Ed Greenwood Elminster Il viaggio

Per Cheryl Freedman

e

Merle von Thorn


Due donne che Elminster volle al suo fianco (spade, allegria e quant’altro) quand’era a Myth Drannor

Prologo

Era tempo di grande discordia nel magnifico regno di Cormanthor, in cui le donne e gli uomini delle famiglie più antiche e più fiere percepivano una minaccia per il loro orgoglio sfavillante, una minaccia proveniente dall’autorità stessa che li governava, una minaccia presente sin dagli incubi più neri di gioventù: la Bestia Maleodorante che viene di notte, l’Aggressore Irsuto che attende il momento più adatto per uccidere, saccheggiare, violare e depredare. Il mostro la cui morsa stringe giorno dopo giorno nuovi regni: il terrore chiamato Uomo.

Shalheira Talandren, Sommo Bardo Elfo di Summerstar

Da Spade argentee e notti d’estate:

Una storia ufficiosa ma vera di Cormanthor

Pubblicata nell’Anno dell’Arpa

«In verità, ho promesso qualcosa al principe in cambio della corona», affermò il re ostentando tutta la sua altezza e inspirando fino a far tremare il petto. Lievemente imbarazzato, si sistemò la corona scintillante di gemme e cuspidi dorate, poi abbozzò un sorriso di autocompiacimento per aver creato tale pausa drammatica. Abbassando la voce per sottolineare la nobiltà delle sue parole, aggiunse infine: «Ho promesso che avrei realizzato il suo più grande desiderio».

Tra gli spettatori si levò un coro di mormorii beffardi e stupiti.

Il grasso sovrano non prestò loro la minima attenzione, anzi si voltò con un gran turbinio di vesti d’oro e, appoggiando un piede su un teschio di drago palesemente falso, assunse un atteggiamento vittorioso. La luce delle sfere fluttuanti color bianco e porpora che lo accompagnavano si riflesse sul filo metallico ben visibile, nel punto in cui esso attraversava il teschio di pezza per sostenere la spada reale che si presumeva avesse trafitto le ossa del drago con un unico e poderoso fendente.

Da sovrano anziano e saggio qual era, il re guardò per un attimo l’orizzonte, posando lo sguardo grave su cose che solo lui poteva vedere. Poi, quasi timidamente, fissò il servitore inginocchiato.

«E dimmi, ti prego», mormorò, «che cosa desidera di più? Hmmm?»

Il servo si gettò lungo disteso sul tappeto, battendo, nel movimento brusco, la testa sul pavimento di pietra. Roteò gli occhi e fece una breve smorfia di dolore, con gran divertimento degli spettatori, dopodiché lo guardò. «Sire», esclamò finalmente con tono incerto, «egli desidera morire ricco».

Il re girò e avanzò di qualche passo. Allora il servo si sollevò su un ginocchio e fece per indietreggiare, intimorito dalla risolutezza del sovrano, ma rimase impietrito quando scorse un sorriso allegro sul suo volto.

Il sovrano si chinò per prendergli il braccio, lo sollevò dal tappeto e gli mise in mano un oggetto tintinnante.

Il servitore abbassò lo sguardo: era una borsa colma di monete. Incredulo, guardò nuovamente il sovrano e deglutì.

Il sorriso del re divenne ancor più ampio. «Morire ricco? E così sarà: metti questa borsa tra le sue mani e poi trafiggilo con la tua spada. Più volte, come penso vada di moda oggi».

Il pubblico esplose in risa e urla d’ilarità, che subito dopo si trasformarono in applausi, mentre le luci che avvolgevano gli attori si spegnevano con i consueti sbuffi di fumo rosso, segno che la scena era finita.

La gente cominciò ad allontanarsi in ogni direzione: i più anziani si muovevano compostamente, i giovani invece presero a correre nella notte, come pesci frenetici che si inseguono per mangiare… o per essere mangiati. Alcuni irruppero nel mezzo di crocchi di languidi pettegoli, poi presero a danzare nell’aria, sfrecciando lungo il margine del campo magico profumato. Solo pochi rimasero a guardare la scena successiva de La giusta fine del re umano Halthor; tali parodie dei modi avidi e meschini del Popolo Irsuto all’inizio erano divertenti, ma in seguito risultavano molto monotone, e gli elfi di Cormanthor odiavano annoiarsi, o quanto meno, ammetterlo.

Non che non si trattasse di una festa grandiosa: gli Erladden non avevano badato a spese per preparare i campi magici. Suoni, profumi e immagini turbinavano costantemente nell’aria e si diffondevano sulle teste dei festanti, e il potere del campo magico permetteva a tutti di volare, di librarsi verso qualsiasi luogo. Ora gran parte degli elfi fluttuava nel vuoto, toccando terra solo di tanto in tanto per rifocillarsi.

Quella notte le mura del giardino, solitamente spoglie, erano adorne di sculture raffiguranti unicorni, destrieri alati, fate danzanti e cervi impennati. Se toccata, ogni statuetta si apriva, presentando al suo interno caraffe a forma di goccia contenenti un frizzante vino della luna o altre bevande ottenute dalle diverse uve color rubino degli Erladden. Accanto alle bottiglie di vino spuntavano coperchi di cristallo, le cui cupole coprivano figurine di formaggio scelto, nocciole arrostite o stelle di zucchero.

Tra le luci multicolori che vagavano in mezzo ai festanti si sprigionavano esalazioni magiche che avrebbero reso allegro e vivace qualsiasi elfo di sangue puro. Alcuni Cormyth ubriachi volavano a zigzag, ridacchiando, da una nuvola all’altra, gli occhi troppo lucidi per vedere il mondo che li circondava. Sui rami degli alberi imponenti che sovrastavano il giardino, stelle magiche luccicanti ammiccavano e scivolavano qua e là tra le foglie. Quando la luna sorse e ne cancellò il chiarore, illuminò l’intera scena dei festeggiamenti sfrenati e gioiosi. Quella notte mezza Cormanthor si divertiva ballando.


«Sorprendentemente ricordo ancora le parole per raggiungere questo luogo».

La voce proruppe nell’oscurità della notte senza preavviso, e il suo tono gradevole gli richiamò alla mente i tempi passati.

Si aspettava quella visita e non fu sorpreso di udire i toni bassi e melodiosi della voce provenire dall’ombra, nella parte più profonda della sua dimora, dov’era situato il letto.

Un letto che riteneva ancora molto riposante, nonostante l’età iniziasse a logorargli le ossa. Il Coronal di Cormanthor volse la testa verso il chiaro di luna, distogliendo lo sguardo dalle acque calme che circondavano l’isola-giardino e, con un sorriso più allegro di quanto in realtà lui non fosse, esclamò: «Benvenuta, Grande Signora degli Starym».

Ci fu un momento di silenzio, poi la voce parlò ancora. «Una volta ero molto di più», affermò quasi malinconica.

Eltargrim si alzò in piedi e tese la mano verso il punto in cui, come gli suggerì la vista magica, si trovava la donna. «Vieni, amica mia». Poi, con aria quasi supplichevole, le porse anche l’altra mano. «Lyntra mia».

Le ombre svanirono, e Ildilyntra Starym uscì nella luce lunare, i suoi occhi simili a due pozze scure colme di speranza, che egli ricordava tanto vividamente nei suoi sogni. Sogni che gli avevano fatto visita per anni, fino a quella notte. Sogni ispirati a ricordi che riuscivano ancora a sconvolgerlo…

Il Coronal sentì un nodo alla gola e la bocca gli si seccò improvvisamente. «Accomodati», mormorò, indicando il Trono Vivente.

Gli Starym si ritenevano la più antica e la più pura famiglia dell’Unico Vero Regno, ed erano senza dubbio la casata più fiera. La loro matriarca gli si avvicinò, sempre fissandolo con i suoi occhi scuri.

Gli bastò uno sguardo per capire che gli anni non avevano intaccato la sua pelle eburnea, né quel corpo tanto perfetto da mozzargli il fiato. Portava, come allora, i capelli di un blu quasi nero raccolti in trecce che le sfioravano i calcagni; era scalza, e i suoi incantesimi le mantenevano sia i capelli sia i piedi sospesi a pochi centimetri dal suolo. Indossava la tunica di rappresentanza della sua casata: i draghi gemelli, tempestati di gemme, dello stemma degli Starym le coprivano il ventre, e le loro ali in rilievo su uno sfondo dorato le lambivano il seno.

Le cosce, che si intravedevano dagli spacchi della tunica mentre avanzava, erano avvolte dalle pieghe nere e oro di un mantello d’onore, le cui estremità si univano a sostenere il fodero della spada di dente di drago finemente intagliato, che oscillava come una piccola lampada, circondata dal bagliore rosso, intenso e solenne del suo potere. L’Anello del Dragone Vigile scintillò al suo dito. Quella non era certo una visita informale.

La serata si prestava bene a una chiacchierata tra vecchi amici, ma nessuna matriarca si presentava nel pieno dei suoi poteri solo a tale scopo. Il Coronal fu pervaso da una grande tristezza. Sapeva che cosa lo aspettava.

Proprio per questo Ildilyntra lo stupì. Come previsto, la donna si fermò davanti a lui e, dopo aver scostato la tunica, posò le mani sui fianchi per mostrargli la luce del pieno potere della spada d’onore. Anche tale atteggiamento e l’ispirazione profonda che egli di lì a poco fece erano del tutto usuali.

Dopodiché sarebbe scoppiata la tempesta: avrebbe udito parole di fuoco pronunciate con gelido sarcasmo, veleno amaro per il quale la donna era famosa in tutta Cormanthor. Non sarebbero mancate nemmeno le formule di incantesimi pericolosi, ed egli avrebbe…

In un silenzio di tomba la matriarca degli Starym si inginocchiò, lo sguardo intenso sempre fisso su di lui.

Eltargrim deglutì nuovamente, abbassando gli occhi sulle sue ginocchia bianche, lievemente venate di blu nel punto in cui sprofondavano nel muschio ai suoi piedi. «Ildilyntra», esclamò piano. «Signora, io…»

Quand’era travolta da emozioni forti, proprio come in quel momento, i suoi occhi scuri si costellavano di bagliori dorati.

«Non è mia abitudine supplicare», affermò la voce melodiosa, suscitando nel Coronal un’ondata di ricordi di altre, più tenere, notti trascorse sotto quel pergolato, «ma ora lo sto facendo, sommo Coronal. Riconsidera l’Apertura di cui parli. Non lasciare che alcun estraneo cammini per Cormanthor senza il nostro permesso; fa che tale permesso sia concesso molto raramente, per la salvezza della nostra Gente!»

«Ildilyntra, alzati. Per favore», esclamò Eltargrim con fermezza, indietreggiando un poco. «E forniscimi un buon motivo per accogliere la tua supplica», aggiunse abbozzando un sorriso. «Sai di certo che ho già udito tali parole in passato».

La Signora degli Starym rimase in ginocchio, avvolta dai suoi capelli, e di nuovo lo guardò negli occhi.

Il Coronal sorrise, questa volta apertamente. «Sì, Lyntra, hai ancora molta influenza su di me. Ma dammi ragioni valide su cui riflettere, o parla di questioni più frivole».

Nei suoi occhi neri comparve per la prima volta la rabbia. «Cose più frivole? Feste scellerate, come quella che si sta svolgendo ora alle Torri degli Erladden?» La donna si alzò, rapida come un serpente, e aprì la tunica. La lucentezza bianco-bluastra del suo corpo nudo lo provocò quanto il suo sguardo penetrante. Poi Ildilyntra aggiunse freddamente, «o pensi che sia venuta per amoreggiare con te, mio caro? Incapace di rimanere un’altra notte lontana dal nostro affascinante sovrano, dal giovane forte e appassionato che conoscevo, ora depositario di tanta saggezza?»

Eltargrim lasciò che le sue parole svanissero nel silenzio, come pugnali che mancano il bersaglio e cadono nel vuoto. Dopodiché esclamò pacato: «Questa furia selvaggia è la Signora degli Starym che conosco da secoli. Ammiro il tuo gusto per la biancheria intima, ma speravo avessi perso un po’ di ciò che i tuoi giovani familiari definiscono «spavalderia pungente». Siamo soli su quest’isola. Perché non parliamo schiettamente, come si conviene a due Cormyth anziani? Risparmieremmo tante… cortesie inutili».

Ildilyntra chiuse strettamente le labbra. «Benissimo», esclamò, portandosi le mani ai fianchi in un modo che il Coronal ben ricordava. «Ascoltami allora, Signor Eltargrim: io, i miei parenti anziani, e molte altre famiglie e persone di Cormanthor – posso elencartene i più importanti se lo desideri, ma ti assicuro che non sono pochi, né facilmente screditabili perché giovani o stravaganti – pensiamo che la questione dell’Apertura del regno ci condannerà tutti, se mai divenisse realtà».

La donna tacque per un istante e i suoi occhi fiammeggiavano. Il Coronal le fece un cenno silenzioso di proseguire. Al che Ildilyntra continuò: «Se inseguirai i tuoi sogni folli di estendere la legge di Cormanthor a tutte le creature del regno, la nostra lunga amicizia non potrà che terminare».

«Con la mia morte?», domandò tranquillamente il sovrano.

Tra loro cadde nuovamente il silenzio. Ildilyntra prese fiato, aprì la bocca, ma subito la richiuse. Si allontanò rabbiosamente sulle lastre di pietra e sul muschio illuminato dalla luce lunare, poi si voltò per guardarlo nuovamente in faccia.

«L’intera Casata degli Starym», affermò risolutamente, «abbraccerà le armi contro un sovrano tanto disturbato nella mente e nell’anima, tanto contaminato nella sua essenza elfa, da presiedere, anzi, da desiderare ardentemente la distruzione del magnifico regno di Cormanthor».

I loro sguardi si incrociarono in silenzio, ma il Coronal sembrava una statua di marmo sorridente. Ildilyntra Starym fece un respiro profondo e proseguì, la voce ora imperiosa come quella di una regina. «Perciò non fare errori, Signore: la tua Apertura, se avverrà, distruggerà il regno più potente della Gente».

Impaziente, la donna prese a camminare impettita per il giardino, indicando ora gli alberi, ora i cespugli e le aiuole di fiori. «I luoghi in cui abbiamo vissuto, amato e allevato i nostri figli, le meraviglie della foresta che noi abbiamo curato conosceranno gli stivali barbari e il tocco sporco e incurante degli umani». La matriarca degli Starym si voltò e si diresse verso il Coronal, pervasa da una collera sempre più intensa a ogni passo. «E dei mezzo sangue». Quando infine lo raggiunse, aveva il volto in fiamme. «E degli gnomi». La sua voce fu sopraffatta dalla rabbia e si ridusse a un sussurro tremante e aspro quando espresse il risentimento più grande: «Persino dei… nani

Quando Ildilyntra si avvicinò al suo volto fin quasi a toccarlo, il Coronal aprì la bocca per parlare, ma lei si voltò repentina, schioccando le dita, per poi rigirarsi immediatamente con un gran turbinio di capelli. «Tutto ciò a cui teniamo, ciò che abbiamo difeso dagli uomini-bestia e dagli orchi e dai mostri più diversi, verrà annacquato, ma che dico, contaminato, e alla fine spazzato via; la nostra gloria annegherà nelle ambizioni clamorose, nella numerosità e nei piani astuti di quegli umani pelosi!»

Quelle ultime due parole si levarono in un grido che lacerò loro le orecchie, e fece tintinnare in risposta i campanelli di cristallo blu appesi agli alberi intorno al lontano Lago del Cuore.

Mentre il debole suono si affievoliva nei pressi del Trono Vivente, Ildilyntra rimase in piedi di fronte al Coronal, il petto palpitante e gli occhi fiammeggianti. Nell’oscurità un improvviso raggio di luna le colpì le spalle, illuminandola di luce bianca e fredda, simile a un vessillo di vendetta.

Eltargrim chinò il capo per un istante, forse per rispetto alla sua passione, poi fece un piccolo passo verso di lei. «Una volta pronunciai parole simili», cominciò, «ed ebbi pensieri persino più cupi. Ma nelle razze affini, e negli umani in particolare, ho percepito la vita, la verve, e l’energia che a noi mancano. Il cuore e la forza che una volta possedevamo, e che ora possiamo scorgere solo nelle visioni dei tempi passati, inviate dai nostri antenati. Persino la fiera Casata degli Starym sarebbe costretta ad ammettere, se le sue lingue dicono il vero, che abbiamo perduto qualcosa: qualcosa dentro noi stessi, non semplicemente vite, ricchezze e domini, per l’ambizione dilagante di altri».

Il Coronal iniziò a misurare il giardino a grandi passi, come aveva fatto prima la donna, e d’un tratto, facendo roteare la tunica bianca nella luce lunare, si voltò verso di lei ed esclamò, quasi supplichevole: «Potrebbe essere un modo per riprenderci ciò che abbiamo perduto, in un regno in cui ora dominano solo atteggiamenti, negazione e lento declino. Potremmo riconquistare l’antica gloria, e non aggrapparci solamente al guscio fiero e dorato di una presunta grandezza. E c’è di più: il sogno di pace tra uomini ed elfi e nani potrà finalmente realizzarsi! Il sogno di Maeral diventerà realtà!»

La signora dagli occhi neri scintillanti e dalla chioma nera scattò come un animale a cui si schiacci la coda, e lo superò, come un felino che accerchia un nemico temuto… ma ancora per poco. Quando schiuse le labbra, la sua voce aveva perso tutta la dolcezza, e sembrava affilata come un rasoio.

«Come tutti coloro che cadono preda degli anni, Eltargrim», sbottò, «aspiri a un mondo ideale, non lo accetti per quello che è. Il sogno di Maeral è proprio ciò che indica il termine: un sogno! Solo gli stolti potrebbero credere nella possibilità che si avveri, nella Faerûn selvaggia che vediamo intorno a noi. Gli umani crescono padroneggiando la magia: una magia brutale, avida, distruttrice. Ogni anno diventano più forti! E tu vorresti accogliere questi… questi serpenti nel nostro seno, nella nostra armatura, nelle nostre case

La tristezza gli velò lievemente gli occhi quando il Coronal vide ciò che era diventata: una vera e propria furia, ben lungi dalla giovane e tenera ragazza elfa che aveva accarezzato e confortato quando, anni e anni addietro, piangeva timidamente.

Allora le si parò davanti e le domandò gentilmente: «E non sarebbe meglio invitarli, conquistare la loro amicizia e con essa un po’ di influenza su di loro, invece che combatterli, perire, e vederli entrare nelle nostre case da avidi conquistatori che distruggono e calpestano il sangue della nostra gente? Dove sta la gloria in tutto ciò? Perché sforzarsi di preservare qualcosa, se il nostro popolo morirà? Vivremo solo nelle leggende distorte nelle menti degli umani e dei mezzo sangue? Leggende che narrano di un popolo bizzarro, decadente, con le orecchie a punta e il naso all’insù, il cui cieco orgoglio gli fu fatale?»

Ildilyntra era stata costretta a fermarsi, altrimenti sarebbe finita contro di lui. Rimase immobile ad ascoltare quella valanga di domande, naso contro naso, le braccia lungo i fianchi e i pugni serrati.

«Vuoi essere colui che lascerà entrare queste… queste razze bestiali nei nostri luoghi segreti e nella vera sede del nostro potere?», gli chiese con voce improvvisamente aspra. «Per essere ricordato con odio da quanti sopravviveranno alla tua follia, come il traditore che determinò la rovina di cittadini che aveva promesso di servire e dell’intera razza?»

Eltargrim scosse il capo. «Non ho scelta: considero l’Apertura l’unica possibilità per assicurare un futuro alla Gente. Tutte le altre strade che ho contemplato, e talora persino seguito, portano, rapidamente, alla guerra rossa. Una guerra che può soltanto condurre alla morte e alla sconfitta di Cormanthor, in quanto tutte le razze, eccetto i nani e gli gnomi, ci superano di venti a uno. L’orgoglio ci trascinerà in guerra, e la guerra ci porterà alla tomba. E quella è una scelta che non ho il diritto di fare, per rispetto dei nostri figli, le cui vite verranno stroncate prima che siano in grado di difendersi, e di scegliere autonomamente».

«Tali discorsi paternalistici possono essere ripetuti all’infinito. Ci saranno sempre bambini troppo piccoli per decidere che strada intraprendere!»

La donna si mosse ancora, lo aggirò, volgendogli sempre il viso mentre camminava, e, quasi casualmente, aggiunse: «Esiste una vecchia canzone secondo la quale non si può far intendere ragione a un Coronal di ferme intenzioni. Ora mi accorgo della sua verità. Niente di quello che dirò potrà convincerti».

Vi era un non so che di vecchio e di molto stanco nel volto di Eltargrim quando i suoi occhi incontrarono quelli di lei. «Non ho paura, Ildilyntra, amata e onorata Ildilyntra», affermò. «Un Coronal deve fare ciò che è giusto, a qualsiasi costo».

La matriarca emise un sibilo esasperato, mentre l’elfo aprì lievemente le mani ed esclamò: «Questo è ciò che significa essere Coronal: non gli sfarzi, le decorazioni e gli inchini».

Ildilyntra si allontanò da lui sul muschio, fino al punto in cui un solido parapetto di pietra le sbarrava la strada, oltre il quale crescevano alcune piante di lavanda. La donna incrociò le braccia con grazia, e volse lo sguardo a sud, verso il placido specchio d’acqua che ora, sotto la luce lunare, appariva come un lenzuolo bianco. Il silenzio che lasciò nella sua scia divenne profondo, assordante.

Il Coronal lasciò cadere le braccia e la guardò, in paziente attesa. In quel regno di orgogli conflittuali e di ricordi cupi, ma sempre vividi, gran parte del lavoro di un Coronal consisteva nell’attendere con pazienza. Gli elfi più giovani non se ne rendevano mai conto.

La Grande Signora degli Starym scrutò nella notte per ciò che gli parve un’eternità, le braccia lievemente tremanti. Quando parlò, la sua voce risultò intensa e morbida come una brezza improvvisa. «Allora so che cosa devo fare».

Eltargrim sollevò la mano per attivare il suo potere e bloccare la donna: l’insulto più grave che si possa fare al capo di una casata elfa.

Ma agì in ritardo. Un fuoco improvviso esplose nel buio, una nuvola di scintille si formò nel punto in cui i due poteri si incontrarono e lottarono per un tempo sufficiente affinché Ildilyntra potesse voltarsi. Teneva tra le mani la spada d’onore e il suo sguardo si posò su di lui.

«Oh, sapessi quanto ti ho amato…», sussurrò. «Per gli Starym! Per Cormanthor

Un raggio di luna si rifletté lungo la lama affilata della spada quando la donna l’affondò nel petto fino all’elsa; poi con l’altra mano spinse il fodero sotto il fiotto di sangue zampillante. Il dente intagliato sembrò tremolare per un istante, quindi, lentamente, si confuse col fiume di linfa vitale. Sgorgò più sangue di quanto quel corpo formoso avrebbe potuto contenere.

«Eltar…», ansimò, quasi implorante, gli occhi più scuri mentre barcollava. Il Coronal fece un rapido passo in avanti e sollevò le mani, il bagliore della magia guaritrice lungo le dita… ma a quella vista la donna estrasse la lama luccicante e se la conficcò violentemente nella gola.

Eltargrim si mise a correre per la breve distanza che li separava. Ildilyntra emise un gorgoglio, vacillò e sollevò il braccio insanguinato ancora una volta per infilarsi la spada nell’occhio destro.

A quel punto cadde fra le braccia del governatore, e con le labbra esangui tentò di sussurrare il suo nome ancora una volta; il Coronal la depose gentilmente sul muschio, nonostante un ruggito lacerante, magico, si levasse in alto nel cielo notturno, come fumo insanguinato, dal punto in cui si trovava il dente di drago. Quella magia, lo sapeva, avrebbe reclamato la sua vita.

«Oh, Lyntra», mormorò. «Valeva la pena morire per una disputa simile?» Poi si sollevò, guardando il sangue luccicare sulle sue mani, e si concentrò.

Se avesse esitato a pulirlo, esso avrebbe costituito un punto debole, un mezzo che la magia, che si stava materializzando sopra di lui, avrebbe utilizzato per neutralizzare il suo potere. Quando tuttavia fissò le mani aperte, le macchie di sangue scomparvero, e il bagliore bianco e blu della magia avvolse la sua pelle come una nube di fuoco. Allora il Coronal sollevò lo sguardo verso l’improvvisa oscurità sopra di lui e si ritrovò a guardare diritto nelle fauci aperte e gocciolanti di un drago di sangue.

Si trattava dell’incantesimo più micidiale delle casate antiche, una magia di vendetta che prendeva la vita di chi l’aveva risvegliata. La Condanna dei Purosangue, la chiamavano alcuni. Il drago torreggiava sopra di lui, scuro, terribile nella notte, silenzioso quanto una brezza e fatale quanto una pioggia di veleno incantato. A contatto con esso la carne viva si scioglieva, si torceva, sfioriva e si raggrinziva, riducendosi a un putridume grigio e a un groviglio di ossa e di tendini.

Il governatore di Cormanthor rimase in piedi, avvolto nei suo potere, e osservò il drago colpire.

La bestia si abbatté su di lui con una pioggia che scosse l’intera isola, facendo frusciare le foglie tutt’intorno e infrangendo la quiete del lago, che fu solcato da un centinaio d’increspature. Dovunque rotolavano pietre, e il muschio si tramutava in cenere fumante. Ostacolato dalla cupola protettiva di Eltargrim, il drago si girò vorticosamente e ruggì, fluendo in un cerchio rabbioso attorno al re elfo.

Questi rimase fermo, imperturbabile, avvolto dallo scudo protettivo, e guardò la bestia svanire nell’oblio. Ancora una volta il drago sollevò la testa per minacciarlo, ma era solo un’ombra di ciò che era stato pochi attimi prima. Poi scomparve in una nuvola di fumo.

Quando tutto terminò, l’anziano elfo si passò una mano tremante fra i capelli bianchi e si inginocchiò nuovamente accanto alla donna. «Lyntra», esclamò triste, chinandosi a baciarle le labbra dalle quali fuoriuscivano ancora bolle di sangue. «Oh, Lyntra».

A contatto col potere del sovrano, il sangue sulla gola di lei si tramutò in fumo, proprio come aveva fatto il sortilegio mortale. E, quando le lacrime dell’elfo presero a scendere copiose, il fumo aumentò incredibilmente.

Eltargrim lottò per non piangere mentre i campanelli di cristallo tintinnavano nuovamente. L’affievolirsi del suo incantesimo portò alle sue orecchie uno scoppio di risa lontano e la musica chiassosa e selvaggia proveniente dalla festa degli Erladden. Lottò perché egli era il Coronal di Cormanthor, e ciò significava che aveva ancora una cosa da dire prima che il sangue cessasse di fluire e il corpo della donna diventasse freddo.

L’elfo gettò il capo all’indietro per guardare la luna, soffocò un singhiozzo, e abbassando lo sguardo sull’occhio sano di Ildilyntra esclamò con voce roca: «Sarai ricordata con onore».

E se, mentre cullava tristemente il corpo di colei che era ancora la sua amata, il dolore lo sopraffece, nessuno mai lo seppe.

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