Il volto di Fredric si distese. «Be', ne sono lieto. Ho fatto sollevare dall'incarico i responsabili. Saranno frustati e degradati... Quale punizione ti sembra più opportuna, Cavaliere?» «Voglio vederli» disse Eragon.


Un'ombra di apprensione si dipinse sul volto di Fredric; era personalmente qualche terribile, innaturale punizione alle sentinelle. Tuttavia non espresse il suo timore, ma disse: «Se vuoi seguirmi, Cavaliere...»


Li condusse attraverso l'accampamento fino a una tenda a strisce d'alto comando, dove una ventina di uomini dall'aria afflitta si stavano spogliando di armi e corazze sotto l'occhio vigile di una dozzina di guardie. Alla vista di Eragon e ovvio che temeva che Eragon volesse infliggere Saphira, i prigionieri posarono un ginocchio a terra e rimasero immobili, con lo sguardo basso. «Salve, Ammazzaspettri!» gridarono all'unisono.


Eragon non disse niente, ma avanzò lungo la fila di soldati studiando le loro menti. I suoi stivali schiacciavano la crosta di terreno bruciato con un sinistro crepitio. Alla fine disse: «Dovreste essere fieri della prontezza con cui avete reagito alla nostra comparsa. Se Galbatorix dovesse attaccare, è esattamente quello che dovete fare, anche se dubito che le frecce sarebbero efficaci con lui, come non lo sono state con me e con Saphira.» Le sentinelle lo guardarono incredule, i volti pervasi dal sollievo che rilucevano come ottone brunito nella luce variegata. «Vi chiedo soltanto, in futuro, di concedervi un istante per identificare il vostro bersaglio, prima di tirare. La prossima volta potrei essere troppo distratto per fermare i vostri dardi. Sono stato chiaro?»


«Sì, Ammazzaspettri!» gridarono quelli.


Fermandosi davanti al penultimo della fila, Eragon gli porse la freccia che aveva afferrato in volo dal dorso di Saphira. «Credo che questa sia tua, Harwin.»


Con espressione sbigottita, Harwin prese la freccia. «È mia! Dipingo sempre una striscia bianca sull'asta per poterle ritrovare in seguito. Grazie, Ammazzaspettri.»


Eragon annuì e si rivolse a Fredric, ma in maniera tale che tutti potessero sentirlo: «Questi sono uomini valorosi, ed esigo che non accada loro nulla di male per colpa di questo incidente.»


«Ti do la mia parola» disse Fredric, e sorrise.


«Ora puoi condurci da ledy Nasuada?»


«Seguimi, Cavaliere.»


Nel voltare le spalle alle sentinelle, Eragon seppe che il suo gesto gli aveva fatto guadagnare la loro lealtà incondizionata, e che ben presto si sarebbe sparsa notizia dell'episodio fra tutti i Varden.


Il percorso che Fredric seguì fra le tende portò Eragon in contatto ravvicinato con più menti di quante ne avesse mai toccate prima. Centinaia di pensieri, immagini e sensazioni si accalcavano nella sua coscienza. Malgrado gli sforzi per tenerle a distanza, non potè fare a meno di cogliere dettagli frammentari della vita di ciascuno. Trovò alcune rivelazioni sconvolgenti, altre insignificanti, altre ancora commoventi, o al contrario rivoltanti, e molte imbarazzanti. Alcuni individui percepivano il mondo in maniera così diversa che le loro menti gli balzavano subito all'occhio proprio a causa della differenza.


Com'e facile considerare questi uomini nient'altro che oggetti che io e pochi altri possiamo manipolare a nostro piacimento. Eppure ciascuno di loro nutre sogni e speranze, ha in sé il potenziale per futuri successi e ricordi di quanto ha già compiuto. E tutti provano dolore.


Un gruppo di menti che toccò si accorsero del contatto e si ritrassero, nascondendosi dietro barriere di forza diversa. Lì per lì Eragon si preoccupò, immaginando di aver scoperto nemici infiltrati tra i Varden, ma poi si rese conto che si trattava dei singoli membri del Du Vrangr Gata.


Saphira disse: Devi averli spaventati a morte. Penseranno di essere aggrediti da qualche oscuro stregone. Non posso convincerli del contrario finché mi ostacolano in questo modo.


Dovrai incontrarli di persona, e presto, anche, prima che decidano di unire le forze e contrattaccare. Già, anche se non credo che rappresentino una vera minaccia. Du Vrangr Gata... Il loro stesso nome tradisce la loro ignoranza. Nell'antica lingua si dovrebbe dire Du Gata Vrangr.


La camminata terminò nella retroguardia dei Varden, davanti a un grande padiglione rosso su cui sventolava uno stendardo ricamato con uno scudo nero su due spade incrociate. Fredric scostò un lembo della tenda d'ingresso, ed Eragon e Orik entrarono nel padiglione. Dietro di loro, Saphira infilò la testa nell'apertura e sbirciò sopra le loro spalle. Un ampio tavolo occupava il centro della grande tenda. Nasuada era in piedi a un'estremità. Eragon si sentì balzare il cuore nel petto quando vide Arya dall'altro lato. Entrambe erano vestite da battaglia, come guerrieri. Nasuada rivolse lentamente il viso ovale verso di lui.


«Eragon?» mormorò.


Lui rimase colpito nel sentirsi tanto felice di rivederla. Con un gran sorriso, ruotò il polso e si portò la mano al petto, nel gesto di fedeltà degli elfi, e s'inchinò. «Per servirti.»


«Eragon!» Questa volta la voce di Nasuada risuonò colma di gioia e sollievo. Anche Arya sembrava lieta. «Come hai fatto a ricevere il nostro messaggio così in fretta?»


«Non l'ho ricevuto; ho saputo dell'esercito di Galbatorix grazie alla cristallomanzia, e sono partito da Ellesméra il giorno stesso.» Le sorrise di nuovo. «È bello ritrovarsi fra i Varden.»


Mentre parlava, Nasuada lo scrutava con meraviglia. «Che cosa ti è successo, Eragon?»


Arya non deve averle detto nulla, osservò Saphira.


E così Eragon le raccontò per filo e per segno quello che era accaduto a lui e a Saphira da quando l'avevano lasciaI

ta nel Farthen Dùr, tanto tempo prima. Capì che Nasuada era già al corrente di molti episodi, che dovevano averle riferito sia i nani che Arya, ma lei lo lasciò parlare senza interromperlo. Eragon fu costretto a essere piuttosto reticente sul proprio addestramento. Aveva dato la propria parola di non rivelare l'esistenza di Oromis senza il suo consenso, e la maggior parte delle lezioni non doveva essere divulgata a estranei, ma fece del proprio meglio per dare a Nasuada un'idea generale delle proprie capacità e dei rischi che correvano. Riguardo all'Agaeti Blòdhren, disse soltanto: «... e durante la celebrazione, i draghi hanno operato su di me il cambiamento che vedi, dandomi le capacità fisiche di un elfo e guarendomi la schiena.»


«La tua cicatrice è scomparsa, dunque?» chiese Nasuada. Eragon annuì. Bastò qualche altra frase concisa per concludere il racconto, con qualche accenno alla ragione per cui avevano lasciato la Du Weldenvarden e una rapida descrizione del loro viaggio fino al Surda. Nasuada scrollò il capo. «Che storia. Tu e Saphira avete vissuto molto, da quando siete partiti dal Farthen Dùr.»


«Tu non sei stata da meno» disse Eragon, facendo un ampio gesto con la mano. «È stupefacente quello che sei riuscita a realizzare. Dev'essere stata un'impresa colossale, spostare tutti i Varden nel Surda... Il Consiglio degli Anziani ti ha dato problemi?»


«Qualcuno, ma nulla di significativo. A quanto pare, sembrano rassegnati a sottostare alla mia autorità.» La sua cotta d'armi tintinnò quando si sedette su uno scranno dall'alto schienale e si rivolse a Orik, che doveva ancora parlare. Gli porse i suoi saluti e gli domandò se aveva qualcosa da aggiungere al racconto di Eragon. Orik si strinse nelle spalle e narrò un paio di aneddoti sulla loro permanenza a Ellesméra, anche se Eragon ebbe il sospetto che serbasse le sue vere osservazioni per il proprio re.


Quando ebbe finito, Nasuada disse: «Mi rincuora sapere che se riusciremo a sopravvivere a questo attacco, avremo gli elfi dalla nostra. Vi è capitato di scorgere i guerrieri di Rothgar durante il volo da Aberon? Contiamo sui loro rinforzi.» No, rispose Saphira tramite Eragon. Ma era buio, e spesso ho volato sopra e fra le nuvole. In quelle condizioni, avrei potuto facilmente farmi sfuggire un accampamento. Comunque dubito che abbiano seguito il nostro stesso percorso, perché io ho volato diritto da Aberon, mentre i nani devono aver scelto un cammino diverso, magari seguendo le strade battute, piuttosto che avventurandosi nella natura selvaggia.


«Qual è la situazione?» chiese Eragon.


Nasuada sospirò, poi gli raccontò di come lei e Orrin avevano saputo dell'esercito di Galbatorix e delle misure disperate che avevano adottato per raggiungere le Pianure Ardenti prima delle milizie imperiali. Concluse dicendo: «L'Impero è arrivato tre giorni fa. Da allora ci siamo scambiati due messaggi. Nel primo ci hanno chiesto di arrenderci, noi abbiamo rifiutato, e adesso aspettiamo una replica.»


«Quanti sono?» bofonchiò Orik. «Dall'alto sembra un numero impressionante.»


«Già. Secondo le nostre stime, Galbatorix deve aver radunato almeno centomila soldati.»


Eragon non riuscì a trattenersi. «Centomila! Da dove vengono? Sembra impossibile che abbia trovato così tanta gente disposta a servirlo.»


«Sono coscritti. Possiamo soltanto sperare che uomini strappati alle loro case non abbiano tanta smania di combattere. Se riusciamo a intimorirli, potrebbero disertare e fuggire. Noi siamo ben più numerosi che nel Farthen Dùr, perché re Orrin si è unito a noi, e abbiamo accolto un flusso costante di volontari da quando abbiamo cominciato a spargere le voci su di te, Eragon, ma restiamo sempre molto più deboli dell'Impero.»


Poi Saphira chiese, ed Eragon fu costretto a ripetere la terribile domanda: «Quante probabilità di vittoria abbiamo?» «Questo» rispose Nasuada dando particolare enfasi alla parola «dipende in larga misura da te e da Eragon, e dal numero di stregoni che ingrossano le loro fila. Se riuscirete a scovare e distruggere quei maghi, allora i nostri nemici resteranno sguarniti e potrete sterminarli. Una vittoria schiacciante, a questo punto, mi sembra improbabile, ma almeno dovremmo riuscire a tenerli a bada finché non esauriranno le scorte, o finché Islanzadi non accorrerà in nostro aiuto. Questo se... se Galbatorix non scenderà in campo lui stesso. In quel caso, temo che la ritirata sia la nostra unica possibilità.»


In quel preciso momento, Eragon percepì una strana mente avvicinarsi, una mente che sapeva di essere osservata ma non si ritrasse al contatto. Una mente fredda, dura e calcolatrice. Allarmato, si volse e vide in fondo al padiglione la ragazzina dai capelli neri che era comparsa alle spalle di Nasuada quando l'aveva divinata da Ellesméra. La bambina lo guardò con gli occhi violetti, poi disse: «Benvenuto, Ammazzaspettri. Benvenuta, Saphira.»


Eragon rabbrividì al suono della sua voce, una voce da adulta. Con la gola asciutta, chiese: «Chi sei?» Senza rispondere, la bambina si scostò la frangetta nera dalla fronte, per esporre il marchio bianco identico al gedwéy ignasia di Eragon. Fu così che Eragon capì con chi aveva a che fare.


Nessuno si mosse quando lui si avvicinò alla bambina, accompagnato da Saphira che protese ancora di più il collo nel padiglione. Posato un ginocchio a terra, Eragon prese la mano destra della fanciulla; la sua pelle scottava come se avesse la febbre. Lei non oppose resistenza, ma lasciò la mano inerte nella sua. Nell'antica lingua e anche con la mente, perché la bambina potesse capire - Eragon disse: «Sono profondamente addolorato. Potrai mai perdonarmi per ciò che ti ho fatto?»


Lo sguardo della bambina si addolcì. Si protese verso il Cavaliere e lo baciò sulla fronte. «Ti perdono» mormorò, e per la prima volta la sua voce fu quella di una bambina della sua età. «Come potrei non farlo? Tu e Saphira avete fatto di me ciò che sono, e so che non avevi cattive intenzioni. Ti perdono, ma che tu sappia a quale tortura mi hai condannata: la piena consapevolezza di ogni pur minima sofferenza intorno a me. Perfino in questo momento, il tuo incantesimo mi spinge a correre in aiuto dell'uomo che a meno di tre tende di distanza si è tagliato una mano, del giovane alfiere che si è rotto l'indice sinistro fra le stanghe di una ruota, e di tutti coloro che soffrono o stanno per soffrire. Non sai quanto mi costa resistere a questa urgenza, e ancora di più mi costa se provoco deliberatamente un dolore, come sto facendo ora con le mie parole... Non riesco nemmeno a dormire di notte per la forza di questa pressione. Questa è l'eredità che mi hai lasciato, Cavaliere.» Alla fine, la sua voce aveva riacquistato il suo tono amaro e innaturale.


Saphira si interpose fra di loro, e col muso toccò il marchio sulla fronte della bambina. Pace, piccola orfana. C'è troppa rabbia nel tuo cuore.


«Non sarai costretta a vivere così per sempre» disse Eragon. «Gli elfi mi hanno insegnato a disfare un incantesimo, e credo di poterti liberare da questa condanna. Non sarà facile, ma si può fare.»


Per un momento, parve che la bambina perdesse il suo formidabile autocontrollo. Una lieve esclamazione di sorpresa le sfuggì dalle labbra, la sua mano tremò fra quelle di Eragon, e i suoi occhi scintillarono dietro un velo di lacrime. Poi, altrettanto rapidamente, nascose le emozioni dietro una maschera 'di spavaldo cinismo. «Be', vedremo. A ogni buon conto, dovrai aspettare la fine di questa battaglia per provarci.»


«Potrei risparmiarti molte sofferenze già fin d'ora.»


«Non posso permetterti di sprecare le tue energie quando la nostra sopravvivenza dipende da te. Non mi faccio illusioni; so che sei molto più importante di me.» Un sorrisetto astuto le increspò le labbra. «Per giunta, se annulli adesso l'incantesimo, come farò ad aiutare i Varden se vengono minacciati? Non vorrai che Nasuada muoia per questo, vero?»


«Certo che no» ammise Eragon. Fece una lunga pausa per riflettere sul dilemma, poi disse: «D'accordo, aspetterò. Ma ti giuro: se vinceremo questa battaglia, riparerò al torto.»


La bambina inclinò la testa da un lato. «E io ti vincolo alla parola data, Cavaliere.»


Alzandosi dal suo scranno, Nasuada disse: «È stata Elva a salvarmi dal tentativo di omicidio ad Aberon.» «Davvero? In questo caso ti sono ancor più debitore... Elva... per aver protetto la mia signora.»


«Andiamo» li esortò Nasuada. «Devo presentarvi a Orrin e ai suoi nobili. Hai mai incontrato il re, Orik?» Il nano scosse il capo. «Non mi sono mai. spinto così a ovest.»


Nell'uscire dal padiglione, con Nasuada in testa ed Elva che le trotterellava al fianco, Eragon cercò di avvicinarsi ad Arya per poterle parlare, ma c'era quasi riuscito quando l'elfa accelerò il passo per affiancarsi a Nasuada. Arya non lo guardò mai mentre camminava, un disdegno che gli diede più dolore di qualunque ferita fisica. Elva gli rivolse un'occhiata fugace, e lui capì che si era accorta della sua sofferenza.


Ben presto giunsero davanti a un altro padiglione, bianco e giallo, anche se era difficile determinare l'esatta sfumatura dei colori, dato il bagliore arancione che illuminava ogni cosa nelle Pianure Ardenti. Quando fu concesso loro di entrare, Eragon rimase esterrefatto nel trovare la tenda stipata di ogni sorta di alambicchi, ampolle, storte e altri strumenti di filosofia naturale. Chi mai si sarà portato tutta questa roba su un campo di battaglia? si interrogò, perplesso.


«Eragon» disse Nasuada, «vorrei presentarti Orrin, figlio di Larkin e sovrano del regno del Surda.» Dall'intricata foresta di vetro emerse un uomo alto, di bell'aspetto, con i capelli lunghi fino alle spalle tenuti indietro da un cerchietto d'oro che gli cingeva la fronte. La sua mente, come quella di Nasuada, era protetta da barriere di ferro; ovviamente era stato addestrato con zelo a difendersi in quel modo. Eragon ricevette una buona impressione dal loro scambio di frasi, anche se Orrin gli parve un po' acerbo e inesperto quando si trattava di comandare uomini in guerra, e non poco stravagante circa i suoi interessi. Nel complesso, Eragon si fidava molto di più di Nasuada come condottiero. Dopo essersi districato fra le decine di domande che Orrin gli pose sul suo soggiorno fra gli elfi, Eragon si ritrovò a sorridere e ad annuire con garbo davanti a un'interminabile parata di nobili, ciascuno dei quali voleva stringergli la mano, dirgli che era un onore conoscere un Cavaliere, e invitarlo nella sua tenuta. Eragon mandò a memoria a dovere ogni nome e ogni titolo, come avrebbe voluto Oromis, e fece del suo meglio per mantenere un contegno distaccato, anche se dentro fremeva di frustrazione.


Stiamo per affrontare uno dei più grandi eserciti della storia, e stiamo qui a scambiarci convenevoli. Pazienza, lo ammonì Saphira. Ne mancano pochi ormai...


Considerala così: se vinciamo, potremo cenare gratis per un anno intero, con tutti questi inviti.


Eragon represse una risata. Credo che si rimangerebbero la parola, se sapessero quanto ci vuole per sfamarti. Per non parlare di come svuoteresti le loro cantine in una sola notte di bevute.


Non lo farei mai, sbuffò lei. Magari in due.


Quando finalmente presero congedo dal padiglione di Orrin, Eragon chiese a Nasuada: «Che cosa devo fare adesso? Come posso servirti?»


Nasuada lo guardò con una strana espressione. «Come pensi tu di potermi servire meglio, Eragon? Tu sai che cosa sei in grado di fare molto meglio di me.» Perfino Arya lo guardò in quel momento, in attesa di sentire la sua risposta. Eragon alzò gli occhi verso il cielo rosseggiante per riflettere. «Assumerò il controllo del Du Vrangr Gata, come una volta mi chiesero di fare, e li organizzerò per poterli guidare in battaglia. Se agiremo uniti, avremo migliori probabilità di sconfiggere gli stregoni di Galbatorix.»


«Mi sembra un'idea eccellente.»


C'è un posto, intervenne Saphira, dove Eragon può lasciare le bisacce? Non voglio portarle a passeggio più del necessario.


Quando Eragon ripetè la domanda, Nasuada disse: «Ma certo. Puoi deporle nel mio padiglione, e darò disposizioni perché montino una tenda per te, Eragon, dove potrai lasciarle per tutto il tempo che vorrai. Tuttavia ti suggerisco di indossare la tua armatura, prima. Potresti averne bisogno da un momento all'altro... Il che mi rammenta una cosa: abbiamo portato con noi la tua corazza, Saphira. Manderò a prenderla subito.»


«E io che cosa dovrei fare, ledy Nasuada?» chiese Orik.


«Con noi sono venuti diversi knurlan del Dùrgrimst Ingietum, della cui profonda esperienza ci siamo serviti per scavare trincee e innalzare terrapieni. Puoi assumere il loro comando, se lo desideri.»


Orik s'illuminò alla prospettiva d'incontrare altri nani, e per di più del suo stesso clan. Si battè il pugno sul petto e disse: «Lo desidero eccome, mia signora. Ora, se vuoi scusarmi, andrò subito da loro.» E senza indugiare un secondo di più, il nano si volse e si allontanò trotterellando per l'accampamento, puntando a nord, verso le fortificazioni. Tornata al suo padiglione con i quattro rimasti, Nasuada disse a Eragon: «Vieni a riferirmi quando avrai stabilito la strategia col Du Vrangr Gata.» Poi scostò il lembo di tenda dell'ingresso ed entrò nel padiglione, seguita come un'ombra da Elva.


Quando Arya fece per entrare, Eragon tese una mano verso di lei e nell'antica lingua le disse: «Aspetta!» L'elfa si fermò a guardarlo, senza tradire alcuna emozione. Lui sostenne il suo sguardo senza vacillare, fissandola negli occhi, che riflettevano la strana luce intorno a loro. «Arya, non mi scuserò per ciò che provo per te. Ma voglio che tu sappia che mi dispiace per come mi sono comportato durante l'Agaeti Blòdhren. Non ero me stesso quella notte; altrimenti non sarei mai stato così esplicito con te.»


«E non lo farai più?»


Lui le rivolse un sorriso amaro. «Se lo facessi, otterrei forse qualcosa?» Quando lei rimase in silenzio, aggiunse: «Non importa. Non voglio più importunarti, anche se tu...» Si morse le labbra, prima di dire qualcosa di cui sapeva si sarebbe pentito.


L'espressione di Arya si addolcì. «Non ho alcuna intenzione di ferirti, Eragon. Devi capirlo.»


«Capisco» disse lui, ma senza convinzione.


Un lungo, scomodo silenzio seguì fra di loro. «Il volo è andato bene?»


«Abbastanza bene, grazie.»


«Non avete incontrato nessuna difficoltà nel deserto?»


«Avremmo dovuto?»


«No. Volevo soltanto sapere.» Poi, in tono più gentile, Arya gli chiese: «E tu, Eragon? Come sei stato da dopo la celebrazione? Ho ascoltato quello che hai detto a Nasuada, ma non hai parlato che della tua schiena.» «Io...» Eragon cercò di mentire - non voleva che lei sapesse quanto gli era mancata - ma l'antica lingua gli trattenne le parole in gola e lo rese muto. Allora ricorse alla tecnica degli elfi: dire soltanto una parte della verità per dare l'impressione della verità opposta. «Sto meglio di prima» concluse, riferendosi, nella sua mente, soltanto alle condizioni della schiena.


Malgrado il sotterfugio, Arya non parve convinta. Tuttavia non insistette e disse invece: «Ne sono lieta.» La voce di Nasuada risuonò dall'interno del padiglione, e Arya scoccò una rapida occhiata alla tenda prima di parlargli ancora. «Si richiede la mia presenza altrove, Eragon... Anche tu devi andare. Ci aspetta una battaglia.» Sollevando i lembi di tela, l'elfa si accinse a entrare, ma si fermò sulla soglia e voltandosi aggiunse: «Abbi cura di te, Eragon Ammazzaspettri.» E scomparve nel padiglione.


Eragon rimase impietrito dallo sconforto. Aveva fatto quello che desiderava, ma sembrava che non fosse cambiato nulla fra lui e Arya. Strinse i pugni e incurvò le spalle, fissando truce il terreno senza vederlo, fremente di delusione. Trasalì quando Saphira gli sfiorò la spalla con il muso. Andiamo, piccolo mio, gli disse lei con dolcezza. Non puoi restare qui per sempre, e questa sella comincia a darmi fastidio.


Eragon cominciò a slegarle la cinghia del collo, imprecando fra i denti quando la fibbia s'incastrò. Sperò quasi che il cuoio si spezzasse. Dopo aver slegato tutte le altre cinghie, lasciò scivolare la sella e il resto per terra. Mi sento meglio senza quella roba addosso, disse Saphira soddisfatta, sciogliendosi le spalle.


Dalle bisacce, Eragon estrasse i vari elementi della sua armatura e li indossò. Per primo indossò l'usbergo sulla tunica elfica, poi si allacciò gli schinieri e i bracciali. In testa si mise la calotta di pelle imbottita, la cuffia di maglia di acciaio temprato, e infine l'elmo d'oro e d'argento. Infine sostituì i consueti guanti di pelle con quelli d'acciaio. Allacciò in vita la cintura di Beloth il Savio, da cui pendeva Zar'roc sul fianco sinistro. Infilò a tracolla la faretra di frecce dal candido impennaggio che gli aveva donato Islanzadi, e scoprì con piacere che poteva contenere anche l'arco che la regina elfica aveva cantato per lui.


Dopo aver depositato i bagagli suoi e di Orik nel padiglione, Eragon e Saphira andarono in cerca di Trianna, l'attuale guida del Du Vrangr Gata. Non avevano fatto che pochi passi quando Eragon percepì una mente vicina che si schermava dalla sua. Immaginando che si trattasse di uno dei maghi dei Varden, si diressero da quella parte. A una decina di iarde di distanza s'imbatterono in una piccola tenda verde, con un asino legato all'ingresso. A sinistra della tenda ribolliva un calderone di ferro annerito appeso a un tripode di metallo collocato su una delle nauseabonde fiamme che scaturivano dalla terra. Intorno al calderone erano tese corde da cui pendevano mazzetti di belladonna, cicuta, rododendro, sabina, corteccia di tasso, e svariati funghi, fra cui l'amanita falloide e l'ovolaccio, tutte piante che Eragon riconobbe grazie alle lezioni di Oromis sui veleni. Dietro il calderone, intenta a rimestare con un lungo ramaiolo di legno, c'era Angela l'erborista. Ai suoi piedi era acciambellato Solembum.


Il gatto mannaro emise un lugubre miagolio, e Angela alzò gli occhi dall'intruglio fumante, i riccioli neri che le incorniciavano il volto sudato come nuvole tempestose.


Aggrottò la fronte e la sua espressione divenne veramente spettrale, illuminata dal basso dalla tremolante fiamma verde. «E così siete tornati, eh?»


«Siamo tornati» disse Eragon.


«Non hai altro da dire? Hai già incontrato Elva? Hai visto cos'hai fatto a quella povera bambina?» «Sì.»


«Sì!» esclamò Angela. «Fin dove può arrivare l'incapacità di esprimersi di una persona? Tutto questo tempo passato a Ellesméra a farti addestrare dagli elfi, e "Sì" è il massimo che riesci a dire? Lascia che ti dica una cosa, zuccone: chiunque sia abbastanza stupido da fare quello che hai fatto merita di...»


Eragon si strinse le mani dietro la schiena, e aspettò paziente che Angela lo informasse, in termini quanto mai espliciti, dettagliati e coloriti, di che razza di zuccone fosse; che i suoi antenati dovevano essere dei trogloditi per aver generato il colossale zuccone che era - arrivò addirittura a insinuare che uno dei suoi nonni doveva essersi accoppiato con una Urgali; e delle punizioni mai abbastanza atroci che uno zuccone come lui si meritava per una tale idiozia. Se qualunque altra persona lo avesse insultato a quel modo, Eragon l'avrebbe sfidata a duello senza pensarci due volte, ma tollerò il fiume di bile che l'indovina gli vomitò addosso perché sapeva di non poter giudicare il suo comportamento secondo i normali criteri, e perché sapeva che la sua collera era più che giustificata: aveva commesso un terribile errore. Quando Angela s'interruppe per riprendere fiato, Eragon disse: «Hai ragione, e cercherò di annullare l'incantesimo quando la battaglia sarà decisa.»


Angela battè le palpebre tre volte, in rapida successione, mentre la sua bocca restò aperta per un secondo in un muto "Oh", prima di richiudersi di scatto. Con un'occhiataccia torva, gli chiese: «Non lo stai dicendo solo per rabbonirmi, vero?»


«Non lo farei mai.»


«E sul serio intendi annullare la tua maledizione? Credevo che incantesimi del genere fossero irrevocabili.» «Gli elfi hanno scoperto molti modi per usare la magia.»


«Ah... D'accordo, allora, la questione è risolta.» Gli concesse un ampio sorriso, poi lo superò per avvicinarsi a Saphira e accarezzarla sul muso. «È bello rivederti, Saphira. Sei cresciuta.»


Anch'io sono contenta, Angela.


Quando l'indovina tornò a mescolare la sua brodaglia, Eragon disse: «Che sermone impressionante, Angela.» «Ti ringrazio. Ci ho lavorato per diverse settimane. È un peccato che non sia arrivata al finale: è memorabile. Ti andrebbe di sentirlo?»


«No, grazie, mi è bastato così. Il resto me lo immagino.»


Guardandola di sottecchi, Eragon aggiunse: «Non sembri sorpresa di vedere quanto sono cambiato.» L'erborista si strinse nelle spalle. «Ho le mie fonti. È un miglioramento, a mio avviso. Prima eri... oh, come dire?... incompiuto.»


«Già.» Eragon indicò le piante. «A cosa ti servono?»


«Oh, una cosuccia che ho in mente... diciamo una specie di esperimento.»


«Mmm.» Esaminando le sfumature verdastre sul cappello rossiccio di un fungo, Eragon chiese: «Hai poi scoperto se i rospi esistono o no?»


«Ebbene, sì! A quanto pare, tutti i rospi sono rane, ma non tutte le rane sono rospi. Perciò in quel senso i rospi non esistono, il che significa che ho sempre avuto ragione.» Interruppe le sue farneticazioni, si chinò da un lato e prese una tazza dalla panca accanto a lei per offrirla a Eragon. «Gradisci una tazza di té?»


Eragon scoccò un'occhiata alle piante mortali appese a seccare intorno a loro, poi guardò di nuovo il volto cordiale di Angela. Sottovoce, per non farsi sentire dall'erborista, mormorò tre formule per individuare i veleni. Una volta sicuro che il té non era contaminato, osò bere un sorso. Era delizioso, anche se non riuscì a identificarne gli ingredienti. Intanto Solembum si era avvicinato a Saphira e inarcando la schiena aveva cominciato a strusciarsi contro la sua zampa, come avrebbe fatto un gatto qualsiasi. Spostando il collo, Saphira si chinò ad accarezzare il dorso del gatto mannaro col muso. A Ellesméra, disse lei, ho incontrato qualcuno che ti conosce.


Solembum smise di strusciarsi e inclinò la testa da un lato. Davvero?


Sì. Si chiamava Zampalesta oppure la Danzatrice dei Sogni, e anche Maud.


Solembum sgranò gli occhi dorati. Cominciò a fare le fusa, e riprese a strofinarsi contro Saphira con rinnovato entusiasmo.


«E così» disse Angela «immagino che tu abbia già parlato con Nasuada, Arya e re Orrin.» Eragon annuì. «E che ne pensi del buon vecchio Orrin?»


Eragon scelse le parole con cura, ben sapendo che stavano parlando di un re. «Be'... a quanto pare coltiva molti interessi.»


«Già, è più matto di un matto ubriaco alla vigilia della Notte di Mezza Estate. Ma d'altro canto, chi più chi meno, lo siamo un po' tutti.»


Divertito di fronte a tanta schiettezza, Eragon disse: «Effettivamente dev'essere matto per aver trasportato tutti quei vetri da Aberon fin qui.»


Angela inarcò un sopracciglio. «Che vuoi dire?»


«Non sei stata nella sua tenda?»


«A differenza di certa gente» dichiarò lei, tirando su col naso, «io non cerco di ingraziarmi ogni testa coronata che incontro.» E così Eragon le descrisse la moltitudine di delicati strumenti che Orrin si era portato sulle Pianure Ardenti. Angela smise di mescolare mentre lui parlava, ascoltando con interesse sempre maggiore. Nell'istante in cui lui finì, l'indovina cominciò ad affannarsi intorno al calderone, raccogliendo i mazzetti di piante e usando a volte delle pinze per farlo, e disse: «Credo sia opportuno che vada a fare una visitina a Orrin. Voi due mi racconterete del vostro viaggio a Ellesméra un'altra volta... Be', che aspettate? Vi saluto!»


Eragon scosse il capo mentre la donna minuta li incitava ad allontanarsi dalla tenda. Lui aveva ancora la tazza in mano. Parlare con lei è sempre...


Strano? suggerì Saphira.


Esatto.

Nubi di guerra

Dalla tenda di Angela impiegarono quasi mezz'ora per individuare quella di Trianna, che evidentemente fungeva da quartier generale del Du Vrangr Gata. Ebbero difficoltà a trovarla, perché poche persone sapevano della sua esistenza, e ancora meno sapevano dove fosse, visto che era nascosta dietro un affioramento di roccia che serviva da baluardo contro gli sguardi degli stregoni nemici al servizio di Galbatorix.


Mentre Eragon e Saphira si avvicinavano alla grande tenda nera, i lembi dell'ingresso si sollevarono di colpo, e Trianna uscì spedita, le braccia alzate, nude fino ai gomiti, pronta a usare la magia. Alle sue spalle veniva un gruppo di stregoni dall'aria risoluta, anche se lievemente spaventata; Eragon ne aveva già visti molti nel Farthen Dùr, impegnati a combattere o a curare i feriti.


Eragon guardò Trianna e gli altri reagire sorpresi davanti al suo aspetto alterato. Abbassando le braccia, Trianna disse: «Ammazzaspettri, Saphira. Avreste dovuto avvertirci prima che eravate qui. Ci stavamo preparando a combattere quello che pensavamo un nemico formidabile.»


«Non intendevo turbarvi» disse Eragon, «ma dovevamo prima presentarci da Nasuada e re Orrin.» «E perché adesso ci onori della tua graziosa presenza? Non ci hai mai degnato di una visita, noi che siamo i tuoi più stretti fratelli fra i Varden.»


«Sono venuto ad assumere il comando del Du Vrangr Gata.»


L'assemblea di stregoni fu percorsa da un mormorio di meraviglia al suo annuncio, e Trianna s'irrigidì. Eragon sentì che alcuni maghi cercavano di sondare la sua coscienza, nel tentativo di capire le sue reali intenzioni. Invece di difendersi un gesto che lo avrebbe reso cieco a eventuali attacchi - Eragon rispose trapassando le menti degli intrusi abbastanza da costringerli a ritirarsi dietro le loro barriere. Ebbe anche la soddisfazione di vedere due uomini e una donna fare una smorfia e abbassare lo sguardo.


«Per ordine di chi?» chiese Trianna.


«Per ordine di Nasuada.»


«Ah» disse la maga con un sorriso di trionfo, «ma Nasuada non ha alcuna autorità su di noi. Noi aiutiamo i Varden di nostra spontanea volontà.»


La sua resistenza sconcertò Eragon. «Sono sicuro che Nasuada sarebbe sorpresa nel sentirlo, dopo tutto quello che lei, e suo padre, hanno fatto per il Du Vrangr Gata. Potrebbe avere l'impressione che non desideriate più il sostegno e la protezione dei Varden.» Lasciò che la velata minaccia aleggiasse per qualche istante sul gruppo. «E poi mi pare di ricordare che proprio tu mi hai proposto questo incarico, una volta. Perché non adesso?»


Trianna inarcò un sopracciglio. «Tu hai rifiutato quella proposta, Ammazzaspettri... o l'hai dimenticato?» Malgrado l'espressione composta, Eragon notò dal tono della sua voce che la maga era sulla difensiva, sapendo di non poter sostenere oltre la propria posizione. Gli sembrava più matura di quando si erano incontrati l'ultima volta, ed Eragon si rese conto che aveva dovuto affrontare non poche traversie, dalla marcia fino al Surda all'organizzazione degli stregoni del Du Vrangr Gata ai preparativi per la guerra.


«All'epoca non potevo accettare. Era il momento sbagliato.»


Cambiando tattica all'improvviso, Trianna chiese: «Perché


Nasuada ritiene che dovresti comandarci? Suppongo che tu e Saphira sareste molto più utili altrove.» «Nasuada vuole che sia io a condurre il Du Vrangr Gata nella battaglia imminente, e così farò.» Eragon pensò che fosse meglio evitare di dire che era stata un'idea sua.


Un fosco cipiglio conferì a Trianna un aspetto feroce. Indicò il gruppo alle sue spalle. «Abbiamo dedicato la vita allo studio della nostra arte. Tu conosci la magia da meno di due anni. Che cosa ti rende più qualificato per questo incarico di uno qualsiasi di noi? Non importa. Dimmi, invece: qual è la tua strategia? Come pensi di utilizzarci?» «Il mio piano è semplice» rispose lui. «Unirete le vostre menti per cercare gli stregoni nemici. Nel momento in cui ne individuerete uno, aggiungerò la mia forza alla vostra, e insieme schiacceremo la resistenza del mago. Poi potremo sconfiggere il battaglione ormai privo di difese arcane.»


«E cosa farai il resto del tempo?» «Combatterò con Saphira.»


Dopo un lungo silenzio imbarazzato, uno degli stregoni alle spalle di Trianna disse: «È un buon piano.» L'uomo si fece piccolo piccolo sotto lo sguardo severo della maga.


Lentamente, Trianna si volse a guardare di nuovo Eragon. «Da quando sono morti i Gemelli, ho condotto io il Du Vrangr Gata. Sotto la mia guida, hanno fornito ai Varden i mezzi per sovvenzionare questa guerra, hanno scoperto la Mano Nera, la rete di spie di Galbatorix che ha tentato di assassinare Nasuada, per non parlare di innumerevoli altri servigi. Non è vanagloria se affermo che non sono state imprese facili. E sono certa di poter continuare a ottenere simili risultati... Perché, dunque, Nasuada vuole depormi? In che modo l'ho delusa?»


In quel momento, Eragon ebbe chiara la situazione. Si è abituata al potere e non vuole cederlo. Ma soprattutto, considera la sostituzione come una critica alla sua condotta.


Devi risolvere la questione, e alla svelta, disse Saphira. Ormai ci resta pochissimo tempo.


Eragon si arrovellò in cerca di un modo per ribadire la propria autorità sul Du Vrangr Gata senza alienarsi l'appoggio di Trianna. Infine disse: «Non sono venuto qui per creare problemi. Sono venuto a chiedere aiuto.» Si rivolse a all'intera congregazione, ma guardò dritto negli occhi Trianna. «Sono forte, sì. Saphira e io potremmo probabilmente sconfiggere tutti gli stregoni di Galbatorix. Ma non potremmo proteggere tutti i Varden. Non possiamo essere dappertutto. E se gli stregoni guerrieri di Galbatorix unissero i loro sforzi, anche noi avremmo difficoltà a sopravvivere... Non possiamo combattere questa guerra da soli. Tu hai ragione, Trianna... Hai guidato bene il Du Vrangr Gata, e non sono qui per usurpare il tuo posto. È solo che, in quanto mago, ho bisogno di lavorare col Du Vrangr Gata, e in quanto Cavaliere, ho bisogno di darvi ordini, ordini che devo essere sicuro saranno eseguiti senza obiezioni. È necessario definire una gerarchia di comando. Detto questo, continuerete a mantenere gran parte della vostra autonomia. Il più delle volte sarò troppo impegnato per dedicare la mia attenzione al Du Vrangr Gata. E intendo ricorrere ai vostri consigli, perché so bene che avete molta più esperienza di me... Perciò, vi chiedo ancora una volta: ci aiuterete, per il bene dei Varden?» Trianna esitò, poi chinò il capo. «Certo, Ammazzaspettri... per il bene dei Varden. Sarà un onore averti a capo del Du Vrangr Gata.»


«Cominciamo, allora.»


Nel corso delle ore che seguirono, Eragon parlò con ciascuno degli stregoni riuniti, anche se un discreto numero era assente, impegnato in un modo o nell'altro ad aiutare i Varden. Fece del suo meglio per rendersi conto delle loro capacità. Scoprì che la maggior parte degli uomini e delle donne del Du Vrangr Gata erano stati introdotti alle arti magiche da un parente, spesso in gran segreto per evitare di attirare l'attenzione di coloro che temevano la magia, e ovviamente di Galbatorix. Soltanto uno sparuto gruppetto aveva ricevuto un adeguato addestramento. Di conseguenza, la maggioranza degli stregoni conosceva assai poco dell'antica lingua - nessuno la sapeva parlare con disinvoltura - e le loro credenze in fatto di magia erano spesso distorte da superstizioni religiose; in più, ignoravano le numerose applicazioni della negromanzia.


Non c'è da sorprendersi se i Gemelli morivano dalla voglia di carpire il tuo vocabolario nell'antica lingua, quando ti misero alla prova nel Farthen Dùr, osservò Saphira. Grazie a quelle parole, avrebbero avuto gioco facile su questi fattucchieri da quattro soldi.


Sono tutto quello che abbiamo, però.


Vero. Spero che adesso tu ti renda conto che avevo ragione su Trianna. Antepone i suoi desideri al bene comune. Avevi ragione, ammise Eragon. Ma non mi sento di condannarla per questo. Trianna si destreggia nel mondo meglio che può, come facciamo tutti, del resto. La capisco, anche se non l'approvo, e la comprensione, come ha detto Oromis, genera simpatia.


Poco più di un terzo degli stregoni erano specializzati come guaritori. Eragon li congedò, dopo aver insegnato loro cinque nuovi incantesimi da usare per curare una vasta gamma di ferite e malattie. Con il resto, Eragon lavorò per definire una chiara catena di comando - nominò Trianna suo luogotenente affinchè si assicurasse che i suoi ordini venissero eseguiti - e per fondere le diverse personalità in una compatta unità da combattimento. Cercare di convincere dei maghi a collaborare, scoprì, era come cercare di convincere una muta di cani a condividere un osso. Né lo aiutò il timore reverenziale che sembrava suscitare in loro, perché non riusciva lo stesso a trovare il modo di usare la sua influenza per moderare le relazioni fra gli stregoni litigiosi.


Per farsi un'idea migliore delle loro capacità, Eragon ordinò loro di evocare una serie di incantesimi. Quando li vide sforzarsi con formule che ormai lui considerava semplici, si rese conto di quanto i suoi poteri fossero aumentati. A Saphira espresse il suo stupore. E pensare che un tempo avevo difficoltà a sollevare un ciottolo. E pensare, ribattè lei, che Galbatorix ha avuto oltre un secolo per affinare il suo talento.


Il sole era basso a occidente, e intensificava la malsana luce arancione finché l'accampamento dei Varden, il livido Jiet, e la vastità delle Pianure Ardenti non rosseggiò in quel folle, screziato fulgore come la scena del sogno di un pazzo. Il sole aveva appena lambito l'orizzonte quando arrivò un messaggèro. Disse a Eragon che Nasuada voleva vederlo subito. «E credo che sia meglio se ti affretti, Ammazzaspettri, se posso permettermi di dirlo.»


Dopo aver fatto promettere ai membri del Du Vrangr Gata che sarebbero stati pronti a intervenire quando lui li avesse chiamati in aiuto, Eragon corse insieme a Saphira attraverso le file di tende grigie verso il padiglione di Nasuada. Un rauco clamore sopra di loro fece alzare la testa a Eragon.


Vide un gigantesco stormo di uccelli che volteggiavano sui due eserciti. Individuò aquile, falchi e sparvieri, insieme ad avide cornacchie e ai loro più grossi, rapaci cugini dal becco acuminato e il dorso nero, i corvi. Gli uccelli stridevano in attesa del sangue per bagnarsi la gola e di carne calda per riempirsi la pancia e saziare la fame. Per esperienza e istinto, sapevano che ogni volta che compariva un esercito in Alagaésia, presto o tardi avrebbero banchettato con centinaia di carogne.


Le nubi di guerra si addensano, pensò Eragon.

Nar Garzhvog

Eragon non aveva fatto che un passo sulla soglia del padiglione, con Saphira che si affacciava dietro di lui, quando il suo ingresso fu accolto da una salva di scatti metallici, mentre Jòrmundur e un'altra mezza dozzina di comandanti sguainavano le spade davanti agli intrusi. Gli uomini si affrettarono ad abbassare le lame quando Nasuada disse: «Vieni avanti, Eragon.»


«Quali ordini?» chiese Eragon.


«I nostri osservatori ci hanno riferito di una compagnia di oltre cento Kull che avanza da nordest.» Eragon s'incupì. Non si era aspettato di incontrare Urgali in questa battaglia, dato che Durza non li controllava più e che molti erano rimasti uccisi nel Farthen Dùr. Ma se erano venuti, non c'era più tempo di chiedersi come era accaduto. Si sentì ribollire il sangue e si concesse un ghigno feroce al pensiero di distruggere gli Urgali con i suoi nuovi poteri. Battendo una mano su Zar'roc, proclamò: «Sarà un piacere sterminarli. Saphira e io possiamo occuparcene da soli, se lo desideri.»


Nasuada scrutò con attenzione il suo volto e disse: «Non possiamo farlo, Eragon. Portano una bandiera bianca e hanno chiesto di parlare con me.»


Eragon la fissò sbalordito. «Non intenderai concedere loro udienza?»


«Gli riserverò la stessa cortesia che offrirei a qualsiasi nemico che sventola la bandiera della tregua.» «Ma sono dei barbari! Dei mostri! È una follia farli entrare nell'accampamento... Nasuada, ho visto le atrocità che commettono gli Urgali. Adorano il sangue e le sofferenze, e non meritano più pietà di un cane rabbioso. Non occorre che tu perda tempo per quella che è sicuramente una trappola. Di' solo una parola, e andrò più che volentieri a uccidere quelle brutali creature per te.»


«Devo ammettere» disse Jòrmundur «che in questo concordo con Eragon. Se non vuoi ascoltare noi, Nasuada, almeno dai retta a lui.»


Nasuada abbassò la voce perché soltanto Eragon udisse. «Il tuo addestramento è davvero incompiuto se sei ancora così cieco.» Poi alzò il tono, e in esso Eragon percepì le stesse adamantine note di comando che possedeva suo padre. «Voi tutti dimenticate che anch'io ho combattuto nel Farthen Dùr, e ho assistito alle atrocità degli Urgali... Tuttavia ho visto i nostri uomini commettere gesti altrettanto spregevoli. Non è mia intenzione sminuire le sofferenze che abbiamo patito per mano degli Urgali, ma nemmeno ignorare potenziali alleati quando l'Impero è in superiorità numerica così schiacciante.»


«Mia signora, è troppo pericoloso incontrarti con un Kull.»


«Troppo pericoloso?» Nasuada inarcò un sopracciglio. «Mentre sono protetta da Eragon, Saphira, Elva e tutti i miei guerrieri? Non credo.»


Eragon digrignò i denti per la frustrazione. Di' qualcosa, Saphira. Tu puoi convincerla a desistere da questo folle progetto.


No, non lo farò. La tua mente è annebbiata in questo momento.


Sei d'accordo con lei! esclamò Eragon, sgomento. Tu eri a Yazuac con me; hai visto che cos'hanno fatto gli Urgali agli abitanti del villaggio. E che mi dici di Teirm, della mia cattura a Gil'ead, e del Farthen Dùr? Ogni volta che abbiamo incontrato Urgali, hanno cercato di ucciderci, o peggio. Non sono altro che bestie spietate.


Gli elfì pensavano la stessa cosa dei draghi, durante la Du Fyrn Skulblàka.


A un cenno di Nasuada, le guardie sollevarono e legarono i lembi di stoffa dell'ingresso e dei lati del padiglione, affinchè tutti potessero vedere, e Saphira si accovacciò accanto a Eragon. Poi Nasuada si sedette sull'alto scranno, mentre Jòrmundur e gli altri comandanti si disponevano in due file parallele, in modo che chiunque volesse parlare con lei dovesse camminare fra di loro. Eragon rimase in piedi alla sua destra, Elva a sinistra.


Meno di cinque minuti dopo, un enorme ruggito di rabbia proruppe dal confine orientale dell'accampamento. La tempesta di grida e insulti si fece sempre più assordante finché non comparve un Kull solitario, che avanzava verso Nasuada, mentre una folla di Varden si divertiva a stuzzicarlo. L'Urgali - o ariete, come Eragon ricordò che venivano chiamati - teneva la testa alta e mostrava le zanne gialle, ma per il resto non reagì in alcun modo agli abusi perpetrati. Era un esemplare magnifico, alto più di otto piedi, con lineamenti forti, orgogliosi, quantunque grotteschi, un paio di enormi corna ritorte e una muscolatura possente che gli dava l'aria di chi avrebbe potuto abbattere un orso con un pugno. Indossava soltanto un cencio annodato sui lombi, alcune placche di ferro grezzo tenute insieme da brandelli di maglia, e un disco di metallo concavo fra le corna per proteggersi la testa. Sulla schiena ondeggiava una lunga, folta coda di capelli neri.


Eragon si sentì contrarre le labbra in una smorfia di puro odio; frenò a stento l'impulso di estrarre Zar'roc per attaccare. Eppure, malgrado tutto, non poteva fare a meno di ammirare il coraggio dell'Urgali nell'affrontare, solo e disarmato, un intero esercito nemico. Con sua sorpresa, trovò la mente del Kull protetta da tenaci barriere.


Quando l'Urgali si fermò davanti all'ingresso del padiglione, esitante, Nasuada ordinò alle sue guardie di intimare il silenzio alla folla. Tutti guardavano l'Urgali, chiedendosi che cosa avrebbe fatto.


L'Urgali alzò le braccia muscolose verso il cielo, trasse un potente respiro, poi spalancò la bocca ed emise un grido belluino contro Nasuada. In un lampo, il Kull si ritrovò circondato da una foresta di spade, ma non vi badò, continuando a ululare fino a svuotarsi i polmoni. Poi guardò Nasuada, ignorando le centinaia di persone che, era ovvio, non vedevano l'ora di ucciderlo, e ringhiò nel suo accento rozzo e gutturale: «Che trappola è mai questa, ledy Furianera? Mi è stato promesso un passaggio sicuro. Gli umani non rispettano forse la parola data?» Fatto un passo avanti, uno dei comandanti di Nasuada disse: «Permettici di punirlo, signora, per la sua insolenza. Una volta che gli avremo insegnato il significato del rispetto, allora potrai ascoltare il suo messaggio, qualunque esso sia.»


Eragon avrebbe voluto restare in silenzio, ma conosceva i suoi obblighi nei confronti di Nasuada e dei Varden, così si chinò su di lei e le mormorò all'orecchio: «Non era un'offesa. Quello è il loro modo di salutare i comandanti. La risposta adeguata sarebbe far cozzare le teste, ma dubito che tu voglia provarci.»


«Sono stati gli elfi a insegnartelo?» mormorò lei, senza staccare gli occhi dal Kull.


«Sì.»


«E cos'altro ti hanno insegnato sugli Urgali?»


«Molte cose» ammise lui, a malincuore.


Nasuada si rivolse al Kull, come a tutti i presenti. «I Varden non sono menzogneri come Galbatorix e l'Impero. Parla liberamente; non devi temere alcun pericolo finché siamo riuniti in consiglio sotto il vessillo della tregua.» L'Urgali grugnì e levò il mento sporgente, esponendo la gola; Eragon riconobbe il gesto d'amicizia. Abbassare la testa, per la loro razza, equivaleva a una minaccia, perché significava che un Urgali intendeva caricare con le corna. «Io sono Nar Garzhvog, della tribù dei Bolvek. Parlo a nome del mio popolo.» Sembrava che masticasse ogni parola prima di sputarla. «Gli Urgali sono odiati più di qualsiasi altra razza. Elfi, nani, umani, tutti ci danno la caccia, bruciano le nostre tane e ci cacciano dalla nostra terra.»


«Non senza buone ragioni» puntualizzò Nasuada.


Garzhvog annuì. «Non senza buone ragioni. Il nostro popolo ama la guerra. Eppure quanto spesso veniamo attaccati solo perché ci trovate ripugnanti, nella stessa misura in cui voi fate ribrezzo a noi? Dalla caduta dei Cavalieri la nostra razza ha prosperato. Le nostre tribù adesso sono così numerose che l'arida terra su cui viviamo non ci basta più.» «E così avete stretto un patto con Galbatorix.»


«Sì, ledy Furianera. Ci ha promesso della buona terra se uccidevamo i suoi nemici. Ma ci ha ingannati. Il suo sciamano dai capelli di fuoco, Durza, ha piegato le menti dei nostri comandanti e ha costretto le nostre tribù a collaborare, come non è nostra usanza. Quando lo abbiamo capìto, nella montagna cava dei nani, le Herndall, le madri che ci governano, hanno deciso di inviare la mia compagna presso Galbatorix a chiedere perché ci aveva usati così.» Garzhvog scosse la poderosa testa. «Non è mai tornata. I nostri arieti migliori sono morti per Galbatorix, e lui ci ha abbandonati come una lama spezzata. È un drajl, un infame traditore senza corna. ledy Furianera, siamo rimasti in pochi, ma combatteremo con voi, se lo vorrai.»


«A quale prezzo?» chiese Nasuada. «Le tue Herndall devono volere qualcosa in cambio.»


«Sangue. Il sangue di Galbatorix. E se l'Impero cade, chiediamo di darci delle terre, terre per vivere e crescere, terre per evitare altre guerre in futuro.»


Eragon intuì la decisione di Nasuada dalla sua espressione ancor prima che parlasse. E lo stesso dovette capire Jòrmundur, perché si sporse verso di lei e mormorò: «Nasuada, non puoi farlo. È contro natura.» «La natura non può aiutarci a sconfiggere l'Impero. Abbiamo bisogno di alleati.»


«Gli uomini diserteranno piuttosto di combattere fianco a fianco con gli Urgali.»


«Questo ostacolo si può aggirare. Eragon, gli Urgali terranno fede al patto?»


«Soltanto finché avremo un nemico comune.»


Con un brusco cenno del capo, Nasuada alzò di nuovo la voce: «D'accordo, Nar Garzhvog. Tu e i tuoi guerrieri potete accamparvi lungo il fianco orientale del nostro esercito, lontani dal corpo principale, e in seguito discuteremo i termini dell'accordo.»


«Ahgrat ukmar» ringhiò il Kull, battendosi i pugni sulla


fronte. «Sei una saggia Herndall, ledy Furianera.»


«Perché mi chiami così?»


«Herndall?»


«No, Furianera.»


Garzhvog emise un rauco gorgoglio che Eragon interpretò come una risata. «Furianera è il nome che abbiamo dato a tuo padre per come ci inseguiva negli oscuri tunnel della montagna cava e per il colore della sua pelle. Tu, che sei sua figlia, meriti lo stesso nome.» Con queste parole, il Kull si volse e si allontanò a grandi passi dal padiglione. Alzandosi, Nasuada proclamò: «Chiunque attacchi un Urgali verrà punito come se avesse attaccato un compagno umano. Che il mio ordine venga diffuso in ogni compagnia.»


Aveva appena finito di parlare, quando Eragon notò re Orrin arrivare trafelato, il lungo mantello che gli svolazzava sui polpacci. Quando fu abbastanza vicino, gridò: «Nasuada! È vero che ti sei incontrata con un Urgali? Che cosa intendevi fare, e perché non sono stato avvertito prima? Io non...»


Il re fu interrotto da una sentinella che emerse dalla moltitudine di tende grigie, gridando: «Un uomo a cavallo, mandato dall'Impero!»


Re Orrin interruppe subito la sua protesta per seguire Nasuada che correva verso l'avanguardia dell'esercito, seguita da almeno un centinaio di soldati. Piuttosto che rimanere bloccato dalla folla, Eragon montò in groppa a Saphira e si fece portare da lei a destinazione.


Quando Saphira si fermò vicino al terrapieno, le trincee e le file di pali acuminati che proteggevano la prima linea dei Varden, Eragon vide un soldato solitario avanzare al galoppo sfrenato lungo la terra di nessuno. I rapaci si abbassarono in volo per vedere se era arrivato l'antipasto del banchetto imminente.


Il soldato tirò le redini del suo nero stallone a trenta iarde dalle fortificazioni, fermandosi a una ragionevole distanza di sicurezza dai Varden, e gridò: «Rifiutando la generosa offerta di resa di re Galbatorix, avete scelto di morire. Non ci sarà più alcun negoziato. La mano tesa in segno di amicizia si è trasformata in un pugno di ferro! Se qualcuno di voi rispetta ancora il nostro legittimo sovrano, l'onnipotente, l'onnisciente re Galbatorix, che fugga! Nessuno sopravviverà quando l'esercito imperiale provvedere a far piazza pulita in Alagaésia di ogni miscredente, traditore e sovversivo. E per quanto questo addolori il nostro sovrano, perché sa che la maggior parte di questi atti di ribellione sono stati istigati da capi invidiosi e dissidenti, puniremo com'è giusto il riottoso territorio noto come Surda per restituirlo alla benevola guida di re Galbatorix, lui, che si sacrifica giorno e notte per il bene del suo popolo. Perciò fuggite, vi dico, o subirete il destino del vostro araldo.»


Il soldato slegò i cordoni di una sacca di tela che teneva appesa al fianco ed estrasse una testa mozzata. La scagliò in aria e la guardò cadere fra i Varden; poi fece voltare lo stallone, gli piantò gli speroni nei fianchi e tornò al galoppo verso la massa scura dell'esercito di Galbatorix.


«Devo ucciderlo?» chiese Eragon.


Nasuada scosse il capo. «Avremo presto la nostra vendetta. Non violerò la sacralità dei messaggèri, come ha fatto l'Impero.»


«Come...» Eragon trasalì di sorpresa e si afferrò al collo di Saphira per non cadere di sella, quando la dragonessa si impennò, piantando le zampe davanti sulla terra livida e compatta del bastione. Spalancando le fauci, Saphira lanciò un lungo, profondo ruggito, come aveva fatto Garzhvog: ma questo era una sfida aperta ai suoi nemici, un avvertimento dell'ira che avevano suscitato e un appello per tutti coloro che odiavano Galbatorix.


Il suono della sua voce tonante spaventò tanto lo stallone da farlo scartare. Il cavallo scivolò sul terreno bollente e cadde. Il soldato fu sbalzato di sella e piombò su una vampa di fuoco verde che eruttò proprio in quel momento. Lanciò un solo grido, così orribile che fece arricciare il cuoio capelluto di Eragon. Poi calò un silenzio di morte. Gli uccelli cominciarono a scendere.


I Varden acclamarono Saphira. Perfino Nasuada si concesse un breve sorriso. Poi battè le mani e disse: «Attaccheranno all'alba, presumo. Eragon, riunisci il Du Vrangr Gata e preparati all'azione. Ti farò avere ordini entro un'ora.» Cingendo le spalle di re Orrin, Nasuada lo ricondusse gentilmente verso il centro dell'accampamento. «Sire, bisogna prendere delle decisioni. Ho in mente un certo piano, ma occorre...»


Che vengano, disse Saphira. La punta della sua coda fremeva come quella di un gatto appostato davanti alla tana di un topo. Bruceranno tutti.

Pozione di strega

La notte era calata sulle Pianure Ardenti. La cappa di fumo opaco oscurava la luna e le stelle, sprofondando la terra in una fitta tenebra, interrotta soltanto dagli improvvisi bagliori dei fuochi di torba e dalle migliaia di torce accese nei due schieramenti opposti. Dalla postazione avanzata di Eragon, l'esercito imperiale sembrava un denso tappeto di braci rosseggianti, vasto quanto una città.


Quando ebbe finito di allacciare l'ultimo elemento della corazza di Saphira sulla sua coda, Eragon chiuse gli occhi per concentrarsi sul contatto mentale con gli stregoni del Du Vrangr Gata. Aveva imparato a localizzarli in un istante; la sua vita dipendeva dalla rapidità e dalla precisione con cui riusciva a comunicare con loro. A loro volta, gli stregoni avevano imparato a riconoscere il contatto della sua mente per non bloccarlo quando li chiamava in aiuto. Eragon sorrise e disse: «Ciao, Orik.» Aprì gli occhi e vide il nano arrampicarsi sul basso poggio roccioso su cui erano appostati lui e Saphira. Orik, in perfetta tenuta da combattimento, impugnava il suo arco di corna di Urgali nella mano sinistra.


Accovacciandosi al suo fianco, Orik si asciugò la fronte e scosse la testa. «Come sapevi che ero io? La mia mente era protetta.»


Ogni coscienza proietta una sensazione diversa, spiegò Saphira. Così come due voci non hanno mai lo stesso timbro. «Ah.»


Eragon chiese: «Come mai qui?»


Orik si strinse nelle spalle. «Ho pensato che forse ti andava un po' di compagnia in questa triste notte. Arya è impegnata altrove, e non hai più Murtagh a combattere al tuo fianco.»


Quanto vorrei che ci fosse, pensò Eragon. Murtagh era stato l'unico umano in grado di eguagliare Eragon con la spada, almeno fino all'Agaeti Blòdhren. Duellare con lui era stato uno dei pochi piaceri che Eragon avesse assaporato nel periodo che avevano passato insieme. Mi piacerebbe misurarmi ancora con te, amico mio.


Ripensando a come Murtagh era rimasto ucciso - trascinato nel sottosuolo del Farthen Dùr dagli Urgali - Eragon si trovò ad affrontare una desolante verità: anche se eri un guerriero valoroso, era soltanto il caso che dettava chi doveva vivere o morire in guerra.


Orik dovette avvertire il suo stato d'animo, perché battè


il palmo sulla spalla di Eragon e disse: «Andrà tutto bene. Pensa a come si devono sentire quei soldati là fuori, sapendo che ben presto dovranno affrontare te!»


La gratitudine strappò un sorriso a Eragon. «Sono contento che tu sia venuto.»


La punta del naso di Orik arrossì, e il nano abbassò lo sguardo, rigirandosi l'arco fra le mani nodose. «Ah, be'» borbottò, «Rothgar non mi perdonerebbe mai se permettessi che ti accadesse qualcosa. E poi siamo fratelli adottivi, no?»


Attraverso Eragon, Saphira chiese: E gli altri nani? Non sono ai tuoi comandi?


Uno scintillio illuminò gli occhi di Orik. «Oh, sì, e ci raggiungeranno presto. In quanto membri del Dùrgrimst Ingietum, è nostro sacrosanto dovere combattere insieme l'Impero. Così voi due non sarete troppo vulnerabili; potrete concentrarvi a scoprire gli stregoni di Galbatorix, invece di difendervi da costanti attacchi.»


«Buona idea. Ti ringrazio.» Orik borbottò un assenso. Poi Eragon chiese: «Cosa ne pensi di Nasuada e degli Urgali?» «Ha fatto la scelta giusta.»


«Sei d'accordo con lei!»


«Sì. Non mi piace come non piace a te, ma sono d'accordo.»


Seguì un lungo silenzio. Eragon sedeva appoggiato al fianco di Saphira e guardava l'Impero, sforzandosi di tenere a bada l'apprensione crescente. I minuti passavano lenti e inesorabili. L'attesa della battaglia per lui era snervante quanto la battaglia stessa. Ingrassò la sella di Saphira, lucido il proprio usbergo e riprese a familiarizzare con le menti del Ehi Vrangr Gata, facendo di tutto pur di passare il tempo.


Un'ora dopo, percepì due esseri che si avvicinavano dalla terra di nessuno. Angela? Solembum? Perplesso e allarmato, svegliò Orik, che si era appisolato, e gli disse che cosa aveva scoperto.


Il nano aggrottò la fronte ed estrasse l'ascia di guerra dalla cintura. «Ho incontrato l'erborista soltanto un paio di volte, ma non mi sembra il tipo da tradirci. Frequenta i Varden da decenni ormai.»


«Dobbiamo comunque scoprire che cosa stava facendo» disse Eragon.


Insieme si inoltrarono nell'accampamento per intercettare la coppia che si avvicinava alle fortificazioni. Ben presto Angela arrivò nella luce, con Solembum che le trotterellava dietro. L'indovina era coperta da un lungo, scuro mantello che le consentiva di confondersi nell'ambiente circostante. Mostrando una sorprendente forza e agilità, superò le fortificazioni di diversa natura che i nani avevano eretto, volteggiando di palo in palo e saltando oltre le trincee, e infine corse giù per la scarpata dell'ultimo bastione per fermarsi, ansante, davanti a Saphira.


Gettando indietro il cappuccio, Angela rivolse ai tre un sorriso radioso. «Un comitato d'accoglienza! Gentile da parte vostra.» Mentre parlava, il corpo del gatto mannaro fu percorso da un brivido che gli increspò il pelo. Poi i suoi contorni tremolarono, come visti attraverso l'acqua, e si trasformarono nella nuda figura del giovanetto dai capelli irti. Angela frugò nella propria borsa e gli passò una tunica da ragazzo e un paio di calzoni, insieme al piccolo pugnale nero con cui combatteva.


«Che ci facevate là fuori?» chiese Orik, squadrandoli con sospetto.


«Oh, un giretto.»


«Faresti meglio a dirci la verità» disse Eragon.


Il volto dell'indovina si adombrò. «Ah, sì? Non ti fidi di me e di Solembum?» Il gatto mannaro snudò i denti aguzzi. «Non proprio» ammise Eragon, con un debole sorriso.


«Bravo» disse Angela, e gli posò una mano sulla guancia.


«Così vivrai più a lungo. Se proprio vuoi saperlo, stavo facendo del mio meglio per sconfiggere l'Impero, solo che i miei metodi non prevedono di andare in giro urlando a squarciagola e mulinando una spada.»


«E quali sarebbero i tuoi metodi?» brontolò Orik.


Lì per lì Angela non rispose, ma si tolse il mantello, lo arrotolò e infilò il fagotto nella borsa. «Preferirei non dirlo; voglio che sia ima sorpresa. Non dovrete aspettare molto per scoprirlo. Comincerà fra poche ore.»


Orik si tirò la barba. «Cosa comincerà? Se non ci dai subito una risposta precisa, ti porteremo da Nasuada. Forse lei riuscirà a ridurti alla ragione.»


«È inutile portarmi da Nasuada» ribattè Angela. «È stata lei a darmi il permesso di attraversare le linee.» «Lo dici tu» la sfidò Orik, sempre più bellicoso.


«Lo dico io» dichiarò Nasuada, sopraggiungendo alle loro spalle, come Eragon aveva già percepito. Sentì anche che era scortata da quattro Kull, fra cui Garzhvog. Scuro in volto, si voltò ad affrontarli, senza celare la rabbia che provava davanti agli Urgali.


«Mia signora» mormorò Eragon.


Orik non fu altrettanto composto; fece un balzo all'indietro lanciando una potente imprecazione e brandendo l'ascia. Quando si rese conto che non erano stati attaccati, salutò Nasuada con rispetto. Ma la sua mano non abbandonò mai il manico dell'arma e il suo sguardo non si staccò dai torreggianti Urgali. Angela sembrava non condividere i loro pregiudizi. Tributò a Nasuada il rispetto dovuto, poi si rivolse agli Urgali nel loro rauco linguaggio, e i quattro risposero con evidente entusiasmo.


Nasuada trasse Eragon in disparte per poter parlare da solo. Poi disse: «Voglio che per il momento tu metta da parte i tuoi sentimenti e giudichi quanto sto per dirti con logica e raziocinio. Lo farai?» Lui annuì, impassibile. «Bene. Sto facendo di tutto per scongiurare una sconfitta domani. Ma non servirà a niente combattere con valore, o persino mandare in rotta l'Impero, se tu» e gli piantò l'indice sul petto «resti ucciso. Capisci?» Lui annuì di nuovo. «Non c'è niente che io possa fare se Galbatorix scenderà in campo; in quel caso, dovrai affrontarlo da solo. Per lui, il Du Vrangr Gata non rappresenta una minaccia più di quanto non lo sia per te, e non li manderò allo sbaraglio senza una buona ragione.»


«Ho sempre saputo» disse Eragon «che avrei dovuto affrontare Galbatorix da solo, insieme a Saphira.» Un triste sorriso affiorò sulle labbra di Nasuada. Sembrava molto stanca nella tremula luce delle fiaccole. «Be', non c'è motivo di crearsi problemi che non esistono. È possibile che Galbatorix nemmeno ci sia.» Ma lei stessa sembrava poco convinta delle proprie parole. «Comunque, posso almeno impedirti di morire con una spada infilata nel ventre. Ho sentito che cosa intendono fare i nani, e ho pensato di sfruttare l'idea. Ho chiesto a Garzhvog e a tre dei suoi arieti di farti da guardie del corpo, purché acconsentissero, come hanno fatto, a lasciarsi esaminare la mente da te.» Eragon s'irrigidì. «Non puoi aspettarti che combatta con quei mostri. Oltretutto ho già accettato l'offerta di protezione dei nani per me e Saphira. La prenderebbero male se li allontanassi in favore degli Urgali.»


«Possono entrambi vegliare su di te» ribatte Nasuada. Il capo dei Varden guardò a lungo il volto di Eragon, in cerca di quello che non poteva dire. «Oh, Eragon. Speravo che riuscissi a guardare oltre il tuo odio. Che cos'altro faresti nei miei panni?» Sospirò quando lui rimase in silenzio. «Se c'è qualcuno che ha tutto il diritto di covare rancore per gli Urgali, quella sono io. Hanno ucciso mio padre. Eppure non posso permettere che questo interferisca sulle decisioni da prendere per il bene dei Varden... Almeno chiedi l'opinione di Saphira, prima di rispondere sì o no. Potrei ordinarti di accettare la protezione degli Urgali, ma preferirei di no.»


Ti stai comportando da sciocco, disse Saphira senza essere interpellata.


Sciocco a non volere che i Kull mi guardino la schiena?


No, sciocco a rifiutare un aiuto, da qualunque parte provenga, nella nostra attuale situazione. Rifletti. Sai che cosa farebbe Oromis al posto tuo, e sai che cosa direbbe. Non ti fidi del suo giudizio?


Non può avere sempre ragione su tutto, protestò Eragon.


Questa non è una scusa... Cerca dentro di te, Eragon, e dimmi se dico il vero. Tu conosci la via giusta. Mi deluderesti, se ti ostinassi a non seguirla.


Le argomentazioni di Saphira e Nasuada non fecero che accrescere la sua riluttanza. Eppure sapeva di non avere scelta. «D'accordo, accetto di farmi proteggere dagli Urgali, a patto di non trovare niente di sospetto nelle loro menti. Ma mi prometti di non farmi mai più vedere un Urgali, dopo questa battaglia?»


Nasuada scosse il capo. «No, non posso farlo, non quando è in gioco il bene dei Varden.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Oh, Eragon?»


«Sì, mia signora?»


«In caso di morte, ho scelto te come mio successore. In tale eventualità, ti suggerisco di affidarti al parere di Jòrmundur, che ha molta più esperienza di ogni altro membro del Consiglio degli Anziani, e mi aspetto che anteporrai a ogni altra cosa il benessere di coloro che sono sottoposti a te. Sono stata chiara, Eragon?»


L'annuncio lo colse di sorpresa. Niente era più importante per lei dei Varden. Affidarli a lui era il più grande atto di stima che potesse esprimergli. La sua fiducia lo umiliò e lo commosse; chinò il capo. «Farò di tutto per essere un buon capo come te e Ajihad. Tu mi onori, Nasuada.»


«Sì, ti onoro.» Voltandogli le spalle, si riunì agli altri.


Il turbamento provocato dalla rivelazione di Nasuada mitigò la sua rabbia. Tornò lentamente da Saphira. Studiò Garzhvog e gli altri Urgali, cercando di intuire il loro umore, ma i loro lineamenti erano così diversi da quelli a cui era abituato che non poteva distinguere se non le emozioni più evidenti. Né trovò comprensione dentro di sé per gli Urgali. Ai suoi occhi, non erano che bestie feroci che lo avrebbero ucciso senza pensarci due volte, incapaci di amore, gentilezza, o perfino vera intelligenza. In poche parole, erano creature inferiori.


Nel profondo della sua mente, Saphira mormorò: Sono sicura che Galbatorix la pensa allo stesso modo. E per buone ragioni, ringhiò lui, con l'intenzione di impressionarla. Soffocando la sua ripugnanza, disse ad alta voce: «Nar Garzhvog, mi è stato detto che voi quattro avete acconsentito a farmi entrare nelle vostre menti.» «È così, Spadarossa. ledy Furianera ci ha detto che era necessario. Siamo onorati di avere l'occasione di combattere con un guerriero così potente, che tanto ha fatto per noi.»


«Che cosa significa? Ho ucciso decine di Urgali.» All'improvviso, gli sovvennero alcuni brani tratti da una delle pergamene di Oromis. Ricordò di aver letto che gli Urgali, sia maschi che femmine, stabilivano la gerarchia sociale per mezzo di scontri diretti fra due contendenti, ed era stata questa usanza a scatenare tanti conflitti fra gli Urgali e le altre razze. Il che significava - si rese conto Eragon - che se ammiravano le sue gesta in battaglia gli avrebbero accordato lo stesso status di uno dei loro condottieri.


«Uccidendo Durza, ci hai liberati dalla sua influenza. Siamo in debito con te, Spadarossa. Nessuno dei nostri arieti ti sfiderà mai, e se tu e il tuo drago, Lingua di Fuoco, visiterete le nostre dimore, sarete i benvenuti come non è mai accaduto ad alcun estraneo.»


Di tutte le reazioni che Eragon si era aspettato, la gratitudine era la più improbabile, e quella che era meno preparato ad accettare. Incapace di pensare a qualcosa, disse soltanto: «Non lo dimenticherò.» Fece scorrere lo sguardo sugli altri Urgali, poi tornò a fissare gli occhi gialli di Garzhvog. «Siete pronti?»


«Sì, Cavaliere.»


Non appena Eragon entrò in contatto con la coscienza di Garzhvog, gli venne in mente come si era sentito quando i Gemelli lo avevano frugato prima che entrasse nel Farthen Dùr. La memoria si dissolse mentre s'immergeva nell'identità dell'Urgali. La vera natura della sua ricerca significava che Eragon doveva esaminare deliberatamente dolore, ma non fu nemmeno troppo delicato. Sentì Garzhvog fremere per occasionali fitte di disagio. Come quella dei nani e degli elfi, la mente di un Urgali possedeva elementi diversi rispetto a una mente umana. La sua struttura enfatizzava la rigidità e la gerarchia - un risultato del modo in cui le tribù stesse si organizzavano - ma aveva una qualità rozza e dura, brutale e astuta: la mente di un animale.


Anche se non fece alcuno sforzo per saperne di più su Garzohvog come individuo, Eragon non potè fare a meno di assorbire frammenti della sua vita. Garzhvog non oppose resistenza. Al contrario, sembrava più che desideroso di condividere le sue esperienze, per convincere Eragon che gli Urgali non erano i suoi nemici naturali. Non possiamo permetterci che un altro Cavaliere insorga per distruggerci, dichiarò Garzhvog. Guarda bene, Spadarossa, e vedi se siamo davvero i mostri che tu dici...


Fra di loro guizzarono così tanti lampi di immagini e sensazioni che Eragon si sentì smarrito: l'infanzia di Garzhvog con gli altri membri della cucciolata, in un villaggio di catapecchie annidato nel cuore della Grande Dorsale; la madre che gli pettinava i capelli con le corna di un cervo cantandogli una dolce nenia; le corse nei boschi per imparare a cacciare cervi e altre prede a mani nude; il suo corpo che cresceva sempre di più e il buon sangue che non mentiva, promettendo di fargli superare gli otto piedi di altezza, facendo di lui un Kull; le decine di sfide che aveva lanciato, accettato e vinto; le incursioni al di fuori del villaggio per acquistare fama e trovare così una compagna per riprodursi; come aveva imparato gradualmente a odiare e temere - sì, temere - un mondo che condannava la sua razza; la scoperta di come Durza li aveva manipolati; e la presa di coscienza che l'unica loro speranza era deporre gli antichi rancori, allearsi ai Varden e sconfiggere Galbatorix. Da nessun parte Eragon trovò prove che Garzhvog stesse mentendo. Non riusciva a comprendere ciò che aveva visto. Allontanatosi dalla mente di Garzhvog, indagò quelle degli altri tre Urgali. I loro ricordi confermarono i fatti presentati da Garzhvog. Non fecero alcun tentativo di nascondere che avevano ucciso molti umani, ma lo avevano fatto su ordine di Durza, quando lo Spettro li controllava, o quando combattevano gli umani per cibo e terra. Abbiamo fatto quello che dovevamo per proteggere le nostre famiglie, dissero. Quando Eragon ebbe finito, guardò Garzhvog negli occhi e capì che l'Urgali era di sangue nobile come qualunque principe delle altre razze. Capì che, per quanto incivile, era un condottiero valoroso e un filosofo e un pensatore non inferiore allo stesso Oromis. Di sicuro è più brillante


di me confessò Eragon a Saphira. Esponendo la gola in segno di rispetto, disse ad alta voce: «Nar Garzhvog» e per la prima volta comprese le nobili origini del termine nar. «Sono fiero di averti al mio fianco. Puoi dire alle tue Herndall che finché gli Urgali terranno fede alla parola data e non si rivolteranno contro i Varden, non mi opporrò a voi.» Eragon dubitava che sarebbe mai riuscito a farsi piacere gli Urgali, ma il ferreo pregiudizio che fino a qualche minuto prima aveva provato gli sembrava ora una prova d'ignoranza, e non poteva continuare a sostenerlo in buona fede. Saphira gli sfiorò il braccio con la ruvida punta della lingua, facendo tintinnare la maglia d'acciaio. Ci vuole coraggio per ammettere che ti sbagliavi.


Soltanto se hai paura di apparire uno sciocco. E io sarei sembrato ancora più sciocco se mi fossi intestardito a mantenere una convinzione errata.


Sai, piccolo mio, hai appena pronunciato una saggia verità.


Malgrado il tono canzonatorio, Eragon sentì che la dragonessa era orgogliosa di quanto lui aveva fatto. «Siamo di nuovo in debito con te, Spadarossa» disse Garzhvog. Lui e gli altri Urgali si premettero i pugni alla base delle


- cercare intenzioni ostili nascoste, forse, nel passato di Garzhvog - anni di ricordi. Al contrario dei Gemelli, Eragon evitò di causare corna sporgenti.


Eragon sapeva che Nasuada moriva dalla voglia di conoscere ogni dettaglio di quanto aveva appreso, ma si tratteneva. «Bene. Ora che questo è fatto, devo andare. Eragon, riceverai il mio segnale da Trianna quando arriverà il momento.» Detto questo, si allontanò, inghiottita dalle tenebre.


Mentre Eragon si appoggiava stanco al ventre di Saphira, arrivò Orik, che gli disse con un sogghigno: «Meno male che ci saremo noi nani a difenderti, eh? Guarderemo i Kull come falchi, sta' sicuro. Non permetteremo che ti attacchino quando volti le spalle. Non appena proveranno ad alzare un dito su di te, gli taglieremo i garretti da sotto.» «Credevo che fossi d'accordo con Nasuada nell'accettare la proposta degli Urgali.»


«Questo non significa che mi fido di loro o che combatto volentieri al loro fianco, ti pare?» Eragon sorrise e decise di non insistere; sarebbe stato impossibile convincere Orik che gli Urgali non erano brutali assassini, quando anche lui li aveva considerati tali finché non aveva passato in rassegna i loro ricordi.


La notte si trascinava lenta, mentre i guerrieri aspettavano l'alba. Orik estrasse una cote dalla tasca e cominciò ad affilare la sua ascia. Quando arrivarono, gli altri sei nani presero a fare lo stesso, e il raspio della pietra contro il metallo riempì l'aria. I Kull sedevano schiena contro schiena, mormorando canti di morte sottovoce. Eragon passò il tempo evocando incantesimi di protezione per sé, Saphira, Nasuada, Orik e perfino Arya. Sapeva che era pericoloso tentare di proteggere tante persone, ma non poteva sopportare il pensiero che venissero feriti. Quando ebbe finito, trasferì la massima quantità di energia di cui osò privarsi nei diamanti incastonati nella cintura di Beloth il Savio. Eragon osservò con interesse Angela indossare l'armatura nera e verde per poi aprire una cassa di legno intagliato da cui estrasse due lunghi manici di legno e due lame di acciaio temperato. L'indovina avvitò i due pali al centro e infilò le lame nelle scanalature alle estremità, assemblando così il suo bastone-spada. Fece roteare l'arma sopra la testa per qualche istante, prima di annuire soddisfatta, sicura che avrebbe resistito agli urti della battaglia. I nani la guardavano con disapprovazione, ed Eragon sentì uno di loro che diceva: «... blasfemia che una persona estranea al Dùrgrimst Quan brandisca l'hùthvìr.»


E poi l'unico suono fu lo stridio lacerante provocato dai nani che affilavano le asce.


Era quasi l'alba quando udirono le grida. Eragon e Saphira furono i primi ad avvertirle grazie all'udito più sensibile, ma le urla di dolore furono ben presto udibili a tutti. Balzato in piedi, Orik guardò verso l'esercito dell'Impero, da cui provenivano i lamenti strazianti. «Che razza di creature stanno torturando per provocare questi ululati tremendi? Mi fanno ghiacciare il midollo nelle ossa, mi fanno.»


«Vi avevo detto che non avreste dovuto aspettare a lungo» disse Angela. La sua abituale giovialità era scomparsa; aveva il volto pallido e tirato, come se fosse malata.


Eragon disse: «Sei stata tu?»


«Sì. Ho avvelenato le loro razioni, il loro pane, la loro acqua... tutto quello su cui sono riuscita a mettere le mani. Alcuni moriranno subito, altri moriranno dopo, quando le diverse tossine avranno effetto. Ho somministrato la belladonna e altri veleni agli ufficiali perché abbiano le allucinazioni in battaglia.» Cercò di sorridere, ma senza risultati. «Un modo non molto onorevole di combattere, suppongo, ma preferisco questo alla morte.»


«Soltanto un codardo o un ladro usa il veleno!» esclamò Orik. «Che gloria c'è nello sconfiggere un avversario indebolito?» Le urla crebbero mentre parlava.


Angela proruppe in una risata sinistra. «Gloria? Se è la gloria che cerchi, ci sono altre migliaia di soldati che non ho avvelenato. Sono sicura che otterrai la tua parte di gloria per la fine di questa giornata.»


«È per questo che eri tanto interessata alle attrezzature nella tenda di Orrin?» chiese Eragon. Trovava il suo gesto profondamente ripugnante, ma non pretese di giudicare se fosse giusto o sbagliato. Era necessario. Angela aveva avvelenato i soldati per la stessa ragione per cui Nasuada aveva accettato l'alleanza con gli Urgali: perché poteva essere l'unica speranza di sopravvivenza.


«Esatto.»


I lamenti dei soldati crebbero finché Eragon non ebbe la voglia di tapparsi le orecchie per non sentirli. Lo facevano rabbrividire e fremere. Ma si costrinse ad ascoltarli. Era il prezzo da pagare per resistere all'Impero. Sarebbe stato sbagliato ignorarli. Rimase per tanto tempo seduto, con i pugni stretti e la mascella contratta, mentre le Pianure Ardenti echeggiavano delle grida disincarnate degli uomini morenti.

Scoppia la tempesta

I primi raggi dell'alba già lambivano la terra quando Trianna disse a Eragon: È l'ora. Una scarica di adrenalina cancellò il torpore di Eragon in un istante; balzò in piedi, passò parola a quanti gli stavano attorno, e montò in sella a Saphira, estraendo il nuovo arco dalla faretra. I Kull e i nani circondarono Saphira, e insieme andarono in fretta verso le fortificazioni, dove raggiunsero l'apertura che era stata sgombrata di notte.


I Varden si riversarono dal varco più piano che potevano. Ranghi serrati di guerrieri marciavano con le corazze e le armi avvolte negli stracci perché nessun rumore avvertisse l'Impero della loro avanzata. Saphira si unì al corteo quando tra gli uomini comparve Nasuada in sella a un destriero roano, affiancata da Arya e Trianna. I cinque si scambiarono tacite occhiate d'intesa. Nient'altro.


Durante la notte, i vapori mefitici si erano accumulati in una densa e bassa cappa di nubi che la fievole luce del mattino rendeva opaca. In questo modo, i Varden riuscirono ad attraversare i tre quarti della terra di nessuno prima di essere avvistati dalle sentinelle dell'Impero. Quando i corni suonarono l'allarme, Nasuada gridò: «Eragon, ora! Di' a Orrin di attaccare. Varden, a me! Combattete per riprendervi la vostra terra! Combattete per salvare le vostre mogli e i vostri figli! Combattete per sconfiggere Galbatorix! Attaccate, e bagnate le vostre lame col sangue dei nostri nemici! Carica!» Spronò il cavallo a un trotto veloce, e con un ruggito da belva gli uomini la seguirono, agitando le armi. Eragon trasmise l'ordine di Nasuada a Barden, lo stregone che cavalcava con re Orrin. Un istante dopo, udì lo scalpitio degli zoccoli, mentre Orrin e la sua cavalleria accompagnata dal resto dei Kull che riuscivano a correre al passo dei cavalli galoppavano da est. Caricarono i fianchi dell'Impero, respingendo i soldati verso il fiume Jiet, così da distrarli il tempo necessario ai Varden per coprire il resto della distanza senza ostacoli.


I due schieramenti si scontrarono in un fragore assordante. Le picche cozzarono contro le lance, i martelli contro gli scudi, le spade contro gli elmi, mentre al di sopra della mischia i rapaci assetati di sangue lanciavano acute grida, volteggiando impazziti per l'odore di carne fresca.


Eragon provò un tuffo al cuore. Ora devo uccidere o essere ucciso. Nello stesso momento, sentì che gli incantesimi di protezione attingevano alla sua energia per deviare gli attacchi rivolti ad Arya, Orik, Nasuada e Saphira. Saphira rimase indietro rispetto alla prima linea, perché altrimenti sarebbero stati troppo esposti agli stregoni di Galbatorix sul fronte opposto. Con un profondo respiro, Eragon cominciò a cercarli con la mente, e al tempo stesso scagliava frecce. Il Du Vrangr Gata individuò il primo stregone nemico. Nell'istante in cui fu avvertito, Eragon raggiunse mentalmente la donna che aveva fatto la scoperta e attraverso di lei il nemico a cui era collegata. Attingendo a tutto il suo potere, Eragon demolì le barriere del mago, prese il controllo della sua coscienza cercando di ignorare il terrore dell'uomo, determinò quale reparto l'uomo proteggeva, e poi lo uccise con una delle dodici parole di morte. Senza fermarsi, individuò le menti di ciascuno dei soldati non più protetti, e li uccise. I Varden esultarono vedendo l'intero reparto stramazzare al suolo.


La facilità con cui uccideva lo sorprese. I soldati non avevano una sola possibilità di fuggire o reagire all'attacco. Com'e diverso dal Farthen Dùr, pensò. Tuttavia, malgrado lo stupore per la perfezione delle sue capacità, la morte era sempre una cosa sgradevole. Ma non c'era tempo per riflettere.


Ripresosi in fretta dall'assalto iniziale dei Varden, l'esercito imperiale cominciò ad azionare le sue macchine da guerra: catapulte che lanciavano missili rotondi di ceramica indurita, trabocchi caricati con barili di fuoco liquido, e baliste che bersagliavano gli aggressori con una gragnuola di frecce lunghe sei piedi. Le palle di ceramica e il fuoco liquido provocavano danni terrificanti quando toccavano terra. Una palla esplose sul terreno a meno di dieci iarde da Saphira. Mentre Eragon si rifugiava dietro lo scudo, un frammento tagliente come un rasoio schizzò verso la sua testa, ma venne bloccato a mezz'aria da uno dei suoi incantesimi di difesa. Eragon fremette per l'improvvisa perdita di energia. Le macchine arrestarono l'avanzata dei Varden, seminando morte e orrende mutilazioni su chiunque venissero puntate. Dobbiamo distruggerle, se vogliamo durare abbastanza da fiaccare l'Impero. Sarebbe stato facile per Saphira smantellare le macchine, ma la dragonessa non osava volare fra i soldati per paura di essere aggredita con la magia. Aperto un varco fra le linee dei Varden, otto soldati nemici piombarono su Saphira, armati di picche. Ancor prima che Eragon avesse il tempo di sguainare Zar'roc, i nani e i Kull eliminarono l'intero gruppo.


«Ben fatto!» ruggì Garzhvog.


«Ben fatto!» gli fece eco Orik con un ghigno sanguinario.


Eragon non usò incantesimi contro le macchine, prevedendo che fossero protette da ogni sortilegio possibile. A meno che... Dilatando la mente, trovò quella di un soldato addetto a una delle catapulte. Pur sapendo che l'uomo doveva essere protetto da qualche stregone, Eragon riuscì a dominarlo e a dirigere le sue azioni da lontano. Guidò l'uomo verso la macchina che stavano caricando, poi lo indusse a usare la spada per tagliare la grossa fune ritorta che azionava il congegno. La corda era troppo spessa perché si spezzasse prima che il soldato venisse trascinato via dai compagni, ma il danno era stato fatto. Con un sonoro schianto, la fune lacerata cedette, facendo volare il braccio della catapulta che ferì gravemente alcuni uomini. Le labbra arricciate in un bieco sorriso, Eragon passò a un'altra catapulta e, in rapida successione, rese inoffensivo il resto delle macchine.


Tornato in sé, si accorse che decine di Varden cadevano intorno a Saphira; uno del Du Vrangr Gata era stato sopraffatto. Lanciando una feroce imprecazione, ripercorse la scia di magia e risalì all'uomo che aveva scagliato l'incantesimo fatàle, affidando l'incolumità del suo corpo e di Saphira alle sue guardie.


Per oltre un'ora, Eragon diede la caccia agli stregoni di Galbatorix, ma con scarso esito, perché erano astuti e prudenti, e non lo attaccavano mai direttamente. La loro renitenza lo sconcertava, finché non riuscì a strappare dalla mente di uno stregone - pochi istanti prima che si suicidasse - il pensiero: ha ordinato di non uccidere il Cavaliere o il drago... non uccidere il Cavaliere o il drago.


Questo risponde al mio interrogativo, disse a Saphira, ma perché Galbatorix ci vuole vivi? Ormai è fin troppo chiaro da che parte stiamo.


Prima che la dragonessa potesse rispondere, davanti a loro comparve Nasuada, il volto rigato di polvere e sudore, lo scudo ammaccato, il sangue che le scorreva lungo la gamba sinistra per una ferita alla coscia. «Eragon» ansimò, «ho bisogno di entrambi. Dovete combattere allo scoperto, dovete mostrarvi per incoraggiare gli uomini... e spaventare i nemici.»


Le sue condizioni allarmarono Eragon. «Lascia prima che ti guarisca» esclamò, temendo che potesse svenire. Devo circondarla di altre protezioni.


«No! Io posso aspettare, ma siamo perduti se non arginate la marea nemica.» I suoi occhi erano vitrei e vacui, globi bianchi sul volto nero. «Abbiamo bisogno di... un Cavaliere.» Nasuada vacillò sulla sella.


Eragon levò Zar'roc al cielo in segno di saluto. «Eccomi, mia signora.»


«Andate» disse lei, «e che gli dei, se esistono, vi proteggano.»


Eragon si trovava troppo in alto su Saphira per colpire i nemici a terra, così smontò di sella e si piazzò accanto alla sua zampa destra. A Orik e Garzhvog disse: «Proteggete il fianco sinistro di Saphira. E qualunque cosa facciate, non mettetevi fra i piedi.»


«Verrai sopraffatto, Spadarossa.»


«Non accadrà» disse Eragon. «Ai vostri posti!» Poi mise una mano sulla zampa di Saphira e la guardò in un limpido occhio azzurro. Balliamo, dolcezza?


Balliamo, piccolo mio.


Eragon e Saphira fusero le proprie identità a un livello mai raggiunto prima, annullando ogni differenza fra di loro per diventare una singola entità. Ruggirono, si slanciarono in avanti e si aprirono una strada verso la prima linea. Una volta raggiunta, Eragon non seppe più distinguere di chi fosse la bocca che eruttò selvagge lingue di fuoco che avvolsero una decina di soldati, cuocendoli nelle proprie armature, né di chi fosse il braccio che roteò Zar'roc per abbatterla sull'elmo di un nemico.


L'odore metallico del sangue impregnava l'aria, mentre cortine sfrangiate di fumo ondeggiavano sulle Pianure Ardenti, ora nascondendo ora rivelando masse, grovigli, schiere e battaglioni di corpi in fermento. In alto, i voraci spazzini del cielo aspettavano il lauto banchetto, mentre il sole proseguiva il suo cammino verso lo zenit.


Dalle menti di coloro che li attorniavano, Eragon e Saphira colsero frammenti di immagini di come apparivano agli altri. Saphira veniva sempre notata per prima: un'enorme, furiosa creatura con zanne e artigli macchiati di rosso, che uccideva chiunque le capitasse a tiro con violente zampate e guizzi di coda e turgide vampate di fuoco che travolgevano interi plotoni. Le sue fulgide squame brillavano come tante stelle incandescenti che abbagliavano i nemici con i loro riflessi. Poi, al suo fianco, scorgevano Eragon. La sua rapidità era superiore alla capacità di reazione dei soldati; con una forza sovrumana schiantava scudi con un colpo solo, squarciava armature e spezzava le armi di chi gli si opponeva. Le frecce e le lance scagliate contro di lui cadevano sul terreno fetido a dieci piedi di distanza, fermate dai suoi incantesimi di protezione.


Fu più difficile per Eragon - e di conseguenza, per Saphira - combattere contro quelli della sua stessa razza rispetto a quanto lo era stato combattere contro gli Urgali nel Farthen Dùr. Ogni volta che vedeva un volto terrorizzato o guardava nella mente di un soldato, pensava: Potrei essere io. Ma lui e Saphira non potevano concedersi nessuna compassione; se un soldato si parava davanti a loro, moriva.


Tre volte i nemici tentarono una sortita, e tre volte Eragon e Saphira uccisero ogni soldato delle prime file dell'Impero, prima di ritirarsi nel corpo centrale dei Varden per non essere accerchiati. Al termine dell'ultima incursione, Eragon si vide costretto a ridurre o eliminare alcuni incantesimi che proteggevano Arya, Orik, Nasuada, Saphira e se stesso per impedire al dispendio di energia di stancarlo troppo presto. Perché, pur essendo grande la sua forza, lo erano anche le necessità della battaglia.


Pronta? chiese a Saphira, dopo un breve momento di tregua. La dragonessa ringhiò un assenso. Un nugolo di frecce sibilò verso Eragon nell'istante in cui si rituffò nella mischia. Fulmineo come un elf o, ne schivò la maggior parte, dato che la magia non lo proteggeva più da simili proiettili, ne parò dodici con lo scudo e barcollò quando una lo colpì al ventre e una al fianco. Nessuna delle due perforò l'armatura, ma gli mozzarono il fiato e gli lasciarono lividi grossi quanto una mela. Non fermarti! Hai sopportato dolori ben più grandi di questo, si disse. Piombando su un gruppo di otto soldati, Eragon menò fendenti a destra e a manca, facendo volare le picche, con Zar'roc che sfolgorava come una mortale saetta. Ma il combattimento gli aveva rallentato i riflessi, e un soldato riuscì a trapassargli l'usbergo con la picca, lacerandogli il tricipite sinistro.


I soldati impietrirono quando Saphira ruggì.


Eragon approfittò della distrazione per fortificarsi con l'energia conservata nel rubino del pomo di Zar'roc e poi uccidere gli ultimi tre uomini.


Spazzando il terreno con la coda, Saphira gli sgomberò la via da una ventina di soldati. Nel breve lasso di tempo, Eragon si guardò la carne viva e pulsante del braccio e disse: «Waise heill.» Si guarì anche i lividi, ricorrendo non solo al rubino, ma anche ai diamanti nella cintura di Beloth il Savio.


Poi i due ricominciarono a combattere.


Eragon e Saphira riempirono le Pianure Ardenti di cataste di cadaveri, ma l'Impero non accennava a fermarsi o a ritirarsi. Per ogni uomo che uccidevano, un altro prendeva il suo posto. Un senso d'impotenza cominciò a gravare sul cuore di Eragon nel vedere la massa di soldati nemici costringere via via i Varden a indietreggiare verso l'accampamento. Vide la sua stessa disperazione specchiata nei volti di Nasuada, Arya, re Orrin e persino di Angela, quando li incontrò sul campo di battaglia.


Tutto il nostro addestramento e non riusciamo ancora a fermare l'Impero, fu il suo grido di angoscia. Sono troppi! Non possiamo andare avanti così all'infinito. E Zar'roc e la cintura sono quasi esaurite.


Puoi attingere energia da quello che ti circonda, se necessario.


No, a meno che non riesca a uccidere un altro degli stregoni di Galbatorix per prenderla dai soldati. Altrimenti farei soltanto del male ai Varden, dato che non ci sono piante o animali qui attorno.


Col passare delle ore, Eragon si sentiva sempre più stanco e dolorante; privato di molte delle sue arcane difese, accumulò decine di ferite minori. Il braccio sinistro era intorpidito per aver assorbito gli innumerevoli colpi che gli avevano deformato lo scudo. Un fiotto di sangue caldo, misto a sudore, gli colava da un taglio sulla fronte accecandolo di continuo. E aveva la sensazione di avere almeno un dito rotto.


Saphira non stava meglio. Le armature dei soldati le laceravano le mucose della bocca, decine di spade e di frecce le perforavano le ali indifese, e un giavellotto le trapassò la corazza, ferendola a una spalla. Eragon vide arrivare il giavellotto e cercò di deviarlo con un incantesimo, ma fu troppo lento. Ogni volta che Saphira si muoveva, inondava il terreno con una pioggia di gocce di sangue.


Accanto a loro, caddero tre guerrieri di Orik e due Kull.


E il sole iniziò la sua parabola discendente.


Mentre Eragon e Saphira si preparavano per il loro settimo e ultimo assalto, a est risuonò uno squillo di tromba, limpido e potente, e re Orrin gridò: «I nani sono qui! I nani sono qui!»


I nani? Eragon battè le palpebre e si guardò intorno, confuso. Non vedeva altro che soldati nemici. Poi si riscosse in un fremito di eccitazione. I nani! Balzò in groppa a Saphira, che spiccò subito il volo, e rimase per qualche istante librata sulle ali malconce per osservare il campo di battaglia.


Era vero: un grande esercito avanzava da est verso le Pianure Ardenti. Alla sua testa marciava re Rothgar, con la sua cotta di maglia d'oro, l'elmo tempestato di gemme, e Volund, l'antica mazza da guerra, stretta nel pugno di ferro. Il re dei nani alzò Volund in segno di saluto quando scorse Eragon e Saphira.


Eragon ululò a pieni polmoni e ricambiò il gesto sventolando in aria Zar 'roc. Grazie a una scarica di rinnovato vigore dimenticò le ferite, e si sentì di nuovo gagliardo e feroce. Saphira aggiunse la propria voce alla sua, e i Varden la guardarono colmi di speranza, mentre i soldati imperiali esitavano per la paura.


«Cos'hai visto?» gridò Orik quando Saphira tornò a terra. «È Rothgar? Quanti guerrieri ha portato?» Ebbro di entusiasmo, Eragon si levò sulle staffe ed esclamò: «Animo, amico mio, re Rothgar è qui! E a quanto pare ha portato con sé ogni singolo nano! Schiacceremo l'Impero!» Quando gli uomini smisero di esultare, aggiunse: «Ora brandite le vostre spade e ricordate a questi codardi pidocchiosi perché devono avere paura di noi. All'attacco!» Proprio mentre Saphira stava per slanciarsi contro i soldati, Eragon sentì un secondo grido, questa volta provenire da ovest: «Una nave! Una nave che risale il fiume!»


«Maledizione!» ringhiò. Non possiamo permettere che una nave porti rinforzi all'Impero. Si mise in contatto con Trianna e le disse: Di' a Nasuada che ce ne occuperemo io e Saphira. Affonderemo la nave, se appartiene a Galbatorix. Come desideri, Argetlam, rispose la maga.


Senza un attimo di esitazione, Saphira si alzò in volo, tracciando cerchi sempre più ampi sulla pianura devastata e fumante. Mentre il clamore incessante della battaglia scemava con l'altezza, Eragon trasse un profondo respiro e si schiarì la mente. Sotto di loro, rimase sorpreso nel vedere come si erano frammentati gli eserciti. L'Impero e i Varden si erano disintegrati in una miriade di piccoli gruppi che si fronteggiavano in lungo e in largo per tutte le Pianure Ardenti. Fu in questo caos che si inserirono i nani, attaccando l'Impero su un fianco, come aveva fatto Orrin in precedenza con la cavalleria.


Eragon perse di vista la battaglia quando Saphira virò a sinistra e cabrò oltre le nubi verso il fiume Jiet. Una raffica di vento spazzò via il fumo di torba e svelò un grande veliero a tre alberi che risaliva l'acqua arancione controcorrente, spinto da due ordini di remi. La nave era scalfita e danneggiata, e non batteva alcuna bandiera che rivelasse la sua appartenenza.


Eragon si preparò a distruggere il veliero. Mentre Saphira scendeva in picchiata, Eragon fece roteare Zar'roc sulla testa e lanciò il suo terribile grido di guerra.

Convergenza

Roran era in piedi a prua dell'Ala di Drago e ascoltava il rumore dei remi che sferzavano l'acqua. Aveva appena finito il suo turno di voga e un dolore freddo e pulsante gli trafiggeva la spalla destra. Dovrò convivere per sempre con questo ricordo dei Ra'zac? Si asciugò il sudore dalla fronte e ignorò il disagio, concentrandosi sul fiume, oscurato da un banco di nuvole caliginose.


Elain lo raggiunse al parapetto. Si posò una mano sul ventre gonfio. «L'acqua ha un brutto aspetto» disse. «Forse dovevamo restare a Dauth, invece che andare in cerca di altri guai.»


Roran sospettò con timore che la donna avesse ragione. Dopo aver superato l'Occhio del Cinghiale, avevano veleggiato verso est, oltre le Isole Meridionali, per avvicinarsi alla costa. Entrati nella foce del fiume Jiet, erano arrivati al porto surdano di Dauth. Il tempo di toccare terra e le loro scorte erano oramai esaurite; gli uomini anche. Roran aveva avuto tutte le intenzioni di restare a Dauth, specie dopo aver ricevuto un'entusiastica accoglienza da parte del governatore, ledy Alarice. Ma questo era stato prima di venire a sapere dell'esercito di Galbatorix. Se i Varden fossero stati sconfitti, non avrebbe mai più rivisto Katrina. Così, con l'aiuto di Jeod, aveva convinto Horst e molti altri compaesani che se volevano vivere nel Surda, liberi dall'Impero, dovevano risalire iljiume Jiet per dare man forte ai Varden. Fu un'impresa difficile, ma alla fine Roran prevalse. E una volta che ebbero messo al corrente ledy Alarice delle loro intenzioni, l'alta funzionarla li rifornì di tutto il necessario.


Da allora, Roran si era chiesto spesso se aveva fatto la scelta giusta. Ormai nessuno più sopportava di vivere sulYAla di Drago. La gente era tesa e di malumore, e la situazione era peggiorata dalla consapevolezza di navigare dritti verso una battaglia. È stato puro egoismo da parte mia? si chiedeva. Lo faccio davvero per il bene del villaggio, o soltanto perché mi avvicinerò di un altro passo a Katrina?


«Forse dovevamo» rispose a Elain.


Insieme guardarono un denso strato di fumo raccogliersi nel cielo fino a oscurare il sole, filtrando la luce residua fino a tingere ogni cosa al di sotto di una nauseante sfumatura di arancio. Creava un crepuscolo innaturale come Roran non avrebbe mai immaginato. I marinai sul ponte si guardarono intorno intimoriti e mormorarono scongiuri, mostrando amuleti di pietra contro il malocchio.


«Ascolta» disse Elain, inclinando la testa di lato. «Cos'è?»


Roran tese le orecchie e colse il debole tintinnio del metallo che cozzava contro il metallo. «Quello» rispose «è il suono del nostro destino.» Voltandosi, gridò: «Capitano, una battaglia dritta di fronte a noi!»


«Gli uomini alle baliste!» ruggì Uthar. «Raddoppia il tempo ai remi, Bonden. Ogni uomo abile si tenga pronto, altrimenti userò le vostre budella come guanciali!»


Roran rimase dov'era, mentre l'Ala di Drago esplodeva in un fermento di attività. Malgrado l'aumento del rumore, poteva ancora sentire le spade e gli scudi che si scontravano in lontananza. Ormai si sentivano anche le grida degli uomini, come i ruggiti di qualche bestia gigantesca.


Volse il capo quando Jeod si unì a loro a prua. La faccia del mercante era pallida. «Sei mai stato in battaglia prima d'ora?» gli chiese Roran.


Il pomo d'Adamo di Jeod sobbalzò quando l'uomo deglutì e scosse la testa. «Ho combattuto molte volte al fianco di Brom, ma mai niente del genere.»


«È un debutto per entrambi, allora.»


La cortina di fumo si assottigliò a destra, aprendosi su un panorama agghiacciante di terra scura che eruttava fuoco e fetidi vapori arancione, coperta da una massa di uomini che lottavano. Era impossibile distinguere quali fossero i Varden e quali i soldati imperiali, ma era evidente che la battaglia poteva pendere in qualunque direzione, con la spinta giusta. Possiamo darla noi, quella spinta.


Poi una voce echeggiò sull'acqua quando un uomo sulla riva gridò: «Una nave! Una nave che risale il fiume!» «Sarà meglio che tu scenda» disse Roran a Elain. «Non


è sicuro se resti qui.» Lei annuì e corse al boccaporto di


prua, scese la scaletta e chiuse la botola dietro di sé. Un


momento dopo, Horst balzò sulla prua e porse a Roran uno degli scudi di Fisk.


«Ho pensato che ti servisse» disse Horst.


«Grazie. Ho...»


Roran s'interruppe quando l'aria vibrò, come per una potente esplosione. Thud. I denti gli sbatterono. Thud. Le orecchie gli fecero male per la pressione. Subito dopo il secondo colpo, arrivò un terzo thud e con esso un grido altissimo che riconobbe, perché lo aveva sentito tante volte da ragazzo. Guardò in alto e vide un gigantesco drago color zaffiro scendere in picchiata dalle nubi. E seduto sul drago, a cavallo fra il collo e le spalle, c'era suo cugino, Eragon.


Non era l'Eragon che ricordava. Era come se un artista avesse preso i lineamenti di Eragon e li avesse migliorati, raffinati, resi più nobili e felini. Questo Eragon era vestito come un principe, indossava un'elegante armatura - sebbene insozzata dalla guerra - e nella mano destra brandiva una lama di un rosso iridescente. Questo Eragon, Roran capì, avrebbe ucciso senza esitazione. Questo Eragon era potente e implacabile... Questo Eragon avrebbe potuto distruggere i Ra'zac e le loro mostruose cavalcature, e aiutarlo a liberare Katrina.


Sbattendo le ali translucide, il drago si fermò davanti alla nave. Poi Eragon incontrò lo sguardo di Roran. Fino a quel momento, Roran non aveva creduto completamente alla storia di Jeod su Eragon e Brom. Ora, mentre fissava suo cugino, un'ondata di emozioni contrastanti lo travolse. Eragon è un Cavaliere! Sembrava inconcepibile che il ragazzino smilzo, indocile e smanioso con cui era cresciuto si fosse trasformato in quel temibile guerriero. Vederlo vivo riempì Roran di una gioia inaspettata. Eppure, allo stesso tempo, una terribile, familiare collera gli attanagliò le viscere al pensiero del ruolo che Eragon aveva avuto nella morte di Garrow e nell'assedio di Carvahall. In quei pochi secondi, Roran non capì se amava od odiava Eragon.


S'irrigidì allarmato quando un enorme essere sconosciuto gli toccò la mente. Da quella entità emanò la voce di Eragon. Roran?


«Sì.»


Pensa le tue risposte e io le sentirò. C'è tutta Carvahall con te?


Quasi tutta.


Come avete fatto... No, non possiamo perdere tempo per le spiegazioni. Restate qui finché la battaglia non sarà decisa. Ancora meglio, scendete di nuovo lungo il fiume, fin dove l'Impero non possa raggiungervi.


Dobbiamo parlare, Eragon. Hai molte risposte da darmi.


Eragon esitò, preoccupato, poi disse: Lo so. Ma non ora, più tardi. Senza che gli venisse dato un ordine, il drago si allontanò dalla nave e volò a est, inghiottito dalla nebbia rossastra che aleggiava sulle Pianure Ardenti. Con voce rotta dall'emozione, Horst esclamò: «Un Cavaliere! Un vero Cavaliere! Non avrei mai pensato di vedere quel giorno, e men che mai che sarebbe stato Eragon.» Scrollò il capo. «A quanto pare dicevi la verità, eh, Gambelunghe?» Jeod rispose con un sogghigno, l'espressione raggiante come quella di un bambino.


Le loro parole suonarono mute a Roran, che fissava il ponte con la sensazione di essere pronto a scoppiare di tensione da un momento all'altro. Un'orda di domande irrisolte lo assaliva. Si costrinse a ignorarle. Non posso pensare a Eragon in questo momento. Dobbiamo combattere. I Varden devono sconfiggere l'Impero.


Una marea crescente di furia lo consumò. Aveva già sperimentato quella frenesia scatenata che gli consentiva di superare qualsiasi ostacolo, di spostare oggetti che di solito non riusciva a muovere, di affrontare un nemico in battaglia e non avere paura. Lo afferrò una febbre nelle vene, che gli accelerava il respiro e gli faceva martellare il cuore nel petto.


Si allontanò di scatto dal parapetto, corse per tutta la lunghezza della nave fino al cassero, dove Uthar era al timone, e disse: «Dirigi a terra.»


«Cosa?»


«Dirigi a terra, ti dico! Resta qui con i tuoi uomini e usate le baliste per distruggere tutto quello che potete, impedite all'Ala di Drago di essere abbordata, e proteggete le nostre famiglie con le vostre vite. Chiaro?»


Uthar lo guardò con occhi di ghiaccio, e Roran temette che non avrebbe accettato i suoi ordini. Poi il vecchio lupo di mare borbottò e disse: «Signorsì, Fortemartello.»


I passi pesanti di Horst preannunciarono il suo arrivo sul cassero. «Che cosa intendi fare, Roran?» «Fare?» Roran scoppiò a ridere e si volse di scatto per trovarsi faccia a faccia col fabbro. «Fare? Ebbene, intendo cambiare il destino di Alagaésia!»

Il drago rosso

Eragon quasi non si accorse che Saphira lo stava riportando nel cuore della mischia. Sapeva che Roran era in mare, ma non aveva mai sospettato che si stesse dirigendo verso il Surda, né che si sarebbero rivisti in quel modo. E gli occhi di Roran! Occhi che lo avevano fissato esprimendo dubbio, sollievo, collera... accusa. In essi, Eragon aveva letto che suo cugino Roran conosceva il suo ruolo nella morte di Garrow e non lo aveva ancora perdonato.


Fu soltanto quando una spada rimbalzò su uno dei suoi schinieri che Eragon riportò l'attenzione a quanto accadeva intorno a sé. Liberò un grido selvaggio e calò Zar'roc di taglio, uccidendo il soldato che lo aveva colpito. Criticandosi per essere stato così distratto, chiamò Trianna e disse: È una nave amica. Spargi la voce che nessuno di loro venga attaccato. E chiedi a Nasuada, come favore personale, di mandare alla nave un araldo che spieghi loro la situazione e si assicuri che restino fuori dallo scontro.


Come desideri, Argetlam.


Sul fronte occidentale della battaglia, dov'era atterrata, Saphira attraversò le Pianure Ardenti in pochi grandi balzi, fermandosi davanti a Rothgar e ai nani. Eragon smontò e si presentò al re, che disse: «Salve, Argetlam! Salve, Saphira! A quanto pare gli elfi hanno compiuto su di te quanto avevano promesso.» Al suo fianco c'era Orik. «No, sire, sono stati i draghi.»


«Davvero? Ascolterò con piacere le tue avventure quando questa sporca guerra sarà finita. Sono lieto che tu abbia accettato di entrare a far parte del Dùrgrimst Ingietum. È un onore averti come membro della mia famiglia.» , «L'onore è mio.»


Rothgar sorrise, poi si rivolse a Saphira. «Non ho dimenticato la tua promessa di riportare Isidar Mithrim al suo antico splendore, drago. In questo stesso momento, i nostri artigiani stanno ricostruendo lo Zaffiro Stellato al centro di Tronjheim. Non vedo l'ora che torni come prima.»


La dragonessa inchinò la testa. Manterrò la mia promessa.


Quando Eragon ripetè le sue parole, Rothgar protese un dito tozzo e nodoso, e picchiettò una delle piastre metalliche che le coprivano i fianchi. «Vedo che porti la nostra corazza. Spero che ti sia servita.»


Mi è molto servita, re Rothgar, disse Saphira tramite Eragon. Mi ha protetta da molte ferite.


Rothgar raddrizzò la schiena e levò Volund, uno scintillio feroce negli occhi infossati. «Allora, vogliamo marciare e mettere ancora una volta alla prova il frutto delle nostre forge?» Volse indietro lo sguardo ai suoi guerrieri e gridò: «Akh sartos oen dùrgrimst!»


«Vor Rothgarz korda! Vor Rothgarz korda!»


Eragon guardò Orik, che tradusse per lui con un potente ruggito: «Per il martello di Rothgar!» Unendosi Eragon corse con il re dei nani verso la marea cremisi dei soldati nemici, con Saphira al suo fianco. Con l'aiuto dei nani, le sorti della battaglia volsero dividendole, schiacciandole, costringendo l'esercito conquistato nel corso della mattinata. I loro sforzi furono aiutati dall'effetto sortito dai veleni di Aftgela. Molti ufficiali nemici agivano in maniera irrazionale, dando ordini che rendevano più facile per i Varden penetrare nelle schiere nemiche, seminando morte e distruzione al loro passaggio. I soldati parvero capire che la fortuna non li assisteva più, e a centinaia si arresero, o disertarono per rivoltarsi contro i loro ex compagni, o abbandonarono le armi e fuggirono. E il sole scivolò verso i fulgidi colori del pomeriggio.


Eragon stava combattendo contro due soldati, quando sopra di loro volò un giavellotto fiammeggiante che andò a conficcarsi in una delle tende dei comandanti imperiali, incendiando la stoffa. Liberatosi dei suoi avversari, Eragon guardò indietro e vide decine di proiettili infuocati levarsi dalla nave sul fiume Jiet. Che intenzioni hai, Roran? si chiese Eragon, prima di scagliarsi contro un nuovo gruppo di soldati.


In quel momento, un corno echeggiò dalla retroguardia dell'Impero, poi un altro e un altro ancora. Qualcuno cominciò a battere un potente tamburo, e per qualche istante il campo di battaglia rimase immobile, mentre tutti si voltavano verso la fonte del rumore. Sotto gli occhi di Eragon, una figura sinistra si staccò dall'orizzonte a nord per levarsi nel cielo livido delle Pianure Ardenti. I corvi e gli altri rapaci si dispersero davanti all'ombra nera e frastagliata, che si librava immobile nelle calde correnti ascensionali. Lì per lì Eragon pensò a un Lethrblaka, una delle cavalcature dei Ra'zac. Poi un raggio di luce trapassò le nubi, illuminando di lato la figura.


Un drago rosso fluttuava sopra di loro, sfolgorando nei raggi obliqui del sole come un letto di braci rosso sangue. Le membrane delle sue ali erano del colore del vino visto in controluce. I suoi artigli, le zanne e le aguzze punte dorsali erano bianche come la neve. Gli occhi vermigli sprizzavano terribili bagliori. In sella sedeva un uomo che indossava un'armatura d'acciaio splendente e brandiva uno spadone a una mano e mezza.


Eragon trasalì, sgomento. Galbatorix è riuscito afar schiudere un altro uovo!


L'uomo d'acciaio alzò la mano sinistra e un fulmine di energia rossa crepitò dal suo palmo, colpendo Rothgar in pieno petto. Gli stregoni dei nani gridarono di dolore quando l'energia dei loro corpi fu consumata nel tentativo di fermare l'attacco. Stramazzarono al suolo, morti, mentre Rothgar si stringeva il petto e crollava esanime. I nani ulularono di disperazione vedendo cadere il loro re.


«No!» gridò Eragon, e Saphira ruggì la sua ira. Eragon guardò il Cavaliere nemico con odio. Ti ucciderò per questo. in favore dei Varden. Insieme respinsero le milizie

di Galbatorix ad abbandonare le posizioni che al coro,

imperiali, avevano Ma sapeva che in quel momento lui e Saphira erano troppo stanchi per affrontare un avversario così potente. Guardandosi intorno, Eragon scorse un cavallo riverso nel fango, con una lancia infilata nel costato. Lo stallone era ancora vivo. Eragon gli posò una mano sul collo e mormorò: Dormi, fratello. Poi trasferì dentro di sé e in Saphira gli ultimi residui di energia del cavallo; non bastò a far recuperare loro tutte le forze, ma almeno alleviò il dolore ai muscoli e impedì alle loro membra di tremare ancora.


Rinvigorito, Eragon balzò su Saphira, gridando: «Orik, prendi il comando dei tuoi!» In lontananza, vide Arya guardarlo preoccupata. La scacciò dalla propria mente e si strinse le cinghie intorno alle gambe. Poi Saphira si lanciò contro il drago rosso, agitando le ali a ritmo forsennato per acquistare la necessaria velocità.


Spero che ricordi le lezioni di Glaedr, le disse, impugnando più saldamente lo scudo.


Saphira non rispose, ma ruggì i suoi pensieri contro l'altro drago. Traditore! Distruttore di uova e di giuramenti, assassino! Poi, insieme, lei ed Eragon assalirono le menti dell'altra coppia, cercando di abbattere le loro difese. La coscienza del Cavaliere emanava uno strano sentore, come se contenesse una moltitudine di entità; decine di voci distinte sussurravano nei recessi della sua mente, come spiriti imprigionati che imploravano di essere liberati. Nell'istante in cui entrarono in contatto, il Cavaliere reagì con una scarica di pura energia più violenta di quanto perfino Oromis fosse in grado di richiamare. Eragon si ritrasse dietro le proprie barriere, recitando freneticamente un brano della filastrocca che Oromis gli aveva insegnato per simili frangenti:


Sotto un freddo cielo d'aprile, c'era un omino dalla spada lucente. Saltava e colpiva con furia febbrile, combattendo la massa di ombre incalzante...


L'assedio che cingeva la sua mente si dissolse quando Saphira e il drago rosso si scontrarono, e fu come l'urto di due meteore incandescenti. Si strinsero in un abbraccio feroce, le zampe di dietro che sferravano calci nel ventre dell'altro; gli artigli stridevano sulla corazza metallica di Saphira e sulle squame piatte del drago rosso. Quest'ultimo era più piccolo di Saphira, ma aveva le zampe e le spalle più massicce. Riuscì ad allontanarla con una zampata per un istante, poi tornarono a lanciarsi l'uno contro l'altra, tentando di azzannarsi il collo a vicenda.


Eragon non potè far altro che stringere forte Zar'roc, mentre i draghi avvinghiati precipitavano verso il suolo, continuando a sferrarsi furiosi colpi di zampe e di coda. A meno di cinquanta iarde dal suolo delle Pianure Ardenti, Saphira e il drago rosso si districarono, affannandosi per riprendere quota. Quando ebbe frenato la caduta, Saphira inarcò il collo, come un serpente pronto a colpire, ed eruttò un torrente di fuoco.


Non raggiunse mai il suo bersaglio; a dodici piedi dal drago rosso, il fuoco si biforcò, passandogli ai lati senza fare alcun danno. Dannazione, pensò Eragon. Mentre il drago rosso spalancava le fauci per il contrattacco, Eragon gridò: «Skòlir nosu fra brisingr!» Appena in tempo. L'esplosione fu terribile intorno a loro, ma non sfiorò neppure le squame di Saphira.


Saphira e il drago rosso cabrarono attraverso il fumo denso per raggiungere il cielo limpido e freddo al di sopra, sfrecciando avanti e indietro nel tentativo di prendere posizione al di sopra dell'avversario. Il drago rosso azzannò la coda di Saphira, e lei ed Eragon urlarono di dolore condiviso. Ansante per lo sforzo, Saphira eseguì una gran volta all'indietro, finendo alle spalle del drago, che si avvitò a sinistra e cercò di risalire a spirale al di sopra di lei. Mentre i draghi duellavano con acrobazìe sempre più complesse, Eragon avvertì un'interferenza nelle Pianure Ardenti: i maghi del Du Vrangr Gata erano assaliti da due nuovi stregoni dell'Impero, molto più potenti di quelli che li avevano preceduti. Avevano già ucciso un membro del Du Vrangr Gata e stavano abbattendo le barriere di un secondo. Eragon sentì Trianna gridargli con la mente: Ammazzaspettri! Devi aiutarci! Non riusciamo a fermarli. Uccideranno tutti i Varden. Aiutaci, è...


La sua voce si perse quando il Cavaliere s'insinuò nella sua coscienza. «Ora basta» sibilò Eragon a denti stretti, mentre lottava per resistere all'assalto. Sporgendosi dal collo di Saphira, vide il drago rosso risalire verso di loro. Eragon non osò aprire la mente per parlare con Saphira, ma gridò ad alta voce: «Prendimi!» Con due colpi di Zar'roc, tagliò le cinghie che gli serravano le gambe e balzò giù dal dorso di Saphira.


È una follia, pensò, ridendo per l'ebbrezza e la vertigine della caduta libera. Il vento gli strappò via l'elmo e gli fece lacrimare gli occhi. Liberandosi dello scudo, Eragon allargò le braccia e le gambe, come gli aveva insegnato Oromis, per stabilizzare il volo. Di sotto, il Cavaliere d'acciaio notò il suo gesto. Il drago rosso scartò a sinistra, ma non riuscì lo stesso a evitarlo. Eragon guidò Zar'roc in un affondo fulmineo quando vide passare accanto a sé il fianco del drago, e sentì la lama penetrare nella carne del polpaccio della creatura, prima che la gravità lo attirasse più in basso. Il drago ruggì di dolore.


L'impatto fece compiere a Eragon una serie di capovolte in aria; il tempo di riuscire a bloccare le rotazioni e aveva bucato la coltre di nubi per piombare inesorabilmente sulle Pianure Ardenti. Avrebbe potuto fermarsi con la magia, se necessario, ma questo lo avrebbe prosciugato delle ultime riserve di energia. Si guardò oltre le spalle. Andiamo, Saphira, dove sei?


Per tutta risposta, la dragonessa comparve come una saetta dalla cortina di fumo livido, le ali aderenti al corpo. Sgusciò sotto di lui e aprì le ali per frenare la picchiata. Attento a non finire impalato su una delle sue punte, Eragon tornò in sella, accogliendo con sollievo il ritorno del proprio peso mentre lei riprendeva quota.


Non farmelo fare mai più, ringhiò lei.


Lui osservò il sangue fumante che scorreva lungo la lama di Zar'roc. Ha funzionato, però.


La sua soddisfazione scomparve quando si rese conto che l'acrobazìa aveva messo Saphira alla mercé del drago rosso. La creatura si avventò su di lei, impedendole ogni via di fuga per costringerla al suolo. Saphira cercava di manovrare sotto di lui, ma ogni volta che lo faceva, il drago si tuffava su di lei a fauci spalancate, colpendola con le ali per farle cambiare rotta.


I draghi continuarono a rincorrersi e a urtarsi finché le lingue non penzolarono dalle bocche, le code si afflosciarono e i due smisero di battere le ali, lasciandosi planare.


La mente ancora una volta chiusa a ogni contatto, amichevole o meno, Eragon gridò ad alta voce: «Atterra, Saphira; così è inutile. Lo combatterò a piedi.»


Con un grugnito di esausta rassegnazione, Saphira discese sullo spiazzo aperto più vicino, un piccolo altopiano roccioso sulla riva occidentale del fiume. L'acqua rosseggiava del sangue della carneficina. Non appena Saphira ebbe toccato terra, Eragon balzò di sella e saggiò il terreno con i piedi: era liscio e compatto, senza ostacoli su cui inciampare. Annuì, compiaciuto.


Qualche secondo dopo, il drago rosso spazzò l'aria sopra di loro e atterrò sul lato opposto del pianoro. Teneva la zampa posteriore sinistra sollevata dal terreno, per non pesare sulla ferita, un lungo squarcio che gli aveva quasi reciso il muscolo. Era scosso da violenti tremiti, come un cane malato. Cercò di saltellare, poi si fermò e ringhiò contro Eragon. Il Cavaliere nemico si liberò delle cinghie e scivolò lungo il fianco sano del suo drago. Poi gli girò intorno per esaminare la ferita. Eragon lo lasciò fare; sapeva quanto dolore doveva provare l'uomo nel vedere il danno inflitto al suo compagno. Ma aspettò troppo a lungo, perché il Cavaliere mormorò qualche parola indecifrabile, e in tre secondi la ferita del drago fu risanata.


Eragon rabbrividì di terrore. Come ha fatto a guarirla così in fretta, e con una formula così breve? Eppure, chiunque fosse, il nuovo Cavaliere non era certo Galbatorix, che cavalcava un drago nero.


Eragon si appigliò a quella consapevolezza mentre avanzava per affrontarlo. Mentre si incontravano al centro dell'altopiano, Saphira e il drago rosso si fronteggiavano girando uno intorno all'altra sullo sfondo. Il Cavaliere afferrò il suo spadone con entrambe le mani e lo fece roteare sopra la testa. Nel momento in cui lo calava con forza, Eragon sollevò Zar'roc per difendersi, e le due lame cozzarono in un'esplosione di scintille rosse. Eragon respinse l'avversario ed eseguì una serie di manovre complesse, sferrando e parando colpi, mentre danzava leggero sulle punte dei piedi e costringeva il Cavaliere a indietreggiare verso il ciglio del pianoro.


Quando arrivarono al margine, il Cavaliere mantenne la posizione, parando tutti gli assalti di Eragon, che pure erano fulminei e improvvisi. È come se riuscisse ad anticipare le mie mosse, pensò Eragon, frustrato. Se fosse stato fresco e riposato, gli sarebbe stato facile battere l'avversario, ma così non riusciva ad averne ragione. Il Cavaliere non possedeva la prontezza e la forza di un elfo, ma le sue capacità tecniche erano superiori a quelle di Vanir e paragonabili a quelle di Eragon.


Eragon provò una fitta di panico quando si accorse che la carica di energia iniziale si andava esaurendo in fretta, e che non era riuscito a infliggere all'avversario più di qualche ammaccatura sul pettorale scintillante. Le ultime riserve di potere conservate nel rubino di Zar'roc e nella cintura di Beloth il Savio bastarono appena a sostenere i suoi sforzi per un altro minuto. Il Cavaliere fece un passo avanti. Poi un altro. In men che non si dica, i due contendenti erano tornati al centro del pianoro, dove continuarono a scambiarsi colpi.


Zar'roc era diventata così pesante che Eragon riusciva a stento a sollevarla. La spalla gli bruciava, e lui ansimava come un mantice, e aveva il volto madido di sudore. Nemmeno il desiderio di vendicare la morte di Rothgar poteva aiutarlo a superare la stanchezza.


A un tratto scivolò e cadde. Deciso a non essere ucciso mentre era a terra, si rialzò con uno scatto di reni e si slanciò contro il Cavaliere, che gli fece volare via Zar'roc di mano con una semplice torsione del polso.


Il modo in cui il Cavaliere tracciò un florilegio nell'aria con il suo spadone - facendolo roteare rapidamente al suo fianco


- parve d'un tratto familiare a Eragon, come la sua abilità nella scherma. Riprese rapido la sua spada, fissò con orrore crescente lo spadone a una mano e mezza del suo nemico, poi la fessura nella visiera del suo elmo scintillante, e gridò: «Io ti conosco!»


In un impeto di furia, si avventò sul Cavaliere, bloccando le spade di entrambi fra i loro corpi, infilò le dita sotto il bordo dell'elmo e glielo strappò dalla testa.


Al centro del pianoro, ai margini delle Pianure Ardenti di Alagaésia, c'era Murtagh.

Eldest

Murtagh sorrise. Poi disse: «Thrysta vindr» e un globo compatto d'aria si formò fra di loro, colpendo Eragon al petto per spedirlo a venti iarde di distanza.


Eragon sentì Saphira ringhiare mentre lui atterrava di schianto sulla schiena. La sua visione baluginò di lampi rossi e neri, mentre si raggomitolava su se stesso aspettando che il dolore scemasse. Qualunque piacere avesse provato nella ricomparsa di Murtagh fu spazzato via dalle macabre circostanze del loro incontro. Una instabile miscela di orrore, confusione e rabbia ribolliva dentro di lui.


Abbassata la spada, Murtagh puntò la mano guantata d'acciaio contro di lui, con l'indice teso. «Non ti arrendi mai.» Eragon si sentì scorrere un brivido gelido lungo la schiena, nel riconoscere la scena della premonizione che aveva avuto navigando sull'Az Ragni verso Hedarth: Un uomo annaspava nel fango con l'elmo ammaccato e l'armatura insanguinata, il volto celato da un braccio alzato. Una mano guantata d'acciaio entrò nella visuale di Eragon, con l'indice teso verso l'uomo riverso, implacabile e crudele come il fato stesso. Passato e futuro si erano ricongiunti. Il destino di Eragon stava per compiersi.


Rialzandosi in piedi a fatica, Eragon tossì e disse: «Murtagh... com'è possibile che tu sia vivo? Ho visto gli Urgali trascinarti sotto terra. Ho cercato di divinarti con la cristallomanzia, ma ho visto soltanto tenebre.» Murtagh proruppe in una risata amara. «Non hai visto niente, come io non ho visto niente tutte le volte che ho tentato di raggiungerti mentre ero a Urù'baen.»


«Ma tu sei morto!» esclamò Eragon, illogico. «Sei morto nelle gallerie del Farthen Dùr. Arya ha trovato i tuoi abiti insanguinati.»


Un'ombra passò sul volto di Murtagh. «No, non sono morto. È stata opera dei Gemelli. Hanno preso il controllo di un gruppo di Urgali e hanno ordito la trappola per uccidere Ajihad e catturare me. Poi mi hanno stregato perché non potessi scappare e mi hanno trasportato a Urù'baen.»


Eragon scuoteva il capo, incapace di comprendere quanto era successo. «Ma perché hai accettato di servire Galbatorix? Mi hai detto che lo odiavi. Mi hai detto...»


«Accettato!» Murtagh rise di nuovo, questa volta con una nota isterica. «Io non ho accettato un bel niente. Prima di tutto, Galbatorix mi ha punito per aver rinnegato gli anni di protezione quando ero ragazzo a Urù'baen, per aver sfidato la sua volontà ed essere fuggito. Poi mi ha estorto tutte le informazioni in mio possesso su di te, Saphira e i Varden.» «Ci hai traditi! Io piangevo per te, e tu ci tradivi!»


«Non ho avuto scelta.»


«Ajihad aveva ragione a diffidare di te. Avrebbe dovuto lasciarti marcire in cella, così niente di tutto...» «Non ho avuto scelta!» ringhiò Murtagh. «Quando l'uovo di Castigo si è schiuso per me, Galbatorix ci ha costretti a giurargli fedeltà nell'antica lingua. Non possiamo disobbedirgli.»


Pietà e disgusto crebbero in Eragon. «Sei diventato come tuo padre.»


Uno strano scintillio balenò negli occhi di Murtagh. «No, non come mio padre. Io sono più forte di Morzan. Galbatorix mi ha insegnato cose sulla magia che tu non ti sogni neppure... Formule così potenti che gli elfi non osano nemmeno pensare, codardi come sono. Parole nell'antica lingua che erano andate perdute finché Galbatorix non le ha riscoperte. Modi per manipolare l'energia... Segreti, segreti terribili, che possono distruggere i nemici e realizzare i sogni.» Eragon ripensò alle lezioni di Oromis e replicò: «Cose che dovevano restare segrete.»

«Se le conoscessi, non diresti così. Brom era un dilettante, niente di più. E gli elfi... bah! Tutto quello che sanno fare è restare nascosti nella loro foresta in attesa di essere conquistati.» Murtagh fece scorrere lo sguardo su Eragon. «Sembri un elfo, adesso. È stata Islanzadi a farti questo?» Quando Eragon rimase in silenzio, Murtagh sorrise e scrollò le spalle. «Non importa. Scoprirò presto la verità.» Si fermò, aggrottò la fronte e guardò a oriente. Seguendo il suo sguardo, Eragon vide i Gemelli schierati in prima linea con l'Impero, impegnati a scagliare globi di energia sui Varden e sui nani. La cortina di fumo gli impediva di accertarlo, ma Eragon era sicuro che i due stregoni calvi stessero ridendo mentre trucidavano gli uomini di cui un tempo si professavano amici. Quello che i Gemelli mancarono di osservare - ma che era chiaramente visibile dal punto di osservazione elevato di Eragon e Murtagh - era che Roran stava strisciando verso di loro da un lato.


Eragon si sentì mancare il cuore quando riconobbe il cugino. Pazzo! Vattene via di lì! Ti uccideranno! Non appena ebbe aperto la bocca per evocare un incantesimo che avrebbe trasportato Roran lontano dal pericolo - per quanto gli sarebbe costato - Murtagh disse: «Aspetta. Voglio vedere cosa fa.»


«Perché?»


Un bieco sorriso increspò il volto di Murtagh. «I Gemelli si sono divertiti a torturarmi mentre ero loro prigioniero.» Eragon lo squadrò con sospetto. «Non gli farai del male? Non avvertirai i Gemelli?»


«Vel ernradhin iet ai Shur'tugal.» La mia parola di Cavaliere.


Insieme videro Roran nascondersi dietro un mucchio di cadaveri. Eragon s'irrigidì quando i Gemelli guardarono verso la pila. Per un momento, ebbe l'impressione che lo avessero individuato, ma poi si volsero, e Roran balzò allo scoperto. Fece roteare il martello e colpì uno dei Gemelli sul capo, spaccandogli il cranio. Il Gemello superstite cadde in terra, in preda alle convulsioni, ed emise un grido inarticolato prima di incontrare la sua fine sotto il martello di Roran. Poi Roran piantò un piede sui cadaveri dei nemici, levò il martello al cielo e lanciò un ululato di vittoria.


«E adesso?» chiese Eragon, distogliendo lo sguardo dal campo di battaglia. «Mi ucciderai?»


«No. Galbatorix ti vuole vivo.»


«Per quale motivo?»


Murtagh sollevò un angolo della bocca in un bieco sorriso. «Non lo sai? Ha! Mi sorprende. Lui non ti vuole per te stesso, ma per lei.» Indicò con il pollice Saphira alle sue spalle. «Il drago racchiuso nell'ultimo uovo di Galbatorix, l'ultimo uovo di drago al mondo, è un maschio. Saphira è l'unica femmina esistente. Se si accoppierà, darà vita a una nuova stirpe di draghi. Capisci, adesso? Galbatorix non vuole distruggere i draghi. Al contrario, vuole Saphira per ripristinare i Cavalieri. Non può uccidervi, se vuole vedere realizzata la sua visione... E che visione, sapessi, Eragon. Dovresti sentirlo mentre te la descrive: così non penseresti troppo male di lui. È così spregevole che voglia riunire Alagaésia sotto un unico vessillo, eliminare le guerre e rifondare i Cavalieri?»


«Ma se è stato lui per primo la causa della loro distruzione!» i


«E non a torto» ribattè Murtagh. «Erano vecchi, grassi e corrotti. Gli elfi li controllavano e li usavano per soggiogare gli umani. Dovevano essere eliminati per poter cominciare daccapo.»


Un furioso cipiglio alterò i lineamenti di Eragon. Prese a camminare avanti e indietro sul pianoro, col respiro affannato, poi indicò il campo di battaglia e disse: «Come puoi giustificare tutta quella sofferenza con i vaneggiamenti di un pazzo? Galbatorix non ha fatto altro che bruciare e uccidere e accumulare potere per se stesso. È un bugiardo. Un assassino. Un abile manipolatore. E tu lo sai! È il motivo per cui all'epoca ti rifiutasti di lavorare per lui.» Eragon fece una pausa, poi assunse un tono più mite: «Posso capire che tu sia stato costretto ad agire contro la tua volontà e che non sia responsabile per la morte di Rothgar. Ma puoi sempre fuggire. Sono sicuro che Arya e io troveremo il modo di neutralizzare i vincoli con cui ti tiene legato Galbatorix... Unisciti a me, Murtagh. Puoi fare tanto per i Varden. Con noi sarai lodato e ammirato, invece che maledetto, temuto e odiato.»


Per un momento, quando Murtagh abbassò lo sguardo sul suo spadone, Eragon sperò che avrebbe accettato. Ma poi Murtagh mormorò: «Non puoi aiutarmi, Eragon. Nessuno tranne Galbatorix può scioglierci dal nostro giuramento, e lui non lo farà mai... Conosce i nostri veri nomi, Eragon... Siamo suoi schiavi per sempre.»


Per quanto si sforzasse, Eragon non potè fare a meno di provare compassione per la disgrazia di Murtagh. Con espressione solenne, disse: «Allora lascia che vi uccida.»


«Ucciderci! E perché dovrei lasciartelo fare?»


Eragon scelse le parole con cautela. «Per liberarti dal controllo di Galbatorix. E per salvare la vita di centinaia, migliaia di persone. Non è una causa abbastanza nobile per sacrificare te stesso?»


Murtagh scosse il capo. «Forse per te, ma la vita mi è troppo dolce per separarmene. La vita di nessuno è più importante della mia o di quella di Castigo.»


Malgrado la sua riluttanza, malgrado tutta la terribile situazione, Eragon capì allora cosa andava fatto. Rinnovando l'attacco alla mente di Murtagh, si lanciò su di lui, spiccando un balzo con entrambi i piedi, deciso a colpirlo dritto al cuore.


«Letta!» latrò Murtagh.


Eragon rimbalzò all'indietro e fu immobilizzato da catene invisibili che gli serravano braccia e gambe. Alla sua destra, Saphira sprigionò un getto di fuoco e si avventò su Murtagh come un gatto su un topo.


«Risa!» ordinò Murtagh, allungando una mano ad artiglio come per prenderla.


Saphira strillò sorpresa quando l'incantesimo di Murtagh la bloccò a mezz'aria, tenendola sospesa a diversi piedi dal suolo. Per quanto si divincolasse, non riusciva a toccare terra né ad alzarsi in volo.


Come fa a essere ancora umano e a possedere una forza del genere? si chiese Eragon. Perfino con le mie nuove facoltà, un tale sforzo mi farebbe mancare il respiro e mi taglierebbe le gambe. Ricorrendo alla sua esperienza nel contrastare gli incantesimi di Oromis, Eragon disse: «Brakka du vanyali sem huildar Saphira un eka!»


Murtagh non accennò nemmeno a fermarlo, ma si limitò a scoccargli un'occhiata vacua, come se considerasse la resistenza di Eragon un fastidioso inconveniente. Scoprendo i denti, Eragon raddoppiò gli sforzi. Le sue mani divennero fredde, le ossa gli dolevano, il battito cardiaco rallentò mentre l'energia si consumava. Di sua iniziativa, Saphira unì le proprie forze alle sue, dandogli accesso alle formidabili risorse del suo corpo. Passarono cinque secondi... Venti secondi... Una vena pulsava nel collo di Murtagh.


Un minuto...


Un minuto e mezzo... Spasmi involontari scuotevano il corpo di Eragon. Le cosce e i polpacci gli tremavano, e le gambe gli avrebbero ceduto, se fosse stato libero di muoversi.


Due minuti...


Eragon fu costretto a rinunciare alla magia, altrimenti sarebbe svenuto e finito nel vuoto. Si accasciò, sfinito. In altre occasioni aveva provato paura, ma soltanto perché pensava di poter fallire. Ora aveva paura perché non sapeva che cosa Murtagh fosse in grado di fare.


«Non puoi nemmeno sperare di competere con me» disse Murtagh. «Nessuno è alla mia altezza, tranne Galbatorix.» Avvicinatosi a Eragon, gli posò la punta dello spadone sulla gola, facendogli il solletico alla pelle. Eragon resistette all'impulso di ritrarsi. «Sarebbe così facile riportarti a Urù'baen.»


Eragon lo guardò dritto negli occhi. «Non farlo. Lasciami andare.»


«Hai appena tentato di uccidermi.»


«Tu avresti fatto lo stesso al posto mio.» Davanti al silenzio e allo sguardo inespressivo di Murtagh, Eragon disse: «Eravamo amici, un tempo. Abbiamo combattuto insieme. Galbatorix non può averti corrotto al punto da farti dimenticare... Se lo fai, Murtagh, sarai perduto per sempre.»


Passò un lungo minuto. L'unico suono era il clamore degli eserciti che si scontravano. Un rivoletto di sangue colava lungo il collo di Eragon dal punto in cui la spada lo feriva. Saphira frustava l'aria con la coda, impotente. Alla fine Murtagh disse: «Mi è stato ordinato di tentare di catturare te e Saphira.» Fece una pausa. «Ho tentato... Fai in modo di non incrociare più il mio cammino, Eragon. Galbatorix mi farà giurare nell'antica lingua di non mostrare più tanta clemenza la prossima volta che ci incontreremo.» Abbassò lo spadone.


«Stai facendo la cosa giusta» disse Eragon. Provò a indietreggiare, ma era ancora paralizzato.


«Forse. Ma prima di lasciarti andare...» Dopo aver teso una mano, Murtagh strappò Zar'roc dalla stretta di Eragon e slacciò il fodero rosso della spada dalla cintura di Beloth il Savio. «Se sono diventato come mio padre, allora avrò la spada di mio padre. Castigo è il mio drago, e un castigo sarà per tutti i miei nemici. Perciò è più che giusto che io impugni la spada Miseria. Miseria e Castigo, una coppia perfetta. Per giunta, Zar'roc doveva andare al primogenito di Morzan, il suo Eldest, e non al figlio minore. Mi appartiene di diritto.»


Per Eragon, fu come un pugno allo stomaco. Non può essere.


Un sorriso crudele comparve sul volto di Murtagh.


«Non ti ho mai detto il nome di mia madre, vero? E tu non mi hai mai detto quello della tua. Te lo dico adesso: Selena. Selena era mia madre, come anche la tua. I Gemelli scoprirono il legame mentre ti frugavano nella testa. Galbatorix è , rimasto particolarmente colpito da questa notizia.»


«Tu menti!» gridò Eragon. Non poteva sopportare il pensiero di essere il figlio di Morzan. Brom lo sapeva? Oromis lo sapeva? Perché non me l'hanno detto? Rammentò allora che Angela gli aveva predetto che qualcuno della sua famiglia lo avrebbe tradito. Aveva ragione.


Murtagh scosse il capo e ripetè le stesse parole nell'antica lingua, poi avvicinò le labbra all'orecchio di Eragon e sussurrò: «Tu e io, Eragon, siamo uguali. Immagini speculari l'uno dell'altro. Non puoi negarlo.»


«Ti sbagli» ringhiò Eragon, lottando contro l'incantesimo. «Non siamo affatto uguali. Io non ho più una cicatrice sulla schiena.» il Murtagh trasalì come se lo avessero colpito, poi il suo volto si fece duro e gelido. Si portò Zar'roc al petto. «E sia. Prendo la mia eredità da te, fratello. Addio.»


Poi raccolse l'elmo da terra e salì in groppa a Castigo. Non una volta si girò a guardare Eragon, mentre il drago si accovacciava, dispiegava le ali e si levava in volo, allontanandosi dal pianoro per puntare a nord. Solo quando Castigo svanì oltre l'orizzonte, la ragnatela di magia si dissolse, ed Eragon e Saphira furono liberi.


Gli artigli della dragonessa ticchettarono sulla roccia quando atterrò. Si avvicinò a Eragon e gli sfiorò il braccio con il muso. Come stai, piccolo mio?


Sto bene, rispose lui. Ma non era vero, e lei lo sapeva.


Eragon si avvicinò al ciglio dell'altopiano e scrutò le Pianure Ardenti e l'esito della battaglia: perché la battaglia era finita. Con la morte dei Gemelli, i Varden e i nani avevano riconquistato il terreno perduto, ed erano riusciti a mettere in rotta le formazioni di soldati confusi, spingendoli verso il fiume o ricacciandoli là da dove erano venuti. Sebbene il grosso delle forze fosse rimasto intatto, l'Impero aveva suonato la ritirata, senza dubbio per ricostituire l'esercito e prepararsi a un secondo tentativo di invasione del Surda. A terra rimasero cumuli di cadaveri di entrambi gli schieramenti, tanti umani e tanti nani da popolare un'intera città. Dense volute di fumo nero si levavano dai corpi che erano caduti sui fuochi di torba.


Ora che la battaglia si era conclusa, i falchi e le aquile, le cornacchie e i corvi discesero come un sudario sul campo. Eragon chiuse gli occhi. Le lacrime gli scorrevano da sotto le palpebre.


Avevano vinto, ma lui aveva perso.

Un abbraccio fraterno

Eragon e Saphira avanzavano fra i cadaveri disseminati sulle Pianure Ardenti, muovendosi adagio per le ferite e la stanchezza. Incontrarono altri superstiti che vagavano per il campo di battaglia, con gli occhi spenti che in realtà non vedevano, ma si smarrivano in lontananza.


Ora che la sete di sangue si era placata, Eragon non provava altro che una profonda sofferenza. La battaglia non aveva alcun senso per lui. È una tragedia che così tanti siano morti per opporsi a un unico pazzo. Si fermò per evitare un gruppo di frecce conficcate nel fango, e fu allora che notò lo squarcio sulla coda di Saphira, dove Castigo l'aveva azzannata, come pure molte altre ferite. Vieni, prestami la tua forza; ti guarirò.


Pensa prima ai feriti che sono in pericolo di vita.


Sicura?


Sicura, piccolo mio.


Con un cenno di assenso, Eragon si chinò e guarì il collo disarticolato di un soldato imperiale prima di spostarsi su uno dei Varden. Non faceva distinzioni fra amici e nemici, e trattava entrambi ai limiti delle sue capacità. Era così assorto nei propri pensieri, da prestare poca attenzione al lavoro che compiva. Avrebbe voluto rinnegare la rivelazione di Murtagh, ma tutto quello che Murtagh aveva detto di sua madre - della loro madre - coincideva con le poche cose che Eragon sapeva di lei: Selena che lasciava Carvahall una ventina d'anni prima; Selena che tornava una sola volta per dare alla luce Eragon; Selena che non s'era mai più vista. La sua mente tornò a quando lui e Murtagh erano arrivati nel Farthen Dùr. Murtagh gli aveva raccontato come sua madre si era all'improvviso dileguata dal castello mentre Morzan era a caccia di Brom, Jeod e dell'uovo di Saphira. Dopo che Morzan ebbe scagliato Zar'toc contro Murtagh quasi uccidendolo, la mamma deve avergli tenuto nascosta la seconda gravidanza, ed essere tornata a Carvahall per proteggermi da Morzan e Galbatorix.


Lo confortava sapere che Selena lo aveva amato tanto, ma questo non bastava a lenire il dolore che provava per la sua morte e la consapevolezza che non si sarebbero mai incontrati; per quanto legata a un filo sottile, aveva sempre coltivato la speranza che i suoi genitori fossero ancora vivi. Nel suo cuore non albergava più alcun desiderio di conoscere suo padre, ma con profonda amarezza si rammaricava di essere stato privato dell'opportunità di riallacciare il rapporto con sua madre.


Da quando era abbastanza grande da sapere di essere un orfano, Eragon si era sempre chiesto chi fosse suo padre, e perché la madre lo avesse fatto allevare da suo fratello Garrow con la moglie Marian. Le risposte alle sue domande erano arrivate così all'improvviso, e da una fonte così inaspettata, e in un momento così poco propizio, che non riusciva ancora a dare un senso a tutta la storia. Ci sarebbero voluti mesi, se non anni, prima di riuscire a riconciliarsi con la verità.


Eragon aveva sempre pensato che sarebbe stato felice di scoprire l'identità di suo padre. Ora che la conosceva, era disgustato. Quando era più piccolo, si era sempre divertito a fantasticare su suo padre, immaginandolo come un essere nobile e importante, anche se sapeva che era molto più probabile il contrario. Eppure non gli era mai venuto in mente, nemmeno nei sogni più bizzarri, di poter essere il figlio di un Cavaliere, meno che mai di uno dei Rinnegati. I sogni si erano trasformati in un incubo.


Sono stato generato da un mostro... Mio padre è stato colui che ha tradito i Cavalieri consegnandoli a Galbatorix. Eragon era stravolto.


No... Mentre guariva la colonna vertebrale spezzata di un uomo, osservò la situazione da una nuova prospettiva, che gli restituiva un briciolo di fiducia in se stesso. Morzan potrà anche avermi generato, ma non era mio padre. Garrow era mio padre. È stato lui ad allevarmi. A insegnarmi a vivere con onestà e rettitudine, con integrità. Io sono quello che sono grazie a lui. Versino Brom e Oromis sono miei padri più di Morzan. E mio fratello è Roran, non Murtagh. Annuì, deciso a tenersi aggrappato a quella convinzione. Fino ad allora non aveva mai accettato completamente Garrow come padre. E anche se Garrow era morto, riconoscerlo come tale gli dava un senso di sollievo, di vicinanza, e lo aiutò a mitigare l'orrore per Morzan.


Sei diventato saggio, osservò Saphira.


Saggio? Eragon scosse il capo. No, ho soltanto imparato a pensare. Questa è stata la lezione di Oromis. Eragon ripulì da uno strato di sporco il volto di un giovanissimo portabandiera, per assicurarsi che fosse morto, poi si raddrizzò, facendo una smorfia quando i muscoli protestarono con una fitta. Ti rendi conto che Brom doveva sapere tutto questo, vero? Perché altrimenti avrebbe scelto di nascondersi a Carvahall mentre aspettava che tu nascessi? Voleva tenere d'occhio il figlio del suo nemico. Lo turbava pensare che Brom l'avesse potuto ritenere una minaccia. E aveva ragione. Guarda che cosa mi è successo!


Saphira gli arruffò i capelli con una ventata d'alito caldo. Ricorda però una cosa: quali che fossero le ragioni di Brom, lui ha sempre cercato di proteggerci dal pericolo. È morto per salvarti dai Ra'zac.


Lo so... Credi che non me l'abbia detto perché temeva che potessi emulare Morzan, come ha fatto Murtagh? Certo che no.


Lui la guardò, incuriosito. Come fai a esserne tanto sicura? Lei alzò il capo, rifiutandosi di incontrare il suo sguardo o di rispondere. Pensala come vuoi, allora. Inginocchiandosi accanto a uno degli uomini di re Orrin, che aveva un freccia conficcata nel ventre, Eragon gli bloccò le braccia per impedirgli di contorcersi. «Calmati.»


«Acqua» si lamentò l'uomo. «Per amor del cielo... un po' d'acqua. Ho la gola secca come... sabbia. Ti prego, Ammazzaspettri.» Il sudore gli imperlava il viso.


Eragon sorrise, tentando di confortarlo. «Posso darti da bere subito, ma sarebbe meglio aspettare che ti abbia guarito. Ce la fai? Dopo, ti prometto che potrai avere tutta l'acqua che vuoi.»


«Me lo prometti, Ammazzaspettri?»


«Te lo prometto.»


L'uomo fremette per un'altra ondata di dolore prima di dire: «Va bene.»


Con l'aiuto della magia, Eragon estrasse la freccia, poi insieme a Saphira si adoperò per riparare gli organi interni dell'uomo, usando parte dell'energia dell'uomo stesso per alimentare l'incantesimo. Ci vollero parecchi minuti. Dopo, l'uomo si esaminò la pancia, si premette le mani sulla pelle intatta, poi guardò Eragon, con gli occhi colmi di lacrime. «Io... Ammazzaspettri, tu...»


Eragon gli porse la sua borraccia. «Tieni, bevi. Ne hai molto più bisogno di me.»


Cento iarde più in là, Eragon e Saphira superarono un muro di fumo acre e trovarono Orik e altri dieci nani - fra cui alcune donne - accovacciati intorno alla salma di Rothgar, adagiato su quattro scudi, risplendente nella sua armatura d'oro. I nani si strappavano i capelli e si picchiavano il petto, rivolgendo le loro lamentazioni al cielo. Eragon chinò la testa e mormorò: «Stydja unin mor'ranr, Rothgar Kònungr.»


Dopo un po', Orik li notò e si alzò, il viso rosso di pianto, la treccia della barba disfatta. Barcollò verso Eragon e senza tante cerimonie chiese: «Hai ucciso il responsabile di questa tragedia?»


«È fuggito.» Eragon non riuscì a spiegare che il Cavaliere era Murtagh.


Orik si battè un palmo con il pugno. «Barzuln!»


«Ma ti giuro su ogni pietra di Alagaésia che come membro del Dùrgrimst Ingietum farò di tutto per vendicare la morte di Rothgar.»


«Sì, Eragon. Tu sei il solo, oltre agli elfi, abbastanza forte da eliminare quel maledetto assassino. E quando lo troverai. .. riduci le sue ossa in polvere, strappagli i denti e versagli piombo fuso nelle vene, perché soffra ogni minuto di vita che ha rubato a Rothgar.»


«Non è stata una buona morte? Rothgar non avrebbe voluto morire in battaglia, con Volund in mano?» «In battaglia, certo, affrontando un nemico faccia a faccia. Non ucciso dal trucco di uno stregone...» Scuotendo la testa, Orik volse lo sguardo verso Rothgar, poi incrociò le braccia e abbassò il mento sul petto. Trasse alcuni respiri affannati. «Quando i miei genitori morirono di vaiolo, Rothgar mi ridiede la vita. Mi accolse nel suo palazzo. Mi nominò suo erede. Perderlo...» Orik si strinse la punta del naso fra il pollice e l'indice, per coprirsi il volto. «Perderlo è come perdere mio padre un'altra volta.»


Il dolore nella sua voce era così evidente che Eragon sentì di condividere il cordoglio del nano. «Ti capisco» disse. «Lo so, Eragon... Lo so.» Dopo un momento, Orik si asciugò gli occhi e indicò i dieci nani. «Prima di qualunque altra cosa, dobbiamo riportare Rothgar nel Farthen Dùr, perché possa essere sepolto con i suoi predecessori. Il Dùrgrimst Ingietum dovrà poi scegliere un nuovo grimstborith, e poi i tredici capiclan, compresi quelli che vedi qui, sceglieranno il nostro nuovo re fra di loro. Quello che accadrà dopo, non lo so. Questa tragedia rafforzerà alcuni clan e volgerà altri contro la nostra causa...» Scrollò di nuovo il capo.


Eragon gli posò una mano sulla spalla. «Non preoccuparti di questo, per ora. Non devi far altro che chiederlo, e il mio braccio e la mia volontà saranno al tuo servizio... Perché non vieni nella mia tenda a brindare alla memoria di Rothgar?» «Mi piacerebbe, ma non adesso. Non finché non avremo finito di implorare gli dei di assicurare a Rothgar un sereno passaggio nell'altra vita.» Lasciato Eragon, Orik tornò nel cerchio di nani e aggiunse la sua voce alle lamentazioni. Riprendendo il cammino per le Pianure Ardenti, Saphira disse: Rothgar era un grande re.


Sì, e un grande amico. Eragon sospirò. Dovremmo trovare Arya e Nasuada. Ormai non sono più in grado di guarire nemmeno un graffio, e loro devono sapere di Murtagh.


Sono d'accordo.


Si avviarono verso l'accampamento dei Varden, ma dopo appena qualche passo Eragon vide Roran venirgli incontro dal fiume Jiet. Si sentì prendere dalla trepidazione. Roran si fermò davanti a loro, con i piedi divaricati e ben piantati nel suolo, mentre la mascella si contraeva nello sforzo di parlare, ma era come se non riuscisse a emettere alcun suono. Poi sferrò a Eragon un pugno sul mento.


Sarebbe stato facile per Eragon evitarlo, e invece gli permise di colpirlo, ritraendosi appena quel tanto da evitare che Roran si sbucciasse le nocche.


E provò dolore.


Con una smorfia, Eragon affrontò il cugino. «Credo di essermelo meritato.»


«Stanne certo. Dobbiamo parlare.»


«Ora?»


«Non posso più aspettare. I Ra'zac hanno catturato Katrina, e mi serve il tuo aiuto per andarla a liberare. Katrina è in mano loro da quando siamo fuggiti da Carvahall.»


È così, allora. In quel momento Eragon capì perché Roran gli era parso tanto cupo e tormentato, e perché aveva portato l'intero villaggio nel Surda. Brom aveva ragione: Galbatorix ha mandato di nuovo i Ra'zac nella Valle Palancar. Aggrottò la fronte, dibattuto fra le sue responsabilità verso Roran e i suoi obblighi verso Nasuada. «C'è qualcosa che devo fare prima, poi potremo parlare. D'accordo? Puoi venire con me, se ti va.»


«Ti accompagno.»


Mentre avanzavano sulla terra martoriata, Eragon continuava a rivolgere occhiate furtive a Roran. Poi, a bassa voce, disse: «Mi sei mancato.»


Roran esitò, poi rispose con un brusco cenno della testa. Qualche passo dopo, disse: «Questa è Saphira, giusto? Jeod ha detto che si chiama così.»


«Sì.»


Saphira scrutò Roran con un occhio scintillante. Lui sostenne il suo esame senza distogliere lo sguardo, una cosa che pochi riuscivano a fare. Ho sempre voluto conoscere il compagno di cova di Eragon.


«Sa parlare!» esclamò Roran, quando Eragon ripetè le sue parole. Questa volta Saphira si rivolse direttamente alla sua mente. Cosa? Credevi che fossi muta come una lucertola del deserto?


Roran battè le palpebre. «Ti chiedo scusa. Non sapevo che i draghi fossero intelligenti.» Un sorriso amaro gli increspò le labbra. «Prima i Ra'zac e gli stregoni, ora nani, Cavalieri e draghi parlanti. A quanto pare il mondo è impazzito.» «A quanto pare.»


«Ho visto che duellavi con l'altro Cavaliere. L'hai ferito? Per questo è fuggito?»


«Aspetta. Lo saprai fra poco.»


Quando raggiunsero il padiglione che Eragon stava cercando, sollevò i lembi dell'ingresso ed entrò, seguito da Roran e dalla testa di Saphira. Al centro della tenda, Nasuada era seduta sul bordo del tavolo, impegnata in un'accesa discussione con Arya, mentre una cameriera l'aiutava a togliersi l'armatura ammaccata. La ferita alla coscia era stata guarita.


Nasuada s'interruppe a metà di un frase quando scorse i nuovi arrivati. Balzò giù dal tavolo e gettò le braccia al collo di Eragon, gridando: «Dov'eri finito? Credevamo che fossi morto o peggio.»


«Invece no.»


«La candela brucia ancora» mormorò Arya.


Facendo un passo indietro, Nasuada disse: «Non siamo più riusciti a vedere che cosa vi stava accadendo, dopo che tu e Saphira siete atterrati sul pianoro. Quando il drago rosso si è allontanato, e tu non tornavi, Arya ha cercato di mettersi in contatto con te, ma non sentiva niente, così abbiamo pensato...» Le mancò la voce. «Stavamo appunto discutendo del modo migliore per trasportare il Du Vrangr Gata e un intero battaglione di soldati dall'altra parte del fiume.»


«Mi dispiace. Non volevo farvi preoccupare. Solo che ero così stanco che mi sono dimenticato di abbassare le barriere mentali.» Poi Eragon presentò Roran. «Nasuada, vorrei presentarti mio cugino Roran. Ajihad deve avertene parlato. Roran, ledy Nasuada, capo dei Varden e mia signora. E questa è Arya Svit-kona, ambasciatrice degli elfi.» Roran s'inchinò a entrambe.


«È un vero onore conoscere il cugino di Eragon» disse Nasuada.


«Un vero onore» le fece eco Arya.


Quando ebbero finito le presentazioni, Eragon spiegò come l'intero villaggio di Carvahall era arrivato a bordo dell'Ala di Drago, e che Roran era il responsabile della morte dei Gemelli.


Nasuada inarcò un sopracciglio scuro. «I Varden sono in debito con te, Roran, per aver fermato la loro empietà. Chissà quali altre scelleratezze avrebbero potuto compiere i Gemelli prima che Eragon o Arya avessero il tempo di affrontarli. Ci hai aiutato a vincere questa battaglia, e non lo dimenticherò. Le nostre scorte sono limitate, ma provvedere affinchè ogni uomo e donna a bordo della vostra nave sia vestito e sfamato, e i malati curati.»


Roran s'inchinò ancora di più. «Grazie, ledy Nasuada.»


«Se non fossimo così a corto di tempo, mi piacerebbe sapere come e perché tu e il tuo villaggio siete sfuggiti agli uomini di Galbatorix, avete viaggiato fino al Surda, e ci avete trovati. Anche il solo elenco dei fatti nudi e crudi è di per sé un racconto straordinario. Intendo comunque conoscere i dettagli, specie perché sospetto riguardino Eragon, ma adesso devo occuparmi di questioni più urgenti.»


«Certo, ledy Nasuada.»


«Puoi andare, dunque.»


«Ti prego» intervenne Eragon, «lascia che resti. È giusto che sappia anche lui.»


Nasuada lo guardò, perplessa. «Va bene. Se lo desideri. Ma adesso basta con le chiacchiere. Veniamo al dunque. Dicci del Cavaliere!»


A beneficio di Roran, Eragon cominciò con una breve storia delle ultime tre uova di drago - due delle quali si erano ormai schiuse - spiegando chi fossero Morzan e Murtagh. Poi continuò descrivendo il duello suo e di Saphira con Castigo e il misterioso Cavaliere, dando particolare rilievo ai suoi poteri straordinari. «Quando si è rigirato la spada nella mano, mi sono reso conto che avevo già duellato contro di lui, così gli sono balzato addosso e gli ho strappato l'elmo.» Eragon fece una pausa.


«Era Murtagh, vero?» chiese Nasuada in tono sommesso.


«Come...?»


La donna sospirò. «Se i Gemelli erano sopravvissuti, va da sé che lo era anche Murtagh. Ti ha detto cosa è successo davvero quel giorno nel Farthen Dùr?»


Così Eragon raccontò come i Gemelli avevano tradito i Varden, reclutato gli Urgali e rapito Murtagh. Una lacrima scivolò sulla guancia di Nasuada. «È un peccato che sia accaduto a Murtagh, dopo che ne aveva già passate tante. Mi piaceva la sua compagnia a Tronjheim e credevo che fosse nostro alleato, malgrado le sue origini. Mi è difficile pensarlo come nemico.» Poi si rivolse a Roran. «Si direbbe che io sia personalmente in debito con te per aver eliminato i traditori che hanno assassinato mio padre.» Padri, madri, fratelli, cugini, pensò Eragon. Ogni cosa si stringe intorno alla famiglia. Facendo appello a tutto il suo coraggio, completò il racconto con il furto di Zar'roc da parte di Murtagh e la sua terribile rivelazione finale.


«Non è possibile» mormorò Nasuada.


Eragon lesse spavento e repulsione sul volto di Roran, prima che riuscisse a nascondere le proprie emozioni. Questo lo ferì più di ogni altra cosa.


«Forse Murtagh mentiva» suggerì Arya.


«Non vedo come. Quando ho insistito, mi ha ripetuto la stessa cosa nell'antica lingua.»


Un lungo, sgradevole silenzio riempì il padiglione.


Poi Arya disse: «Nessun altro deve saperlo. I Varden sono già abbastanza demoralizzati per la presenza di un nuovo Cavaliere. E resteranno ancora più sconvolti quando sapranno che si tratta di Murtagh, con cui hanno combattuto e di cui si sono fidati nel Farthen Dùr. Se si sparge la voce che Eragon Ammazzaspettri è il figlio di Morzan, gli uomini perderanno ogni illusione e nessuno vorrà più unirsi a noi. Nemmeno re Orrin dovrà saperlo.»


Nasuada si massaggiò le tempie. «Temo che tu abbia ragione. Un nuovo Cavaliere...» Scosse il capo. «Sapevo che un'eventualità del genere era possibile, ma non credevo che si sarebbe realizzata, dato che le ultime uova di Galbatorix continuavano a non schiudersi.»


«C'è una certa logica» osservò Eragon.


«La nostra missione è due volte difficile, ora. Oggi abbiamo vinto, ma l'Impero è ancora molto più numeroso, e adesso ci troviamo ad affrontare non uno ma due Cavalieri, entrambi molto più potenti di te, Eragon. Credi di poter sconfiggere Murtagh con l'aiuto dei maghi elfici?»


«Forse. Ma dubito che sia tanto sciocco da combattere loro e me insieme.» per lunghi minuti, discussero degli effetti che Murtagh poteva avere sulla loro campagna, e delle strategie per ridurli o eliminarli. Alla fine Nasuada disse: «Basta così. Non possiamo decidere ora, sporchi, stanchi e ottenebrati dalla battaglia. Andate a riposarvi, e riprenderemo il discorso domattina.»


Quando Eragon si volse per andarsene, Arya si avvicinò e lo guardò dritto negli occhi. «Non farti affliggere troppo da questa storia. Tu non sei tuo padre e non sei tuo fratello. La loro infamia non è la tua.»


«Giusto» disse Nasuada. «E non pensare che questo sminuisca la nostra stima nei tuoi riguardi.» Gli prese il viso fra le mani. «Io ti conosco, Eragon. Hai il cuore buono. Il nome di tuo padre non può cambiarlo.»


Eragon si sentì pervadere da un tiepido calore. Guardò una donna, poi l'altra, e infine girò il polso e lo avvicinò al petto, traboccante di gratitudine per la loro amicizia. «Grazie.» Una volta tornati all'aperto, Eragon si pose le mani sui fianchi e trasse un profondo respiro di aria fumosa. La giornata volgeva al tramonto, e lo sgargiante arancio del giorno aveva lasciato il posto a una caliginosa luce dorata che avvolgeva l'accampamento e il campo di battaglia, conferendogli una strana bellezza. «Così adesso lo sai» mormorò Eragon.


Roran si strinse nelle spalle. «Il sangue non mente.»


«Non dirlo» ringhiò Eragon. «Non dirlo mai più.»


Roran lo studiò per parecchi istanti. «Hai ragione; è stato un pensiero orribile. Mi mangerei la lingua.» Si grattò la barba e guardò con gli occhi socchiusi il grande disco del sole che lambiva l'orizzonte. «Nasuada non è quello che mi aspettavo.»


La frase strappò una risata stanca a Eragon. «Quello che ti aspettavi era suo padre, Ajihad. Ma lei è abile quanto lui, se non di più.» «La sua pelle è tinta?»


«No, è il suo colore naturale.»


In quel momento, Eragon avvertì Jeod, Horst e una ventina di altri uomini di Carvahall di affrettarsi verso di loro. Nello svoltare da dietro una tenda, videro Saphira e rallentarono. «Horst!» esclamò Eragon, e corse verso il fabbro per abbracciarlo forte. «Che bello rivederti!»


Horst guardò Eragon a bocca aperta, poi un ampio sorriso gli illuminò il volto. «Che mi venga un colpo se anch'io non sono contento di rivederti, Eragon. Ti sei raffinato, da quando sei partito.»


«Vuoi dire da quando sono fuggito.»


Incontrare i vecchi compaesani fu una strana esperienza per Eragon. Le traversie avevano così alterato alcuni di loro che quasi non li riconosceva. E lo trattavano in maniera diversa, con un misto di rispetto e timore reverenziale. Gli sembrava di vivere un sogno, dove tutto quello che è familiare diventa remoto. Rimase turbato da come si sentiva fuori posto fra di loro.


Quando Eragon arrivò davanti a Jeod, si fermò. «Hai saputo di Brom?»


«Ajihad mi mandò un messaggio, ma vorrei sapere com'è andata da te.»


Eragon annuì con aria grave. «Non appena ne avremo l'occasione, siederemo insieme e parleremo a lungo.» Poi Jeod si avvicinò a Saphira e s'inchinò. «È una vita che aspetto di vedere un drago, e adesso in una sola giornata ne ho visti due. Sono davvero fortunato. Tuttavia sei tu il drago che volevo conoscere.»


Chinando il collo, Saphira sfiorò Jeod sulla fronte. L'uomo rabbrividì al contatto. Ringrazialo da parte mia per aver contribuito a salvarmi da Galbatorix. Altrimenti sarei ancora a languire nella stanza del tesoro del re. Era amico di Brom, e quindi è nostro amico.


Dopo che Eragon ebbe ripetuto le sue parole, Jeod disse: «Atra esterni ono thelduin, Saphira Bjartskular» sorprendendoli con la sua conoscenza dell'antica lingua.


«Dove eri finito?» chiese Horst a Roran. «Ti abbiamo cercato in lungo e in largo dopo che sei corso a caccia di quei due stregoni.»


«Non importa. Tornate alla nave e fate sbarcare tutti; i Varden ci daranno vitto e alloggio. Stanotte dormiremo sulla terraferma!» Gli uomini esultarono.


Eragon guardò con interesse come Roran impartiva ordini. Quando alla fine Jeod e i compaesani si furono allontanati, Eragon disse: «Si fidano di te. Perfino Horst ti obbedisce. Parli a nome di tutta Carvahall, adesso?» «Sì.»


Le tenebre avanzavano cupe sulle Pianure Ardenti quando giunsero alla piccola tenda a due posti che i Varden avevano assegnato a Eragon. Poiché Saphira non poteva nemmeno


infilare la testa nell'apertura, si accovacciò sul terreno lì fuori e si preparò a fare la guardia.


Non appena avrò recuperato le forze, mi occuperò delle tue ferite, le promise Eragon.


Lo so. Non restare alzato fino a tardi, stanotte.


All'interno della tenda, Eragon trovò una lanterna a olio che accese con l'acciarino e la pietra focaia. Poteva vederci benissimo al buio, ma Roran aveva bisogno della luce.


Si sedettero l'uno di fronte all'altro: Eragon sulla branda accostata a un lato della tenda, Roran su uno sgabello che trovò in un angolo. Eragon non sapeva come cominciare, così rimase in silenzio, fissando la fiamma tremula della lanterna.


Nessuno dei due si muoveva.


Dopo interminabili minuti, Roran disse: «Dimmi com'è morto mio padre.»


«Nostro padre.» Eragon rimase calmo quando l'espressione di Roran si indurì. Con voce gentile, disse: «Ho diritto di chiamarlo padre quanto te. Guarda nel tuo cuore; lo sai che è vero.»


«D'accordo. Nostro padre. Com'è morto?»


Eragon aveva raccontato l'episodio diverse volte, ma in questa occasione non nascose nulla. Invece del solito elenco di eventi, descrisse quello che aveva pensato e provato da quando aveva scoperto l'uovo di Saphira, nel tentativo di far capire a Roran perché aveva fatto quello che aveva fatto. Non era mai stato così in ansia prima. «Ho sbagliato a tenere nascosta Saphira al resto della famiglia» concluse Eragon, «ma temevo che avreste insistito perché la uccidessi, e non mi rendevo conto del pericolo in cui ci metteva tutti. Se lo avessi fatto... Dopo che Garrow morì, decisi di andarmene per rintracciare i Ra'zac, e per evitare di mettere ancora Carvahall in pericolo.» Gli sfuggì una risata amara. «Non ha funzionato, ma se fossi rimasto, i soldati sarebbero arrivati prima. E allora chi può sapere che cosa sarebbe successo? Forse sarebbe arrivato lo stesso Galbatorix a far visita alla Valle Palancar. Io posso essere la ragione per cui Garrow... papà... è morto, ma non è mai stata mia intenzione, come non avrei mai voluto che tu o gli altri abitanti di Carvahall soffriste per le mie scelte...» Fece un gesto di disperata impotenza. «Ho fatto meglio che ho potuto, Roran.»


«E il resto? Brom che era un Cavaliere, il salvataggio di Arya a Gil'ead, l'uccisione di uno Spettro nella capitale dei nani... è tutto successo davvero?»


«Sì.» A grandi linee, Eragon tracciò il quadro completo di quanto gli era capitato da quando era fuggito con Brom, compreso il suo soggiorno a Ellesméra e la sua trasformazione durante l'Agaeti Blòdhren.


Chinandosi in avanti, Roran appoggiò i gomiti sulle ginocchia, si strinse le mani e fissò il terreno fra i piedi. Era impossibile per Eragon decifrare le sue emozioni senza toccargli la mente, cosa che decise di non fare perché sapeva che sarebbe stato un terribile errore invadere l'intimità di Roran.


Roran rimase in silenzio così a lungo che Eragon cominciò a chiedersi se avrebbe mai parlato. Poi: «Hai commesso degli errori, ma non più grandi dei miei. Garrow è morto perché hai tenuto nascosta Saphira. Molti sono morti perché mi sono rifiutato di consegnarmi all'Impero... Siamo ugualmente colpevoli.» Alzò lo sguardo, poi lentamente tese la mano destra. «Fratello?»


«Fratello» disse Eragon.


Afferrò il braccio di Roran, poi lo attirò a sé, e i due si strinsero in un abbraccio fraterno, dandosi grosse pacche sulla schiena e dondolandosi insieme come facevano da ragazzi. Quando si separarono, Eragon si asciugq gli occhi col dorso della mano. «Galbatorix dovrà arrendersi, ora


che ci siamo riuniti» scherzò. «Chi può resisterci?» Si sedette di nuovo sulla branda. «Ora dimmi, come hanno fatto i Ra'zac a rapire Katrina?»


Ogni traccia di gioia svanì di colpo dal viso di Roran. Cominciò a parlare con voce bassa e monotona, ed Eragon ascoltò sempre più stupito mentre Roran tesseva un racconto di attacchi, assedi, e tradimenti; della partenza da Carvahall, dell'attraversamento della Grande Dorsale, e dell'incendio dei moli di Teirm, e della navigazione su un mostruoso gorgo.


Alla fine Eragon disse: «Sei un uomo molto più valoroso di me. Io non avrei potuto fare la metà delle cose che hai fatto tu. Combattere sì, ma non convincere tutti a seguirmi.»


«Non avevo scelta. Quando hanno preso Katrina...» La voce di Roran si spezzò. «Potevo arrendermi e morire, oppure tentare di sfuggire alla trappola di Galbatorix, a ogni costo.» Fissò i suoi occhi ardenti su Eragon. «Ho mentito e bruciato e ucciso per arrivare qui. Non devo più preoccuparmi di proteggere gli abitanti di Carvahall; ci penseranno i Varden, d'ora in poi. Adesso non ho che un unico scopo nella vita, trovare e liberare Katrina, se non è già morta. Mi aiuterai, Eragon?»


Eragon si alzò e andò a prendere le bisacce nell'angolo della tenda dove i Varden le avevano depositate. Prese una ciotola di legno e la fiaschetta d'argento con il faelnirv stregato che gli aveva dato Oromis. Bevve un piccolo sorso di liquore per rinvigorirsi e sussultò quando il liquido gli bruciò la gola, facendogli formicolare i nervi di gelido fuoco. Poi versò del faelnirv nella ciotola fino a formare una piccola pozza di liquido.


«Guarda.» Attingendo alla nuova energia, Eragon disse: «Draumr kópa.»


Il liquore tremolò e divenne nero. Dopo qualche secondo, una piccola scintilla di luce comparve al centro della ciotola, mostrando Katrina. Era accasciata contro una parete invisibile, le mani sospese sopra la testa da catene invisibili, i capelli ramati che le piovevano sul viso.


«È viva!» Roran si chinò sulla ciotola, afferrandola come se volesse tuffarsi nel faelnirv e raggiungere Katrina. La sua speranza e la sua determinazione si fusero con un'espressione di affetto così tenero che Eragon capì che soltanto la morte avrebbe impedito a Roran di salvarla.


Incapace di trattenere l'incantesimo più a lungo, Eragon lasciò che l'immagine svanisse. Si appoggiò alla parete della tenda per sostenersi. «Sì» mormorò con voce debole, «è viva. E con tutta probabilità si trova imprigionata sull'Helgrind, il covo dei Ra'zac.» Eragon afferrò Roran per le spalle. «La risposta alla tua domanda, fratello, è sì. Partirò per DrasLeona con te. Ti aiuterò a liberare Katrina. E allora, insieme,


tu e io, uccideremo i Ra'zac e vendicheremo nostro padre.»

Fine del Libro Secondo

La storia continuerà con Il Libro Terzo dell'Eredità Glossario


L'antica lingua


Adurna: acqua


Agaetì Blòdhren: Celebrazione del Giuramento di Sangue


Aiedail: Stella del Mattino


Argetlam: Mano d'Argento


Atra esterni ono thelduin/Mon'ranr lifa unin hjarta onr/Un du evarinya ono varda: Che la fortuna ti assista/che la pace regni nel tuo cuore/e che le stelle ti proteggano. Atra gùlai un ilian tauthr ono un atra ono waìse skolir fra rauthr: Che la fortuna e la felicità ti assistano e che tu possa essere una protezione dalla sventura.


Atra nosu waise vardo fra eld hórnya: Che possiamo essere protetti da orecchie indiscrete.


Bjartskular: Squamediluce


Blòthr: fermo; fermati


Brakka du vanyali sem huildar Saphira un eka!: Riduci la magia che blocca Saphira e me!


Brisingr: fuoco


Dagshelgr: giorno sacro


Draumr kópa: Rifletti l'immagine.


Du Fells Nàngoròth: le Montagne Funeste


Du Fyrn Skulblaka: la Guerra dei Draghi


Du Vòllar Eldrvarya: le Pianure Ardenti


Du Vrangr Gata: il Tortuoso Cammino


Du Weldenvarden: la Foresta dei Guardiani


Dvergar: nani


Ebrithil: maestro


Edur: uno sperone roccioso; un promontorio


Eka ai fricai un Shur'tughal: Sono un Cavaliere e un amico.


Elda: appellativo onorifico di grande rispetto (genere neutro)


Eyddr eyreya onr!: Svuota le orecchie!


Fairth: quadro realizzato con mezzi magici


Finiarel: appellativo onorifico per un giovane uomo di grandi promesse


Fricai Andlàt: morte amica (un fungo velenoso)


Gala O Wyrda brunhvitr/Abr Berundal vandr-fódhr/ Burthro laufsblàdar ekar undir/Eom kona dauthleikr... : Cantami oh fato dalla bianca fronte/dello sfortunato Berundal/nato sotto foglie di quercia/da donna mortale... Ganga aptr: Vai indietro.


Ganga fram: Vai avanti.


Gath sem oro un lam iet: Congiungi la freccia alla mia mano.


Gedwéy ignasia: palmo luccicante


Géuloth du knìfr!: Smussa la lama!


Haldthin: stramonio


Helgrind: i Cancelli della Morte


Hlaupa: corri


Hljòdhr: silente


Jierda: spezza; colpisci


Kodthr: prendi


Kvetha Fricai: Salute, amico.


Lethrblaka: pipistrello; le cavalcature dei Ra'zac (letteralmente, volatile di cuoio)


Letta: ferma


Letta orya thorna!: Ferma quelle frecce!


Liduen Kvaedhì: Poetica Scrittura


Losna kalfya iet: Liberami i polpacci.


Malthinae: lega/trattieni/confina


Nalgask: miscela di cera d'api e olio di noci usata per idratare la pelle


Osthato Chetòwa: il Saggio Dolente


Reisa du adurna: Solleva/Alza l'acqua.


Risa: levita


Sé mor'ranr ono firma: Che tu possa trovare la pace.


Sé onr sverdar sitja hvass!: Che la tua spada resti affilata!


Sé orùm thornessa hàvr sharjalvi lifs: Che questo serpente abbia il moto della vita.


Skòlir: protezione; scudo


Skòlir nosu fra brisingr!: Proteggici dal fuoco!


Skòliro: protetto


Skulblaka: drago (letteralmente, volatile di squame)


Stydja unin mor'ranr, Rothgar Kònungr: Riposa in pace, re


Rothgar. Svit-kona: appellativo onorifico e formale per una donna elfica di grande saggezza


Thrysta: spingi; comprimi


Thrysta vindr: Comprimi l'aria.


Togira Ikonoka: lo Storpio Che è Sano


Varden: Guardiani


Vel einradhin iet ai Shur'tugal: La mia parola di Cavaliere.


Vinr Àlfakyn: Amico degli Elfi


Vodhr: appellativo onorifico maschile di medio rispetto


Vor: appellativo onorifico per un caro amico


Waise heill: guarisci


Wiol ono: per te


Wyrda: fato; destino


Wyrdfell: nome elfico per i Rinnegati


Yawé: pegno di fiducia


Zar'roc: Miseria


La lingua dei nani


Akh sartos oen dùrgrimst!: Per la famiglia e il clan!


Ascùdgamln: pugni d'acciaio


Astim Hefthyn: Guardavista (iscrizione su una collana donata a Eragon)


Az Ragni: il Fiume


Az Sweldn rak Anhùin: le Lacrime di Anhùin


Azt jok jordn rast: Allora potete passare.


Barzul: augurare a qualcuno la malasorte


Barzul knurlar!: Che siano maledetti!


Barzuln: augurare a qualcuno una serie ininterrotta di sventure


Beor: orso delle cavèrne (parola elfica)


Dùrgrimst: clan (letteralmente, il nostro casato/la nostra dimora)


Età: no


Etzil nithgech!: Fermatevi qui!


Farthen Dùr: Nostro Padre


Feldùnost: barbabianca (una specie di capra nativa dei Monti Beor)


Formv Hrethcarach... formv Jurgencarmeitder nos età goroth bahst Tarnag, dùr encesti rak kythn! Jok is warrev az barzulegùr dùr dùrgrimst, Az Sweldn rak Anhùin, mògh tor rak Jurgenvren? Né ùdim etal os rast knurlag. Knurlag ana...: Questo Ammazzaspettri... questo Cavaliere dei Draghi non può entrare a Tarnag, la più sacra delle nostre città! Dimentichi che la sventura del nostro clan, le Lacrime di Anhùin, ha origine dalla Guerra dei Draghi? Non lo lasceremo passare. Lui è...


Grimstborith: capoclan


Grimstcarvlorss: patrona del casato


Gùntera Arùna: benedizione di Gùntera -H"rt dùrgrimst? Fild rastn?: Quale clan?TCni passa?


Hirna: statua; effigie


Hùthvir: arma costituita da un bastone a doppia lama, usata dal Dùrgrimst Quan


Ignh az voth!: Portate il cibo!


Ilf gauhnith: una particolare espressione che significa "È buono e sano", di norma pronunciata dal padrone di casa, retaggio dei tempi in cui avvelenare gli ospiti era abbastanza comune fra i clan


Ingietum: metallurgici; fabbri


Isidar Mithrim: Zaffiro Stellato


Jok is frekk dùrgrimstvren?: Vuoi una guerra di clan?


Knurl: pietra; roccia


Knurla: nano (letteralmente, uomo di pietra)


Knurlag qana qirànù Dùrgrimst Ingietum! Barzul ana Rothgar oer volfild: È stato fatto membro del clan Ingietum! Maledetto sia Rothgar e tutti quelli...


Knurlagn: uomini


Knurlhiem: Testa di Pietra


Knurlnien: Cuore di Pietra


Nagra: cinghiale gigante, nativo dei Monti Beor


Oei: sì; affermativo


Orile Thrifkz menthiv oen Hrethcarach Eragon rak Dùrgrimst Ingietum. Wharn, az vanyali-carharùg Arya. Né oc Ùndinz grimstbelardn: Orik, figlio di Thrifk, ed Eragon Ammazzaspettri del clan Ingietum. E la messaggera degli elfi, Arya. Siamo ospiti di Ùndin.


Os il dom qirànù cam dùr thargen, zeitmen, oen grimst vor formv edaris rak skilfz. Narho is belgond...: Che la nostra carne, il nostro onore e la nostra casa siano fatti una cosa soltanto con questo mio sangue. Mi impegno a... Otho: fede


Ragni Hefthyn: Guardiani del Fiume y Shrrg: lupo gigante, nativo dei Monti Beor


Smer voth: Servite il cibo.


Tronjheim: Elmo dei Giganti


Urzhad: orso delle cavèrne


Vanyali: elfo (I nani hanno mutuato questa parola dall'antica lingua, dove in realtà significa magia) Vor Rothgarz korda!: Per il martello di Rothgar!


Vrron: basta


Werg: un'esclamazione di disgusto (nella lingua dei nani, l'equivalente di bleah) La lingua degli Urgali


Ahgrat ukmar: È deciso.


Drajl: larve


Nar: titolo di grande rispetto (genere neutro)


Ringraziamenti


Rvetha Fricàya. Come molti autori che si dedicano alla composizione di un poema epico della lunghezza della Trilogia dell'Eredità, ho scoperto che la creazione di Eragon, e ora di Eldest, è diventata la mia ricerca personale, un percorso in continua evoluzione come quello di Eragon.


Quando ho ideato Eragon avevo quindici anni, non più un bambino, non ancora un uomo; ero appena uscito dal liceo, e non sapevo ancora quale cammino avrei intrapreso nella vita; ero un giovane fantasy-dipendente, stregato dalla magia di questo genere letterario che affollava i miei scaffali. Fra lo scrivere Eragon, il pubblicizzarlo in tutto il mondo e, adesso, l'aver completato Eldest, sono arrivato all'età adulta. Ho compiuto ventun anni ormai e con mio continuo stupore ho già pubblicato due romanzi. Sono convinto che al mondo siano successe cose ben più prodigiose, ma mai a me.


Il viaggio di Eragon è stato il mio viaggio: essere strappato da una remota comunità rurale, costretto a vagare per la terra in una disperata corsa contro il tempo; sopportare un intenso, duro addestramento; raggiungere il successo contro ogni aspettativa; affrontare le conseguenze della fama; e alla fine trovare un po' di pace.


Proprio come nella narrativa, quando il protagonista determinato e armato delle migliori intenzioni - ma non tanto brillante, vi pare? - viene aiutato lungo la via da una schiera di personaggi più saggi, anch'io sono stato aiutato da un certo numero di straordinarie persone di talento. E sono:


A casa: la mamma, per avermi ascoltato tutte le volte che dovevo parlare di un problema che riguardava la trama o i personaggi, e per avermi dato il coraggio di buttare dodici pagine di testo e riscrivere l'ingresso di Eragon a Ellesméra (che dolore!); il papà, come sempre, per il suo significativo lavoro di editing; e la mia cara sorella Angela, per essersi degnata di riprendere il suo ruolo di fattucchiera e per aver contribuito ai suoi dialoghi effervescenti. Alla Writer House: il mio agente, il grande e potente mastro di Clausole, Simon Lipskar, che rende possibile ogni cosa (Mervyn Peake!); e il suo impavido assistente Daniel Lazar, che impedisce al mastro di Clausole di venire sepolto da una valanga di manoscritti, molti dei quali temo siano dovuti al successo di Eragon.


Alla Knopf: il mio editor, Michelle Frey, che è andata ben oltre il semplice dovere e ha reso Eldest migliore di quanto sarebbe stato altrimenti; il direttore della pubblicità, Judith Haut, per aver ancora una volta dimostrato che nessuna promozione è al di là della sua portata (dovreste sentire come ruggisce!); Isabel Warren-Lynch, impareggiabile art director che con Eldest ha superato se stessa; John Jude Palencar, per l'immagine di copertina che mi piace ancora di più di quella di Eragon; il caporedattore Artie Bennett, che ha svolto un lavoro magnifico nel controllare tutte le parole oscure in questa trilogia e probabilmente conosce molto meglio di me l'antica lingua, anche se il suo Urgali lascia un po' a desiderare; Chip Gibson, gran maestro della divisione ragazzi della Random House; Nancy Hinkel, direttore editoriale straordinario Joan De Mayo,


direttore delle vendite (applausi, inchini e ovazioni!) e la sua squadra; Daisy Kline, che con la sua équipe ha creato il meraviglioso materiale di marketing; Linda Palladino, Rebecca Price e Timothy Terthune della produzione; un mare di grazie a Pam White e alla sua squadra, che hanno portato Eragon ai quattro angoli del mondo; Melissa Nelson, per il design; Alison Kolani, per la revisione delle bozze; Michele Burke, l'assistente devoto e instancabile di Michelle Frey; e tutti coloro alla Knopf che mi hanno sostenuto.


Alla Listening Library: Gerard Doyle, per aver dato vita al mondo di Alagaésia; Taro Meyer, per aver colto perfettamente la pronuncia delle mie lingue; Jacob Bronstein, per aver tirato le fila; e Tim Ditlow, editore della Listening Library.


Grazie a tutti voi. Manca soltanto un altro volume e giungeremo alla fine di questo racconto. Un altro manoscritto di affanni, estasi e perseveranza... Un altro codice di sogni.


Restate con me, se vi piace, e scopriremo insieme dove ci porta questo cammino, in questo mondo come in Alagaésia. Sé onr sverdar sitja hvass!

Christopher Paolini 23 agosto 2005


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