entrò nella locanda.
Il locale odorava di cedro; da qualche parte davanti a lui, sulla sinistra, vi era un fuoco e si udivano delle voci. Il principe si guardò intorno, la bisaccia in spalla, e gli parve di trovarsi nel mezzo di un’altra foresta: un intrico di tronchi d’albero, stanze buie e pavimenti di pietra cosparsi di segatura, sui quali zampettavano rapidi gli scarafaggi. Molte delle assi attorno a lui recavano le cicatrici di vecchi incendi, spenti tempestivamente, molto tempo addietro.
Dall’odore, in quel luogo fabbricavano la birra. Ma non i pochi litri che tutti solitamente preparavano: lì la produzione era sufficiente a riempire la montagnola di barili che El vedeva dalla finestra, le cui persiane erano state socchiuse per lasciar entrare un po’ di luce e aria. Una faccia lo fissava dall’esterno, le sopracciglia folte corrugate: «Sei solo? A piedi? Vuoi un pasto e un letto?»
Elminster annuì silenziosamente e in risposta ebbe un rauco «Allora accomodati. Due monete d’argento per un letto, due per i pasti, una moneta di rame per ogni boccale extra, e il bagno è escluso. L’osteria è laggiù sulla sinistra; tieni la borsa con te, ma ti avviso: a casa mia sbatto fuori chiunque sfoderi una spada. Immediatamente, nel cuore della notte, e senz’armi. Tutto chiaro?»
«Chiaro», rispose El con fare dignitoso.
«Hai un nome?», domandò l’oste robusto, appoggiando un braccio grassoccio e peloso sul davanzale della finestra.
Per un istante El fu tentato di rispondergli solamente «Sì», ma la prudenza gli fece ribattere: «El, da Athalantar, sono diretto alle Rapide».
La testa dell’uomo si chinò in segno di assenso. «Io sono Drelden. L’ho costruito io questo luogo. Pane, sugo e formaggio, li trovi su quella tovaglia. Spillati un boccale e di’ a Rose che cosa desideri. Sta preparando la zuppa».
La faccia dell’uomo scomparve, e quando dalla finestra giunse il tonfo dei barili che venivano spostati di qua e di là, il giovane fece come gli era stato indicato.
Una schiera di volti circospetti si sollevò non appena El entrò nell’osteria, e lo osservò con silenzioso interesse mentre cospargeva tranquillamente il suo formaggio con la senape e si sistemava in un angolo con il boccale. Elminster fece un cortese cenno di saluto all’intera stanza e uno entusiasta a Rose, dopodiché cominciò a riempirsi lo stomaco brontolante e a ricambiare gli sguardi di coloro che lo scrutavano.
In un altro angolo vi era una decina di uomini e donne corpulenti, sudati, dall’aspetto esausto, con indosso camiciotti, stivali enormi, sformati e pieni di fango: contadini locali, ritrovatisi davanti a un piatto prima di andare a dormire.
Su un tavolo sedevano alcuni uomini con un’armatura di pelle, stracarichi di armi, che esibivano l’emblema di una spada scarlatta su uno scudo bianco; uno di questi notò che Elminster lo studiava e grugnì: «Siamo le Spade Scarlatte, dirette nel Calishar in cerca di un lavoro come scorta delle carovane».
In risposta il giovane dichiarò il suo nome e la sua destinazione, bevve un sorso di birra, e tacque finché tutti non si scordarono di lui.
Tutti ripresero così le loro conversazioni. Gli ultimi ospiti, due uomini barbuti e chiassosi in abiti logori, che portavano spade consunte e un piccolo arsenale di tazze tintinnanti, coltelli, magli e di altri piccoli utensili, parevano fare a gara nel riferire le notizie più recenti.
Uno, Karlmuth Hauntokh, era più villoso, più grasso e più arrogante dell’altro. Mentre il giovane principe guardava e ascoltava, questi si fece eloquente sulle «opportunità che bollono in pentola in questo momento. Bollono, te lo dico io, per cercatori come me, e Surgath qui presente».
Poi si sporse per fissare le Spade Scarlatte con occhi vecchi e saggi, e, con un sussurro rauco e confidenziale che si udì probabilmente anche nelle stalle circostanti, aggiunse: «Si tratta degli elfi, vedi? Se ne sono andati – nessuno sa dove – semplicemente scomparsi. Hanno abbandonato quello che chiamano Elanvae, ossia i boschi lungo il fiume Reaching, a nordest da qui, lo scorso inverno. Ora tutta quella terra è nostra, pronta per il “raccolto”. Nemmeno dieci giorni fa laggiù ho trovato un gingillo – oro e pietre incastonate – in una casa crollata!»
«Sì», esclamò uno dei contadini con tono ironico, «e quant’era grande, Hauntokh? Più grande della mia testa?»
Il cercatore gli lanciò un’occhiata torva, le sopracciglia nere unite a formare un muro ostile. «Chiudi quella boccaccia, Naglarn», grugnì. «Quando sono là fuori, ad agitare la mia spada per allontanare i lupi, è raro che ti veda camminare coraggiosamente nei boschi!»
«Alcuni di noi», rispose Naglarn con aria sprezzante, «hanno un lavoro onesto da portare avanti, Hauntokh, ma tu non sai di che cosa parlo, non è vero?» Vari agricoltori ridacchiarono o sorrisero stancamente in silenzio.
«Questa te la perdono, contadino», ribatté freddamente il cercatore, «il Corno mi piace, e intendo venire a bere qui anche quando gli elfi ti avranno fatto fuori. Ma ti consiglio di non schernirli».
La mano irsuta di Hauntokh guizzò nella camicia con la rapidità di un serpente, e dalla peluria brizzolata del torace estrasse una borsa di pezza delle dimensioni di un pugno. Con le dita forti e tozze l’uomo ne aprì i lacci e ne mostrò il contenuto: una sfera d’oro scintillante, costellata di gemme lucenti. Quando il cercatore la sollevò fiero, tutti i presenti rimasero senza fiato.
Era un oggetto meraviglioso, antico e raffinato come altre opere elfe che Elminster aveva avuto modo di contemplare, e valeva probabilmente di più di una decina di Corni dell’Araldo messi insieme. E molto di più, se quel bagliore era magico. El guardò la luce interna alla sfera giocherellare riflessa sull’anello che il cercatore portava al dito: un anello recante l’effigie di un serpente pronto ad attaccare.
«Mai visto niente del genere?», gongolò Hauntokh. «Eh, Naglarn?» Poi si volse verso gli avventurieri delle Spade Scarlatte che, seduti sull’orlo delle sedie, lo guardavano ammutoliti e bramosi.
«E tu, Surgath?» infierì. «Hai mai portato a casa qualche cosa che valga almeno la metà di questa, eh?»
«Ora ti mostro», replicò l’altro uomo dal volto barbuto e segnato dalle intemperie, dopo essersi grattato la testa. «Ora ti mostro». Si agitò sulla sedia e appoggiò un piede sul tavolo, mentre Karlmuth Hauntokh sogghignava, godendosi quel momento di chiara supremazia.
Dopodiché il cercatore sudicio estrasse qualcosa di lungo e sottile dallo stivale, un sorriso di soddisfazione stampato sul volto, che faceva concorrenza a quello di Karlmuth. Non gli rimanevano molti denti, osservò El.
«Non avevo intenzione di umiliarti, Hauntokh», esclamò allegramente. «No, non è da Surgath Ilder. Tranquillo e sicuro, questo è il mio motto: tranquillo e sicuro». Sollevò il cilindro lungo e sottile, e pose la mano sulla seta nera sgualcita che lo avvolgeva. «Anch’io sono stato nell’Elanvae», affermò strascicando le parole, «per vedere quali pelli, e quali tesori, ci fossero. Anni fa, forse prima che tu nascessi, Hauntokh…»
Il cercatore più robusto ringhiò, ma i suoi occhi non persero mai di vista l’oggetto avvolto nella seta nera.
«Ho imparato che quando si è di fretta, nelle foreste elfe, è possibile trovare entrambe le cose, bestie e bottino, in un unico luogo: una tomba».
Nonostante fossero già tutti zitti, quell’ultima parola fece calare un silenzio spettrale nella sala.
«È l’unico luogo che quei fastidiosi elfi tendono a evitare, capite», continuò Surgath. «Perciò, se siete disposti a rischiare la vita ogni tanto, potreste, forse, essere abbastanza fortunati da trovare una cosa come questa». Detto ciò, tolse con un gesto fulmineo l’involucro di seta.
Si udì un mormorio, poi ancora silenzio. Il cercatore reggeva tra le mani una bacchetta d’argento cesellata e scanalata. Una delle estremità terminava in una lingua ondeggiante simile a una fiamma stilizzata, e l’altra recava una gemma blu cielo grande quanto la bocca spalancata della Spada Scarlatta più vicina. Nel mezzo, un drago slanciato, dall’aspetto quasi vero, era avvolto attorno allo scettro, i suoi occhi due gemme fluorescenti: una verde, l’altra color ambra, e sulla punta della coda arrotolata spiccava un’altra pietra, dello stesso colore della birra chiara.
Elminster fissò l’oggetto per qualche istante, prima di ricordarsi di sollevare il boccale e mascherare l’eccitazione del suo volto. Uno strumento simile gli sarebbe stato molto utile ora, se avesse dovuto duellare con guardie elfe. Era un loro manufatto, doveva esserlo, tanto bello e levigato. Ma quali poteri aveva?
«Questo scettro», affermò Surgath, agitandolo – d’un tratto si udì un grido di sorpresa e subito dopo un gran fracasso: Rose era entrata nella stanza con un vassoio di crostate calde, e se l’era rovesciato sui piedi per lo sbalordimento – «fu posto accanto a un signore elfo, credo duemila estati fa, o più. Be’, a lui piaceva impressionare la gente, proprio come ad alcuni cercatori pigri e dalla lingua lunga di mia conoscenza! Infatti riusciva a far fare a questa bacchetta molte cose. Guardate».
Il pubblico incantato lo vide toccare uno degli occhi del drago simultaneamente alla gemma enorme posta all’estremità dello scettro. Una luce balenò quando Surgath lo puntò verso Karlmuth, che piagnucolò e si gettò sul pavimento, tremando di paura.
Surgath reclinò il capo e rise fragorosamente. «Tranquillo, Hauntokh», sogghignò. «Rialzati. Questo è tutto ciò che fa, vedi: emana luce».
Elminster scosse lievemente il capo, sapendo che i poteri dello scettro erano di gran lunga superiori; ma solo un paio di occhi nella stanza notarono la reazione del giovane dalla barba incolta.
Quando il cercatore rivale si risollevò, con gli occhi colmi di rabbia, Surgath aggiunse grandiosamente: «Ah, ma c’è dell’altro».
Premette contemporaneamente l’altro occhio del drago e la gemma all’estremità dello scettro, e un raggio balenò attraverso la stanza e rovesciò il boccale di Elminster. Il giovane lo guardò cozzare contro il muro, e i suoi occhi si socchiusero.
«Non è finita», esclamò Surgath allegramente, mentre il raggio scemava e il boccale rotolava fuori dalla stanza. «Guardate!»
Questa volta toccò la gemma della coda e quella all’estremità: subito apparve una sfera ronzante di luce blu, nella quale vorticavano minuscole scintille.
Il volto del principe di Athalantar si contrasse, e le sue dita iniziarono a muoversi dietro il pezzo di formaggio. Abbassò lo sguardo, come per cercare il boccale, in modo che gli altri non lo vedessero pronunciare le frasi. Doveva controllare rapidamente quell’ultima manifestazione dello scettro, prima che qualcuno si facesse realmente male.
L’incantesimo funzionò, apparentemente inosservato dagli altri ospiti della taverna, ed Elminster si rilassò, emettendo un gran sospiro di sollievo, le tempie madide di sudore. Ma non era ancora finita: doveva togliere lo scettro dalle mani del vecchio. Doveva assolutamente impossessarsene.
«Ora», cantilenò Surgath, «credo che questo giocattolino non sarebbe fuori posto nelle mani di un re, e sto pensando a chi offrirlo. Una volta deciso, dovrò raggiungerlo, effettuare lo scambio e tornare senza essere ucciso o gettato in prigione. È necessario che scelga il re giusto, vedete, perché deve essere in grado di pagarmi almeno cinquanta rubini, e tutti più grandi del mio pollice!»
Il cercatore si guardò intorno compiaciuto, e aggiunse, «Ah, vi avverto: ho scoperto una magia che terrà lontano chiunque cerchi di rubarmelo. Per sempre, se mi intendete».
«Cinquanta rubini», gli fece eco uno degli avventurieri con fare incredulo.
«Dici davvero?», mormorò Elminster, e qualcosa nel suo tono attirò su di lui gli occhi di tutti i presenti. «Lo venderesti, ora, per cinquanta rubini?»
«Be’, ah…», farfugliò Surgath, socchiudendo gli occhi. «Perché, ragazzo? La tua bisaccia è per caso piena di rubini?»
«Forse», rispose El, addentando un pezzo di formaggio tanto nervosamente che per poco non si morse la punta delle dita. «Ti domando nuovamente: la tua offerta è seria?»
«Be’, forse sono stato affrettato», ribatté il vecchio lentamente. «Stavo pensando a più di cento rubini».
«Sì, effettivamente», esclamò Elminster in tono ironico, «si era capito. Bene, Surgath Ilder, compro il tuo scettro, qui e adesso, per cento rubini: tutti più grandi del tuo pollice».
«Hah!» Il cercatore si appoggiò allo schienale della sedia. «Dove prenderebbe cento rubini un giovane come te?»
El si strinse nelle spalle. «Sai… nelle tombe, in posti del genere».
«Nessuno viene sepolto con cento rubini», lo schernì il vecchio. «Raccontane un’altra, ragazzo».
«Va bene, sono l’unico principe sopravvissuto di un ricco regno», cominciò Elminster.
Hauntokh socchiuse gli occhi, ma Surgath rise beffardo. Il giovane si alzò, si strinse nelle spalle e si accinse ad aprire la bisaccia. Vi inserì la mano e ne estrasse un mantello arrotolato, per nascondere la mano vuota, e per celare il gesto che avrebbe scatenato l’incantesimo della «sospensione».
Quando gli avventurieri si protesero per guardarlo da vicino, El srotolò il mantello con un ampio gesto e gemme rosso ciliegia, illuminate dalle fiamme del camino, rotolarono sul tavolo di fronte a lui.
«Prendine una, Surgath», lo invitò gentilmente il giovane. «Controlla tu stesso che siano vere».
Ammutolito, l’uomo si avvicinò e sollevò una pietra alla luce dello scettro. Le sue mani cominciarono a tremare. Anche Karlmuth ne prese una, e la esaminò sospettoso.
Poi, molto lentamente, si sedette al tavolo, di fronte al giovane dal naso adunco, e scrutò la stanza intorno a lui.
El abbassò lo sguardo sulle mani irsute dell’uomo. Sì, il simbolo dell’anello corrispondeva perfettamente a quello dei briganti.
«Sono veri», esclamò rauco Hauntokh. «Sono più veri di quello», aggiunse indicando lo scettro col pollice. Poi guardò il suo ciondolo d’oro e scosse il capo lentamente.
«Ragazzo», esclamò Surgath, «se fai sul serio, questo scettro è tuo».
Uomini e donne si erano alzati in piedi, e osservavano con occhi stralunati le gemme scintillanti sparse sul tavolo. Una delle Spade Scarlatte si avvicinò fino a sovrastare El.
«Mi domando dove un giovane prenda tali ricchezze», esclamò lentamente con tono minaccioso. «Hai altri ciondoli del genere da portare con te lungo la pericolosa strada che conduce alle Rapide?»
Elminster sorrise lentamente, e mise qualcosa nella mano del guerriero.
L’uomo abbassò lo sguardo. Nel suo palmo scintillava un’unica moneta. Una grossa moneta antica di puro platino.
Elminster afferrò lo scettro a mezz’aria, e con l’altra mano invitò Surgath a prendere le gemme dal tavolo. L’uomo non se lo fece ripetere due volte.
Il giovane dal naso adunco lo osservò radunare freneticamente i rubini, poi si protese verso l’avventuriero, e, in un sussurro lieve che venne udito in ogni angolo dell’osteria, affermò, «C’è solo una cosa da non fare, buon uomo, ed è venire a cercarne altri.»
«Eh?», domandò l’uomo, minaccioso quanto prima.
Elminster indicò la moneta, e improvvisamente essa si mosse, sollevandosi sotto forma di serpente sibilante nella mano dell’uomo, che, imprecando, la gettò via. Essa colpì un muro con suono metallico, cadde a terra, e rotolò, di nuovo trasformata in moneta.
«Sono maledette, vedete», affermò El dolcemente. «Tutte. Sono state rubate da una tomba, e risvegliate. E senza la mia magia per tenere la maledizione sotto controllo…»
«Aspetta un momento», esclamò Surgath, scuro in volto. «Chi mi dice che i rubini siano veri, eh?»
«Nessuno», rispose Elminster. «Tuttavia lo sono, e rimarranno rubini anche domani. E per tutti i giorni che verranno. Se rivuoi lo scettro, sarò nella stanza che Rose mi ha preparato».
Elargì ai presenti un sorriso gentile e uscì, domandandosi quanti di loro, col simbolo del serpente o meno, avrebbero tentato di uccidere l’immagine virtuale, che sarebbe stata l’unica a dormire nel letto di El quella notte, e quanti avrebbero messo sotto sopra la stanza per cercare uno scettro che non c’era. Il tetto di torba e tegole del Corno dell’Araldo sarebbe stato più che sufficiente per il riposo dell’ultimo principe di Athalantar.
Di tutti gli occhi che nel locale osservavano stupiti il giovane che si congedava, ve ne erano due, in un angolo lontano, che covavano vendetta. Ma non erano quelli dell’uomo che portava l’anello col serpente.
«Cento rubini», esclamò Surgath con voce roca, facendo scorrere tra le dita una pioggia di gemme scintillanti. «E tutti autentici!» Alzò lo sguardo verso quel bagliore rassicurante, sorrise e rimescolò nuovamente il vaso traboccante di pietre preziose. Anni addietro comprare quell’oggetto gli era costato un valore equivalente a due rubini, ma quella sera valeva ogni scellino di rame speso.
Ancora sorridente, non vide la pietra baluginare una volta, mentre un incantesimo silenzioso ne dirottava il sistema di difesa contro il suo proprietario.
Si udì un grido soffocato, poi lo scheletro del cercatore cadde lentamente di traverso sul letto. Surgath Ilder avrebbe riso per sempre.
Alcuni rubini si ruppero per il calore, e tintinnarono sul pavimento, ridotti ormai a frammenti anneriti. Gli occhi che li osservarono cadere mostrarono una certa soddisfazione, ma la loro bramosia di morte non si era ancora placata. La vendetta poteva, talora, superare le barriere della morte e della tomba.
Un momento dopo la creatura dagli occhi famelici sorrise, alzò le spalle e fece un incantesimo per sottrarre una manciata di quei rubini.
Alla fine tutti dobbiamo morire: perché allora non morire ricchi?
La morte del Mago dalle Molte Gemme avrebbe potuto condannare la Casata degli Alastrarra, se non fosse stato per il sacrificio di un uomo di passaggio. Ma ben presto molti elfi del regno avrebbero preferito che quell’uomo avesse sacrificato altro al posto della vita. Secondo alcuni, tuttavia, questi sacrificò davvero anche altre cose.
Mentre camminava per il bosco infinito, il terreno ricominciò a salire creando, tra gli alberi onnipresenti, dirupi ed enormi strapiombi di roccia ricoperta di muschio. Non vi era alcun sentiero da seguire, ma ora che Elminster si trovava oltre la catena di montagne che segnavano il confine orientale del regno umano di Cormyr, per entrare nel territorio elfo di Cormanthor sarebbe bastato proseguire verso sudest, in direzione degli alberi più alti. Il giovane dal naso aquilino con la bisaccia sulle spalle incedeva dunque con passo costante verso quella destinazione invisibile, sapendo ormai d’esser prossimo alla meta. In quella zona gli alberi erano più vecchi, più imponenti, e dalle loro fronde pendevano viti e muschi. Da molto si era lasciato alle spalle ogni traccia di asce dei boscaioli.
Camminava da giorni, da mesi, ma in un certo senso era lieto che le frecce dei briganti l’avessero privato della sua cavalcatura. Persino nelle terre di Cormyr occupate dagli uomini, ora alle sue spalle, le colline erano tanto impervie e boscose che avrebbe dovuto lasciar andare il cavallo, violando volontariamente le istruzioni di Mystra.
Ancor prima che il terreno l’avesse costretto a tale scelta, avrebbe speso fino all’ultimo centesimo per comprare fieno alla bestia e avrebbe perso tempo ed energie per aprirgli un varco tra la fitta vegetazione: ammesso e non concesso, naturalmente, che il povero animale non si fosse rifiutato d’esser montato in boschi tanto impraticabili. Boschi percorsi da creature che ringhiavano e ululavano nella notte, facendo strillare e gemere le loro prede invisibili.
El si augurò sinceramente di non fare la stessa fine.
Faceva in genere uso di sortilegi che gli permettevano di paralizzare conigli e talora cervi, e di avvicinarvisi abbastanza da usare il coltello. Si stava stancando di macellare bestie per mangiare, dei fruscii e dei richiami costanti che significavano che egli stesso era osservato, della solitudine e della sensazione di isolamento. Talora si sentiva un dardo mal scoccato che sfrecciava ciecamente verso l’ignoto, più che un potente e consacrato Eletto di Mystra. A volte colpiva il bersaglio, ma troppo spesso, sebbene le cose sembrassero abbastanza facili e immediate, prendeva un abbaglio dopo l’altro. Hmm. Nessuna sorpresa che gli Eletti fossero bestie rare.
Senza dubbio, in quel preciso istante, vi erano creature ancora più rare, nascoste tra gli alberi, ed El costituiva la loro preda. Perché Mystra non gli aveva insegnato un incantesimo che lo portasse direttamente nella città di Cormanthor? Il Mar della Luna giaceva da qualche parte alla sua sinistra, e poneva termine al territorio elfo e, se ricordava bene le chiacchiere dei mercanti e le mappe sbirciate ad Hastarl, era collegato da un fiume a un braccio del Mare delle Stelle Cadute, vasto e dalla forma irregolare, che segnava il confine orientale del regno elfo che egli cercava. Le montagne alle sue spalle rappresentavano l’estremità occidentale di Cormanthor; perciò, se avesse proseguito e girato a destra una volta incontrato un fiume, sarebbe entrato in territorio elfo. Trovare la favolosa città al centro del regno era però tutt’altra questione. El sospirò: di notte non vi erano bagliori di torce o altro che indicassero una città lontana, e non aveva più visto un elfo da quando era partito da Athalantar, per non parlare di quando aveva oltrepassato la catena montuosa. Se fosse semplicemente inciampato in una radice avrebbe potuto morire, senza che nessuno, tranne i lupi e le poiane, si fosse accorto di nulla. Se per Mystra era tanto importante che arrivasse alla città, non avrebbe potuto guidarlo in qualche modo? L’inverno poteva coglierlo in cammino, o trovarlo morto da tempo, le sue ossa spezzate e dimenticate da qualche orso-gufo, da qualche peritone, straordinario incrocio tra cervo e uccello, o da qualche ragno gigante!
Elminster continuò a camminare. I piedi iniziarono a fargli tanto male che dimenticò il bruciore delle vesciche scoppiate e della pelle viva: ora sentiva un dolore osseo, profondo. Anche gli stivali non si potevano più considerare tali. Nelle favole l’eroe giungeva alla meta senza ritardi né difficoltà e, quale Eletto di Mystra, lui certamente lo era!
Perché non poteva essere tutto più facile? pensò, emettendo l’ennesimo sospiro. Mentre il bosco gli scorreva accanto, passo dopo passo, radici ammantate di muschio fuoriuscivano dalla terra dappertutto, come pareti contorte, e la luce solare diretta divenne rara. I cervi, che sollevavano la testa per osservarlo guardinghi da lontano, costituivano ormai una vista comune, e gli innumerevoli fruscii e svolazzamenti nella penombra onnipresente indicavano l’abbondanza di altra selvaggina.
Elminster ignorò la maggior parte delle sporgenze, dei cespugli e dei rampicanti, per paura dei pericoli in agguato e, per evitare d’essere cacciato da qualsiasi essere affamato munito di naso, aveva effettuato un incantesimo che gli permetteva di camminare a pochi centimetri da terra. In tal modo non lasciava tracce del suo passaggio, e poteva mantenersi nelle zone in cui i nodosi giganti della foresta soffocavano gli alberelli e i roveti, e la via era relativamente sgombra. Percorreva molta strada e, di notte, quando la stanchezza si impadroniva di lui, riposava sotto forma di una nube di nebbia sospesa attorno ai rami più alti. Qualcosa o qualcuno lo stava naturalmente seguendo.
Qualcosa di troppo cauto, o troppo astuto, per farsi vedere anche solo per un istante. Una volta Elminster si era reso invisibile, aveva percorso un tratto di strada a ritroso, e aveva trovato tracce del suo inseguitore che deviavano bruscamente per poi terminare in un ruscello. Tutto ciò che l’ultimo principe di Athalantar poté apprendere fu che l’essere che lo stava pedinando era un uomo, o un altro essere simile che aveva due gambe e indossava stivali dalla suola pesante.
Al che si strinse nelle spalle e proseguì in direzione delle favolose Torri del Canto. Gli elfi non consentivano a nessun uomo di vedere la loro grande città e rimanere in vita, ma una dea aveva ordinato a El di recarvisi, come prima missione al suo servizio. Se gli elfi avessero tenuto troppo alla loro intimità e non avessero approvato la sua presenza, tanto peggio per lui.
E peggio per lui se la sua vigilanza o i suoi incantesimi gli fossero venuti meno. Già una volta, all’imbrunire, aveva visto uno lampo di luce blu alla sua sinistra, e un orso-gufo era caduto nella trappola di un incantesimo. Il giovane sperò che tali magie avessero scopi specifici e non colpissero esseri umani che usavano incantesimi per tenersi sollevati dal suolo.
Un fatto divenne sempre più chiaro nella sua mente: persino elfi desiderosi di mostrarsi amici, se mai a Cormanthor ve ne fossero, non avrebbero accolto affabilmente un intruso umano che portasse con sé uno scettro sottratto a una tomba elfa.
L’attenzione che aveva attirato su di sé al Corno era stata uno sbaglio, al di là del potenziale pericolo rappresentato dall’ignoranza del cercatore in materia di magia. Aveva perduto una notte di sonno, e aveva dovuto utilizzare frettolosamente alcuni incantesimi per svignarsela quando almeno quattro uomini armati di sortilegi e pugnali erano probabilmente penetrati nella sua camera da letto. L’ultimo era giunto strisciando dal tetto, la spada in pugno, proprio nel punto in cui El ascoltava i versi di altri due individui intenti ad accoltellarsi nell’oscurità sottostante.
Ora possedeva un magnifico oggetto d’argento cesellato, tempestato di gemme, e senza dubbio molto riconoscibile, i cui poteri avrebbero potuto essere rivolti contro di lui dall’elfo che l’avesse visto: uno scettro probabilmente maledetto o capace di incantesimi potenti contro chiunque li avesse evocati. Uno scettro appartenuto a un elfo, i cui parenti sopravvissuti avrebbero potuto uccidere qualsiasi essere umano avesse osato toccarlo. Uno scettro che qualcuno avrebbe potuto rintracciare persino in quel momento.
Come poteva essere stato tanto stupido? El sospirò nuovamente. Durante il viaggio avrebbe dovuto nasconderlo in un luogo noto solo a lui, al riparo dal misterioso inseguitore o da guardie elfe. Era necessario trovare un punto di riferimento in quel bosco infinito, che non fosse però un albero. Decise così di guardarsi attorno in cerca di un luogo adatto.
Poco dopo il sorgere del sole, superate le acque scure della dodicesima palude, Elminster trovò ciò che cercava. Il terreno saliva bruscamente formando una serie di picchi appuntiti, l’ultimo dei quali era una guglia di roccia nuda, somigliante alla prua di una gigantesca nave desiderosa di salpare verso il sole.
Il giovane scelse il picco accanto alla prua. Era un’altura modesta, circondata da alberi; uno in particolare, che sembrava appeso alla roccia, lo colpì. Poteva essere il luogo giusto. El si inginocchiò fra le sue radici, raccolse un pugno di terra e la setacciò fra le dita fino ad avere in mano solo poche pietre.
Estrasse lo scettro d’argento dalla sacca, lo guardò brevemente e lo posò sul palmo in mezzo alle pietre. Era un’opera magnifica e, come già aveva osservato, una delle estremità terminava con una lingua di fuoco. Elminster scosse la testa ammirato e praticò un sortilegio. Poi depose lo scettro nel buco che aveva scavato, lo ricoprì di terra e staccò un cuscino di muschio da porre sopra la terra smossa. Una manciata di foglie e ramoscelli servì a completare il nascondiglio; quindi il giovane si affrettò verso il picco seguente. In quel punto lasciò cadere una delle pietre, poi ripeté l’azione sui tre rilievi alberati seguenti. Fermandosi presso l’ultimo, mormorò un altro incantesimo che lo affaticò e lo fece star male; le sue membra formicolarono, avvolte da un fuoco blu-bianco per il tempo di un lungo, lento respiro.
Prese fiato, una, due volte, prima di sentirsi abbastanza forte da effettuare un secondo incantesimo. Era questione di pochi gesti, di una singola frase e di staccare un capello da dietro l’orecchio. Ben presto ebbe terminato il rituale.
El rimase immobile per un momento, in ascolto, e scrutò la strada dalla quale era venuto, in cerca di movimenti sospetti, ma i suoi sensi percepirono solo le fughe precipitose delle piccole creature boschive. Dopodiché si voltò e proseguì il viaggio: non aveva nessuna voglia di attendere ore per scoprire chi lo stesse seguendo.
Mystra lo aveva mandato in missione a Cormanthor: non gli aveva ancora rivelato che cosa avrebbe dovuto fare in quel luogo, ma qualcuno avrebbe avuto bisogno di lui, così aveva detto, «fra qualche tempo». Non sembrava una cosa urgente, eppure El desiderava vedere la leggendaria città elfa. Era il luogo più straordinario di tutta Faerûn, affermavano i menestrelli, pieno di meraviglie e di elfi tanto belli da togliere il fiato. Un luogo di feste, di prodigi e di canti, dove palazzi fantastici svettavano con le loro guglie fino alle stelle, e città e foresta si fondevano in un vasto giardino ondulato. Un luogo dove sparavano a vista su chi non era elfo.
Esisteva un verso di un’antica ballata sui briganti stupidi, divenuto poi un detto ironico tra gli abitanti di Athalantar: «Non dobbiamo far altro che bruciare quel tesoro quando ci metteremo le mani sopra». Gli sarebbe servito nei giorni a venire. El sospettava di dover trascorrere molto tempo aggirandosi per Cormanthor sotto forma di nebbia dotata di occhi e orecchie.
Meglio che consumarsi nell’oblio eterno della morte per incantesimi, pensò, o sprofondare dimenticato nella terra di un giardino elfo, lasciando a metà la missione affidatagli da Mystra.
Elminster si fermò alla base di un albero grande quanto una capanna, spostò la bisaccia da una spalla all’altra, si stirò come un gatto, dopodiché s’incamminò con passo rapido a sudest. Gli stivali non emettevano alcun rumore, dal momento che avanzava sull’aria. Mentre camminava osservò le acque placide di un piccolo stagno, che riflessero l’immagine di un giovane dalla barba incolta e dai penetranti occhi blu, con un groviglio di capelli neri, un naso adunco e una corporatura slanciata. Non brutto, ma all’apparenza neanche particolarmente affidabile. Un giorno, comunque, avrebbe fatto colpo su qualche elfo…
Se avesse guardato indietro al momento giusto, Elminster avrebbe visto una massa di funghi abbarbicati sollevarsi dal terreno paludoso della foresta, disturbati da un’entità invisibile, e riabbassarsi dolcemente quando questa sussurrò un’imprecazione e si scansò frettolosamente. Il giovane aveva forse intenzione di addentrarsi dritto nel cuore custodito di Cormanthor?
Poi le tenebre della foresta vennero improvvisamente illuminate da anelli di fuoco, e il terreno prese a tremare. Sembrava proprio di sì.
Elminster avanzò correndo sull’aria, facendo oscillare la bisaccia che teneva in mano, avanti e indietro, per darsi la spinta. Si era trattato di un incantesimo di guerra, sferrato frettolosamente.
Le foglie arsero per qualche istante sui rami all’orizzonte, e un albero cadde da qualche parte in direzione ovest, in risposta all’onda d’urto causata dall’esplosione.
Elminster aggirò un lungo ramo e salì su un’altura, per poi discendere in una conca rocciosa ammantata di felci, dove una sorgente affiorava fra antichi massi, uno dei quali era appena ripiombato a terra, trascinando con sé fiamme e le ossa roteanti di una creatura smembrata.
Alcune figure si stavano affrettando a nascondersi dietro di essi. Elfi, osservò El, che stavano combattendo contro corpulenti guerrieri dalla pelle rossa, dalla cui bocca spuntavano zanne, e la cui armatura di pelle nera era piena di pugnali, asce e mazze.
Gli hobgoblin avevano sorpreso gli elfi al torrente e li avevano uccisi quasi tutti. Mentre El si avvicinava correndo sopra le felci che ondeggiavano nella sua scia, una spada elfa si illuminò di luce magica, si sollevò e colpì. La sua preda cadde a terra, ringhiando di dolore, le mani intorno al collo squarciato, ma una spranga di ferro brandita da un altro hobgoblin piombò sulla testa dello spadaccino con un forte tonfo, che riecheggiò nella conca con un rumore nauseante.
La testa dell’elfo si spaccò in due tra spruzzi di sangue, e il suo corpo tremante cadde addosso al compagno. Questi, a quanto pareva l’unico sopravvissuto della pattuglia, era un elfo di alta statura con indosso un mantello adorno con file di ciondoli ovali, che baluginarono e scintillarono quando lui si scansò. Un mago, pensò El, sollevando una mano e sferrando un incantesimo.
L’elfo fu più rapido. Dalla sua mano scaturì una sfera di fuoco, diretta sulla faccia dell’hobgoblin che brandiva la spranga. Quando il nemico, colpito, vacillò e cadde all’indietro, urlando di rabbia e di dolore, il fuoco si divise in due lunghe lingue, a mo’ di corna di toro. Le fiamme avvolsero il ruukha dalla pelle scarlatta e bruciarono l’armatura di cuoio, mettendo a nudo la pelle grigia bruciacchiata dell’aggressore. Questi lasciò cadere rumorosamente il bastone di ferro sulle rocce e balzò all’indietro, ululando ancor più forte; allora il mago elfo lanciò le sue corna di fuoco sul volto di un altro assalitore.
Ma era troppo tardi. Il fuoco stava ancora sfrigolando sulla faccia ammaccata di un ruukha quando un altro gli si avvicinò repentinamente e conficcò i rebbi scuri e malvagi di un forcone nel torace del mago.
I dardi magici che Elminster aveva scagliato stavano ancora sfrecciando nell’aria quando l’elfo trafitto estrasse i denti sanguinanti del forcone dal suo corpo, e, urlando di dolore, cadde pesantemente nel ruscello. A quel punto numerosi hobgoblin si affollarono intorno alle rocce, e iniziarono a colpire il mago che si dimenava convulsamente. El vide il volto dai fini lineamenti rovesciarsi all’indietro e ansimare qualcosa, e l’aria sopra il torrente si riempì improvvisamente di innumerevoli scintille argentee roteanti.
Gli hobgoblin sobbalzarono convulsamente, inarcandosi per il dolore, mentre il mago sprofondò nuovamente nell’acqua. Le armi ruukha gli caddero attorno quando la sua magia colpì: gli assalitori stavano ancora barcollando quando i dardi di Elminster li colpirono violentemente, facendoli roteare e accendendoli di un fuoco blu-bianco.
Fiamme incantate fuoriuscirono ruggenti dalla bocca e dal naso delle malvagie creature, e i loro occhi si gonfiarono ed esplosero, trasformandosi in nebbia borbottante, dello stesso colore del fuoco di El. I cadaveri bruciacchiati vacillarono senza meta tra le rocce e le felci calpestate fino a cadere. L’elfo rimase steso nell’acqua, gemente, e numerosi altri ruukha infuriati presero a scendere dalla sponda più lontana dell’avvallamento, armati di asce, forconi, e spade.
Quando giunse accanto al mago, El si trovò circondato da numerosi cadaveri di elfi, gettati scompostamente qua e là. Due occhi smeraldini segnati dal dolore lo guardarono tra ciocche di capelli bianchi aggrovigliate dal sudore, e si spalancarono sbalorditi quando riconobbero un essere umano.
«Sono dalla tua parte», esclamò il principe, sollevandogli la testa fuori dall’acqua intorbidita dal sangue. Quel gesto interruppe il suo incantesimo, ed El si ritrovò con i piedi immersi nelle fredde acque del torrente, al che scoprì che uno dei suoi stivali era bucato.
Ma scoprì anche di non avere tempo per badarvi dato che le felci frusciarono e intorno a lui comparvero altri ruukha con un ghigno malvagio sul volto. La pattuglia elfa si era accampata in un covo di hobgoblin, e molto probabilmente era stata circondata mentre dormiva.
L’intera conca pareva brulicare di ruukha minacciosi, dalle zanne gialle, che procedevano cautamente acquattati dietro i loro scudi. Sembravano aver imparato che i maghi erano sempre pericolosi, ed essere sopravvissuti a quella lezione. Il che significava che avevano già ucciso maghi in precedenza.
Elminster stava in piedi accanto all’elfo che tossiva debolmente e lanciò una rapida occhiata dietro di lui. Sì, erano proprio là, si stavano avvicinando lentamente, e dalle loro facce sembrava avessero già vinto la battaglia. Dovevano essere più di settanta, e il numero di incantesimi che rimanevano al giovane era talmente basso da costituire un problema molto serio.
Il principe sferrò l’unica magia che avrebbe potuto fornirgli un po’ di tempo per pensare a una vera soluzione. Aprì rapidamente un lembo di cuoio della bisaccia, ne estrasse sei pugnali, li ammassò uno sopra l’altro e sibilò alcune parole gettandoli in aria, poi schioccò le dita. Le armi presero il volo come vespe impazzite e si disposero simultaneamente in cerchio intorno a Elminster, squarciando il volto di un ruukha troppo vicino.
Ciò scatenò un grido generale di rabbia, e gli hobgoblin si scagliarono su Elminster da tutte le direzioni. I pugnali sibilanti presero a colpire chiunque invadesse il cerchio serrato, ma erano solo cinque, contro numerosi ruukha corpulenti che si facevano largo a spallate per raggiungere il giovane.
Una lancia colpì Elminster a una spalla prima di toccare terra, e una pietra gli escoriò il naso mentre indietreggiava. L’incantesimo delle lame volanti, sfortunatamente, fornì ai ruukha nuove idee. Perché affrontare quel muro d’acciaio quando si può semplicemente seppellire il suo artefice sotto una pioggia di armi dall’alto?
Un altro sasso lo colpì violentemente alla fronte ed El vacillò stordito. Un boato d’esultanza si levò intorno a lui, e le creature si lanciarono alla carica. Scuotendo il capo per scacciare il dolore, El si lasciò cadere sopra l’elfo e pronunciò rapidamente le parole di un incantesimo che non si aspettava di dover utilizzare tanto presto, sperando intensamente che non fosse troppo tardi.
Due occhi ardenti di luce magica guardarono il picco ammantato di alberi, poi quello successivo, e quello dopo ancora. Che gli dei maledicano l’usurpatore! Il giovane li aveva visitati tutti!
Aveva forse lasciato lo scettro nel primo, e utilizzato gli altri come trappole? Oppure nel secondo, o…?
La creatura a cui appartenevano quegli occhi ardenti perse fiducia nella volontà degli dei silenziosi di maledire opportunamente il giovane mago-principe, perciò lo fece personalmente, in maniera meticolosa e molto sincera. Quand’ebbe finito di sbraitare, lanciò un incantesimo. Come si aspettava, esso rivelò una ragnatela di linee di forza che collegavano tutti i picchi, ma non rivelavano il nascondiglio dello scettro. Per rompere la ragnatela era necessaria la volontà consenziente di Elminster… o la sua morte.
Se la prima era impossibile, l’altra avrebbe certo fatto al caso suo. Le sue mani si mossero rapide per sferrare un nuovo sortilegio: qualcosa di simile a una colonna di fumo denso, si alzò dal terreno, qualcosa che cominciò a sibilare e a sussurrare piano e incessantemente, a mano a mano che prendeva forma. Qualcosa i cui movimenti costituivano chiari presagi di morte.
Qualcosa che improvvisamente si concretizzò, sollevandosi da terra e sferzando l’aria con una decina di artigli affilati: un ammazzamaghi.
I due occhi pieni d’odio lo osservarono allontanarsi, alla ricerca dell’ultimo principe di Athalantar. Quando svanì sibilando fra gli alberi, sotto quegli occhi comparve un sorriso, quasi sconosciuto a quella bocca, che poco dopo riprese a maledire Elminster. Se fossero stati in ascolto, gli dei si sarebbero divertiti per la fantasia delle sue frasi.
Vi fu un istante di foschia blu vorticante, e la sensazione di precipitare Poi gli stivali di Elminster poggiarono rumorosamente su roccia frantumata; tra le braccia aveva un corpo d’elfo, inerte.
Si trovavano su una roccia piatta a metà pendio, attorniati da felci piegate e spezzate, dietro di loro le grida sorprese dei ruukha che guardavano di qua e di là in cerca dei fuggitivi; o venivano fatti a pezzi dall’anello di pugnali vorticanti, che improvvisamente si diresse nel luogo in cui El era balzato, per ripristinare la barriera protettiva.
Camminare per Cormanthor con un elfo morto o moribondo tra le braccia non era probabilmente una buona idea, ma al momento El non aveva alcuna alternativa. Con un grugnito il principe di Athalantar si mise sulle spalle quel corpo slanciato e leggero e iniziò a salire verso la cresta del pendio, avanzando cautamente tra le felci per evitare di cadere sul terreno sconnesso. D’un tratto udì varie urla alle sue spalle, al che abbozzò un sorriso e si girò.
I ruukha lo stavano inseguendo, alcune pietre gli caddero vicino, e una lancia sibilò tra le felci al suo fianco. El scelse un punto ed effettuò la seconda delle cinque mosse dell’incantesimo.
D’un tratto si ritrovò nel mezzo di una schiera di hobgoblin grugnenti e frenetici, con l’elfo che gravava sulle sue spalle. Ignorando le imprecazioni improvvise e le grida di sorpresa, El ruotò su un tallone per trovare un altro luogo adatto in cui farsi portare dalla magia… laggiù!
Le spade colpirono troppo tardi: il giovane era nuovamente svanito.
Quando la nebbia si dileguò, El udì gridare dietro di lui. I pugnali si erano aperti un varco sanguinoso fra alcuni hobgoblin per raggiungere e circondare il mago nel punto in cui era giunto col secondo balzo, e ora stavano tentando di raggiungerlo nuovamente, vorticando fra il gruppo principale di ruukha. L’Eletto di Mystra constatò che l’avevano di nuovo avvistato: li vide voltarsi, urlare di rabbia e caricare per l’ennesima volta. Allora decise di attenderli con pazienza.
Ora non lanciavano più armi. Non avevano più spade né asce, ma tutti desideravano fare a pezzi quell’umano intruso. El si caricò il mago elfo sulle spalle, attese il momento adatto, e saltò ancora, di nuovo in direzione opposta a quella degli impetuosi ruukha.
Si udirono altre urla quando i pugnali deviarono per seguirlo, e altri hobgoblin caddero a terra. El vide un guerriero dall’andatura appesantita perdere la testa e finire sul terreno senza sapere che cosa l’avesse colpito, poi scalciare debolmente, invano, contro un nemico invisibile, mentre il sangue sgorgava a fiumi dal suo corpo. Molti degli aggressori vacillavano o zoppicavano, ciononostante si voltarono per seguire il nemico in fuga. A Elminster rimaneva un ultimo balzo, ma il giovane decise di risparmiarlo e si voltò per raggiungere a piedi la sommità dell’avvallamento col fardello penzolante. Solo pochi tenaci ruukha si lanciarono all’inseguimento.
El proseguì camminando, in cerca di un punto favorevole dal quale poter individuare un luogo adatto per l’ultimo salto. I ruukha, sempre sulle sue tracce, andavano avanti e indietro, rassicurandosi a vicenda dato che gli umani si stancavano rapidamente: quello, l’avrebbero ucciso dopo il tramonto, se non fosse morto prima.
Elminster li ignorò, scrutando attentamente l’orizzonte. Sembrò trascorrere un’eternità, ma alla fine trovò il luogo che cercava: un fitto gruppo di alberi al di là di un altro avvallamento. Spiccò l’ultimo balzo e si lasciò gli hobgoblin alle spalle, sperando che non lo seguissero.
I pugnali, infatti, si sarebbero presto fusi, e allora avrebbe avuto ben poco con cui lottare.
Fu allora che una voce debole ma acuta gli sussurrò alcune parole all’orecchio in lingua Volgare un po’ scorretta: «Giù. Lascia me: giù! Per favore».
Elminster piantò bene i piedi nella penombra offerta dagli alberi e depose delicatamente l’elfo sul letto di muschio. «Parlo la tua lingua», esclamò poi in elfo. «Sono Elminster di Athalantar, in viaggio per Cormanthor».
Nuovamente gli occhi verdi dimostrarono stupore. «La mia gente ti ucciderà», ribatté il mago elfo con un filo di voce. «Esiste solo un modo affinché tu…»
La sua voce si affievolì, e il giovane principe appoggiò la mano sulla gola affaticata e mormorò frettolosamente le parole del suo unico incantesimo guaritore.
La risposta fu un sorriso. «Il dolore è diminuito, molte grazie», esclamò il mago con più vigore, «ma sto morendo. Sono Iymbryl Alastrarra, di…» Gli si oscurò improvvisamente lo sguardo e afferrò il braccio di Elminster.
El si chinò sopra di lui, completamente impotente, e osservò le lunghe esili dita arrampicarglisi come un ragno tremante su per il braccio, per la spalla, e da lì toccargli la guancia.
Una visione improvvisa divampò nella mente del giovane. Si vide in ginocchio, nello stesso luogo in cui era inginocchiato ora. Sotto di lui non vi era Iymbryl moribondo, ma solo polvere, e nel mezzo una gemma nera scintillante. Nella visione El la prese e con essa si toccò la fronte.
Poi l’immagine svanì, e il principe si ritrovò a guardare il volto sconvolto dal dolore di Iymbryl Alastrarra, labbra e tempie color porpora. L’elfo lasciò cadere la mano, che prese a tremare sulle foglie morte. «Hai… visto?», domandò ansimante.
Cercando di riprendere fiato, Elminster annuì. Il mago elfo ricambiò e sussurrò: «Sul tuo onore, Elminster di Athalantar, non deludermi». Poi fu colto da uno spasmo improvviso e si mise a tremare come una foglia secca, cullata da un vento che in un attimo la spazzerà via. «Oh, Ayaeqlarune!», gridò Iymbryl, senza più vedere l’uomo chino sopra di lui. «Amata! Finalmente ci rincontriamo! Ayaeqlarrr…»
La voce divenne un rantolo, lungo e profondo, simile all’eco di un flauto distante. Il corpo esile ebbe un fremito e poi rimase immobile.
Elminster si chinò più vicino, ma si ritrasse terrorizzato quando la carne sotto le sue mani emise un sibilo bizzarro e collassò in un ammasso di polvere.
Questa si mosse lentamente, e nel mezzo comparve una gemma nera. Proprio com’era accaduto nella visione. El la osservò a lungo, domandandosi a che cosa stesse andando incontro, poi sollevò lo sguardo agli alberi circostanti. Nessun hobgoblin, niente occhi misteriosi. Era solo.
Sospirò, si strinse nelle spalle e raccolse la gemma.
Era calda e liscia, tutto sommato piacevole al tatto, e quando la sollevò emise un suono flebile, come l’eco delle corde di un’arpa. Elminster vi guardò attraverso ma non vide nulla, allora la premette sulla fronte.
Il mondo esplose in un caos vorticante di suoni, di odori e di scene. El stava ridendo con una ragazza elfa in una radura; poi lui diventava la ragazza elfa, e danzava intorno a un fuoco le cui fiamme luccicavano di gemme turbinanti. D’un tratto indossava un’armatura lavorata, montava un cavallo alato e si lanciava tra gli alberi per trafiggere con la lancia un orco rabbioso. Il sangue gli occupò tutta la visuale, poi tremolò e scemò, tramutandosi nella luce rosata dell’alba, splendente tra le guglie di un fiero e meraviglioso castello. Poi si udì parlare una lingua elfa molto antica, forbita e ampollosa, in una corte in cui gli elfi erano agghindati in sete preziose, inginocchiati davanti a ragazze guerriere, protette da armature dallo strano bagliore magico, e sentì la sua voce decretare una guerra di sterminio dell’umanità.
Mystra, aiutami! Che cosa sta succedendo?
Il suo grido disperato sembrò fargli ricordare il suo nome: era Elminster di Athalantar, l’Eletto della dea, ed era stato travolto da una tempesta di immagini. Si trattava dei ricordi della Casata degli Alastrarra. Il pensiero di quel nome lo fece ripiombare in un vortice di migliaia e migliaia di anni, di decreti, di detti familiari, e di luoghi amati. I volti di un centinaio di ragazze elfe – madri, sorelle, figlie, tutte appartenenti alla casata – gli sorrisero, lo chiamarono, e i loro profondi occhi blu risalirono ai suoi come tanti specchi d’acqua in attesa. Elminster venne risucchiato dentro di essi, sempre più in basso: nomi, date e spade scintillanti, simili a sonore frustate nella sua mente.
Perché? gridò, e la sua voce sembrò echeggiare in quel caos fino a infrangersi contro qualcosa di familiare, come un’onda sugli scogli: il volto dell’elfo scomparso ora lo guardava tranquillamente. Alle sue spalle c’era una splendida ragazza elfa.
«Dovere», rispose Iymbryl. «La gemma è la kiira della Casata degli Alastrarra, ossia il sapere e la saggezza acquisiti dai suoi eredi nei secoli. Ciò che io ero, ora lo diventerà Ornthalas, elfo del mio stesso sangue. Egli attende a Cormanthor. Portagli la gemma».
«Portargli la gemma?», gridò Elminster, ed entrambi i volti gli sorrisero e intonarono all’unisono: «Portagli la gemma».
Poi Iymbryl esclamò: «Elminster di Athalantar, ti presento Lady Ayaeqlarune di…»
Qualsiasi cosa avesse detto fu spazzata via, insieme ai loro volti, da una nuova ondata di ricordi vividi e chiassosi: scene d’amore, di guerra, e di magnifiche terre alberate. Elminster lottò per ricordare chi fosse, e per vedersi inginocchiato sotto gli alberi, in quel luogo, nel presente.
Tastò il terreno, e cercò di vedere ciò che le sue mani percepivano, ma la sua mente traboccava di voci, di unicorni danzanti, di corni da guerra sfavillanti nella luce lunare di altri tempi e di luoghi remoti. Si alzò e vacillò ciecamente con le braccia protese, finché non sbatté contro un albero.
Afferrandosi al tronco, cercò di metterlo a fuoco, ma quello e gli altri alberi, tanto alti e scuri intorno a lui, gli sembravano spaventosamente sbagliati. Li fissò, tentò di parlare, e si ritrovò a guardare Iymbryl, che stava gridando mentre i rebbi neri del forcone lo trapassavano nuovamente. E poi lui era d’improvviso Iymbryl, a cavallo di un’onda rossa di dolore, attorniato da ruukha che ridevano crudelmente e sollevavano spade malvagie che non era in grado di fermare.
Esse si abbatterono su di lui, allora tentò di divincolarsi e colpì qualcosa di molto duro, che gli tolse il respiro. Elminster vi rotolò sopra, e si accorse a malapena d’essere caduto, tra le radici degli alberi, nonostante non riuscisse ancora a vedere il fango contro cui premeva la sua faccia.
La sua mente gli stava mostrando nuovamente Iymbryl insieme a un elfo più giovane, bellissimo, dall’aspetto altezzoso, che indossava vesti preziose e si stava alzando da una sedia fluttuante a forma di goccia, sospesa in una stanza in cui risuonava una musica soave. Il giovane sorrise per salutare Iymbryl, e a El venne in mente il nome Ornthalas. Naturalmente. Doveva affrettarsi a raggiungerlo e consegnargli la gemma. Insieme alla sua vita?
Oppure la gemma gli avrebbe, nel frattempo, strappato la mente dal cranio, la carne e tutto il resto?
Dimenandosi nel fango Elminster tentò di staccarsi la gemma dalla fronte, ma ormai sembrava facesse parte di lui, calda, solida, irremovibile.
Doveva alzarsi, poiché gli hobgoblin avrebbero potuto ancora rintracciarlo, e andarsene, prima che un ragno arboricolo o un orso-gufo, o altre creature l’avessero trovato, una preda facile e impotente, e… doveva… Elminster affondò lievemente le dita nel terreno, cercando di ricordare il nome della dea che voleva invocare. Ma tutto ciò che trovò nella sua mente fu il nome Iymbryl.
Iymbryl Alastrarra. Ma com’era potuto accadere? Lui era Iymbryl Alastrarra. Erede della casata, il Mago dalle Molte Gemme, capo della Pattuglia del Corvo Bianco, e quella valletta di felci sembrava essere un buon luogo per accamparsi.
Elminster gridò, e gridò ancora, ma nessuno era in ascolto, se non le migliaia di alastrarrani che vorticavano nella sua mente.
È raro per un uomo farsi tanti nemici, e lottare contro di essi solo per ottenere una vittoria tanto chiara e schiacciante da sconfiggerli per sempre, e liberarsi di loro in modo pulito, in un solo istante. Effettivamente si potrebbe affermare che tale risoluzione esista solo nelle storie dei menestrelli. Nell’arazzo infinito che è la vita vera di Faerûn, gli dei affliggono gli individui con fini molto meno coerenti, troppi dei quali si rivelano fatali quanto i conflitti che li precedono.
«Sfidereste il potere degli elfi? Ciò non è affatto prudente, mio signore». La faccia dell’elfo della luna che pronunciò tali parole appariva calma sotto il suo elmo da drago, ma il tono sembrò quello di un avvertimento severo e mordace.
«E perché no?», ringhiò l’uomo dall’armatura dorata, gli occhi scintillanti nell’ombra della visiera sollevata a testa di leone, mentre stringeva l’elsa di una spada più alta dell’elfo che gli stava di fronte. «Mi hanno già fermato gli elfi?»
La visione di due capitani armati, l’uno di fronte all’altro sulla cima di quella collina sferzata dal vento svanì, ed Elminster mugugnò. Era così stanco di tutto ciò. Ogni scena, buia, furiosa o allegra che fosse, ne introduceva subito un’altra, e quella marea di emozioni lo sfiniva. Gli sembrava di avere la mente in fiamme. Come faceva, per pietà divina, l’erede della Casata degli Alastrarra a rimanere sano di mente?
Ma era effettivamente sano di mente?
Iniziò come un sussurro gentile: per un attimo El pensò fosse un’altra delle innumerevoli’ e carezzevoli ragazze elfe dalla voce morbida, che le visioni gli mostravano. Invocami.
Chi stava parlando ora? El si schiaffeggiò la faccia, o tentò di farlo, lottando per riportarsi nel presente, a Faerûn. Il presente degli hobgoblin, dei misteriosi inseguitori, dei signori maghi e di altre minacce che potevano ucciderlo con tanta facilità.
Invocami, usami. Il giovane principe-mago per poco non scoppiò a ridere; quel sussurro seduttore gli ricordò una donna grassa delle notti di Hastarl; la voce era l’unica cosa affascinante che le rimaneva, e con essa attirava i clienti dalla soglia buia di casa sua.
Invocami, usami. Senti il mio potere. Da dove proveniva quella voce?
Ecco un calore pulsante sopra gli occhi. El si toccò la fronte con dita esitanti. La gemma palpitava: invocami. La voce scaturiva proprio dalla pietra.
«Mystra?», gridò forte Elminster, chiedendo consiglio. Non sentì nulla, se non calore. Parlare alla gemma, almeno, non era proibito, a quanto sembrava. Il giovane si schiarì la voce.
Invocami.
«In che modo?» In risposta alla domanda esasperata, nuove visioni si affollarono nella sua mente. Energie potenti fluivano ininterrottamente all’interno della gemma, magie che servivano per guarire, per mutare forma e cambiare il corpo dell’erede, da invisibile a capace di vedere nel buio, da…
Le visioni lo strapparono da tali rivelazioni e lo guidarono attraverso scene di vari eredi alastrarrani che invocavano la gemma per trasformarsi. Alcuni cambiavano solo il volto e l’altezza per evitare i nemici, altri mutavano sesso per adescare od origliare; uno o due assunsero le sembianze di animali per sfuggire a rivali armati pronti a colpire eredi elfi, ma non interessati a timide lepri o a gatti curiosi. El vide come avveniva la trasformazione, e gli venne mostrato come poteva essere invertita, o come terminava spontaneamente, indipendentemente dalla sua volontà. Bene, dunque: ora sapeva come trasformarsi invocando i poteri della gemma. Ma perché gli veniva mostrato tutto ciò?
Improvvisamente si ritrovò a fissare Iymbryl Alastrarra, sorridente nell’ombra degli alberi. La faccia tremolò, e divenne la sua. Poi ondeggiò nuovamente, e fu ancora quella dell’elfo, due occhi smeraldini sotto la capigliatura bianca tipica degli eredi alastrarrani. La visione mutò di nuovo, mostrandogli un giovane piuttosto familiare, allampanato, capelli corvini, naso adunco, occhi blu, nudo sopra uno specchio d’acqua: un corpo che assunse lentamente le sembianze di un elfo, snello, glabro e lucido. Dalla faccia, Iymbryl. Esatto: la gemma voleva che si trasformasse.
Con un sospiro, Elminster invocò i poteri della kiira per acquisire le sembianze dell’elfo. Fu investito da una sensazione di ondeggiamento e, d’un tratto, era Iymbryl, nelle speranze, nei ricordi e si guardò le mani: le mani alquanto rovinate di un uomo che ha vissuto e combattuto duramente. Desiderò che divenissero lunghe, esili, lisce, color blu-bianco come quelle che poco prima avevano faticosamente risalito il suo braccio fino alla guancia.
Allora le mani si restrinsero, si torsero, e divennero affusolate, delicate, la pelle color blu-bianco. Le mosse per prova, ed esse fremettero in risposta.
Elminster fece un respiro profondo e tremante, richiamò alla mente il volto di Iymbryl, e ordinò al suo corpo di mutare. Sentì qualcosa salire lentamente in lui, su per la schiena, lungo la colonna vertebrale; rabbrividì involontariamente e grugnì disgustato. Le visioni svanirono e si ritrovò a guardare i tronchi pazienti, immutati, degli alberi intorno a lui, presenti in quel luogo da secoli.
Abbassò lo sguardo. I vestiti gli andavano larghi; ora era più basso e più esile, la pelle liscia di colore blu-bianco. Era un elfo della luna. Era Iymbryl Alastrarra.
La magia aveva funzionato. Ora, non esisteva nella gemma anche un incantesimo di teletrasporto che potesse condurlo diritto a Cormanthor? Scivolò ancora una volta nei ricordi turbinanti, alla ricerca di una tale possibilità. Era come sfrecciare in un campo di battaglia affollato in cerca di una singola faccia familiare tra i guerrieri in lotta. No, a quanto pareva non esisteva. El sospirò, si scosse, e guardò gli alberi onnipresenti. Quando si voltò, gli abiti lo seguirono ondeggiando, il che gli fece ricordare la bisaccia.
Si guardò intorno e, improvvisamente, si ricordò di averla lasciata da qualche parte nella conca di felci infestata di hobgoblin. Alzò le spalle e si voltò in direzione sudest. Se i ruukha non l’avevano già fatta a pezzi o non ne avevano sparpagliato il contenuto, l’avrebbe recuperata più tardi con un incantesimo; non che quell’anno si aspettasse di avere ancora tempo per tali cose. Né, forse, nella stagione successiva. Si strinse nuovamente nelle spalle; se ciò significava servire Mystra… be’, altri avevano sopportato di peggio.
Il fatto di aver assunto le sembianze di un elfo gli avrebbe certamente consentito di entrare nella città di Cormanthor, impresa che gli sarebbe stata ben più difficile se fosse stato umano. Elminster annusò l’aria: al naso di un elfo i boschi avevano un profumo più intenso, gli odori percepiti erano molto più numerosi. Hmm. Meglio badare a quelle cose durante il cammino. Si mise in marcia fra gli alberi, toccando la gemma ancora una volta per assicurarsi di non averla persa o danneggiata durante la trasformazione.
Al tocco la kiira lo rese consapevole di due cose: solo gli spacconi mostravano apertamente le gemme del sapere della loro casata. Una semplice invocazione sarebbe servita a nascondere la pietra; e ora che aveva assunto le sembianze di Iymbryl, i ricordi della gemma non l’avrebbero più abbandonato, ma nemmeno travolto come prima.
Dapprima nascose la kiira, poi tornò alla soglia della sua mente, oltre la quale scorrevano le luci e i colori vividi delle memorie in attesa. Questa volta sembravano formare un torrente da guadare, le cui acque lente gli permettevano di dirigersi dove desiderasse, lasciando scorrere tutto il resto. El vagò alla ricerca dei ricordi più recenti di Cormanthor, e per la prima volta vide le guglie sublimi, i balconi meravigliosi di case costruite nel cuore di alberi viventi, le lanterne decorate, fluttuanti, libere nella città, e i ponti arcuati o a schiena d’asino, gettati di albero in albero, che attraversavano tutta la zona. Nessuno di essi aveva parapetti laterali. El deglutì; sarebbe passato un po’ di tempo prima che si fosse abituato a passeggiare su tali costruzioni audaci.
Chi governava la città? Il Coronal, gli indicò la gemma: un individuo scelto dal popolo, non nato per quella carica. Un «vecchio saggio» e giudice-capo di tutte le dispute, a quanto sembrava, che dominava non solo Cormanthor città, ma l’intero regno di profonde foreste. La carica prevedeva l’acquisizione di poteri magici, e il Coronal attuale era un certo Eltargrim Irithyl, anziano ed eccessivamente gentile agli occhi di Iymbryl, nonostante l’erede alastrarrano sapesse che alcune delle famiglie più orgogliose e antiche avevano opinioni meno positive del loro governatore.
Quelle fiere casate, gli Starym e gli Echorn in particolare, detenevano gran parte del potere effettivo su Cormanthor, e si consideravano l’incarnazione e i guardiani dell’«autentico» carattere elfo, ossia…
Elminster interruppe quel pensiero quando l’idea gli ricordò spiacevolmente ciò che aveva appena fatto. Non aveva avuto scelta, a meno che non fosse stato un uomo estremamente impietoso. Aveva, tuttavia, fatto bene a toccare la gemma, dal momento che si era impegnato a servire Mystra?
Si fermò bruscamente, accanto a un albero particolarmente imponente, fece un respiro profondo e chiamò a voce alta: «Mystra?»
Poi, sussurrando, aggiunse: «Signora, ascoltami. Per favore».
Richiamò alla mente il ricordo più vivido di Myrjala, sorridente ed eccitata mentre insieme fluttuavano nell’aria, i lievi mutamenti nei suoi occhi che ne tradivano la divinità via via che la passione cresceva. Si aggrappò all’immagine per non lasciarla sfuggire, sussurrò nuovamente il suo nome, e si concentrò.
Percepì una sensazione di freddo ai margini della mente, un formicolio, simile a un brivido, e domandò: «Signora, è giusto ciò che sto facendo? Ho la tua benedizione?»
Un impeto di calore amorevole pervase la sua mente, e con esso una scena di Ornthalas Alastrarra, in piedi in una stanza screziata dal sole, le cui colonne erano alberi vivi adorni di fiori. Tutto ciò veniva visto dagli occhi di qualcuno che si stava avvicinando all’erede, e quando questi giunsero a poca distanza dall’elfo, dall’aria lievemente perplessa, la mano del visitatore si sollevò e si portò a una fronte invisibile.
Gli occhi di Ornthalas si assottigliarono per lo stupore, e il visitatore gli andò più vicino, sempre più vicino. Per… baciarlo? Toccarsi il naso? No, per salutarsi fronte contro fronte, naturalmente. Gli occhi dell’elfo, tanto vicini e grandi, tremolarono come un riflesso nell’acqua increspato dalle onde. Quando il fenomeno terminò, il suo volto era diventato quello del gentile vecchio Coronal; allora venne inquadrato Elminster, piegato in un inchino. In qualche modo El sapeva che stava invocando la protezione del governatore da coloro che non tolleravano che un umano fosse penetrato nel cuore della città sotto le spoglie di un elfo conosciuto. Un elfo che avrebbe potuto benissimo aver assassinato…
Una sensazione improvvisa d’avvertimento avvampò nella sua mente come fuoco, spazzando via la visione: Elminster si ritrovò sotto gli alberi, improvvisamente cosciente, per grazia di Mystra suppose, per affrontare qualcosa che volava attorno alle radici e scivolava tra gli alberi, somigliante a un enorme serpente impetuoso. Qualcosa che sibilava e gorgogliava instancabilmente, sussurrando quelle che parevano parole. Sussurrando frammenti di incantesimi? Il corpo della strana bestia o dell’apparizione evocata era talora traslucido ma restava pur sempre indistinto, sfocato. La creatura virò verso di lui con un sogghigno trionfante, sferzando l’aria con decine di artigli affilati. Era evidente che cercava proprio lui.
Era forse una sorta di guardiano elfo? Una creatura malvagia riportata in vita da magia antica? Di qualsiasi natura fosse, il suo intento era chiaro, e quegli artigli apparivano letali.
El fece per nascondersi, ma quella cosa era tanto affascinante da osservare: una parte di essa scivolava in maniera goffa ma incessante, l’altra era un turbinio infinito di quelli che sembravano essere residui di incantesimi interrotti. Numerosi occhi fluttuavano e roteavano in quel corpo in continuo mutamento. Era sicuramente il risultato di un incantesimo. Se ne sarebbe occupata Mystra: dopo tutto lei era la dea della magia, ed egli era il suo Elet…
La creatura sfoderò gli artigli, e nonostante fossero lontani dal bersaglio, lasciarono nella loro scia un formicolio da brivido. La mente di El si intorpidì lievemente: sembrava non riuscire a concentrasi sugli incantesimi.
Quanti gliene erano rimasti, a proposito?
Oh, Mystra. Non riusciva a ricordare.
Quando la creatura tornò all’attacco, questa volta più vicina, il principe fu colto dal panico. Corri! El si voltò e schizzò via tra gli alberi, inciampando a causa delle gambe più corte e del corpo più leggero. Per tutti gli dei, gli elfi erano velocissimi!
Riusciva a schivare agevolmente gli attacchi della creatura misteriosa. Per impulso si spostò rapidamente all’indietro, nella direzione da cui era venuto. Il mostro lo seguì.
Si voltò nuovamente, e questa volta arrischiò un semplice incantesimo di fuga, nonostante sapesse che la gemma conteneva molto di più. Una bestia tanto caotica, fatta di incantesimi tanto bizzarri, sicuramente sarebbe svanita al tocco di…
La magia di El divampò. La creatura sfuggente, dai numerosi artigli, tremolò, si scosse e continuò ad avvicinarsi.
Elminster abbassò il capo e iniziò a correre veloce, zigzagando fra gli alberi, acquattandosi dietro ad affioramenti rocciosi, balzando sopra radici e funghi dall’aspetto poco rassicurante. I sibili e i borbottii dietro di lui però non accennavano a diminuire.
L’ultimo principe di Athalantar fu attraversato da un brivido quando si accorse di poter correre molto più rapidamente di quanto non immaginasse.
Bene, gli rimaneva un’ultima piccola arma magica: un incantesimo che gli permetteva di sprigionare fiamme dalla mano. Solitamente serviva per accendere il fuoco o per indurre bestie feroci alla ritirata, non era un incantesimo da battaglia, ma…
El si nascose dietro un albero, prese fiato e iniziò ad arrampicarsi. Le sue nuove dita, più lunghe e più esili trovarono fessure nella corteccia in cui le sue mani umane non avrebbero mai potuto entrare, e dato il peso minore del corpo poté aggrapparsi ad appigli che non avrebbero mai retto il suo corpo precedente. Quando El trovò un ramo che giudicò sufficientemente grande, l’entità misteriosa gli era ormai alle calcagna.
Giunta dietro l’albero, la creatura sembrò percepire la sua presenza, e guardò in alto senza esitazioni. Elminster indirizzò la fiamma tra i numerosi occhi della bestia magica, e si mise al riparo, per evitare che gli balzasse addosso.
Si aspettava che la cosa urlasse e si dimenasse, o quanto meno indietreggiasse, invece non esitò minimamente e tentò di mordergli la mano attraverso le fiamme. Sembrava addirittura più grande e più vigorosa, per niente ferita dall’incantesimo.
I suoi potenti artigli fendettero freneticamente l’aria; El azzardò un’occhiata e decise che sarebbe stato prudente salire più in alto. Aveva appena iniziato ad arrampicarsi quando l’albero tremò sotto di lui. La creatura aveva squarciato corteccia e legno come fossero stati aria, ricavando un appiglio per le sue zampe. Un singolo colpo ed ecco un altro appiglio. Senza pausa l’entità si issò sul tronco e continuò la scalata. El osservò affascinato: si arrampicava con la stessa velocità con la quale un uomo munito di un’armatura avrebbe risalito una fune!
L’avrebbe raggiunto in pochi istanti. Si trovava proprio sotto di lui, e El avrebbe potuto lanciarle qualsiasi cosa. Non gli rimanevano però che alcuni incantesimi strani, per nulla attinenti al combattimento, e non aveva tempo di ricorrere ai poteri della gemma.
Presto sarebbe stato costretto a saltare. Istintivamente si portò dietro il tronco. L’essere dai tanti artigli lo seguì piuttosto goffamente, incidendo la sua strada sulla corteccia. Bene: non sarebbe riuscita a prenderlo quando le fosse passato accanto. Elminster tornò al primo ramo, una postazione di gran lunga migliore, e si tenne saldo. Quando la creatura fu bene in vista, dall’altra parte del tronco, il principe le sferrò un piccolo incantesimo direttamente negli occhi.
Una luce divampò e subito dopo svanì. La bestia non sembrò per nulla scossa, ed El socchiuse gli occhi, sorpreso. Sì, sembrava ancora più grande, e in certo qual modo più forte.
Mentre si arrampicava verso di lui, il giovane tentò con un piccolo incantesimo di ottenere informazioni di cui in realtà non necessitava.
La magia raggiunse la creatura e svanì, senza infondergli alcuna conoscenza. La cosa si ingrandì lievemente.
Quel mostro si nutriva di incantesimi! Doveva per forza essere un ammazzamaghi, un essere di cui aveva sentito parlare molto tempo prima, nei giorni trascorsi con gli avventurieri delle Lame Coraggiose. Gli ammazzamaghi erano creature magiche, evocate da rari incantesimi repressi: il loro compito era uccidere maghi che conoscevano un solo modo di combattere, ossia sferrare incantesimi.
La sua magia, per quanto disperata, poteva solo rendere quell’essere più forte, non certo nuocergli. Era sì un uccisore di maghi e un Eletto di Mystra, ma non riusciva assolutamente a evitare gli errori, che commetteva in continuazione, con fin troppo zelo.
Basta con le riflessioni, si disse, erano un lusso per i maghi, e in quel momento sarebbe stato più opportuno dimenticarsi di appartenere alla categoria. Gli rimanevano solo pochi istanti per tentare un’alternativa prima d’esser costretto a saltare, o a morire. Cautamente sfoderò uno dei pugnali da cintola, e lo lasciò cadere di punta negli occhi della bestia sibilante.
L’arma sembrò non incontrare alcun ostacolo e raggiunse il terreno con un tonfo solido, creando al suo passaggio una striscia di vuoto nella creatura. L’ammazzamaghi rabbrividì e urlò, il tono acuto, spaventoso, furioso, ma in qualche modo più flebile di prima.
Poi smise di lamentarsi e ricominciò ad arrampicarsi per raggiungere Elminster, un odio feroce negli occhi. Il foro praticato dal pugnale era svanito, ma la bestia era visibilmente più piccola. L’ultimo principe di Athalantar annuì tranquillamente, piantò uno stivale contro il tronco sotto di lui, e prese lo slancio.
L’aria sibilò dietro di lui per un istante, prima che le sue mani afferrassero il ramo su cui intendeva fermarsi tra il fruscio delle foglie e il rumore dei ramoscelli spezzati. Vi rimase appeso per un momento, ascoltando alle sue spalle le urla incessanti, poi si lasciò cadere, ruotando per afferrare un ramo più basso.
Non sembrava affatto uno degli eroi decantati dai menestrelli. Invece di afferrare un ramò, le sue mani si chiusero su un pugno di foglie, e un istante più tardi l’Eletto di Mystra cadde duramente sul fondoschiena, fece un’involontaria capriola all’indietro e riguadagnò la posizione eretta con un grugnito. Il posteriore gli avrebbe fatto male per giorni.
E la sua corsa si sarebbe trasformata in un’andatura sgraziata. Elminster sospirò mentre osservava la creatura scivolare dall’albero in una spirale vertiginosa, per raggiungerlo e ucciderlo.
Se avesse utilizzato l’unico incantesimo che teneva ancora pronto, sarebbe tornato in un battibaleno al nascondiglio dello scettro, ma poi avrebbe dovuto ripercorrere a piedi tutto il bosco, lasciando quel mostro sibilante, e forse il misterioso inseguitore, in agguato tra il punto in cui si trovava e Cormanthor.
Raccolse allora il pugnale scagliato precedentemente. Ne aveva un altro alla cintura, un terzo nella manica, e uno in ogni stivale. Ma sarebbero stati sufficienti per arrecare all’ammazzamaghi qualcosa di più di un banale fastidio?
Pronunciando un’imprecazione tipicamente umana, l’elfo che non era Iymbryl Alastrarra proseguì zoppicando in direzione sud, coltello alla mano, domandandosi dove sarebbe riuscito ad arrivare prima che la cosa lo raggiungesse.
Se avesse guadagnato tempo sufficiente, avrebbe forse potuto ricorrere a qualche espediente contenuto nella gemma.
Di fretta e assorto nel groviglio dei suoi pensieri, Elminster si ritrovò sull’orlo di un precipizio, e poco ci mancò che non cadesse.
Lo strapiombo era infatti nascosto dai cespugli: il margine sgretolato di un’antica parete rocciosa digradava bruscamente a formare una gola ricoperta di alberi. Un minuscolo ruscello mormorava fra i massi sottostanti. El lo seguì con lo sguardo, dopodiché si girò verso l’ammazzamaghi che si stava avvicinando più rapidamente che mai, scivolando fra gli alberi e le radici contorte, con gli artigli instancabili che sferzavano l’aria.
Il giovane guardò lungo l’orlo del dirupo, e scelse un albero che sporgeva lievemente nel vuoto, ma sembrava grosso e solido. Corse verso di esso, una mano protesa per sondarne la robustezza, e solo il sibilo lo avvertì.
Sembrava che la creatura procedesse, quando lo desiderava., con velocità sorprendente. Elminster si voltò appena in tempo per vedere gli artigli anteriori raggiungere la sua testa. Si abbassò, scivolò sulle pietre instabili, e allungò disperatamente una mano per afferrare una radice oltre l’orlo del precipizio.
Tra il rumore assordante di pietre che franavano il principe di Athalantar oscillò verso la roccia, vi sbatté contro duramente, e afferrò la radice anche con l’altra mano, proprio mentre il lungo corpo serpentino lo superò precipitando nella gola sottostante.
Una decina di metri più in basso si trovava una pietra sporgente, e l’ammazzamaghi si contorse repentino per afferrarla. Gli artigli stridettero brevemente sul masso, creando scintille, poi la roccia si staccò dal suo ancoraggio antico e precipitò, trascinando con sé il suo passeggero riluttante.
Il masso e la creatura si schiantarono insieme sulle pietre sottostanti. Non rimbalzarono, né rotolarono, pur sollevando una nube di polvere. El osservò la scena con gli occhi lievemente serrati.
Quando la polvere si posò, il giovane vide ciò che si aspettava: pochi artigli che si agitavano attorno al sasso che aveva inchiodato l’ammazzamaghi.
La creatura era dunque abbastanza solida da poter colpire con gli artigli, da poter essere immobilizzata da una roccia, ma solo il metallo poteva arrecarle danno. O più probabilmente, il semplice ferro freddo.
Elminster guardò il pendio friabile sotto di lui, sospirò, e iniziò a trotterellare a valle, cercando una via per scendere. Non fece in tempo a percorrere venti passi che fu la via a trovare lui. Il terreno sotto i suoi stivali brontolò, come un uomo che parla nel sonno, e iniziò a franare lateralmente. El effettuò un inutile balzo indietro, e poi scivolò impotente lungo il pendio, trasportato da un fiume di terra e di rocce in movimento.
Prima di riacquistare vista e udito, tossì per un lasso di tempo che gli sembrò lungo ore, e quando si rialzò, era tutto dolorante.
Aveva assunto le sue vecchie sembianze. Aveva forse perduto la gemma?
Un rapido gesto bastò a rassicurarlo: la gemma era ancora sulla fronte, i suoi poteri in attesa di essere usati. Probabilmente aveva cambiato forma senza pensarci, per fare più presa e cercare di controllare la frana. Ma ora aveva poca importanza.
Elminster tentò un passo cauto, fece una smorfia di dolore quando appoggiò tutto il peso su un piede che sembrava essere stato colpito da centinaia di sassi durante il suo volo involontario, e si incamminò lentamente lungo il fondo roccioso della gola in cui era precipitato l’ammazzamaghi.
Probabilmente si era già liberato dal masso, pensò Elminster, e magari era in agguato tra le rocce. In tal caso non avrebbe fatto altro che usare quell’incantesimo, per poi ripercorrere la parte di foresta più pericolosa.
Poi lo vide: una selva di artigli spettrali si agitava goffamente tra le rocce attorno al sasso imponente. El aveva, non si sa come, ancora il pugnale fra le mani, e iniziò a colpire le zampe che spuntavano da sotto la roccia, guardandole svanire come fumo sotto la lama.
Quando tutte furono scomparse, il giovane si arrischiò a salire sopra il masso che inchiodava la creatura, e iniziò a pugnalarne il corpo impotente. La lama non incontrò alcuna resistenza, ma il mormorio frenetico divenne a poco a poco più flebile, fino a cessare completamente, dopodiché il masso si adagiò sulle rocce sottostanti con un forte rumore.
Elminster si drizzò lentamente, ammaccato ma soddisfatto, e sollevò lo sguardo verso il margine della gola.
Un uomo lo stava osservando dall’alto. Un uomo con una tunica, mai visto prima, ma che sembrava conoscerlo. Lo sconosciuto gli sorrise, poi alzò le mani e fece i primi cauti gesti di ciò che El riconobbe come il sortilegio dello sciame di meteore. Quel sorriso non era per nulla amichevole.
El sospirò, sollevò la mano per un saluto sardonico e con quel gesto sferrò il suo incantesimo.
Quando le quattro sfere di fuoco rabbioso raggiunsero il fondo della valle ed esplosero, l’ultimo principe di Athalantar era già scomparso.
Il mago che fino ad allora aveva seguito Elminster serrò i pugni mentre osservava il fuoco da lui evocato ruggire nella gola, e imprecò amaramente. Ora sarebbe stato costretto a trascorrere giorni e giorni sui libri, per imparare incantesimi che gli avrebbero consentito di localizzare quel giovane sciocco. Sembrava quasi protetto dagli dei per il modo in cui la fortuna pareva assisterlo. Era sfuggito all’incantesimo assassino alla locanda, il vecchio Surgath Ilder era stato una magra alternativa. Poi aveva in qualche modo intrappolato l’ammazzamaghi, e quell’ultimo incantesimo gli era costato giornate di lavoro.
«Oh dei, guardate giù e maleditelo insieme a me», mormorò, gli occhi colmi di vendetta mentre distoglieva lo sguardo dalla gola rocciosa.
Dietro di lui sagome pallide e invisibili, si sollevarono da una decina di cumuli di pietra che il fuoco aveva bruciacchiato al suo passaggio.
Si mossero in un silenzio lugubre verso un masso tra le pietre, e agitarono le mani per compiere un incantesimo, senza però pronunciare una sola parola. Il masso si sollevò con movimenti irregolari, al che le forme spettrali si allungarono incredibilmente fin sotto la pietra, e ne estrassero una creatura dai numerosi occhi, che ancora sferzava l’aria con artigli ormai stanchi.
Il mago udì il tonfo del masso, e sollevò un sopracciglio. Il giovane aveva fallito nel suo incantesimo e si apprestava a combinare qualcosa nelle vicinanze della gola? Oppure l’ammazzamaghi si era finalmente liberato?
Si voltò, sollevandosi le maniche. Aveva ancora un incantesimo utile, se fosse stato necessario.
Qualcosa stava risalendo la gola, o meglio più di qualcosa. Spettri, resti evanescenti di uomini, le gambe avvolte da una nebbiolina bianca, i corpi, ombre bianche nella semioscurità.
Erano in grado di uccidere, sì, ma egli aveva l’incantesimo giusto per… li guardò meglio. Elfi? Erano fantasmi di elfi? E tra loro, ancora vivo, il suo ammazzamaghi!
Fu in quel momento che Heldebran, l’ultimo apprendista sopravvissuto dei signori maghi di Athalantar, sentì in bocca il sapore metallico della paura.
«E voi siete?», domandò uno degli elfi spettrali, senza fermarsi.
«Non avvicinatevi!», gridò il mago Heldebran, sollevando le mani. Gli elfi non accennarono a rallentare, perciò l’apprendista sferrò l’incantesimo che avrebbe ridotto tutti i non-morti in polvere innocua, per sempre. Lo guardò avvolgerli come una rete.
E svanire, senza arrecare loro alcun danno.
«Notevole», commentò un altro spettro, mentre insieme atterravano in cerchio intorno a lui. I loro piedi erano evanescenti, e i corpi sembravano pulsare, mutando continuamente di luminosità.
«Oh, non saprei», esclamò un terzo, in lingua Volgare, ma con un forte accento. «Questi umani fanno sempre tanto chiasso per mettersi in mostra. Una semplice parola e uno sguardo sarebbero stati più che sufficienti. Esultano come bambini quando danno libero sfogo ai loro poteri».
«Sono bambini», aggiunse un quarto. «Basta guardare questo qui».
«Non so chi siate», ringhiò Heldebran di Athalantar, «ma io…»
«Vedete? Solo minacce e spavalderia!», continuò l’ultimo elfo.
«Bene, ora basta», affermò il primo autorevolmente. «Umano, le magie di fuoco non sono tollerate in questo luogo. Hai svegliato i guardiani immortali della Vallata Sacra, e devi pagarne il prezzo».
Heldebran si guardò nervosamente intorno. Il cerchio sembrava essersi stretto, sebbene gli elfi mantenessero un aspetto tranquillo, e non accennassero ad alzare le braccia, che tenevano lungo i fianchi. Il mago sputò fuori le parole di cui aveva bisogno e sollevò le mani, compiendo gesti frenetici.
Piccoli lampi crepitarono sulla punta delle sue dita, e inviarono fasci luminosi contro gli elfi spettrali che tuttavia, dopo averne attraversato i corpi immateriali, si infransero sugli alberi. Qua e là, dalle cortecce si levò un po’ di fumo.
Uno dei guardiani si voltò per valutare il danno, e le fiamme svanirono improvvisamente, lasciando solo qualche ricciolo di fumo.
Il cerchio intorno a Heldebran rimase immutato. Gli elfi sembravano, se non altro, lievemente divertiti.
«E ciò che è peggio», affermò seriamente il primo elfo, come se non si fosse verificata alcuna interruzione, «avete creato qualcosa che si nutre di magia e l’avete inviata nel cuore più antico del nostro regno. Questo».
Il tono del guardiano spettrale denotava profondo disgusto. Il suo petto si gonfiò, emise deboli fasci di luce, poi esplose mentre l’ammazzamaghi emergeva da esso, muovendo debolmente gli artigli. Heldebran sentì un improvviso e incontenibile impeto di speranza. Forse la sua creatura poteva essere aizzata contro quei fantasmi, addirittura distruggerli, oppure…
«La punizione sarà adeguata e definitiva, umano senza nome», aggiunse austero l’elfo, quando l’ammazzamaghi voltò la testa e vide il suo creatore.
Le numerose orbite del mostro fissarono Heldebran, e i suoi artigli graffiarono l’aria con rinnovato vigore. Con un sibilo flebile, la creatura avanzò risoluta.
«No!», gridò l’apprendista mago, quando gli artigli raggiunsero i suoi occhi. «Noooo!»
Il cerchio di guardiani elfi era diventato più compatto, ed essi lo guardavano freddi. Il mago scattò verso di loro, e sbatté forte contro un muro di forze sconosciute. Allora si accasciò, singhiozzante: in quel momento la creatura lo raggiunse e lo uccise.
«Qualcuno d’importante?», domandò uno degli elfi, quando i rumori svanirono ed essi allungarono le mani per far scomparire la bestia.
«No», rispose un altro semplicemente. «Uno che avrebbe potuto diventare signor mago di Athalantar, se il suo governo non fosse stato rovesciato. Si chiamava Heldebran. Non sapeva nulla di interessante».
«Non c’era un altro intruso che stava combattendo con quel mostro?», chiese il terzo guardiano.
«Uno di noi, uno che portava una gemma del sapere».
«E quest’umano gli stava dando la caccia, nella nostra vallata?» L’elfo spettrale abbassò lo sguardo, gli occhi divenuti fiamme improvvise nell’oscurità degli alberi, e ordinò: «Riportalo in vita, che possa essere nuovamente ucciso. Magari più lentamente».
«Elaethan», esclamò il compagno, in tono di rimprovero. «Nel toccare la mente di questi umani, si diventa simili a loro».
«È una cosa dalla quale tutti noi dovemmo guardarci, Norlorn, quando, per la prima volta, essi entrarono nelle foreste in cui venni alla luce. Gli uomini ci corrompono; in questo sta il vero pericolo per la Gente».
«Allora dovremmo distruggere qualsiasi uomo passi di qui», affermò Norlorn, sollevandosi a formare una torre fiammeggiante bianca e fredda. «Quell’altro, che ha usato un incantesimo per sfuggire alle fiamme; avrà anche avuto una gemma del sapere, ma era un essere umano, o almeno sembrava».
«E proprio questo è il punto: tali bestie sono pericolose per se stesse», esclamò tranquillamente Elaethan. «Molte di loro sembrano umane, ma non riescono mai a diventare tali».
Si ritrovò in piedi di fronte alla radice familiare. Lo scettro giaceva sotto di essa, coperto dalla terra e dal letto di ramoscelli, di foglie e di pezzi di muschio che tempo prima aveva frettolosamente ammassato. Elminster si guardò attorno, non percepì alcuna minaccia, e usò i poteri della gemma nera per controllare l’incantesimo. Alcuni ricordi turbinarono brevemente, ma El li cacciò dalla mente e scosse la testa per riprendersi.
Avrebbe potuto tornare in quel luogo, o dovunque finisse lo scettro, ancora due volte. Non voleva farlo, ma come evitare le aggressioni che l’avrebbero per forza ricondotto laggiù?
Il mago misterioso, o qualsiasi ammazzamaghi, era stato programmato per cercare un Eletto di Mystra sufficientemente stupido da seguire la strada originale. Perciò, questa volta si sarebbe diretto a est lungo i picchi, poi a sud lungo la prima cresta che avesse incontrato, finché questa non si fosse allontanata troppo dai luoghi in cui gli alberi crescevano più alti.
Nei boschi il passo leggero e i sensi più acuti di un elfo superavano di gran lunga quelli di un uomo, e qualsiasi pattuglia elfa avesse incontrato avrebbe con più probabilità attaccato un essere umano che Iymbryl Alastrarra, a meno che Iymbryl non fosse un loro personale nemico. Scrutò nei ricordi della kiira, ma, da quanto vide, l’elfo sembrava non avere nemici particolari.
Questa volta fu questione di un istante assumere nuovamente le sembianze di Iymbryl. Elminster pensò brevemente al libro degli incantesimi lasciato nella bisaccia, e sospirò. Avrebbe dovuto abituarsi agli incantesimi elfi minori, spesso strani, racchiusi nella gemma, che era evidentemente servita all’erede alastrarrano quale libro d’incantesimi personale. Al momento, tuttavia, non aveva tempo di studiarli; era meglio allontanarsi rapidamente dallo scettro, nel caso il nemico fosse venuto a cercarlo proprio in quel luogo.
Il giovane sospirò ancora e si mise in cammino. Sarebbe stato meglio viaggiare di notte, sotto forma di nebbia, e usare le ore di luce per studiare i sortilegi? Hmm… meglio rifletterci durante il cammino. Avrebbe potuto impiegare molti giorni per raggiungere Cormanthor. Aveva tempo a sufficienza per tale scopo, oppure quella gemma si nutriva della vitalità o della mente del suo possessore?
E se lo stava divorando… Si colpi la fronte con la mano. «Mystra difendimi!», mormorò.
Naturalmente. La voce inaspettata nella sua mente lo fece inginocchiare, traboccante di gratitudine, ma la dea aggiunse solo cinque parole: la gemma è sicura. Procedi.
Dopo un momento di silenzio e alcuni istanti trascorsi a sogghignare debolmente, Elminster si rialzò e ubbidì.
Il boschetto di funghi giganti, che emanava una strana luce purpurea lasciò, finalmente il posto a un terreno in salita, e il principe vi si arrampicò con un carico d’incantesimi e un cuore stanco. Camminava da giorni, e aveva incontrato solo un cervo gigante, col quale si era trovato faccia a faccia due giorni prima al tramonto. Aveva percorso molta strada dalle banchine e dalle torri di Hastarl, ed era lontanissimo dagli ultimi villaggi in cui i contadini avevano sentito parlare del regno di Athalantar; ora, a giudicare dal fervere di incantesimi protettivi e dai cavalieri che si intravedevano talora nel cielo, si stava avvicinando alla città elfa. Erano splendidi nelle loro armature lavorate color porpora, blu e smeraldo, mentre cavalcavano in sella a unicorni volanti dai mantelli blu, senza ali né redini.
Numerose pattuglie volanti si avvicinarono per controllare il viaggiatore solitario, ed El poté osservare bene i giavellotti pronti e le piccole balestre. Incerto sul comportamento da tenere, ogni volta rallentava l’andatura e faceva loro cenni silenziosi e rispettosi col capo, al che i cavalieri ricambiavano e volavano via.
Davanti a lui, tra gli alberi, si aprivano radure, ammantate di muschio e di felci. Dal nascondiglio che queste ultime offrivano, si alzò la prima pattuglia elfa a piedi incontrata dopo l’episodio con i ruukha. Le loro armature erano magnifiche e, quand’egli si avvicinò senza mutare andatura, tutti i guerrieri sollevarono la balestra. Che altro avrebbe potuto fare?
Quando El fu più vicino, uno di essi, più alto degli altri, lasciò l’arma, che rimase sospesa nell’aria, fece alcuni passi incontro al giovane, e sollevò una mano in segno di «alt».
Elminster si fermò e batté le palpebre. Meglio sembrare stanco e sbalordito che dire qualche sciocchezza.
«È da giorni che cammini in questa direzione», esclamò il capo pattuglia con voce gentile e melodiosa, «e, tuttavia, non hai avvertito le pattuglie del tuo passaggio e nemmeno noi. Chi sei, e perché sei in cammino?»
«Io…», balbettò Elminster ondeggiando lievemente. «Sono Iymbryl Alastrarra, erede della mia casata. Devo tornare in città. Durante la ricognizione siamo stati attaccati dai ruukha, e sono l’unico sopravvissuto, ma i miei incantesimi hanno attirato l’attenzione di un mago umano, il quale ha inviato un ammazzamaghi contro di me, e non mi sento bene. Necessito dei miei familiari, e di un po’ di cure».
«Un mago umano?», esclamò l’ufficiale. «Dove ti sei imbattuto in una simile bestia?»
Elminster alzò un braccio in direzione nordovest. «Molti giorni fa, dove la terra sale e poi scende bruscamente. Ho… ho camminato troppo a lungo per ricordare con precisione».
Gli elfi si scambiarono rapide occhiate. «E se qualcosa avesse attaccato Iymbryl Alastrarra mentre camminava, l’avesse divorato, e avesse assunto le sue sembianze?», domandò sotto voce uno di loro. «Ci siamo già imbattuti in simili mutaforma. Si aggirano tra di noi, in cerca di cibo».
Elminster lo fissò con occhi cupi e stanchi, o almeno sperava lo sembrassero, e si portò lentamente la mano alla fronte. «Un estraneo potrebbe portare questa?», domandò con voce stanca ed esasperata, quando la gemma si materializzò tra le sue sopracciglia.
L’intera pattuglia mormorò sorpresa, e gli elfi indietreggiarono senza proferir parola per lasciarlo passare. El fece loro un cenno stanco e procedette, cercando di apparire esausto.
Non vide il capo pattuglia, alle sue spalle, guardare serio uno dei guerrieri e annuire deliberatamente. Il soldato ricambiò il cenno, si inginocchiò tra le felci, si portò la mano al petto e scomparve.
Ora che era tra elfi a piedi, come lui, El pensò con un brivido che fosse opportuno osservare come si muovessero. Si capiva che era un intruso? O tutti coloro che camminano eretti barcollano nello stesso modo quando sono stanchi?
Avanzando ancora con fare stanco, se mai la pattuglia lo stesse osservando, El proseguì tra gli alberi; i giganti della foresta si ergevano verso il cielo, le loro chiome trenta metri e più sopra di lui. Il terreno saliva, e più in là s’intravedeva una distesa d’erba, inondata dal sole.
Forse laggiù avrebbe potuto…
A quel punto si fermò a guardare, intontito. Il sole splendeva sulle favolose torri di Cormanthor, situate davanti ai suoi occhi; le loro guglie slanciate si ergevano dovunque non vi fossero alberi giganti… e non erano poche: si estendevano a perdita d’occhio, in uno splendore di agili ponti, di giardini pensili e di elfi su destrieri volanti. Il bagliore blu della magia potente splendeva dappertutto, persino nella luce diurna, e alle sue orecchie giungeva una musica soave.
El sospirò ammirato, mentre la musica cresceva intorno a lui, e ricominciò a camminare. Non avrebbe mai dovuto abbassare la guardia mentre camminava fra le Torri del Canto.
Più di una ballata della nostra Gente narra di Elminster Aumar di Athalantar stordito dagli splendori della magnifica Cormanthor, e di come, la prima volta che vide la città, fu tanto affascinato da trascorre un intero giorno camminando per le strade, per assaporarne le glorie. È un peccato che le ballate siano talora poco veritiere.
Sotto la cupola fluttuante di vetro variopinto il sole attraversava l’aria con raggi di colore rosso-rosato, smeraldo e blu. Una testa protetta da un elmo, girandosi, rifletté una luce purpurea, e quel lampo fu sufficiente: la persona che l’indossava non dovette nemmeno parlare per invitare il compagno a raggiungerlo e a guardare.
Insieme, le due guardie elfe scrutarono dall’alto il confine settentrionale della città, sotto la loro postazione fluttuante. Una figura solitaria si trascinava per le strade con l’aria stanca e stordita che solitamente mostravano i prigionieri o i messaggeri esausti che avevano perduto i loro destrieri volanti giorni prima, ed erano stati costretti a continuare a piedi.
Ma a una seconda occhiata la figura non apparve affatto «solitaria»: a poca distanza dall’elfo vacillante ne seguiva un altro. Si trattava di un guerriero di pattuglia avvolto in un manto invisibile che poteva servire a ingannare gli occhi di tutti ma non quelli di chi indossava elmi come quelli delle guardie.
Esse si scambiarono occhiate significative, si diressero verso una sfera di cristallo fluttuante e si sporsero per ascoltare.
Il cristallo tintinnò lievemente, dopodiché nella cupola si udì un baccano improvviso: melodie musicali diverse, un chiacchierio di voci basse, il rimbombo e lo sferragliamento di un carro distante. Per qualche istante le guardie rimasero col capo in ascolto, poi si strinsero simultaneamente nelle spalle. L’elfo esausto non stava parlando con nessuna delle persone che gli passavano frettolosamente accanto. E nemmeno la sua ombra.
I due si scambiarono occhiate interrogative, dopodiché una guardia allargò le mani, sconsolata. L’intruso, se non era cormanthoniano, aveva già una scorta. Ciò significava che qualche capo pattuglia, che aveva avuto l’occasione di parlare con l’elfo solitario e di guardarlo più da vicino, aveva già nutrito sospetti. Forse, avrebbero dovuto farlo anche due membri anziani della Guardia e Vigilanza.
Poteva, tuttavia, trattarsi di un semplice intrigo privato e, per di più, l’elfo solitario era passato attraverso l’incantesimo del velo della rivelazione senza che questo avesse la minima reazione.
La seconda guardia rispose al collega con un gesto altrettanto significativo, poi si voltò verso un albero di querph e ne colse alcune bacche succulente color zaffiro. Il compagno rimase un istante con le mani aperte, dopodiché prese la tazza con l’acqua alla menta e ne bevve qualche sorso. Un momento più tardi l’elfo con la scorta invisibile fu dimenticato.
Sapeva che cosa stava cercando. La gemma del sapere glielo aveva mostrato: una grande casa immersa in un bosco di pini scuri – un’«incombente ricercatezza», secondo le ragazze di alcune casate rivali conosciute da Iymbryl -, le cui finestre alte e strette costituivano capolavori di vetro dipinto e lavorato, circondati da incantesimi che periodicamente proiettavano immagini di unicorni danzanti e di cervi impennati nelle stanze interne, dal pavimento di muschio. Quei telai erano opera di Althidon Alastrarra, recatosi a Sehanine più di due secoli prima, e in tutta Cormanthor non ne esistevano di più raffinati.
I giardini di Casa Alastrarra non avevano muri, ma siepi e alberi si allungavano a formare una barriera ininterrotta lungo i sentieri orlati di irndar, piante recanti il falcone, sigillo della casata. Dopo il tramonto, tali stemmi emanavano un inconfondibile bagliore blu – ve ne erano molti in quella splendida città -, ma di giorno un mago umano camuffato da elfo avrebbe dovuto vagare a lungo fino a trovare un luogo che corrispondesse all’immagine della sua mente.
Molti individui credevano che i servi degli dei sapessero ogni cosa e potessero vedere tutto ciò che accadeva, indipendentemente dai muri o dalle tenebre della notte. El sorrise ironicamente a quel pensiero. Mystra, forse, ma non i suoi Eletti.
Si fermò e rimase ancora una volta meravigliato dagli alberi che sembravano formare castelli fantastici dalle guglie graziose e irregolari. La kiira lo informò dell’esistenza di incantesimi che erano in grado di congiungere alberi vivi e modellarne la crescita, sebbene né Iymbryl né i suoi avi sapessero come operare tali magie, o chi nella città fosse capace di farle.
Fra i castelli di alberi giacevano case più piccole, con guglie di pietra e ciò che sembrava essere vetro soffiato. Dai giardini pensili che si estendevano sopra tali edifici si aveva l’impressione, tuttavia, che gli elfi non potessero vivere senza condividere il loro spazio vitale con piante o alberi di qualsiasi specie. Elminster cercò di non fissare le finestre circolari, le balconate minuziosamente ricavate, e le curve arrotondate che legno e roccia formavano tutt’intorno a lui, ma era inevitabilmente attratto da abitazioni di siffatta bellezza. Non era solo una casa ad affascinarlo ma strada dopo strada, un’intera città di alberi vivi collegati nella parte superiore, e uno splendore di giardini e vedute, di sculture magicamente animate, che superavano a dir poco i capolavori umani che El aveva avuto modo di vedere, persino nei giardini privati del re mago Ilhundyl.
Per tutti gli dei! A ogni piè sospinto si imbatteva in nuove meraviglie. Laggiù vi era una casa simile a un’onda che sta per infrangersi, con una stanza dal pavimento di vetro. Sopra la casa si osservava una cascata d’acqua diretta magicamente verso l’alto, così da poter precipitare fragorosamente di camera in camera, ognuna delle quali era di forma ovale e di vetro colorato; all’interno gli abitanti si aggiravano portando in mano oggetti di vetro. In fondo a quel viale alberato si snodava un sentiero che terminava in un piccolo specchio d’acqua rotondo, attorniato da seggiole incantate che volteggiavano in una lieve danza, muovendosi lentamente in su e in giù.
El proseguì la ricerca, ricordandosi di tanto in tanto di barcollare. Come fare a trovare Casa Alastrarra fra tutte quelle meraviglie?
In quel pomeriggio di sole Cormanthor brulicava di vita. Le strade di muschio battuto e i ponti sospesi tra gli alberi erano affollati, ma nulla avevano in comune con le vie sporche e intasate delle città umane, e nessuna creatura più intelligente di un gatto e del suo cugino alato, il tressym, era un non elfo.
Non sembrava nemmeno una città. Ma per El città significava pietra e umanità – a cui si mescolava qualche mezzo elfo e qualche nano -, che viveva nel proprio sudiciume, attorniata da grida incessanti, e sempre alle prese con qualche serio problema.
In quel luogo vi erano solo le trecce azzurre e la pelle lucente, di color bianco-blu, di elfi fieri che incedevano con vesti splendide, con mantelli che sembravano fatti interamente di foglie vive, verdi e tremolanti, o con pelli aderenti, trattate magicamente in modo che le tinte dell’arcobaleno si muovessero lentamente attorno al corpo, o ancora con costumi che sembravano non essere altro che nuvole di pizzi e ciondoli. Questi ultimi erano chiamati vesti fluttuanti, gli fece sapere la kiira, ed emettevano uno scampanellio continuo. El cercava di non posare troppo lo sguardo su quei corpi slanciati costantemente svelati dai loro movimenti.
Elminster si sforzava di non fissare nulla, nonché di sollevare appena lo sguardo, e di tanto in tanto, quando percepiva su di lui gli occhi di qualcuno, sospirava tristemente. Tale aria malinconica sembrava tranquillizzare i pochi passanti che gli prestavano un po’ d’attenzione. La maggior parte sembrava immersa nei propri pensieri o intenta a parlare con gli amici. Nonostante le voci tendessero a essere più acute, più leggere, e più piacevoli all’orecchio, gli elfi di Cormanthor chiacchieravano né più né meno come gli umani in un mercato. El riuscì a osservare di nascosto ciò che più desiderava vedere senza doversi fermare: come camminavano gli elfi, per poterli imitare.
Molti avevano un’andatura dondolante e ritmica, come i danzatori, ma ciò che più colpiva era il fatto che nessuno camminava sgraziatamente; persino gli elfi più alti e quelli che andavano di fretta sembravano danzare sulle punte. El fece altrettanto, e si domandò quando si sarebbe sentito meno impacciato.
Ma il disagio non scompariva e, mentre procedeva, svoltando in questa e in quella via, tra alberi giganti che si ergevano come torri di un castello dalle strade muschiose, Elminster cominciò a capire: qualcuno lo stava osservando.
Non si trattava degli sguardi casuali dei curiosi, o delle occhiate di elfi sorridenti e di gatti comodamente sdraiati, e nemmeno di destrieri alati che volteggiavano nel cielo, ma di un singolo paio di occhi, costantemente puntati su di lui.
Il principe cominciò a tornare sui propri passi, sperando di intravedere chiunque lo stesse seguendo, ma la sensazione divenne più intensa, come se la fonte della sorveglianza si stesse avvicinando. Una o due volte si fermò e si voltò indietro, come per osservare meglio un viale ampio, ma in realtà al fine di vedere chi stesse percorrendo la sua stessa strada, e cercare di individuare qualsiasi faccia fosse sempre presente.
Alcuni elfi lo guardarono perplessi, al che El si voltò rapidamente e proseguì. Le occhiate strane significavano che i passanti trovavano strano il suo comportamento. Non poteva assolutamente permettersi di attirare l’attenzione. Doveva procedere come aveva fatto fino ad allora, cercando di scrollarsi di dosso quella strana sensazione che gli solleticava le scapole e lo avvertiva della costante sorveglianza.
Quella città senza mura aveva forse qualche mezzo sinistro per identificare gli intrusi? Sicuramente, pensò il giovane mago, altrimenti sarebbero presto stati sommersi dagli uomini mutaforma chiamati alunsree, o sosia. Hmm, ma «alunsree» non era una parola elfa? La Gente doveva aver affrontato tali problemi quando ancora gli umani grugnivano nelle caverne e nelle capanne di fango.
Perciò era stato individuato da qualcuno. Qualcuno sufficientemente preoccupato da stargli dietro per tutto quel tempo, su e giù per tutte le strade e i viali di Cormanthor. Che cosa poteva fare?
Nulla, se non ciò che già stava facendo: cercare Casa Alastrarra senza sbandierare ai quattro venti la sua ansia. Non osava domandare indicazioni a nessuno, e sperava che nessuno gli offrisse aiuto, spinto magari dal suo strano comportamento, e soprattutto non intendeva invocare la magia della gemma del sapere, a meno che non si fosse trovato sull’orlo della disperazione.
Disperazione significava essere circondato da maghi elfi arrabbiati, con le mani pulsanti di magia che volevano a tutti i costi la sua morte. El si guardò intorno, come se da un momento all’altro tale pericolo potesse piombargli addosso da ogni direzione, ma la scena rimaneva quella di un giorno di festa. La gente danzava in piccoli gruppi oppure declamava grandiosamente mentre avanzava, con fare presuntuoso. Gli squilli dei corni annunciavano canzoni nuove, e verso est due cavalieri si rincorrevano nel cielo compiendo giri della morte, virate e picchiate, che spesso facevano vorticare le foglie degli alberi nella loro scia.
Se fosse stato per lui, El si sarebbe seduto su una delle tante panchine o sedili fluttuanti che fiancheggiavano le strade muschiose, e avrebbe osservato l’andirivieni di Cormanthor, affascinato. Se, tuttavia, fosse apparsa la sua vera forma, sarebbe stato sicuramente ucciso all’istante, e non avrebbe potuto portare a termine la missione affidatagli da Iymbryl. Ma dove diamine si trovava Casa Alastrarra, in quella distesa infinita di alberi? Camminava da ore, o almeno così gli pareva, e dalla luce comprese che il sole stava calando lentamente nel cielo occidentale. Con l’imbrunire crebbe in El la preoccupazione che la sua ombra misteriosa lo avrebbe attaccato.
Dopo l’imbrunire? O in un luogo più appartato? Nel punto in cui si trovava la rete di sentieri si faceva meno fitta, i ponti erano meno numerosi e luci e suoni erano più flebili. Se avesse proseguito si sarebbe probabilmente inoltrato nel cuore verde dei boschi attorno alla città, verso sudest. Sì, sudest. Scrutò in quella direzione, e vide rampicanti, fitti gruppi di alberi nodosi, e una conca ricoperta di felci. Quest’ultima lo spinse a prendere una decisione. In quel momento gli avvallamenti ammantati di felci non occupavano una buona posizione nella sua graduatoria personale dei luoghi più attraenti.
El si voltò e riprese a camminare, muovendosi con leggerezza sulle punte, come sembrava facessero tutti gli elfi di Cormanthor. Ora si muoveva convinto, come se fosse diretto verso una destinazione conosciuta. La sua mano però era vicina all’impugnatura del pugnale, nascosto nella manica. Stava andando dritto verso un nemico invisibile, in attesa? Un nemico che avrebbe potuto sguainare una spada e trafiggere un falso Iymbryl Alastrarra?
Il suono melodioso di un’arpa si levò da un giardino pensile alla sua sinistra. Doveva proseguire, che altro poteva fare?
Dopo la missione affidatagli dal morente Iymbryl avrebbe dovuto svolgere il suo primo compito per Mystra. El scosse il capo esasperato. Quel luogo era così affascinante: avrebbe tanto voluto poter vagabondare liberamente e godersene la bellezza.
Proprio come avrebbe desiderato crescere nel regno di Athalantar con i suoi genitori, senza dover rabbrividire in regioni selvagge come orfano fuorilegge, perseguitato dai signori maghi. Sì, vi era sempre qualcuno con poteri magici in agguato a rovinare tutto. El strinse i denti e si diresse a nordest. Avrebbe attraversato la città, e poi cercato di seguirne il perimetro più esterno: aveva già percorso i labirinti del centro senza trovare il minimo segno del sigillo del falcone degli Alastrarra.
Nessuna spada invisibile lo trafisse, ma la sensazione di essere osservato era tutt’altro che svanita. A mano a mano che il giovane proseguiva, il bagliore di simboli incantati si faceva sempre più intenso. I raggi del sole morente tingevano ogni sera le cime degli alberi di luce dorata, ma là sotto, nella penombra screziata, non penetravano mai.
I giochi e le musiche proseguirono implacabili mentre la sera scendeva su Cormanthor. El continuò a camminare, cercando di controllare la preoccupazione. La gemma del sapere poteva averlo ingannato? Gli aveva forse mostrato una Casa Alastrarra più antica, oppure essa si trovava fuori dalla città? La kiira non conteneva, tuttavia, scene di un’altra abitazione di famiglia, né indicazioni che si trovasse altrove nel regno di Cormanthor. Sicuramente Iymbryl conosceva bene il luogo in cui viveva.
Sì, troppo bene per avere importanza e occupare un posto di rilievo tra i ricordi immagazzinati nella gemma. I dintorni di Casa Alastrarra erano qualcosa di ordinario per i portatori della gemma, non…
Ma un momento! Quello non era un… no, il simbolo del falcone che stava cercando?
El deviò dal sentiero, il suo passo più rapido. Sì, era proprio lui!
I suoi ringraziamenti a Mystra furono silenziosi ma non per questo meno sentiti.
Il cancello arcuato era aperto e bagliori magici verdi e blu costellavano le piante di vite che lo contornavano. El lo attraversò, fece due passi nell’oscurità del giardino oltre la soglia, e poi si voltò a scrutare la strada dietro di lui.
Nessun elfo in vista, ma lo sguardo invisibile era tutt’altro che svanito. Elminster si rigirò lentamente.
Qualcosa scintillò nel vuoto davanti a lui e fluttuò sopra il sentiero che si snodava serpeggiante nel giardino. Qualcosa che pochi attimi prima non c’era. Si trattava di un elmo luccicante, e delle braccia e delle spalle di un elfo in armatura.
O delle sue sembianze: poiché braccia, spalle e testa fu tutto ciò che vide. Il corpo su cui avrebbero dovuto poggiare mancava, e l’armatura luccicante nel buio si disperdeva come fumo sotto il petto dell’apparizione silenziosa. Mentre El la fissava, qualcosa si levò minaccioso da dietro un cespuglio alla sua sinistra: un’altra guardia, uguale alla prima.
El deglutì visibilmente. Aveva risvegliato le difese magiche di quel luogo. Attaccarle con incantesimi non era forse la scelta più saggia, perciò si girò lentamente sui talloni mentre una dopo l’altra le guardie spettrali si levavano dal giardino immerso nella semioscurità per circondarlo da ogni lato.
Le fessure per gli occhi di uno degli elmi si illuminarono di fuoco, ed El si ritrovò di fronte il primo guardiano che gli aveva bloccato la strada. La casa si ergeva dietro di lui, proprio come gli aveva mostrato la gemma. I bagliori fiochi di luci in movimento illuminarono le finestre strette e alte di cui gli Alastrarra andavano tanto fieri.
Forse, in quel momento, qualcuno di loro stava osservando dalla finestra per vedere che tipo di creatura stavano per uccidere i guardiani.
Mentre Elminster se ne stava in silenzio, interrogandosi sul da farsi, e frugando disperatamente nei ricordi della gemma in cerca di una guida, sottili fasci color ambra fuoriuscirono improvvisamente dall’interno dell’elmo e toccarono il principe di Athalantar.
El non sentì alcun dolore; i raggi lo avevano attraversato senza provocare bruciature o lacerazioni, lasciandogli solo un lieve pizzicore. Improvvisamente sentì calore sulla fronte e vide una luce che quasi l’accecò. Serrò gli occhi finché non riacquistò le sue facoltà visive.
La gemma del sapere si era risvegliata e ora brillava come una fiamma saltellante nell’oscurità del giardino. La sua manifestazione sembrò soddisfare i guardiani. I raggi indagatori svanirono, e gli elmi minacciosi iniziarono a sprofondare nel buio in ogni direzione, tutti tranne il primo, che rimase sospeso in mezzo al sentiero, l’elmo ormai scuro.
Elminster si fece coraggio e gli andò tranquillamente incontro, fin quasi a toccare col naso lo strascico fumoso che segnava il termine del suo corpo materiale.
Il contatto, tuttavia, non avvenne. Quando El fece l’ultimo passo la sentinella silenziosa svanì, e il giovane si trovò con lo sguardo fisso sull’entrata principale di Casa Alastrarra. Dal portale si levava una musica flebile, e minuscoli ornamenti di luce dorata formavano motivi infiniti ed intricati su uno dei pannelli.
La kiira non gli aveva rivelato la presenza di trappole o di campanelli, né tanto meno di servi, perciò El si incamminò verso le porte e allungò una mano sulla maniglia a forma di mezza luna, sospesa nell’aria come una barriera. Mystra avrebbe provveduto affinché fossero aperte, pensò il giovane mago.
Mentre faceva quell’ultimo passo e appoggiava la mano sopra la mezza luna, El si rese conto che qualcosa era cambiato. Per la prima volta da ore, la pressione onnipresente degli occhi invisibili che lo scrutavano era svanita.
Fu invaso da una fresca sensazione di sollievo: sollievo che durò solo un attimo prima che la maniglia sotto la sua mano si illuminasse di un fuoco improvviso color blu intenso, e le porte si aprissero silenziosamente, lasciandolo davanti agli occhi sorpresi di numerosi elfi seduti nella sala oltre la soglia.
«Oh», sussurrò Elminster. «Madre Mystra, se mi ami, assistimi in questo momento».
Un vecchio trucco usato dai ladri nella città di Hastarl consiste nell’agire con fredda condiscendenza se colti in un luogo in cui non dovrebbero essere. In mancanza di tempo per pensare, El lo mise in atto.
I cinque elfi stavano stappando bottiglie di vino decorate e si accingevano a versarle sopra cumuli di nocciole e verdure tagliate a cubetti su numerosi vassoi, che fluttuavano nell’aria in assenza di un tavolo, ma quando lo videro, si pietrificarono. El li aggirò offrendo loro un cenno tranquillo e altezzoso di riconoscimento: un sentimento che era ben lungi dal provare, poiché la gemma non conteneva immagini di servi: Iymbryl aveva evidentemente badato ben poco ai suoi subordinati. Poi proseguì verso il fondo alla sala, dove si trovavano piccoli giardini interni. Dietro di lui i servi mormorarono frasi e abbozzarono saluti frettolosi, che il giovane non smise di ricambiare.
Un improvviso scoppio di risa da una porta aperta sulla destra fece sì che i servi si rimettessero al lavoro e si dimenticassero di lui. El sorrise sollevato per la fortuna inviatagli da Mystra. Lungo il corridoio, in direzione opposta alla sua, una schiera di bottiglie in fila indiana stava volando a un metro e mezzo da terra, a una velocità spettacolare, ovviamente in risposta alle chiamate di un servo.
Una ragazza elfa usci danzando da un passaggio a volta davanti a lui, lungo la parete di destra, e lo guardò dritto in faccia. Si bloccò all’istante, il sorriso stampato sul volto. I suoi grandi occhi scuri si riempirono di sorpresa mentre ansimò: «Mio signore! Non vi aspettavamo a casa per altre tre albe!»
La giovane aveva un’aria entusiasta, e si accinse ad abbracciarlo. Oh, Mystra.
Di nuovo El fece ciò che aveva imparato nei bassifondi di Hastarl. Le strizzò l’occhio, si allontanò rapidamente lungo il corridoio, e si portò sornione un dito alle labbra: «Shhh».
Il trucco funzionò. La ragazza ridacchiò divertita, gli fece un cenno che prometteva estasi future, e se ne andò verso la sala. I suoi abiti leggeri turbinarono dietro di lei per un istante, mostrando il sigillo luminoso del falcone.
Naturalmente. Quel sigillo, portato anche dai cinque elfi incontrati alla porta, era la livrea del personale; per il resto i servi indossavano ciò che richiedeva la situazione.
E dalle memorie della kiira emerse il volto della ragazza, ora scomparsa dietro l’angolo, accompagnato dal suo nome: Yalanilue. Nel ricordo di Iymbryl, la giovane rideva proprio come aveva appena fatto, il viso vicino al suo. Ma in quella scena non indossava vestiti.
Sconsolato, El fece un respiro profondo ed espirò lentamente. Per lo meno la gemma del sapere gli consentiva di comprendere le sfumature della lingua elfa.
Il principe proseguì lungo il corridoio: a sinistra trovò un passaggio a volta che conduceva in una stanza in cui la luce delle stelle scintillava nelle acque deserte di una piscina, a destra una porta che si apriva su una stanza buia, che sembrava ospitare una collezione di sculture. Più in là vi erano solo porte chiuse lungo entrambi i muri, e il corridoio terminava in una stanza circolare nella quale fluttuavano sfere luminose, che si muovevano lentamente, come lucciole sonnolente, e illuminavano una stretta scala a chiocciola.
El salì la scala, desiderando più di ogni cosa uscire dal passaggio prima che uno degli Alastrarra lo trovasse. Superò una stanza in cui alcuni ballerini stavano effettuando contorsioni e capriole all’indietro, riscaldandosi per lo spettacolo che di lì a poco avrebbero messo in scena. Sia i maschi sia le femmine erano coperti solo dai lunghi capelli sciolti. Alcune ciocche erano intrecciate con minuscoli campanelli, e i loro corpi erano dipinti con disegni complicati ed evidentemente ancora freschi.
Uno di essi guardò l’elfo salire frettolosamente le scale, ma El si portò un dito al mento, come fosse profondamente assorto nei suoi pensieri e proseguì, fingendo di non aver per nulla notato i corpi snodati dei danzatori.
La scala a chiocciola lo condusse a un pianerottolo ornato di piante pendenti, o meglio, di vasi incantati in modo da fluttuare a diverse altezze sopra il pianerottolo e consentire alle foglie rampicanti di sfiorare le piastrelle iridescenti sottostanti.
El zigzagò tra esse verso un passaggio a volta, visibile nell’ombra pochi passi più avanti, sempre mantenendo la sua aria meditabonda. Poi si arrestò bruscamente quando qualcosa gli sbarrò la strada.
Una lucentezza bianca e fredda illuminò la stanza: proveniva dalla lama affilata di una spada. L’arma stava sospesa a mezz’aria, ma pochi granelli di luce magica attirarono lo sguardo di El su una mano elfa: una mano destra sollevata, in un angolo accanto alla volta.
Apparteneva a un elfo robusto e di bell’aspetto, forse considerato un gigante muscoloso tra gli abitanti di Cormanthor. L’elfo si alzò con movimenti aggraziati dal tavolo nero sul pavimento, al quale stava giocando a cerchi incantati, nell’oscurità della stanza, contro una serva dall’aspetto fragile… una ragazza magnifica, non fosse stato per la tremenda paura nei suoi occhi. La giovane stava perdendo, di molto, e senza dubbio temeva le frustate o altre punizioni che il suo avversario grande e grosso le aveva promesso. El si domandò che cosa potesse essere peggio per lei, se vincere o perdere.
La gemma del sapere comunicò a Elminster che l’elfo che gli stava di fronte era Riluaneth, un cugino adottato dagli Alastrarra dopo la morte dei genitori, e da allora costante fonte di guai. Permaloso e con una vena di crudeltà che non era in grado di controllare, Ril si era divertito a stuzzicare e talora a tormentare i due giovani fratelli Alastrarra, Iymbryl e Ornthalas.
«Riluaneth», lo salutò El con voce fredda. La spada luminosa roteò lentamente nell’aria e tornò a puntare il principe. Elminster la ignorò.
In quel momento la kiira lo indusse a valutare urgentemente un incantesimo che Iymbryl aveva collegato all’immagine di Riluaneth. El seguì i suoi ordini, rimanendo immobile mentre il suo imponente cugino fluttuava verso di lui. «Come sempre, Iym», mormorò Riluaneth, «ti trovi dove non sei desiderato, e vedi troppe cose. Ti farai male un giorno o l’altro, forse prima di quanto non immagini».
La luce attorno alla spada svanì bruscamente, e nell’oscurità la lama sibilò diritta verso il volto di El.
Il giovane si scansò, e Ril emise una risata tranquilla. La spada saettò nel buio, in cerca della sua vera preda. La serva singhiozzò, troppo terrorizzata per muoversi, mentre la lama si avvicinava sempre più alla sua bocca. Allora El, cupo in volto, salvò la vita della ragazza a costo, forse, della sua. Con un rapido sortilegio deviò la spada dalla sua traiettoria, che volò lontano dalla giovane elfa. Riluaneth grugnì sorpreso, poi si portò rapidamente la mano alla cintola, in cerca del coltello.
Be’, quel giorno un intruso umano poteva almeno compiere una buona azione per la Casata degli Alastrarra! El strinse i denti e contrastò il goffo tentativo di Riluaneth di riacquistare il controllo mentale sulla spada, quindi sollevò di poco l’arma, oltre il pugnale sguainato dell’avversario, e la lasciò penetrare nel diaframma dell’elfo.
Riluaneth barcollò, si piegò sopra l’elsa conficcata nel ventre, e strinse forte l’impugnatura del coltello, tentando di urlare parole rabbiose. Il pugnale scintillò e iniziò a rilasciare la magia ivi racchiusa. Non desiderando conoscerne gli effetti fatali, Elminster utilizzò l’incantesimo che Iymbryl aveva riservato per i «guai» di Riluaneth.
L’elfo grande e grosso emise tutto il fiato che gli rimaneva in corpo, formando una nuvola di fumo bianco, e barcollò. Altri vapori dello stesso colore si levarono a ondate dalle orecchie, dal naso e dalle orbite. Il cervello di Ril era in fiamme, come Iymbryl aveva pronosticato.
Elminster riuscì appena a scansarsi quando quel corpo grosso e lucente si accasciò alle sue spalle e iniziò a rotolare per le scale a testa in giù. Durante la discesa rimbalzò due volte, silenziosamente.
Di sotto qualcuno gridò. El frugò impazientemente fra le magie che la gemma gli stava presentando, scartò le immagini di abili incantesimi di elfi dal sorriso sprezzante, e trovò ciò che cercava.
Un incantesimo di fuoco, per ridurre in cenere un robusto piantagrane. Al piano di sotto tre colpi di gong avevano già dato l’allarme.
Un breve chiarore gli indicò che i resti di Riluaneth avevano preso fuoco. El guardò il tavolo da gioco: scomparso, con la serva, i pezzi, e tutto il resto. Non era l’unico nella casa che sapeva muoversi rapidamente.
Ma probabilmente era l’unico uomo ad aver ucciso un elfo in quel luogo. Che gli dei maledicano gli individui arroganti e crudeli. Perché non aveva incontrato Ornthalas in quel corridoio, invece dei soliti guai?
Al piano sottostante il fuoco si spense e la spada cadde sul pavimento con gran fragore. Di Riluaneth non doveva esser rimasto più nulla, eccetto le ceneri fumanti.
Era tempo di cambiare aria poiché, molto presto, tutti avrebbero saputo del suo coinvolgimento nella morte di Ril. Se fosse in qualche modo riuscito a raggiungere subito l’erede, a consegnargli la gemma…
Il giovane principe balzò attraverso la volta, e si mise a correre lungo il passaggio antistante con una tale mancanza di grazia che avrebbe suscitato lo sdegno in qualsiasi elfo ma che, certamente, gli permise di allontanarsi molto più rapidamente. Aprì una porta e si introdusse in una stanza altissima, nella quale vi erano divisori filigranati che raggiungevano il soffitto e leggii con mani animate che spuntavano dalla sommità: mani che, mentre attraversava la stanza, gli porsero libri aperti.
La biblioteca alastrarrana? O una stanza di lettura? Avrebbe trascorso volentieri più di un inverno in quel luogo, invece di fuggire senza nemmeno dare uno sguardo a…
Ma ecco un’altra porta. El aggirò una sedia reclinabile fluttuante, che aveva l’aria di essere il massimo della comodità, e si buttò sulla maniglia.
Si trovava ancora a due passi di distanza quando la porta si spalancò improvvisamente, rivelando il volto di un elfo. El non riuscì a fermarsi e nemmeno a scansarsi in tempo.
«È caduto proprio qui, Onorata Signora!», ansimò il danzatore, indicando la fine delle scale. Il suo corpo unto d’olio luccicava nella luce tremolante di due bracieri fluttuanti, entrambi obbedienti alla volontà della matriarca della Casata degli Alastrarra.
La tunica color prugna che indossava mostrava di tanto in tanto il corpo formoso, e nel contempo slanciato, di Namyriitha Alastrarra. Un occhio esperto avrebbe notato che non era più tanto giovane, ma pochi si preoccupavano di notare tali piccolezze quando si trovavano di fronte a una simile bellezza.
E solo alcuni osavano incrociare il suo sguardo quando la rabbia le oscurava il viso, come in quel momento. «Stai indietro!», ringhiò, stendendo un braccio per conferire vigore al suo ordine. La sua tunica si sollevò e i capelli presero a vorticare, due chiari segni della sua rabbia scatenata. Un servo piagnucolò sotto voce, da qualche parte lì accanto. Fino ad allora l’avevano vista in quello stato solo tre volte, ma in tutte e tre quelle occasioni più d’uno l’aveva pagata cara per placarla.
La matriarca usò la magia, seppur con poche brusche parole. La spada si sollevò obbediente, tremò per il potere che la percorse, e partì su per le scale. L’incantesimo l’avrebbe condotta, come una freccia al bersaglio, all’uccisore di Riluaneth. Senza dubbio, data la sua passione per il gioco d’azzardo e le macchinazioni oscure, e il suo comportamento da donnaiolo, si meritava quella fine, ma nessuno poteva entrare in Casa Alastrarra e ucciderne un membro senza pagarne il prezzo.
Lady Namyriitha slegò qualcosa mentre si dirigeva rapida verso le scale, e la metà inferiore della sua tunica cadde a terra; la gettò da parte con un calcio e iniziò a salire i gradini, mostrando di tanto in tanto le gambe nude tra i pizzi. A metà scala le sue dita lungo la ringhiera scivolarono su qualcosa di scuro e appiccicoso.
La matriarca guardò il sangue sul corrimano senza rallentare, poi sollevò le dita gocciolanti e le osservò inespressivamente. Non fece nulla per pulirsele, né per rallentare l’inseguimento della spada che fendeva l’aria davanti a lei.
In fondo alle scale il danzatore raccolse la gonna abbandonata con fare incerto, poi la consegnò a un servo e si voltò verso le scale per raggiungere la matriarca. Esitanti, numerosi servi seguirono il suo esempio.
Quand’ebbero raggiunto il pianerottolo in cima alle scale, di Namyriitha e della spada non vi era più alcuna traccia. Il ballerino allora aumentò l’andatura.
El abbassò un braccio fino a toccare il ginocchio proprio all’ultimo istante, così che fu la sua spalla a scontrarsi con il servitore e con la porta. Entrambi si schiantarono con un gran tonfo contro la parete del corridoio e rimbalzarono in avanti. L’elfo ricadde scomposto sul tappeto e non si mosse più.
Ansimando, El riacquistò l’equilibrio e continuò a correre. Da qualche parte sotto di lui udì il gong suonare di nuovo. Giunse a un bivio – quella casa era davvero enorme - e, questa volta, girò a sinistra. Forse poteva tornare sui propri passi.
La scelta, a quanto pareva, non fu delle migliori. Due elfi in armatura scintillante color acqua marina gli stavano venendo rapidamente incontro, e appena lo videro sguainarono la spada. «Intrusi!», gridò El, sperando che la sua voce assomigliasse un po’ a quella di Iymbryl. Poi indicò la direzione dalla quale erano giunte le guardie. «Ladri! Sono andati di là».
Le guardie fecero dietro front, ma una di esse non gli risparmiò un’occhiata interrogativa. «Perlomeno la Signora non è venuta per assicurarsi che fossimo svegli», El sentì borbottare una delle guardie, mentre si affrettava lungo il corridoio. Più avanti vi era una stanza dominata da una statua a grandezza naturale di una signora elfa vestita con una tunica, le braccia sollevate in segno di esultanza. All’estremità più lontana vi era una scala discendente. Da essa partiva un corridoio a croce, fiancheggiato da divani sui quali le guardie si erano ovviamente appisolate. Lungo il corridoio vi erano doppie porte decorate; Elminster scelse quella che più gli piaceva e si diresse verso di essa. Era nel corridoio a pochi passi di distanza quando alcune grida provenienti dalla scala lo informarono che le guardie si erano accorte della sua assenza.
Allora afferrò la maniglia ad anello, e la girò. Le porte si aprirono ed egli si gettò nella stanza, richiudendole il più rapidamente e silenziosamente possibile.
Quando si voltò per vedere in quali nuovi guai si era cacciato, si ritrovò a fissare un letto ovale fluttuante a mezz’aria al centro di una camera in penombra. Era sovrastato da un baldacchino di foglie emananti un tenue bagliore color smeraldo, ed attorniato da numerosi vassoi su cui poggiava una schiera di bottiglie e bicchieri; gli occupanti del letto si misero a sedere di scatto e fissarono sorpresi l’intruso.
La donna era esile e di squisita bellezza, il volto e le spalle incorniciati da una chioma color blu-nero. Indossava una camicia da notte composta da un colletto e una sottile striscia di seta, impalpabile e diafana, di colore blu-verde, che le cadeva sul davanti e, presumibilmente, anche sulla schiena. I fianchi e le spalle nude luccicarono nella luce crescente mentre gli occhi enormi della fanciulla mutarono espressione, da allarmati a lieti. Dopodiché questa scese dal letto con una capriola aggraziata e gettò le braccia nude al collo di El.
«Oh, mio carissimo fratello!», mormorò, fissandolo negli occhi. «Sei tornato, sano e salvo! Ho fatto dei sogni terribili sulla tua morte!» La ragazza si morse le labbra, e si avvinghiò forte a lui, come se non volesse più lasciarlo. Oh, Mystra.
«A dire il vero», cominciò El goffamente, «c’è una cosa che devo dirti».
Una porta si aprì rumorosamente sulla parete più lontana della stanza, e una ragazza elfa, alta, dallo sguardo furibondo, con indosso una camicia da notte simile, si parò sulla soglia, con anelli di fuoco intorno ai polsi. Dietro di lei si ammassarono le guardie in armatura luminosa, il sigillo del falcone stampato sul petto, le luci ammiccanti di magia pronta all’uso danzanti lungo le spade affilate che tenevano in pugno.
«Filaurel!», gridò la donna. «Allontanati da quell’impostore! Di nostro fratello ha solo la forma!»
La ragazza si irrigidì fra le braccia di El, e cercò di indietreggiare. El la tenne stretta come aveva fatto in precedenza la fanciulla, imbarazzato, consapevole della morbidezza del corpo liscio pressato contro il suo, e mormorò: «Aspetta, per favore!» Con una sorella premuta contro di lui, l’altra avrebbe certamente esitato a colpirlo con incantesimi.
Le braccia della ragazza tremarono di rabbia mentre si sollevavano proprio a quello scopo, ma si fermarono perché in tal modo avrebbero messo in pericolo Filaurel. Per il momento la giovane mise da parte gli incantesimi, ma non frenò la lingua. «Assassino!»
«Melarue», esclamò Filaurel con voce sottile, il corpo tremante contro il petto di Elminster, «che cosa devo fare?»
«Mordilo! Scalcia! Non dargli tempo di fare incantesimi mentre lo catturiamo!», ringhiò la sorella, avanzando.
Un’altra porta si aprì violentemente, e il fragore venne sovrastato da una voce magicamente accresciuta che pronunciò un comando secco e chiaro. «Fermi, tutti!»
La stanza piombò nel silenzio e nell’immobilità più totale, eccetto per il petto ansimante di Filaurel, pressato contro l’individuo che l’aveva in ostaggio.
E per la spada, che si avvicinava imperterrita a Elminster. Essa si sollevò, sopra la testa della giovane elfa, finché tutto ciò che poteva mettere a repentaglio fu solo il volto teso del falso Iymbryl, che la guardò scivolare diritta verso la sua bocca, sempre più vicino.
Dietro la spada si ergeva imponente una matriarca elfa, con addosso unicamente la parte superiore di una tunica, il volto calmo. Solo gli occhi feroci denotavano il suo risentimento, mentre se ne stava in piedi con le mani alzate nel gesto che aveva accompagnato il suo ordine. Una donna abituata a essere obbedita senza indugi all’interno della casa. Quella doveva essere Lady Namyriitha, la madre di Iymbryl.
El non aveva scelta: invocare la gemma, o morire. Con un sospiro risvegliò il potere che avrebbe ridotto la spada in fiocchi di ruggine, e poi in polvere prima ancora che toccasse terra.
«Tu non sei mio figlio», esclamò freddamente la matriarca, i suoi occhi due punte di pugnale conficcate in quelli di Elminster.
«Ma porta la kiira», rispose Filaurel, quasi supplicante, alzando lo sguardo sulla fronte illuminata dello sconosciuto: di colui che era uguale a suo fratello.
Namyriitha ignorò la figlia più giovane. «Chi sei?», domandò, avanzando.
«Ornthalas», esclamò Elminster stancamente. «Portatemi Ornthalas, e avrete la risposta che cercate».
La donna lo fissò, gli occhi socchiusi, per un lungo e silenzioso momento. Poi si voltò in un turbinio di merletti, e mormorò degli ordini. Due delle guardie chinarono il capo e si voltarono, tenendo sollevate le spade affinché nessuno si facesse male, e uscirono dalla porta. Malgrado potesse vedere ben poco, El suppose avessero ognuna una destinazione diversa.
Il silenzio teso che seguì non durò a lungo. Quando le guardie dietro Lady Namyriitha si disposero ad arco, rinfoderarono le spade ed estrassero frecce al loro posto, Melarue ordinò alle sue di accerchiare Elminster.
«Onorata madre», esclamò, le fiamme incantate che si rincorrevano ancora intorno ai suoi polsi, «quali pericoli ci attendono? Quest’impostore potrebbe avere l’ordine di uccidere a qualsiasi costo: una vittima predestinata il cui corpo contiene magie sufficientemente potenti da distruggere tutti, e questa casa con noi! Sarà prudente portare qui l’erede degli Alastrarra, alla presenza di questo… di questo mutaforma?»
«Io sono sempre consapevole dei pericoli che ci aspettano, Melarue», ribatté fredda la madre, senza voltare il capo per non perdere di vista Elminster, neppure per un attimo, «e ho trascorso secoli ad affinare il mio giudizio. Non dimenticare che sono il capo di questa casa».
«Sì, madre», rispose Melarue rispettosamente, con una nota di esasperazione che fece quasi sorridere El. A quanto pareva, uomini ed elfi non erano poi tanto diversi nel cuore.
«Per favore credimi», esclamò El rivolto alla ragazza fra le sue braccia, «non intendo fare del male a te, o alla tua casata. Sono qui per onorare una promessa importante».
«Quale promessa?», domandò bruscamente Lady Namyriitha.
«Onorata Signora», rispose El, voltando il capo verso la donna, «vi svelerò tutto quando avrò fatto ciò che devo: è una questione troppo importante per esser messa a repentaglio da una disputa. Vi assicuro che non ho intenzioni malvagie».
«Dimmi il tuo nome!», urlò la matriarca, usando la magia sull’ultima parola per costringerlo a parlare. Il principe tremò come una foglia nella schiavitù del suo potere, ma la gemma gli permise di ritrovare il controllo, e la grazia di Mystra lo mantenne in piedi. El guardò la donna e scosse il capo. Si udì un mormorio di rispetto tra i guerrieri e, all’udirlo, il volto di Namyriitha si tese in un nuovo impeto di rabbia.
«Eccomi», esclamò una voce profonda e, tuttavia, musicale. In quell’istante apparve un elfo con la cappa e la tunica, solitamente indossate dagli arcimaghi umani. Il motivo del falcone era ricamato sulla fascia centrale, ripetuto più volte, ciononostante El capì subito che non era un servitore. Tra le mani aveva uno scettro corto, di legno, con scanalature a spirale sui lati, e alcuni anelli luccicavano sulle sue dita antiche e nodose.
«Naeryndam», esclamò bruscamente la matriarca, inclinando il capo in direzione di Elminster, «risolvi la questione».
Il vecchio elfo scrutò El, con occhi attenti e indagatori. «Sconosciuto», cominciò lentamente il mago elfo, «posso affermare che non sei l’Iymbryl di questa casata. Tuttavia porti la sua gemma. Pensi che ciò ti conferisca il diritto di comandare gli Alastrarra?»
«Onorato saggio», rispose El, piegando il capo, «non ho desiderio di comandare nessuno in questa città meravigliosa, né di fare alcun male a te o ai tuoi familiari. Sono qui per una promessa fatta a un moribondo».
Tra le sue braccia, Filaurel iniziò a tremare. El seppe che stava piangendo in silenzio, e automaticamente le carezzò i capelli e le spalle nell’inutile tentativo di consolarla. Lady Namyriitha serrò le labbra, ma Melarue e alcuni dei guerrieri guardarono l’intruso con occhi più benevoli.
L’anziano elfo annuì. «Le tue parole suonano vere. Sappi allora che sto per fare un incantesimo che non intende nuocerti, comportati di conseguenza».
Il vecchio sollevò la mano, effettuò con essa un movimento circolare, distese e ripiegò due dita, e si soffiò qualche granello di polvere sul polso. Nell’aria si udì un canto, e le guardie attorno al falso Iymbryl indietreggiarono frettolosamente. L’aria sibilante – una sorta di barriera magica, pensò El – lo accerchiò strettamente.
Il giovane si limitò ad annuire al vecchio mago, e rimase in attesa. Filaurel ora piangeva apertamente, ed egli la strinse al petto e mormorò: «Fanciulla, lascia che ti racconti come morì tuo fratello».
La stanza piombò improvvisamente in un silenzio profondo. «Mi imbattei per caso in una pattuglia di cui faceva parte Iymbryl, nel cuore della foresta…»
«Una pattuglia che mio figlio comandava», sbottò Namyriitha.
El inclinò la testa con aria grave. «Signora, è come voi dite: non volevo mancarvi di rispetto. Vidi morire gli ultimi suoi compagni, e rimase solo lui, circondato da ruukha, tanto numerosi da sopraffare i suoi e i miei incantesimi».
«I tuoi incantesimi?», ghignò la donna con un tono che denotava tutta la sua incredulità. Il volto di Filaurel, tuttavia, bagnato di lacrime, era sollevato e attento a ogni sua parola.
«Mentre cercavo di raggiungerlo, venne trafitto da una forca ruukha, e cadde nelle acque del torrente. I miei incantesimi ci portarono entrambi lontano dai nemici, ma Iymbryl stava morendo. Se fosse vissuto più a lungo, lo avrei condotto qui sotto la sua guida, ma ebbe solo il tempo di mostrarmi che avrei dovuto portare la kiira alla fronte, poi si ridusse in polvere».
«Ha detto qualche cosa?», singhiozzò Filaurel. «Le sue ultime parole: te le ricordi?» La sua voce si fece più angosciata e risuonò negli angoli lontani della stanza.
«Sì, Lady», le rispose gentilmente. «Pronunciò un nome, ed affermò che presto avrebbe raggiunto quella persona… Ayaeqlarune».
Vi fu un mormorio generale, e sia Melarue sia Filaurel si nascosero il volto. La madre, tuttavia, rimase immobile e bianca come il marmo, mentre l’anziano mago si limitò ad annuire tristemente.
Quel clima di dolore venne interrotto da nuovi arrivati: alcune figure slanciate, impettite e fiere, dai costumi sfarzosi e dalle maniere altezzose, entrarono nella stanza e rimasero a guardare. Si trattava di quattro donne e due fanciulle, con un signore giovane e superbo alla loro testa. El lo riconobbe dalle visioni, sebbene in quella stanza non vi fossero sedie fluttuanti né colonne costituite da alberi vivi, né macchie di sole. Quello era dunque Ornthalas, il nuovo erede, sebbene lui ancora non lo sapesse, della Casata degli Alastrarra.
Ornthalas guardò El con aria un po’ perplessa. «Fratello», domandò, corrugando elegantemente un sopracciglio, «che cosa significa tutto ciò?»
Poi diede un’occhiata intorno a sé. «La Casa è tua; non hai bisogno di sfidare nessuno». Il suo sguardo si posò su Filaurel, e si oscurò. «Oppure hai preso nostra sorel…»
«Calmati, figliolo», gli intimò seriamente Naeryndam. «Tali pensieri avviliscono tutti noi. Vedi la gemma sulla fronte di tuo fratello?»
Ornthalas guardò lo zio come se l’anziano mago avesse perduto la testa. «Naturalmente», rispose. «È una sorta di gioco? State…»
«Taci per una volta», esclamò secca Namyriitha, e qualcuno fra le guardie ridacchiò.
A quel rumore il giovane elfo si drizzò, si guardò attorno nel tentativo di imporre silenzio; poi annunciò all’anziano mago: «Sì, Onorato Zio, la vedo la kiira».
«Bene», esclamò sarcasticamente il vecchio, al che si udì un altro mormorio fra i guerrieri, questa volta un po’ più soffocato. Naeryndam lasciò che si smorzasse, e poi continuò: «Hai giurato di obbedire al portatore della kiira, come tutti noi».
«Sì», annuì Ornthalas, nuovamente perplesso. «Lo so da quando ero bambino, Zio».
«E te lo ricordi ancora? Bene, bene», ribatté a bassa voce il mago, questa volta suscitando numerose risate. Lady Namyriitha e Melarue si irrigidirono, i volti evidentemente esasperati, ma rimasero in silenzio.
«Dunque giuri sulla kiira della nostra casata, e su tutti i tuoi antenati che vivono al suo interno, di non alzare un dito, e di non sferrare alcun incantesimo su tuo fratello mentre ti si avvicina?» gli domandò Naeryndam, la voce improvvisamente dura e tintinnante come una lama sul metallo.
«Lo giuro», ribatté brevemente Ornthalas.
L’anziano elfo lo prese sotto braccio e lo condusse attraverso la barriera sibilante, poi si rivolse a El ed esclamò: «Eccolo. Fate ciò che dovete, signore, prima che qualcuno di cattivo temperamento commetta qualcosa di stupido».
El inclinò la testa in segno di ringraziamento, prese delicatamente Filaurel per i gomiti, e affermò: «Le mie umili scuse, fanciulla, per aver ostacolato la tua libertà. Era necessario. Che gli dei ti proteggano, affinché ciò non debba mai più accadere nei lunghi anni a venire».
Filaurel indietreggiò, gli occhi spalancati, e si portò le nocche alle labbra. Prima di voltarsi, tuttavia, mormorò: «Il tuo onore è integro, signore sconosciuto».
El fece due rapidi passi verso Naeryndam, lo aggirò agevolmente, e si avvicinò a Ornthalas con un sorriso gentile.
Il giovane elfo lo guardò. «Fratello, stai rinunciando?»
«Tristi notizie, Ornthalas», esclamò Elminster quando naso e fronte si incontrarono e, una volta iniziati il formicolio e lo sfavillio, si aggrappò disperatamente alle spalle dell’elfo e aggiunse, «Io non sono tuo fratello».
I ricordi ondeggiarono intorno a lui, poi si unirono in un vortice, mentre Ornthalas strillava per lo shock e per il dolore. Un impeto di magia, bianco e ruggente, lo stava trascinando con sé, ed El non poté più resistere.
«Che la legge del vostro regno mi protegga!», urlò, e in un sussurro rauco e ansimante: «Mystra, non abbandonarmi!»
La stanza sembrava girargli attorno e gli mancò il fiato per aggiungere altro. Il suo corpo si stava allungando, tutti gridavano di rabbia e di paura, e l’ultima cosa che il principe di Athalantar vide, mentre si abbandonava ai tentacoli avidi dell’oscurità, fu il volto furioso di Lady Namyriitha, che svaniva dietro l’unica cosa solida in tutta quella confusione: lo scettro di legno, saldo nella mano di Naeryndam. Mentre il buio totale lo reclamava, El si aggrappò a quell’immagine.
E così accadde che Elminster di Athalantar trovasse la famiglia elfa di cui era diventato involontariamente membro e facesse ciò che aveva promesso. Come molti che eseguono un compito insolito e pericoloso, il giovane ricevette pochi ringraziamenti. Se non fosse stato per la grazia di Mystra, quella notte avrebbe potuto morire nel giardino del Coronal.
Ornthalas Alastrarra barcollò per la stanza gridando, la testa fra le mani, la voce roca e sgradevole. Lampi magici saettavano dalla gemma, che brillava come una stella nuova sulla sua fronte, verso colui che l’aveva restituita: il corpo scomposto sul pavimento, tanto giovane, brutto… e umano.
La stanza da letto di Filaurel era in uno stato di totale agitazione. I guerrieri cominciarono ad attaccare la barriera evocata da Naeryndam, ma furono respinti violentemente. Vacillarono, urlarono di dolore in mezzo a nuvole di scintille, poi riacquistarono il controllo sulle membra tremanti e tornarono all’attacco. Sotto i loro alti stivali giaceva scomposta Melarue, i capelli disposti a ventaglio intorno a lei, stordita a causa del tentativo di oltrepassare la barriera protettiva. Aveva dimenticato gli innumerevoli incantesimi insiti nei suoi gioielli.
Ma non sua madre. Lady Namyriitha si mantenne ben distante dall’aria sibilante e iniziò ad attaccare selvaggiamente la barriera incantesimo dopo incantesimo, sciogliendo la sua essenza strato per strato. Mentre le magie si infrangevano e turbinavano, Filaurel e la maggior parte delle altre donne urlarono alla vista della vera natura di Elminster, nonché per l’agonia di Ornthalas. Numerosi servitori affollarono tutte le entrate per vedere ciò che stava accadendo.
L’anziano mago passò tranquillamente sopra il corpo immobile dell’umano dal naso aquilino e vi si mise a cavalcioni, poi estrasse una spada, apparentemente dal nulla. Luci magiche ammiccarono e s’inseguirono su e giù per la lama incisa di rune, quando egli la sollevò e la scosse un po’ dubbioso, come un vecchio guerriero che appronta un’arma che si rivela più pesante di quanto non ricordasse. Con l’altra mano alzò lo scettro. Quando, un istante dopo, la barriera svanì in uno sciabordio di scintille bianche, e i guerrieri di Casa Alastrarra avanzarono con un grido d’esultanza, egli fu pronto.
Fuoco blu turbinò dalla punta della spada di Naeryndam, tanto incandescente e rapido che i guerrieri si ritrassero nel bel mezzo della carica e caddero uno sopra l’altro, in un’accozzaglia di armature. Una sferzata della medesima fiamma blu lungo il tappeto sotto i loro piedi, che tuttavia rimase intatto, li fece rotolare ulteriormente, rispedendoli al loro posto. Durante la fuga un elfo lanciò la sua spada verso l’uomo disteso e immobile. Dallo scettro partì una saetta appuntita di fuoco argenteo, e la spada lanciata esplose in un arcobaleno di scintille, che vorticarono nell’aria fino a consumarsi. Una o due di esse rimbalzarono quasi ai piedi di Naeryndam.
«Che razza di tradimento è questo?», sbottò Namyriitha rivolta al mago. «Sei impazzito, venerando fratello? Quell’umano ti ha forse incantato?»
«Fate silenzio», ribatté l’anziano elfo con tono calmo e gradevole, ma, come prima, le parole furono accompagnate dal suo potere. Gli unici rumori che seguirono il loro tono imperioso furono i deboli mormorii provenienti dall’angolo in cui giaceva Ornthalas, la testa contro il muro, e i singhiozzi delle donne che cercavano di riprendere fiato.
«Negli ultimi tempi in questa casa si è gridato e sferrato incantesimi troppo alla leggera», osservò Naeryndam, «ed è stato dedicato pochissimo tempo all’ascolto, e alla riflessione. In poche generazioni diventeremo cattivi quanto gli Starym».
Le guardie e i servi fissarono l’anziano mago con sincero sbalordimento; gli Starym si consideravano la quintessenza della nobiltà e della raffinatezza, e persino i loro rivali di sempre attribuivano loro il primo posto fra le casate di Cormanthor.
Gli angoli della bocca di Naeryndam s’incresparono in quello che poteva quasi essere un sorriso, mentre osservava i volti stupiti dei presenti. Con la spada in mano fece cenno ai familiari e ai servi di disporsi davanti a lui su un lato della stanza. Quando vide che nessuno si muoveva, dalla spada fece fuoriuscire nuove lingue di fuoco che formarono archi lunghi e rabbiosi di chiaro avvertimento. Lentamente, quasi storditi, essi obbedirono.
«Ora», affermò il mago, «in via eccezionale e per breve tempo, ascolterete. Anche tu, Ornthalas, neoerede della Casata degli Alastrarra».
Un grugnito fu la sua unica risposta, ma coloro che si voltarono videro Ornthalas annuire, la faccia bianca ancora fra le mani.
«Questo giovane uomo», continuò Naeryndam, indicando con lo scettro il corpo sotto di lui, «ha invocato la legge del nostro regno. Eppure tutti voi – eccetto Filaurel, Sheedra e la piccola Nanthleene – lo avete attaccato, o avete tentato di farlo. Mi disgustate».
Si udirono mormorii di protesta, ma l’anziano elfo li soffocò col fuoco dei suoi occhi antichi, e continuò: «Si, mi disgustate. Questa casa ha un erede perché quest’uomo ha rischiato la vita per mantenere una promessa. Si è avventurato in questa città, tra centinaia di elfi che avrebbero potuto ucciderlo – e l’avrebbero fatto se avessero scoperto la sua vera natura – perché Iymbryl gli ha chiesto di farlo. Egli ha dato la sua parola a un individuo di un’altra razza che conosceva a stento, e grazie al suo altruismo, le memorie della casata, i pensieri dei nostri antenati non sono andati perduti, e noi possiamo mantenere il posto che ci spetta tra le casate principali. Tutto ciò grazie a quest’uomo, di cui non conosciamo nemmeno il nome».
«Ciononostante», iniziò sua sorella Namyriitha, «n…»
«Non ho finito», la interruppe il fratello con tono sferzante come una frusta. «Tu sei ancora più incapace di ascoltare dei giovani, sorella».
Se il momento fosse stato meno importante, e l’atmosfera meno carica di tensione e stupore, la casata riunita avrebbe potuto godersi la scena della matriarca dalla lingua tagliente che apriva e chiudeva la bocca in silenzio, come un pesce agonizzante, mentre il viso le diventava paonazzo. Ma quasi nessuno vi fece caso; tutti gli occhi erano puntati su Naeryndam, il membro più anziano degli Alastrarra.
«L’umano ha invocato la nostra legge», esclamò il mago freddamente. «Giovani, badate bene: la legge è legge. La legge non può essere manomessa o accantonata. Se lo facciamo, non saremo migliori dei ruukha più brutali o degli uomini più disonesti. Non starò con le mani in mano a guardare, mentre voi, sangue di Thurruvyn, disonorate la casata e la nostra razza. Se volete attaccare il ragazzo, dovrete passare sul mio cadavere».
Il silenzio che seguì fu spezzato da un grugnito proveniente da sotto le gambe dell’elfo; il giovane dai capelli corvini e dal naso adunco emise un involontario grido di dolore allorché si mosse. Una mano abbronzata e piuttosto sporca afferrò lo stivale dell’elfo, all’altezza della caviglia. Alla vista di ciò una delle guardie gridò e lanciò la spada.
Questa saettò diritta verso la testa arruffata del giovane, che cercava di sollevarsi attaccandosi alla gamba dell’elfo in piedi a cavalcioni sopra di lui.
Naeryndam la guardò tranquillamente arrivare, e al momento opportuno lanciò la sua, che colpì rumorosamente la lama d’acciaio e la scagliò in un angolo della stanza. «Hai le orecchie tappate, non è vero?», domandò con pacata tristezza, mentre il guerriero che aveva lanciato l’arma si fece piccino per la paura. «Quando inizierete a usare il cervello?»
«Il mio cervello mi dice che la Casata degli Alastrarra sarà per sempre disonorata e disprezzata dagli abitanti dell’intero regno di Cormanthor, come la casata che ha ospitato un uomo», esclamò amara Lady Namyriitha, sollevando enfaticamente le mani.
«Sì», le fece eco Melarue, risollevandosi dal pavimento, il dolore provocatole dallo scontro con la barriera ancora evidente sul viso. «Avete perso la testa, mio caro Zio!»
«Tu che cosa pensi, Ornthalas?», domandò l’anziano mago, guardando oltre le donne. «Che cosa dicono i nostri predecessori?»
Il giovane elfo altezzoso sembrò più triste e più serio di quanto i presenti ricordassero di averlo mai visto. La fronte era ancora corrugata per il dolore, e strane ombre turbinarono nei suoi occhi, quando ricordi, che non erano i suoi, lo travolsero in un flusso infinito e stupefacente. Lentamente, con riluttanza, rispose, «La prudenza ci chiede di condurre quell’uomo dal Coronal, affinché la nostra casata non venga macchiata». Il giovane erede spostò lo sguardo da un alastrarrano all’altro. «Inoltre, se gli torceremo un solo capello, verremo spogliati del nostro onore. Quest’uomo ci ha reso più servizi di qualsiasi elfo vivente, eccetto voi, nobile Naeryndam».
«Ah», esclamò il mago, soddisfatto. «Ah, ci siamo. Vedi, Namyriitha, quale tesoro è la kiira? Ornthalas la indossa per pochi istanti e già acquisisce il buon senso».
La sorella si irrigidì, nuovamente seccata, ma Ornthalas sorrise mestamente, e affermò: «Temo che voi diciate la nuda verità, Zio. Abbandoniamo questo campo prima che scoppi la battaglia, e torniamo ai nostri canti. Lasciamo che le canzoni siano il nostro ricordo di Iymbryl, mio fratello, fino al sorgere dell’alba o finché ci colga il sonno. Sorelle, vi unirete a me?»
Il neo erede allargò le braccia, e dopo un momento di esitazione Melarue e Filaurel accettarono l’invito, e i tre uscirono insieme dalla stanza.
Prima di giungere alla porta, Filaurel si voltò a guardare l’umano, che si stava rimettendo in piedi scuotendo la testa. Nuove lacrime luccicarono nei suoi occhi quando gridò: «I miei ringraziamenti, giovane umano».
«Mi chiamo Elminster», rispose l’uomo dal naso adunco, sollevando il capo e parlando ora la lingua elfa con uno strano accento. «Principe di Athalantar».
El si voltò a guardare Naeryndam. «Sono in debito con voi, onorato signore. Sono pronto, se volete condurmi dal Coronal».
«Sì, fratello», ringhiò Lady Namyriitha, sul volto un’espressione di disgusto, «rimuovete quella cosa dalle mie stanze. E tu smetti di fissarlo, Nanthee; il tuo comportamento ci avvilisce davanti a una bestia sudicia!»
La fanciulla rimproverata stava fissando, quasi estasiata, l’umano, con la sua barba ispida, le sue orecchie mozze e… le sue diversità. El le strizzò l’occhio.
Ciò fece infuriare Namyriitha e Sheedra, madre di Nanthleene, che prese la figlia per una mano e la trascinò fuori dalla stanza.
«Vieni, Principe Elminster», esclamò freddamente l’anziano mago. «Le fanciulle impressionabili di questa casa non sono per te. Nonostante vada a tuo merito il fatto che non sei disgustato di fronte a persone di razze diverse dalla tua. Molti dei miei simili non sono di così larghe vedute, perciò corri un pericolo costante in questo luogo». Detto ciò gli porse la sua spada luccicante per l’elsa. «Prendi la mia spada, vuoi?»
Stupito, Elminster afferrò la spada incantata e quando soppesò la lama, leggera e flessibile, percepì il formicolio di magie potenti. Era un’arma magnifica. La sollevò e rimase stupito della sensazione che conferiva e del modo in cui l’acciaio – se acciaio era - scintillava di blu nella luce della camera da letto. Più di una guardia annaspò allarmata alla vista del mago che armava l’intruso umano, ma Naeryndam non prestò loro attenzione.
«Anche noi correremmo un grave pericolo se un uomo dovesse vedere le glorie e le difese del nostro regno, ed è per questo che non permettiamo che a pochi della tua razza di vivere dopo aver dato anche una sola occhiata alla città. Perciò la mia spada offuscherà la tua vista, e ti costringerà ad accompagnarmi».
«Non ve n’è bisogno, Signore. Non ho alcuna intenzione di ostacolarvi, o di fuggire», lo rassicurò El sinceramente, mentre la nebbia li avvolgeva entrambi in un mondo di luce blu. «Né ho intenzione di nuocere a questa magnifica città nei tempi che verranno».
«Io questo lo so, ma molti altri elfi no», ribatté tranquillamente Naeryndam, «e alcuni sono molto abili con frecce e spade». Il mago fece un passo avanti e la nebbiolina blu scivolò via dietro di loro, dissipandosi nel nulla.
El si guardò attorno meravigliato; non si trovavano più in una stanza da letto affollata, bensì sotto il cielo notturno, nel cuore verde di un giardino. Sopra di loro brillavano stelle sfavillanti; sotto i loro piedi due sentieri di muschio morbido e rigoglioso si incontravano accanto alla statua di una grande pantera alata, che emanava un vivido bagliore blu nell’oscurità della notte. Fuochi fatui danzavano e si rincorrevano qua e là sopra le magnifiche piante, ondeggiando su luminosi fiori notturni, accompagnate dalla musica flebile di arpe invisibili.
«Il giardino del Coronal?», domandò El sussurrando piano. L’anziano elfo sorrise per lo stupore negli occhi dell’umano.
«Il giardino del Coronal», tuonò la sua voce in conferma. Non appena ebbe finito di parlare qualcosa si sollevò dal terreno ai loro piedi: diafano, e grazioso, e tuttavia dall’aspetto fatale.
Curve lisce e nude, lunghi capelli fluenti: quell’essere emanava un bagliore blu-bianco, e i suoi occhi erano due pozze scure contro le stelle quando mormorò qualcosa nelle loro menti, Chi va là?
«Naeryndam, anziano della Casata degli Alastrarra, e ospite», affermò risoluto il vecchio mago.
Il guardiano oscillò per incontrare il suo sguardo, e poi fissò Elminster negli occhi, da pochi centimetri di distanza.
Questi fu scosso da un brivido quando quegli occhi scuri penetrarono i suoi, e deglutì visibilmente. Non desiderava di certo vedere arrabbiato quel volto sereno e meraviglioso.
È un uomo. La chioma blu-bianca turbinò austera.
«Sì», rispose l’elfo con tono secco. «So riconoscerli anch’io».
Perché porti con te un intruso nel luogo in cui il Coronal dimora questa notte?
«Per vedere il Coronal, naturalmente», rispose Naeryndam alla giovane non-morta. «Quest’uomo ha portato la kiira della mia casata dall’erede morente al suo successore, solo e a piedi attraverso il cuore profondo della foresta».
Lo spirito turbinante sembrò guardare Elminster con rinnovato rispetto. È qualcosa che un Coronal dovrebbe vedere; non sono tante le meraviglie del mondo. Il volto spettrale color blu-bianco si fermò nuovamente a un palmo da quello del principe. Non sai parlare, umano?
«Non volevo mancare di rispetto a una signora», esclamò cautamente El, «e non sapevo come rivolgermi a voi. Ma ora possiamo presentarci». Il principe indietreggiò con una gamba e accennò un inchino. «Sono Elminster, della terra di Athalantar. E voi chi siete, Signora del Chiaro di Luna?»
Meraviglia dopo meraviglia, affermò lo spirito, illuminandosi. Un mortale che desidera conoscere il mio nome. Mi piace quel «Signora del Chiaro di Luna» con cui mi avete chiamato; suona bene all’orecchio. Tuttavia sappiate, Elminster, che in vita ero Braerindra ultima della Casata dei Calauth.
La sua voce, inizialmente sbalordita e compiaciuta, terminò con una nota tanto triste che Elminster riuscì a stento a frenare le lacrime. Con voce roca la consolò: «Sappiate, Lady Braerindra che finché dimorerete qui, la Casata dei Calauth non verrà dimenticata».
Ah, ma chi ne terrà vivo il ricordo? La voce nelle loro menti fu un triste sospiro. La foresta cresce attraverso stanze senza soffitto, una volta magnifiche, e dissemina le ossa e la polvere dei miei familiari, mentre io sono qui, distante. Un guardiano, ora. Gli abitanti di Cormanthor ci definiscono «fantasmi» e ci temono, si tengono a distanza. Siamo soli, e soli rimarremo.
«Io ricorderò la Casata dei Calauth», affermò tranquillamente El con voce risoluta. «E se vivrò e mi sarà concesso di camminare liberamente per Cormanthor, tornerò a parlare con voi, Lady Braerindra. Non verrete dimenticata».
La sua chioma color blu-bianco turbinò attorno a Elminster, e un brivido lo percorse. Non avrei mai pensato di udire un mortale farmi ancora onore nel mondo, rispose la voce nelle loro teste, colma di meraviglia. E tanto meno di udire tali parole da un uomo. Siate il benvenuto tutte le volte che troverete tempo di farmi visita. Il principe-mago percepì un freddo intenso, improvviso, sulla guancia e rabbrividì involontariamente. Naeryndam lo prese per le spalle mentre vacillava.
I miei ringraziamenti anche a voi, saggio mago, aggiunse lo spirito, mentre El cercava di sorridere. È una vera meraviglia ciò che mostrerete al nostro Coronal.
«Già, ora dobbiamo andare. Addio, Braerindra, al nostro prossimo incontro», rispose l’elfo.
Alla prossima, ribatté flebilmente la voce, e fili di fumo blu-bianco sprofondarono nel terreno e scomparvero.
Naeryndam trascinò Elminster lungo uno dei sentieri coperti di muschio. «Il modo con cui fai tuoi i dolori altrui mi impressiona davvero, uomo. Inizio ad avere qualche speranza per la razza umana».
«Riesco… riesco a malapena a parlare», rispose El battendo i denti. «Il suo bacio era tanto… freddo».
«In realtà, se avesse voluto, avrebbe potuto succhiarti la vita, ragazzo», gli rivelò l’anziano elfo. «È a questo che serve Braerindra, e tutti quelli come lei. Tuttavia tranquillizzati; il gelo passerà, e non dovrai più temere il tocco di nessun non-morto di Cormanthor, per sempre. O meglio, fino a quando durerà il tuo «per sempre».
«Le nostre vite devono sembrare effimere agli elfi», mormorò El, mentre il sentiero saliva fra piccoli pergolati dai sedili curvi, immersi tra i cespugli e superava rivoli calmi e piccoli specchi d’acqua.
«È come dici», affermò il mago, «ma mi riferivo piuttosto al pericolo che corri in questo momento. D’ora in poi parla con la medesima gentilezza con cui ti sei rivolto al guardiano, ragazzo, o potresti trovare la morte questa stessa notte».
Il giovane accanto a lui rimase in silenzio per qualche istante. «Devo inginocchiarmi davanti al Coronal?», domandò infine, mentre s’accingevano a salire alcuni scalini di pietra fra due strani alberi dalla corteccia a spirale, che portavano a un patio ampio, rischiarato da piante luminose.
«Lasciati guidare dall’espressione del suo volto», rispose il mago semplicemente, mentre avanzavano senza fretta.
Un elfo sedeva nel vuoto al centro dello spazio pavimentato, con un libro aperto, un vassoio di bottiglie alte e sottili, e un poggiapiedi, tutti fluttuanti nell’aria intorno a lui. Due elfi incappucciati, avvolti da un’aura di potere, stavano in piedi accanto a lui, uno per parte; alla vista dell’umano scivolarono rapidamente in avanti per sbarrargli la strada, rallentando solo un poco quando videro Naeryndam Alastrarra dietro il ragazzo.
«Voi dovete aver aiutato quest’intruso a superare i guardiani», sbottò uno dei maghi elfi rivolto al vecchio, senza degnare Elminster di uno sguardo, come fosse una colonna o una scultura ricoperta di sterco d’uccello. La sua voce era fredda e rabbiosa. «Perché l’hai fatto? Che cosa può aver contaminato il cuore di uno che ha servito il regno tanto a lungo? I tuoi parenti ti hanno mandato qui per punizione?»
«Nessuna contaminazione, Earynspieir», rispose calmo Naeryndam, «né punizione, ma una questione di stato che richiede il giudizio del Coronal. Quest’uomo ha invocato la nostra legge, e per tale ragione è qui, ancora vivo».
«Nessun umano può accampare diritti sotto le leggi di Cormanthor», ribatté seccamente l’altro mago. «Solo la nostra Gente ha diritto alla cittadinanza del regno: elfi e affini».
«E come giudichereste un uomo che ha portato la kiira di un’antica casata di Cormanthor, ma non come trofeo di battaglia, e ha percorso le strade della nostra città fino a trovare l’erede legittimo a cui consegnarla?»
«Crederei a tale favola solo se potesse essere provata oltre ogni dubbio», rispose Earynspieir. «Di quale casata si tratta?»
«Della mia», ribatté Naeryndam.
Durante il breve silenzio creato da quelle parole, l’anziano elfo seduto affermò: «Basta con le chiacchiere, signori. Quest’uomo è qui, che io possa giudicarlo: portatemelo».
Elminster aggirò il mago che gli era più vicino e avanzò coraggiosamente verso il Coronal. Non vide il mago voltarsi e sferrare su di lui un incantesimo mortale, immediatamente invalidato dallo scettro di Naeryndam, pronto per tale evenienza.
Quando il giovane principe si inginocchiò davanti al governatore di Cormanthor, il secondo mago si accinse a colpirlo con un’altra magia, ma il Coronal, accortosi, sollevò una mano, e quella magia, sfrecciante verso la testa del ragazzo come un dardo avvelenato, cessò di esistere. «Basta con gli incantesimi, signori», ordinò gentilmente il governatore. «Lasciate che conosca quest’uomo», aggiunse guardando Elminster negli occhi.
La bocca di El si fece improvvisamente secca. Gli occhi del re elfo erano come buchi aperti nel cielo notturno. Le stelle vi nuotavano e sfavillavano in profondità; si poteva quasi cadere in quelle pozze scure ed essere trascinati giù, sempre più in basso…
Il giovane scosse il capo per schiarirsi la mente, strinse i denti nello sforzo, e appoggiò un piede sul pavimento. Cercò di raddrizzare quella gamba, per rimettersi in piedi, ma sembrava che stesse sollevando una torre sulle spalle. Grugnì, e non si diede per vinto.
Dietro di lui, i tre maghi elfi si scambiarono occhiate stupite. Neppure loro avrebbero potuto opporsi alla volontà del Coronal, una volta bloccati dalla sua mente.
Il volto bianco, le membra tremanti, rivoli di sudore sulle guance e sul mento, il giovane dai capelli corvini si alzò lentamente, lo sguardo ancora fisso in quello del Coronal, finché non fu in piedi accanto all’elfo seduto.
«Mi resisti?», sussurrò il vecchio.
Le labbra di El si mossero con lentezza agonizzante mentre tentava di formare parole. «No», rispose infine, lentamente e deliberatamente. «Siete il benvenuto nei miei pensieri. Non stavate tentando di farmi alzare?»
«No», esclamò il Coronal, voltando il capo e tranciando di netto il legame fra i loro sguardi. «Ho lottato per farti rimanere in ginocchio, per dominare la tua volontà», rispose accigliato, due fessure al posto degli occhi. «Forse qualcun altro opera attraverso di te».
«Per tutti gli dei!», gridò il mago Earynspieir, insinuandosi tra Elminster e il suo re. «È proprio questo il pericolo da cui dovete essere protetto! Chi sa quale incantesimo mortale potrebbe esser fatto su di voi, attraverso questo giovane?»
«Tenetelo in schiavitù, allora, se dovete», esclamò il Coronal ironicamente. «Tutti e tre. E tu, Earynspieir, fai in modo che non si verifichino incidenti “fortuiti”, colli rotti, polmoni congelati, o cose simili. Mediante lo scettro scoprirò chi serve il ragazzo, dopodiché leggerò i suoi ricordi sulla questione della kiira».
Da uno dei vassoi fluttuanti nelle vicinanze, l’elfo dalla tunica bianca prese ciò che sembrava una bacchetta di vetro color rosso violaceo, liscia e diritta, non più spessa del suo mignolo. Sembrava potesse rompersi al primo colpo di vento.
El si ritrovò sollevato da terra, immobile nel vuoto, le braccia aperte e rigide. Poteva muovere gli occhi, la gola, e sollevare il petto: tutto il resto era stretto come in una morsa d’acciaio.
Una luce apparve all’estremità della bacchetta, e la percorse rapidamente per tutta la sua lunghezza. L’anziano elfo la puntò pacatamente verso la testa di Elminster, ed entrambi guardarono il sottile raggio di luce fuoriuscire dalla bacchetta e muoversi nell’aria, pigramente, per poi toccare la fronte di El.
Un freddo intenso pervase il giovane da capo a piedi. Mentre tremava lassù, a mezz’aria, El udì il battito incontrollabile dei suoi denti, e poi i mormorii di sorpresa dei quattro elfi.
«Che cosa succede?», tentò di esclamare, ma tutto ciò che gli uscì dalle labbra congelate fu un gorgoglio confuso. Improvvisamente si accorse che la sua bocca era libera dalla schiavitù magica, e che il suo corpo si stava voltando – o meglio veniva voltato – nell’aria, fino a ritrovarsi di fronte a un’immagine diafana che dominava il patio. I contorni spettrali di un volto che conosceva.
Un viso sereno, tranquillo, li osservava con gentile interesse. I suoi occhi si illuminarono quando si posarono su Elminster.
«È chi penso io, ragazzo?», domandò il Coronal gentilmente.
«È la dea Mystra», gli rispose semplicemente il principe. «Io sono suo servo».
«Questo l’avevo sospettato», ribatté l’elfo con un pizzico di sarcasmo. Un momento dopo, lui e il giovane umano svanirono insieme, lasciando vuoti il trono fluttuante, e l’aria davanti ad esso.
I tre maghi rimasero a fissare il nulla, poi si scambiarono occhiate perplesse. Earynspieir si voltò per scrutare nuovamente il cielo. La gigantesca faccia iniziò a scomparire; le trecce diafane si agitavano come serpenti irrequieti mentre questa si allontanava dal giardino del re elfo.
Ma ciò che fece spaventare i maghi, che iniziarono a balbettare i nomi dei loro dei, fu il modo in cui quel meraviglioso volto di donna li guardò negli occhi uno a uno, illuminandosi di un ampio sorriso di soddisfazione.
Qualche attimo più tardi il volto svanì.
«Qualche trucco dell’umano, senza dubbio», sibilò Earynspieir, visibilmente turbato. Naeryndam scosse il capo in silenzio, ma l’altro mago di corte afferrò Earynspieir per un braccio per ottenere la sua attenzione, e indicò nuovamente il cielo.
L’ampio sorriso era improvvisamente riapparso. Questa volta non era incorniciato da un volto, ma i tre maghi sapevano di che cosa si trattasse. L’avrebbero visto nei loro ricordi fino alla morte.
Mentre voltavano le spalle alle stelle e si affrettavano a guadagnare le porte più vicine del palazzo, un’altra scena li impietrì.
In tutto il giardino, i guardiani spettrali si stavano sollevando in silenzio per guardare quel sorriso svanire.
Sotto la splendida città di Cormanthor, in un luogo segreto, giace la Volta dei Secoli, luogo sacro del sapere della nostra Gente. «Che il Mythal si innalzi o che Myth Drannor crolli», canta una ballata, «la Volta ricorderà tutto». Alcuni affermano che essa esista ancora, intatta e splendida come in passato, sebbene pochi sappiano come arrivarci. Altri sono convinti che sia la tomba della Srinshee. Altri ancora che questa sia diventata pazza, che conosca magie pericolose e che abbia fatto della Volta la sua tana. Vi sono poi coloro che ammettono di non sapere alcunché.
Niente nebbia, questa volta, solo un breve istante di oscurità vellutata color nero-porpora, ed El si ritrovò altrove.
Il re elfo dalla tunica bianca era con lui, in una caverna fredda e umida, dal soffitto basso e arcuato; cristalli luminosi erano incastonati nei punti d’incrocio dei costoni della volta.
L’elfo e l’umano si trovavano nella zona più luminosa, uno spazio rischiarato al centro della stanza a cupola. In quattro punti lungo il suo perimetro circolare, il muro era interrotto da quattro archetti ornati dai quali si dipartivano lunghi corridoi a volta. El ne scrutò uno, e poi un altro: tutti conducevano ad altre stanze a cupola.
Un passaggio stretto, serpeggiante, era stato lasciato sgombro al centro di ogni corridoio, ma il resto dello spazio era stipato di tesori: un mare infinito di monete, lingotti, e statue d’oro, le cui onde immobili ospitavano forzieri d’avorio colmi di perle e di un arcobaleno di gemme scintillanti.
Numerose casse erano addossate lungo i muri, fino al soffitto, e aste di vessilli di metallo lavorato e cesellato poggiavano contro di esse come alberi caduti. Più vicino, tra i rami di un albero di solida sardonica, si ergeva un drago alto quanto Elminster, ricavato da un singolo smeraldo gigante; le foglie dell’albero erano fatte d’argentana e coperte di gemme di taglio minuscolo. Il principe di Athalantar girò lentamente su se stesso per ammirare l’immenso tesoro, cercando di apparire impassibile, consapevole che il Coronal stava osservando la sua faccia.
Vi erano più ricchezze là sotto, in quell’unica camera, di quante ne avesse viste in tutta la sua vita. Si trattava di un patrimonio impressionante. L’intero tesoro di Athalantar era nulla in confronto a ciò che si trovava sotto di lui. Proprio accanto al suo piede scintillava un rubino grande quanto la sua testa.
El sollevò lo sguardo da tutto quel ben di dio per incrociare gli occhi lucenti e indagatori del Coronal. «Che cos’è tutto ciò?», gli domandò il giovane. «Io… cioè, lo so che cosa sto guardando, ma perché tenere tutto qui, sotto terra? Le gemme splenderebbero maggiormente alla luce del sole».
L’anziano elfo sorrise. «La mia gente disprezza il metallo freddo, e ne tiene solo un po’ da guardare e toccare quotidianamente; una cosa che gnomi, nani, e uomini non sembrano in grado di comprendere. Le gemme che utilizziamo come sede della magia, quelle sì, le teniamo con noi; il resto riposa qua sotto. Tutto ciò che appartiene al Coronal – o meglio, alla corte, e perciò a tutta Cormanthor – finisce qui». Abbassò lo sguardo su uno dei corridoi. «Alcuni la chiamano la Volta dei Secoli».
«Perché da tanto tempo ammucchiate le ricchezze in questo luogo?»
«No. Per colei che dimora qui e custodisce tutto». Il Coronal sollevò una mano in cenno di saluto, ed El guardò lungo il passaggio che si apriva davanti all’anziano elfo.
Vide una figura, minuscola nell’ombra distante, e sottile come un pilastro. Un pilastro molto grazioso, oscillante nel suo incedere.
«Guardami», esclamò il Coronal improvvisamente. Quando El si voltò, si ritrovò a fissare il governatore di Cormanthor avvolto in tutta la sua potenza. Ancora una volta sentì i suoi stivali sollevarsi da terra, e si ritrovò sospeso sopra il vecchio mago, mentre sonde irresistibili percorrevano la sua mente, richiamando ricordi di una vallata ricoperta di felci, del suo libro d’incantesimi forse perduto, di Iymbryl moribondo, e di uno scettro.
Il Coronal si soffermò su quell’ultimo ricordo, poi fece sì che la mente di El tornasse alla battaglia coi briganti e al Corno dell’Araldo, e a un certo incontro fuori dalla città di Hastarl, dove… Riecco il volto sorridente di Mystra bloccare le indagini del Coronal. Sollevò un sopracciglio di rimprovero all’elfo, e sorrise per addolcire il rabbuffo.
El ricadde improvvisamente sul pavimento, scaricato come un sacco.
Quando sollevò lo sguardo, si ritrovò a fissare negli occhi l’elfa più anziana che avesse mai visto, minuta e raggrinzita. I suoi capelli bianco-argentei sfioravano le piastrelle sotto le sue pantofole – pantofole che calpestavano aria, sollevate a centimetri di distanza dalle pietre consumate del pavimento – e la sua pelle sembrava rivestire le ossa – ossa tanto piccole e aggraziate da farla apparire squisita invece che grottesca.
«Visto abbastanza?», domandò la donna maliziosamente, carezzandosi i fianchi e volteggiando in modo seducente come una danzatrice di taverna.
El abbassò lo sguardo. «Le… le mie scuse per avervi fissato», esclamò rapido. «Non ho mai visto un elfo tanto anziano».
«Ve ne sono pochi vecchi quanto la Srinshee», si intromise il Coronal.
«La Srinshee?»
L’anziana signora inclinò il capo in saluto regale. Poi si voltò, tese una mano, e si sedette nell’aria, appoggiandosi come fosse sdraiata su un divano imbottito di cuscini. Un’altra maga.
«Lei stessa ti racconterà la sua storia», affermò il re elfo, sollevando una mano per prevenire ulteriori parole di Elminster. «Ma prima di tutto, il mio giudizio».
Si allontanò di qualche passo dal giovane, camminando a mezz’aria, poi si voltò verso di lui ed esclamò: «Della tua onestà e del tuo onore non ho mai dubitato. Il tuo aiuto disinteressato alla Casata degli Alastrarra, è degno, da solo, del titolo di armathor – in parole umane, il cavalierato e la cittadinanza – nel regno di Cormanthor. Questo te lo posso garantire, e spero sia gradito».
«Ma…?», domandò El tranquillamente, dato il tono cauto dell’elfo.
«Ma non posso fare a meno di concludere che tu sia stato inviato a Cormanthor dalla dea di cui sei servo. Ogni volta che tento di saperne la ragione, ella blocca le mie indagini».
Elminster fece un passo verso il Coronal, e lo guardò negli occhi. «Guardate dentro di me, vi prego, e assicuratevi che dica il vero, Onorato Signore», lo incitò il principe. «Sono stato mandato dalla Grande Mystra per “imparare i rudimenti della magia”, per dirla con la dea, e perché prevede che sarò utile “fra qualche tempo”. Non mi ha rivelato quando e come, né chi avrà bisogno di me, o per quale motivo».
L’elfo annuì nella sua tunica bianca. «Non dubito di ciò che dici, uomo; è la dea che non riesco a capire. Credo davvero che ti abbia detto solo quelle parole; tuttavia mi impedisce di sapere quali siano i tuoi veri poteri, e quali i suoi disegni, e io ho un regno da proteggere. Perciò ti sottoporrò a una prova».
Poi sorrise e aggiunse: «Credi che io mostri a tutti gli intrusi ricchezze che potrebbero attirare tutti gli uomini affamati da qui al mare occidentale?»
La Srinshee ridacchiò e si intromise: «Alcune maniere elfe trascendono la comprensione umana, ma ciò non le rende maniere da sciocchi».
El guardò prima l’uno poi l’altra. «Che prova avete in mente? Non ne posso più di duelli magici o di lotte mentali».
Il Coronal annuì. «Questo già lo so: se tu fossi stato quel tipo di individuo, non ti avrei mai condotto qui. Esporre me stesso alla tua presenza significa mettere a repentaglio un’arma potente di Cormanthor; e mettere in pericolo la Srinshee inutilmente vuol dire giocare col tesoro del regno».
«Basta con le lusinghe, Eltargrim», esclamò la Srinshee compitamente. «Il ragazzo penserà a te come a un poeta, e non come al rude guerriero che sei in realtà».
El batté le palpebre rivolto al Coronal. «Un guerriero?»
L’elfo canuto sospirò. «In tempi lontani ho abbattuto qualche orco…»
«E un centinaio di uomini, e un drago o due», lo interruppe la donna. Il re elfo le fece cenno di tacere con la mano.
«Parla di tali cose quando me ne sarò andato perché, se indugiamo ancora un po’, i maghi di corte metteranno a soqquadro mezzo palazzo per cercarmi».
La Srinshee fece una smorfia. «Quelle giovani teste di legno?»
Il Coronal sospirò esasperato. «Oluevaera, come posso pronunciare una sentenza su quest’uomo se distruggi ogni nostro tentativo di dignità?»
L’anziana maga si strinse nella spalle con la sua tranquillità eterea. «Anche gli uomini meritano la verità».
«Infatti». Il tono del Coronal era freddo quando questi si volse verso Elminster. Assunta un’espressione severa, affermò: «Ascolta, dunque, la sentenza di Cormanthor: per un’intera luna rimarrai in queste volte, dove potrai conversare e interrogare il suo guardiano a tuo piacimento; lei ti nutrirà e non ti farà mancare nulla. I membri della corte, tra cui io stesso, verranno alla fine di tale periodo, e ti chiederanno di portare una cosa fuori di qui».
El inclinò il capo. «E la parte pericolosa?»
La Srinshee ridacchiò per il tono un po’ insolente del giovane.
«Purtroppo non è tempo di frivolezze, giovane principe», rispose il Coronal seriamente. «Se sceglierai la cosa sbagliata – ossia qualcosa che noi giudicheremo tale – verrai punito con la morte».
Nel silenzio che seguì aggiunse: «Pensa, giovane umano, a quale potrebbe essere la cosa più giusta acquisibile in questo luogo. Riflettici bene».
Il corpo del re venne improvvisamente avvolto da luci ammiccanti. Egli sollevò la mano verso la Srinshee in segno di saluto, si voltò nel gran luccichio, e scomparve. Le luci si levarono per un momento ancora verso il soffitto a volta, poi svanirono silenziose.
«Prima che tu me lo chieda, giovanotto, una luna è un mese umano», affermò la Srinshee in tono ironico, «e no, non sono sua madre».
El ridacchiò. «Mi state dicendo ciò che non siete. Ditemi, vi prego, ciò che siete».
La donna sistemò l’aria come per sollevare lo schienale della sedia invisibile e lo fissò negli occhi. «Io sono la consigliera dei Coronal, la saggezza segreta nel cuore del regno».
El la guardò, e decise di osare. «E siete saggia?»
La maga si mise a ridere. «Ah, finalmente un umano sveglio!» Poi s’impettì, gli occhi sfavillanti, evocò uno scettro dal nulla, e ringhiò: «No».
La vecchia si unì alla risata sorpresa di El, poi si lasciò scivolare giù dalla sedia e andò verso di lui; pareva tanto fragile che El fece per offrirle il braccio.
La Srinshee gli diede un’occhiataccia. «Non sono tanto debole come sembro, giovanotto. Non oltrepassare il limite, oppure finirai come quel verme laggiù».
Elminster si guardò attorno. «“Quel verme laggiù”?» domandò esitante, non vedendo alcuna bestia né trofeo, bensì solo stanze colme di tesori.
«La volta di quel corridoio», rispose la Srinshee, «è rivestita con le ossa di un verme delle profondità, sbucato in queste caverne, affamato di tesori. Quelle bestie mangiano il metallo, sai».
El osservò la volta nel corridoio indicato. In effetti sembravano ossa, ora che osservava meglio, ma… Si voltò verso la maga con nuovo rispetto. «Perciò se porto violenza, oppure tento di fuggire da qui, potreste uccidermi sollevando un dito».
L’anziana elfa alzò le spalle. «Può darsi. Non credo che ciò accadrà, a meno che tu non sia più stupido, o più brutale, di quanto non appaia».
El annuì. «Credo di no. Il mio nome è Elminster, Elminster Aumar, figlio di Elthryn. Sono, o ero, un principe di Athalantar, un piccolo regno umano che giace…»
La donna annuì. «Lo so. Uthgrael sarà morto da un pezzo ormai».
El fece un cenno col capo. «Era mio nonno».
La Srinshee inclinò il capo pensierosa. «Hmmm».
Il giovane la guardò sbalordito. «Voi conoscevate il Re Cervo?»
La vecchia annuì. «Un uomo vigoroso», esclamò sorridente.
Elminster sollevò un sopracciglio, incredulo.
L’anziana maga scoppiò a ridere. «No, no, nulla del genere, sebbene qualcosa di simile possa essere accaduto con alcune delle ragazze con cui danzavo. A quei tempi ci divertivamo a spiare le azioni degli uomini. Quando vedevamo qualche personaggio interessante – magari un guerriero coraggioso, o un maghetto tenace – gli apparivamo nel chiarore lunare, e poi lo guidavamo in un inseguimento sfrenato in mezzo ai boschi. Talora quegli inseguimenti terminavano con colli spezzati, talaltra alcune di noi si lasciavano prendere. Io mi feci inseguire da Uthgrael per buona parte della Grande Foresta meridionale finché, all’alba, non cadde esausto. Gli apparvi nuovamente quand’era sposato, solo per il gusto di vedergli spalancare la bocca dalla sorpresa».
El scosse il capo. «Prevedo che sarà una lunga luna quaggiù con voi», osservò con lo sguardo rivolto al soffitto.
«Bene!» esclamò la Srinshee fingendosi oltraggiata, ma poi ridacchiò. «Ora tocca a te; raccontami le tue monellerie, Elminster».
«Non so se sia il caso di parlarne proprio ora», rispose il giovane con tono austero.
La donna incrociò il suo sguardo.
«Be’», aggiunse, «per alcuni anni sono sopravvissuto facendo il ladro, ad Hastarl, e c’era quel…»
Elminster non aveva più voce. Stavano parlando ormai da ore. Dopo il secondo attacco di tosse, la Srinshee agitò una mano e affermò: «Basta così. Sarai stanco. Solleva quel coperchio laggiù». Gli indicò un vassoio coperto da una cupola d’argento, appoggiato sopra un cumulo di corazze, tra un mucchio di monete ottagonali, coniate in un metallo bluastro che El non aveva mai visto.
Il principe fece come gli era stato detto. Sotto il coperchio vi era carne di cervo fumante in una salsa di noci e porri. «E questo da dove viene?», domandò sbalordito.
«Magia», rispose la vecchia maliziosamente, prendendo una caraffa dorata, semi sepolta da un cumulo di monete che le arrivava al gomito. «Sete?» Scuotendo il capo meravigliato, El protese una mano per afferrarla, al che l’elfa, incurante, gettò la caraffa nella sua direzione. Questa roteò verso il pavimento, poi risalì fino a raggiungere le mani di El.
«I miei ringraziamenti», esclamò il giovane, afferrandola saldamente con due mani. La Srinshee si strinse nelle spalle, e il ragazzo percepì improvvisamente qualcosa di freddo sulla sommità della testa. Alzò una mano e vi trovò un bicchiere di cristallo.
«Avevi entrambe le mani occupate», si giustificò dolcemente l’anziana signora.
Mentre Elminster sbuffava divertito, gli apparve in grembo una ciotola d’uva. A quel punto scoppiò in una risata fragorosa, e si ritrovò a scivolare lungo il cumulo di monete al quale era appoggiato. Una rotolò via sul pavimento, e il giovane la schiacciò col tacco dello stivale, per fermarla.
«Alla fine ne avrai la nausea», asserì la maga.
«Io non voglio monete», ribatté Elminster. «Non saprei neppure dove spenderle!»
«Sì, ma dovrai spostarle tutte per raggiungere ciò che vi è sepolto sotto», esclamò la Srinshee. «I pezzi migliori li tengo coperti, sai».
El la fissò, poi scosse il capo, sorrise, e, senza parlare, si avventò sul cibo.
«Che cosa spinge, dunque, una maga elfa, capace di consigliare i Coronal, a uccidere vermi delle profondità, a indurre re in inseguimenti selvaggi e a dimorare in una volta sotterranea e sconosciuta?», domandò quand’ebbe divorato tutto ciò che poteva.
L’anziana maga aveva mangiato ancor più di lui, svuotando un vassoio dopo l’altro di funghi fritti e molluschi al limone, senza, tuttavia, apparire sazia. Si appoggiò nuovamente alla sua sedia d’aria, incrociò le gambe su un poggiapiedi invisibile, e rispose, «Un senso d’appartenenza, finalmente».
«Appartenenza? Tra monete fredde e gioielli dei morti?»
La donna lo guardò con rispetto. «Sei acuto, uomo». Appoggiò il bicchiere all’altezza del suo gomito e si protese. «Tuttavia dici ciò perché qui non vedi ciò che vedo io».
La maga afferrò un braccialetto d’argento ossidato, a forma di serpente. «Ora presta attenzione, Elminster. Sfrutta la mia conoscenza per effettuare la scelta giusta e guadagnarti in tal modo la vita. Questo bracciale è tutto ciò che rimane a Cormanthor della principessa Elvandaruil, perdutasi tra le onde delle Stelle Cadute tremila estati fa, quando il suo incantesimo volante venne meno. È finito sulle spiagge dell’Isola di Ambral quando Waterdeep non era ancora nato».
El pescò un pezzo di conchiglia scintillante dal cumulo accanto a lui. Era forata ai quattro lati, e da essi partivano tre fini catene che si riunivano in un medaglione d’argento costellato di cavallucci marini di smeraldo, con occhi d’ametista. «E questo?»
«Il pettorale di Chathanglas Siltral, che si diede l’appellativo di Signore dei Fiumi e delle Baie prima della fondazione del vostro regno di Cormyr. Involontariamente prese in moglie una mutaforma, e i mostruosi discendenti della sua prole dai tentacoli mortali, sono tuttora in agguato, nei corsi d’acqua del Marsember, che gli umani chiamano la Grande Palude».
El si protese. «Conoscete la provenienza di ogni gingillo contenuto in queste stanze?»
La Srinshee alzò le spalle. «Naturalmente. A che cosa servono una lunga vita e una memoria di ferro se non li si usa?»
El scosse il capo meravigliato. Un momento più tardi esclamò: «Tuttavia perdonatemi… Le persone che indossarono o forgiarono tali ricchezze non possono essere tutte vostre familiari. Se, ad esempio, questo Siltral non ha generato elfi. Eppure avete la sensazione di appartenere… a che cosa?»
«Al regno dei miei familiari e degli altri elfi», rispose la maga tranquillamente. «Io sono Oluevaera Estelda, l’ultima della mia discendenza. Eppure mi elevo al di sopra delle rivalità di Casata contro Casata, e considero tutti gli abitanti di Cormanthor miei familiari. Ciò mi dà una ragione per aver vissuto tanto a lungo, e un’altra per continuare a vivere, dopo che tutte le persone che amavo sono scomparse».
«Vi sentite molto sola?», domandò El, avvicinandosi per guardarla profondamente negli occhi.
L’anziana elfa ricambiò lo sguardo intenso. I suoi occhi erano come fiamme blu stagliate contro un cielo tempestoso. «Sei molto più gentile, e molto più limpido di ogni altro uomo che abbia mai conosciuto», affermò pacata. «Ora più che mai vorrei che il giudizio del Coronal non pendesse su di te».
El aprì le mani in segno di rassegnazione. «Nemmeno io vorrei essere qui», esclamò con un sorriso.
La Srinshee ricambiò e disse vivacemente: «Bene, è meglio continuare. Disseppellisci quella spada accanto alle tue ginocchia e ti racconterò della stirpe dei signori elfi che l’hanno posseduta».
Alcune ore più tardi la vecchia esclamò: «Ti andrebbe un tè alle erbe notturne?»
El sollevò la testa. «Non ho mai assaggiato una bevanda simile, ma se non sono tutti funghi, volentieri».
«No, vi sono anche altri ingredienti», rispose semplicemente, e i due ridacchiarono insieme.
«Sì, è fatto anche coi funghi, e no, non è nocivo, o, perlomeno, non è molto diverso da ciò che bevono le altezzose signore del Cormyr e del Chondath», aggiunse.
«Oh, volete dire che somiglia al brandy?», domandò innocente Elminster, mentre la donna increspava le labbra e rideva nuovamente.
«Ne faccio bollire un po’ per entrambi», affermò, alzandosi. Poi si voltò verso Elminster, che stava pazientemente disseppellendo una corazza dall’ennesimo cumulo di monete. Era costituita da un unico pezzo di rame, spesso come un pollice, e scolpita a formare due seni femminili, sotto ai quali vi erano le fauci di un leone inferocito. «Non dormi mai, uomo?», domandò curiosamente la maga.
El risollevò lo sguardo. «Mi stanco, questo sì, ma non ho più bisogno di dormire».
«Un incantesimo della tua dea?»
Elminster annuì, e si concentrò sulla corazza. «Questo leone», esclamò. «Ha gli occhi incastonati nella lingua e…»
Il busto dell’antica Regina Eldratha del regno elfo Larlotha, ormai scomparso, era di marmo solido, e alto quanto la lunghezza del braccio di El. Giunse volando con la giusta angolazione, e lo colpì quasi gentilmente dietro l’orecchio destro. Il giovane non seppe nemmeno di essere stato colpito.
Si risvegliò con un mal di testa da impazzire. Sembrava che qualcuno gli stesse affondando un pugnale nell’orecchio destro, per poi estrarlo e infilarlo nuovamente. Dentro. Fuori. Dentro. Fuori. Arrrgh.
Si rotolò su un fianco, grugnì, sentendo un tintinnio di monete quando mosse i piedi. Che cos’era accaduto?
I suoi occhi si posarono sulle luci tenui, immobili sopra di lui. Gemme, incastonate in un soffitto a volta. Oh, già… era nella Volta dei Secoli, con la Srinshee, e vi sarebbe rimasto finché il Coronal non fosse tornato a giudicare la sua scelta.
«Signora? Signora… uh… Srinshee?», domandò, emettendo un altro grugnito. Parlando aveva risvegliato il dolore alla testa. «Signora… ah, Oluevaera?»
«Quaggiù», gli rispose un sussurro debole e stridente, ed El si volse nella direzione del suono.
L’anziana maga giaceva a braccia e gambe aperte su un cumulo di tesori, la tunica a brandelli e fili di fumo che salivano pigramente dal suo corpo. Un corpo, ora ampiamente nudo, pieno di rughe e di macchie tipiche della vecchiaia, che non recava però segni di violenza. El si trascinò verso di lei, la testa tra le mani.
«Signora?», esclamò. «Siete ferita? Che cos’è accaduto?»
«Ti ho attaccato», rispose tranquillamente, «e ne ho pagato le conseguenze».
El la fissò, disorientato. «Voi…?»
«Uomo, me ne vergogno», confessò con labbra tremanti. «Trovare un amico dopo tanto tempo, e gettar via la sua amicizia per la fedeltà al regno. Ho fatto ciò che pensavo fosse corretto e ho scoperto che la mia scelta era sbagliata».
El appoggiò il capo martellante sulle monete accanto alla Srinshee, in modo da poterla guardare negli occhi. Erano colmi di lacrime. «Signora», ribatté gentilmente, commosso dalla tristezza della sua voce, «per il bene mio e degli dei, raccontatemi che cosa è successo».
La donna lo fissò, sconsolata. «Ho commesso un atto imperdonabile».
«Ossia?», chiese El quasi supplicante, indicandole con gesti stanchi di lasciar uscire le parole dalla bocca.
Oluevaera abbozzò un sorriso e rispose tristemente: «Eltargrim mi domandò di tentare ciò che lui aveva fallito: apprendere dalla tua mente tutto ciò che potevo, mentre dormivi. Ma il tempo passava, un giorno e una notte, e ancora ti aggiravi fra i tesori, senza dar segno di stanchezza. Perciò ti ho chiesto, e tu mi hai risposto che non avevi bisogno di dormire».
El annuì, e alcune monete scivolarono sotto la sua guancia. «Con che cosa mi avete colpito?»
«Con un busto di Eldratha di Larlotha», mormorò la vecchia. «Elminster, mi dispiace».
«Anche a me», esclamò commosso. «La magia elfa è in grado di lenire un mal di testa?»
«Oh», esclamò Oluevaera portandosi una mano alla bocca, mortificata. «Ecco». Allungò due dita, gli toccò la testa e mormorò qualcosa.
E come acqua fresca, il dolore scomparve.
El la ringraziò, e scivolò sulle monete fino a sedersi di nuovo sul pavimento. «E così vi siete messa a frugare nella mia mente mentre io ero incosciente e…»
Colto da un pensiero improvviso si voltò e corse a chinarsi ansiosamente sopra di lei. «Signora, ho visto del fumo emanare dal vostro corpo! Vi siete fatta male?»
«Mystra mi stava aspettando, proprio come aveva atteso il Coronal», gli spiegò la Srinshee sorridendo lievemente. «Si preoccupa per te, giovane uomo. Mi ha scacciato risoluta dalla tua mente, e mi ha detto che aveva preparato un incantesimo dentro di te capace di ridurmi in polvere».
El la guardò sbalordito, e poi lasciò sprofondare la mente nel luogo in cui, da tanto tempo, non dimorava alcun incantesimo. Doveva provvedere al più presto. Senza nemmeno una piccola magia da sferrare, e nessuna gemma da invocare, si sentiva indifeso in mezzo a quegli elfi orgogliosi.
Ed eccola là. Una magia mortale della quale non conosceva l’esistenza: tanto potente, e tanto semplice. Un tocco, e sangue elfo sarebbe ribollito nel corpo scelto, riducendolo in polvere in pochi istanti, indipendentemente da armature o magie difensive e…
Il giovane rabbrividì. Si trattava di un incantesimo mortale.
Quando la sua mente tornò al presente, dita fresche ed esili come quelle di un bambino gli presero il polso e fecero sì che la sua mano poggiasse su carne liscia e fresca. Carne che sembrava…
Elminster abbassò lo sguardo. La Srinshee si era scoperta il petto e aveva appoggiato la sua mano fermamente su di esso.
«Signora», le domandò, fissando le fiamme blu nei suoi occhi tristi, «che cosa…?»
«Usa l’incantesimo», lo incoraggiò. «Non merito altro».
El liberò delicatamente la mano, e le risollevò il lembo della tunica. «E che cosa mi farebbe il Coronal?», chiese con un tono di finta disperazione nella voce. «Questo è il guaio peggiore di voi tipi tragici: non pensate mai alle conseguenze!»
Elminster sorrise, e la osservò sforzarsi di ricambiare. Dopo un attimo vide che stava piangendo, lacrime silenziose sgorgavano dai suoi occhi antichi.
Impulsivamente si chinò e le baciò la guancia. «Avete commesso un atto imperdonabile, sì», le sussurrò all’orecchio. «Mi avete promesso un tè alle erbe, e sto ancora aspettando!»
L’anziana maga tentò di ridere, ma scoppiò in singhiozzi. El la sollevò fra le braccia per confortarla, e scoprì che era come cullare un bimbo in lacrime. Pesava meno di nulla.
La Srinshee stava ancora singhiozzando, le braccia intorno al collo del principe, quando due tazze fumanti apparvero nell’aria di fronte al naso di El.
Elminster aveva da tempo perso il conto degli oggetti che reputava più intelligenti. Vi era una corona che faceva tornare giovane chi l’indossava, e un guanto in grado, con le sue dita, di risanare la pelle di volti contusi o sfigurati. La Srinshee aveva radunato tali cose, e altri oggetti che più gli piacevano, in una cassa situata nella stanza centrale, ma il giovane aveva veduto solo una minuscola parte dei tesori contenuti nella volta, e gli occhi della maga s’intristirono nuovamente.
«El», esclamò, mentre spostava un flauto appartenuto all’eroe elfo Erglareo della Freccia Lunga, «il tempo a tua disposizione sta terminando».
«Lo so», rispose brevemente il ragazzo. «Che cos’è questo?»
«Un mantello che allontana le malattie dagli alberi al cui tronco viene avvolto, o dalle piante su cui viene posato, lasciatoci dal mago elfo Raeranthur di…»
El si stava già rimettendo in moto, diretto verso la cassa, in cerca di cose che catturassero la sua attenzione. Lady Estelda ammutolì e lo guardò tristemente allontanarsi da lei. L’anziana elfa non osava aiutarlo nemmeno a spostare una moneta, per paura che uno dei maghi di corte, impaziente di vedere morto l’intruso, la spiasse da lontano.
Elminster tornò da lei, la stanchezza evidente intorno agli occhi. «Quanto mi resta?», chiese.
«Forse dieci minuti», rispose a bassa voce, «forse venti. Dipende da quanto sono ansiosi».
«Di vedermi morto», brontolò El, adagiandosi a pochi passi dall’elfa. Era un caso che lei avesse appoggiato tre volte la mano sulla sfera di cristallo negli ultimi due minuti?
«E questo che cos’è?», chiese raccogliendo l’oggetto.
«Un cristallo col quale è possibile vedere il corso dei fiumi del regno, in superficie o sotto terra; ogni centimetro del loro viaggio verso il mare, chiaramente illuminato affinché l’occhio possa vedere dighe di castori, intoppi, e fonti di sporcizia», gli spiegò la Srinshee, rapidamente, quasi senza prender fiato, «costruito per la Casata dei Clatharla, ora decaduta, a causa di…»
«Lo prendo», mormorò El passandole davanti. Il giovane si fermò col piede a mezz’aria e calciò l’elsa di una spada sepolta sotto le monete. «Questa?»
«Una spada che squarcia le tenebre e le cose non morte chiamate ombre, e credo anche fantasmi e spettri».
Il principe agitò la mano in segno di lasciar stare e si avviò nuovamente per il corridoio, in direzione della cassa. Oluevaera si sistemò la tunica ingioiellata che El aveva disseppellito e insistito che indossasse, nonostante continuasse a scivolare dalle spalle ormai curve. Sospirò. Sarebbero giunti da un momento all’altro e…
Eccoli apparire. Vi fu un bagliore di luce nella stanza centrale, ed El si irrigidì, trovandosi improvvisamente circondato dagli sguardi ostili di maghe elfe. Sei in tutto, lo scettro in mano puntato verso di lui. Scintille minuscole ammiccavano e fluivano lungo quelle armi mortali. Nel corridoio El vide la Srinshee venire verso di lui. La donna schioccò le dita, e un settimo scettro apparve nella sua mano, pronto a colpire.
Il giovane le voltò lentamente le spalle, sapendo chi lo attendeva nella direzione opposta. Tutti i governatori amavano le entrate solenni. Dietro a due delle maghe apparve un elfo anziano avvolto in una tunica bianca, gli occhi come due pozze di stelle. Le donne si fecero lentamente da parte per consentirgli di entrare nel cerchio della morte. Il Coronal.
«Ben tornato, Onorato Signore», esclamò Elminster, e delicatamente ripose la sfera di cristallo che aveva in mano nella cassa aperta.
L’elfo abbassò lo sguardo sui tesori che conteneva, e sollevò un sopracciglio in segno d’approvazione. Oggetti istruttivi, non bellici. La sua voce, tuttavia, risuonò austera. «Ti avevo pregato di scegliere solo una cosa. Permettici di assistere alla tua scelta».
Elminster s’inchinò, poi avanzò verso il Coronal, le mani allargate e vuote.
«Ebbene?», domandò il re elfo.
«Ho fatto la mia scelta», rispose El tranquillamente.
«Scegli di non prendere nulla?», chiese il Coronal accigliato. «È un modo codardo per tentare di evitare la morte».
«No», ribatté Elminster, con tono altrettanto serio. «Ho scelto la cosa più preziosa esistente nella Volta dei Secoli».
Gli scettri tremolarono, sospesi a mezz’aria intorno a lui, abbandonati dalle maghe che ora stavano preparando sortilegi a più non posso. El si voltò lentamente, un sopracciglio inarcato, mentre le donne sussurravano incantesimi in un coro confuso. Solo le mani della Srinshee erano immobili. La punta dello scettro era appoggiata contro il suo petto, e i suoi occhi erano molto ansiosi.
In quel momento un’ondata di incantesimi investì Elminster Aumar per indagare, sondare, scrutare, cercando invano oggetti nascosti o magie mascherate sul corpo del giovane umano. Una per volta le maghe guardarono il Coronal e scossero il capo; non avevano trovato nulla.
«E quale sarebbe la cosa più preziosa?», domandò finalmente il Coronal, mentre due delle maghe, dopo aver riacquistato possesso dei loro scettri, si portavano lentamente davanti a lui a formare uno scudo.
«L’amicizia», rispose Elminster. «Rispetto reciproco, e la mia stima per una signora saggia e gentile». Quindi si voltò verso Oluevaera e le fece un profondo inchino.
Dopo un istante interminabile, mentre gli altri elfi la guardavano, la vecchia maga sorrise e ricambiò l’inchino, gli occhi lucidi di lacrime.
Il Coronal inarcò le sopracciglia. «Hai scelto più saggiamente di quanto avrei fatto io», esclamò. Quasi tutte le maghe di corte sembrarono sbalordite, e rimasero a bocca aperta quando il governatore di Cormanthor s’inchinò profondamente di fronte a Elminster. «Sono onorato della tua presenza nel più bello dei regni: sei il benvenuto, meritevole di risiedervi quanto qualsiasi elfo. Sii tutt’uno con Cormanthor».
«E Cormanthor sia tutt’uno con te», cantarono all’unisono le maghe. Elminster sorrise a Eltargrim, ma si voltò ad abbracciare la Srinshee. Lacrime calde le scesero sulle guance quando sollevò lo sguardo verso di lui, ed El le asciugò con un bacio.
Un’oscurità vellutata calò nuovamente, per poi dissiparsi e rivelare una sala enorme e scintillante, stipata di elfi in tutto il loro splendore. Al che la magia del Coronal fece riecheggiare il canto.
Dalle facce stupite della Corte di Cormanthor si levò un chiaro: «E Cormanthor sia tutt’uno con te».