Si avvicinò alla parete e staccò dal gancio un martello di media grandezza, con un lungo manico e la lama arrotondata su un lato della testa. Lo soppesò con una mano e con l'altra, poi si rivolse a Horst e gli chiese: «Posso prendere questo?»


Horst guardò l'utensile e poi Roran. «Usalo con saggezza.» Poi parlò al resto del gruppo. «Ascoltate. Vogliamo spaventare, non uccidere. Rompete qualche osso, se vi aggrada, ma non fatevi prendere la mano. E qualunque cosa accada, non provate a opporre resistenza e combattere. Lo so che siete tutti coraggiosi ed eroici, ma rammentate che quelli sono soldati addestrati.»


Quando tutti furono armati, uscirono dalla fucina e attraversarono Carvahall fino all'accampamento. I soldati erano già andati a dormire, tranne quattro sentinelle che pattugliavano il perimetro delle tende grigie. I cavalli dei due Ra'zac erano legati presso un falò languente.


Horst impartì i suoi ordini sottovoce, mandando Albriech e Delwin a neutralizzare due sentinelle, e Parr e Roran a occuparsi delle altre due.


Roran trattenne il fiato nell'avvicinarsi all'ignaro soldato. Il suo cuore cominciò a battere all'impazzata, mentre il suo corpo era scosso da un fremito di energia. Si appostò tremante dietro l'angolo di una casa, e attese che Horst gli desse il segnale. Aspetta.


Aspetta.


Con un ruggito, Horst uscì allo scoperto, guidando la carica nell'accampamento. Roran scattò in avanti, mulinando il martello, e colpì la sentinella su una spalla con uno schianto secco.


L'uomo ululò di dolore e lasciò cadere l'alabarda.


Barcollò mentre Roran gli colpiva le costole e la schiena. Roran levò ancora il martello, e l'uomo indietreggiò atterrito, strillando aiuto.


Roran si lanciò all'inseguimento, gridando parole incoerenti. Piombò su una tenda, calpestando tutto ciò che vi era all'interno, poi colpì la calotta di un elmo spuntato da un'altra tenda. Il metallo risuonò come una campana. Roran quasi non si accorse di Loring che gli passava accanto danzando: il vecchio gracchiava e fischiava nella notte mentre infilzava i soldati con un forcone. Dappertutto era una confusione di corpi che lottavano.


Girando su se stesso, Roran notò un soldato che tentava d'incordare l'arco. Si slanciò all'attacco e calò il martello d'acciaio sull'arco, che si spezzò come un fragile rametto. Il soldato fuggì a gambe levate.


I Ra'zac uscirono dalla tenda con le spade sguainate, emettendo orribili grida stridule, ma non ebbero il tempo di attaccare perché Roran liberò i cavalli e li incitò a galoppare verso le due figure spettrali. I Ra'zac si divisero per poi riunirsi, ma furono travolti dalla massa di cavalli in fuga.


E poi finì.


Roran ansimava nel silenzio, il martello ancora stretto in pugno. Si avviò fra i mucchi calpestati di tende e coperte in cerca di Horst. Il fabbro sogghignava sotto la barba. «È stata la rissa migliore che mi sia capitata da anni.» Alle loro spalle, Carvahall prendeva vita mentre la gente cercava di scoprire la fonte del trambusto. Roran vide accendersi le lanterne dietro le persiane chiuse, poi si volse nell'udire singhiozzi soffocati.


Il ragazzo, Nolfavrell, era inginocchiato sul corpo di un soldato e lo pugnalava al petto con metodica ferocia, mentre le lacrime gli gocciolavano dal mento. Gedric e Albriech accorsero e lo sollevarono di peso dal cadavere. «Non sarebbe dovuto venire» disse Roran.


Horst si strinse nelle spalle. «Era suo diritto.»


Può darsi, ma l'uccisione di un uomo dei Ra'zac ci renderà ancor più difficile liberarci dai profanatori. «Dobbiamo innalzare barricate lungo la strada e fra le case, per non farci cogliere di sorpresa.» Passando in rassegna gli uomini in cerca di feriti, Roran vide Delwin con un lungo taglio sanguinante sul braccio, che si accingeva a fasciare con un lembo stracciato di camicia.


Horst riorganizzò il gruppo gridando ordini. Mandò Albriech e Baldor a recuperare il carro di Quimby dalla fucina, e spedì i figli di Loring e Parr a setacciare Carvahall in cerca di qualunque oggetto utile per difendere il villaggio. Mentre parlava, la gente cominciò a radunarsi ai bordi del campo, venuta a vedere cosa restava dell'accampamento dei Ra'zac e il soldato morto. «Cos'è successo?» gridò Fisk.


Loring si fece avanti e guardò il carpentiere negli occhi. «Cos'è successo? Te lo dico io cos'è successo! Abbiamo scacciato quei sacchi di escrementi... li abbiamo colti di sorpresa e scacciati come cani rognosi!» «Avete fatto bene!» La voce decisa apparteneva a Brigit, una donna dai capelli castani che si stringeva Nolfavrell al petto, ignorando il sangue che gli imbrattava il viso. «Meritano di morire come codardi per la morte di mio marito.» Gli abitanti del villaggio mormorarono parole di approvazione, ma intervenne Thane. «Sei impazzito, Horst? Anche se sei riuscito a scacciare i Ra'zac e i loro soldati, Galbatorix ne manderà qui molti altri. L'Impero non si arrenderà finché non avrà messo le mani su Roran.»


«Avremmo dovuto consegnarlo» grugnì Sloan.


Horst alzò le mani. «Può darsi. Nessuno vale più di tutta Carvahall. Ma se consegnassimo Roran, sei davvero convinto che Galbatorix ci risparmierebbe per la nostra resistenza? Ai suoi occhi siamo tali e quali ai Varden.» «Ma allora perché avete attaccato?» disse Thane. «Chi ti ha dato l'autorità di prendere una simile decisione? Ci hai condannati tutti!»


Questa volta rispose Brigit. «Gli avresti permesso di uccidere tua moglie?» Posò le mani sul volto del figlio, poi mostrò i palmi insanguinati, come un'accusa. «Gli avresti permesso di bruciarci tutti?... Ma che razza di uomo sei?» Thane abbassò lo sguardo, incapace di sostenere l'espressione torva di lei.


«Hanno raso al suolo la mia casa» disse Roran, «divorato Quimby e quasi distrutto Carvahall. Questi crimini non potevano restare impuniti. Siamo forse un branco di conigli spauriti che accettano il loro destino come viene? No! Abbiamo il diritto di difenderci.» S'interruppe nel vedere Albriech e Baldor che arrancavano con il carro su per la strada. «Ma possiamo parlarne dopo. Adesso dobbiamo prepararci. Chi vuole aiutarci?»


Una quarantina di uomini si offrirono volontari, e tutti insieme lavorarono per rendere Carvahall impenetrabile. Roran faticò senza tregua, inchiodando assi fra le case, accumulando botti piene di pietre per innalzare muraglie improvvisate, e trascinando tronchi da piazzare al centro della strada principale, che bloccarono con due carri rovesciati su un fianco. Mentre Roran correva da un posto all'altro, Katrina lo intercettò in un vicolo secondario. Lo abbracciò forte, poi gli disse: «Sono felice che tu sia tornato sano e salvo.»


Lui le sfiorò le labbra con un bacio. «Katrina... voglio parlarti non appena avremo finito.» Lei sorrise incerta, ma con un barlume di speranza. «Avevi ragione. È stato sciocco da parte mia aspettare. Ogni momento passato insieme è prezioso, e non ho intenzione di sprecare il tempo che abbiamo quando un capriccio del fato potrebbe dividerci.» Roran stava gettando acqua sul tetto di paglia della casa di Kiselt perché non prendesse fuoco, quando Parr gridò: «I Ra'zac!»


Roran lasciò cadere il secchio e corse ai carri, dove aveva lasciato il martello. Mentre afferrava l'arma, vide un solo Ra'zac in sella a un cavallo in fondo alla strada, fuori tiro degli archi. La creatura era illuminata da una torcia che impugnava nella mano sinistra, mentre la destra era tesa all'indietro, come pronta a scagliare qualcosa. Roran si mise a ridere. «Vuole prenderei a sassate? È troppo lontano anche solo per...» Le parole gli morirono in gola quando il Ra'zac abbassò il braccio e una fiala di vetro tracciò un arco nell'aria, infrangendosi contro il carro alla sua destra. Un istante dopo un globo di fuoco fece saltare in aria il carro, mentre l'onda d'urto scaraventava Roran contro un muro.


Cadde bocconi, stordito, ansimando in cerca d'aria. Attraverso il ronzio nelle orecchie, sentì il ritmico galoppo dei cavalli. Si rialzò a fatica e si volse verso il rumore, scansandosi appena in tempo per evitare i Ra'zac che piombavano a Carvahall grazie al varco fiammeggiante aperto fra i carri.


I Ra'zac frenarono le cavalcature e cominciarono a falciare gli uomini intorno. Roran vide tre uomini morire, poi Horst e Loring raggiunsero i Ra'zac e cominciarono a respingerli con i forconi. I paesani non ebbero il tempo di riorganizzarsi, perché i soldati sciamarono attraverso la breccia, uccidendo indiscriminatamente nel buio.


Roran sapeva di doverli fermare, altrimenti Carvahall sarebbe caduta. Balzò su un soldato, cogliendolo di sorpresa, e lo colpì in volto con la parte tagliente del martello.


Il soldato stramazzò senza emettere un lamento. Mentre i commilitoni dell'uomo correvano verso di lui, Roran strappò lo scudo dal braccio inerte del soldato e fece appena in tempo a bloccare il primo colpo.


Indietreggiando verso i Ra'zac, Roran parò un affondo di spada, poi roteò il martello contro il mento dell'uomo, mandandolo a terra. «A me!» gridò. «Difendete le vostre case!» Schivò un fendente, mentre cinque uomini tentavano di accerchiarlo. «A me!»


Baldor fu il primo a rispondere al suo richiamo, poi Albriech. Qualche secondo dopo, arrivarono i figli di Loring, seguiti da una ventina di altri uomini. Dalle vie laterali, donne e bambini scagliavano pietre contro i soldati. «Restate uniti» ordinò Roran, mantenendo la posizione. «Noi siamo molti di più.»


I soldati si fermarono mentre la folla davanti a loro continuava a ingrossarsi. Con oltre cento uomini alle spalle, Roran avanzò lentamente.


«Attaccate, ssstupidi!» strillò un Ra'zac, chinandosi per schivare il forcone di Loring.


Una freccia solitària sibilò verso Roran. La parò con lo scudo e rise. I Ra'zac erano schierati insieme ai soldati, adesso, e sibilavano di frustrazione, fissando i villici con sguardi di fuoco da sotto i cappucci neri. All'improvviso Roran si sentì pervaso da uno strano stordimento che gli impediva qualsiasi mossa; gli era difficile persino pensare. La stanchezza sembrava inchiodargli braccia e gambe.


Dal cuore di Carvahall, proruppe il grido rauco di Brigit. Un secondo dopo, una pietra volò sopra la sua testa, diretta contro il Ra'zac in prima linea, che si scansò a velocità soprannaturale per evitare il proiettile. La distrazione, per quanto minima, liberò la mente di Roran dall'influenza soporifera. Magia? si domandò.


Lasciò cadere lo scudo, afferrò il martello con entrambe le mani e lo levò sopra la testa, proprio come faceva Horst quando batteva il metallo. Roran si alzò in punta di piedi, inarcò il corpo all'indietro, poi abbassò le braccia di colpo ruggendo un possente huhl Il martello piroettò in aria e rimbalzò sullo scudo del Ra'zac, lasciando una profonda ammaccatura.


I due attacchi bastarono a disgregare gli ultimi residui dello strano potere del Ra'zac. I due si scambiarono rapidi schiocchi, mentre gli uomini sbraitavano e avanzavano minacciosi. I Ra'zac strattonarono le redini e fecero voltare i cavalli.


«Ritirata» ringhiarono, passando fra i soldati. I guerrieri cremisi cominciarono a indietreggiare da Carvahall, agitando le spade contro chiunque osasse avvicinarsi troppo. Soltanto quando furono a una discreta distanza dai carri in fiamme, osarono voltare la schiena.


Roran sospirò e recuperò il martello, sentendo per la prima volta il dolore dei lividi sul fianco e sulla schiena, dove aveva urtato contro il muro. Chinò la testa nel vedere che l'esplosione aveva ucciso Parr. Altri nove uomini erano morti. Già le mogli e le madri levavano al cielo notturno i loro lamenti di dolore.

Com'e potuto succedere quii


«Venite tutti!» chiamò Baldor.


Roran battè le palpebre e barcollò verso il centro della strada, dove si trovava Baldor. Un Ra'zac era curvo come uno scarafaggio sulla sella del cavallo, a non più di venti iarde da loro. La creatura tese un indice adunco verso Roran e disse: «Tu... tu hai lo ssstesso odore di tuo cugino. Non dimentico mai un odore.»


«Cosa vuoi?» gridò Roran. «Perché siete qui?»


Il Ra'zac emise un'orribile risatina da insetto. «Vogliamo... informazioni.» Si guardò alle spalle, dove i suoi compagni si erano già dileguati, poi gridò: «Lasssciateci Roran, e sssarete venduti come ssschiavi. Proteggetelo, e vi mangeremo tutti. Ci darete la vossstra risssposta quando torneremo. E fate che sssia quella giusssta.»

AZ SWELDN RAK ANHÙIN

La luce inondò il tunnel quando le porte si spalancarono. Con una smorfia, Eragon socchiuse gli occhi, non più avvezzi alla luce del giorno dopo tutto il tempo passato sotto terra. Al suo fianco, Saphira sibilò e inarcò il collo per vedere meglio la loro destinazione.


Avevano impiegato due interi giorni per attraversare il passaggio sotterraneo dal Farthen Dùr, anche se a Eragon era sembrato molto di più, per colpa del buio eterno e del silenzio che incuteva nel gruppo. Ricordava di aver scambiato con gli altri al massimo una decina di parole, durante le soste.


Eragon aveva sperato di sapere qualcosa di più sul conto di Arya, mentre viaggiavano insieme, ma l'unica informazione l'aveva ottenuta grazie al proprio spirito di osservazione. Non aveva mai mangiato con l'elfa prima, ed era rimasto sorpreso nel vedere che si era portata una provvista personale e non mangiava carne. Quando le aveva chiesto spiegazioni, lei si era limitata a rispondere: «Nemmeno tu mangerai più carne di animale quando avrai terminato il tuo addestramento, o se lo farai, sarà in rarissime occasioni.»


«Perché dovrei smettere di mangiare la carne?» domandò lui, accigliato.


«Non so spiegartelo a parole, ma capirai quando arriveremo a Ellesméra.»


Ma adesso che correva verso l'uscita, non pensava ad altro che alla meta agognata. Si ritrovò in cima a un rilievo di granito, che sovrastava di oltre cento piedi un lago dalle sfumature violacee, splendente sotto il sole a oriente. Al pari del Kóstha-mérna, lo specchio d'acqua si estendeva da montagna a montagna, riempiendo il fondo valle. Sulla sponda opposta del lago, il fiume Az Ragni scorreva verso nord, serpeggiando fra i monti finché in lontananza si perdeva fra le pianure a est.


Alla sua destra, le montagne erano spoglie, fatta eccezione per qualche raro sentiero, ma alla sua sinistra... alla sua sinistra c'era la città dei nani, Tarnag. Qui i nani avevano rimodellato gli immutabili Monti Beor in una serie di terrazze. Quelle più basse erano in gran parte fattorie scure mezzelune di terra in attesa della semina - punteggiate da basse e tozze casupole che, da lontano almeno, sembravano costruite interamente di pietra. Al di sopra di quelle brulle terrazze si susseguivano vari livelli di edifici comunicanti, che culminavano in una gigantesca cupola bianca e oro. Era come se la città non fosse altro che un'enorme scalinata che conduceva alla cupola, scintillante come un opale, una perla lattiginosa in cima a una piramide di grigia ardesia.


Orik anticipò la sua domanda, dicendo: «Quello è Celbedeil, il più grande tempio della razza nana, dimora del Dùrgrimst Quan, il clan dei Quan, che sono servi e messaggèri degli dei.»


Sono loro a governare Tarnag? chiese Saphira, ed Eragon ripetè la domanda ad alta voce.


«Nooo» fece Arya, sorpassandoli. «Anche se i Quan sono forti, il loro numero è esiguo, malgrado il potere che detengono sull'aldilà... e sull'oro. Sono i Ragni Hefthyn, i Guardiani del Fiume, che controllano Tarnag. Saremo ospiti del loro capoclan, Ùndin, finché restiamo qui.»


Mentre seguivano l'elfa giù dal pendio roccioso, attraversando l'arida foresta che ricopriva la montagna, Orik mormorò a Eragon: «Non farci caso. Non sopporta i Quan, e ogni volta che visita Tarnag e parla con un sacerdote, si scatenano discussioni così feroci da terrorizzare un Kull.»


«Arya?»


Orik annuì sogghignando. «Non ne so molto, ma ho sentito dire che non approva le pratiche dei Quan. A quanto pare gli elfi disdegnano il "borbottare all'aria in cerca di aiuto".»


Eragon guardò la schiena di Arya mentre scendevano, chiedendosi se fosse vero quanto affermava Orik, e in tal caso, in cosa credesse Arya. Trasse un profondo respiro e respinse la questione in un angolo della mente, per godere la meravigliosa sensazione di essere di nuovo all'aria aperta, dove poteva sentire l'odore del muschio, delle felci e degli alberi della foresta, dove il sole gli riscaldava il viso, e le api e gli altri insetti ronzavano.


Il sentiero li condusse sulla riva del lago prima di risalire verso Tarnag e i suoi cancelli aperti. «Come avete fatto a tenere nascosta Tarnag a Galbatorix?» chiese Eragon. «Il Farthen Dùr posso capirlo, ma questo... non ho mai visto nulla di simile.»


Orik ridacchiò. «Nasconderla? Impossibile. No, dopo la caduta dei Cavalieri, siamo stati costretti ad abbandonare le nostre città in superficie e a ritirarci nei tunnel, per sfuggire a Galbatorix e ai Rinnegati. Sorvolavano spesso i Monti Beor, uccidendo chiunque incontrassero.»


«Credevo che i nani avessero sempre vissuto sottoterra.»


Le folte sopracciglia di Orik si unirono in un'espressione corrucciata. «Perché avremmo dovuto? Certo, condividiamo più di un'affinità con la pietra, ma amiamo l'aria aperta quanto un elfo o un umano. Tuttavia è stato soltanto negli ultimi quindici anni, dalla morte di Morzan, che i nani hanno osato tornare a Tarnag e agli altri nostri antichi insediamenti. Galbatorix sarà anche dotato di poteri soprannaturali, ma non si azzarderebbe mai ad attaccare una città intera da solo. Ovviamente lui e il suo drago potrebbero causarci non pochi problemi se volessero, ma di questi tempi non si allontanano spesso da Urù'baen, nemmeno per brevi viaggi. E Galbatorix non potrebbe portare qui un esercito senza prima conquistare Buragh o il Farthen Dùr.»


Un'impresa che gli è quasi riuscita, commentò Saphira.


Nel superare la cima di una collinetta, Eragon sussultò sorpreso quando un animale sbucò dal sottobosco in mezzo al sentiero. La pelosa creatura somigliava a una capra di montagna come quelle della Grande Dorsale, solo che era grossa il doppio e vantava un paio di gigantesche corna ricurve da far impallidire quelle degli Urgali. Ancora più singolare era la sella che portava sul dorso, e il nano che la montava, con in mano un arco teso.


«Hert dùrgrimst? Fild rastn?» gridò il nano.


«Orik Thrifkz menthiv oen Hrethcarach Eragon rak


Dùrgrimst Ingietum» rispose Orik. «Wharn, az vanyalicarharùg Arya. Né oc Ùndinz grimstbelardn.» La capra guardava Saphira intimidita. Eragon notò quanto fossero limpidi e intelligenti i suoi occhi, malgrado il muso stolido irto di candidi ciuffi. In qualche modo gli ricordava Rothgar, e quasi si mise a ridere al pensiero di quanto fosse adatta ai nani. «Azt jok jordn rast» fu la risposta.


Senza alcun comando udibile da parte del nano, la capra balzò avanti, coprendo una tale distanza che per un momento parve volare. Poi cavaliere e cavalcatura scomparvero fra gli alberi.


«Cos'era?» chiese Eragon, incuriosito.


Orik riprese a camminare. «Una Feldùnost, uno dei cinque animali che vivono soltanto su queste montagne. I clan prendono il nome da ciascuno di essi. Tuttavia, il Dùrgrimst Feldùnost è forse il più valoroso e stimato fra i clan.» «Perché?»


«Dipendiamo dalle Feldùnost per il latte, la lana e la carne. Senza di loro, non potremmo vivere sui Beor. Quando Galbatorix e i suoi Cavalieri traditori ci terrorizzavano, fu il Dùrgrimst Feldùnost che rischiò la vita, e lo fa tuttora, per occuparsi dei greggi e dei campi. Per questo, gli siamo tutti debitori.»


«Tutti i nani cavalcano le Feldùnost?» Eragon pronunciò a fatica quella nuova parola.


«Soltanto fra le montagne. Le Feldùnost sono resistenti e hanno zampe salde, ma sono più adatte alle montagne che non alle pianure.»


Saphira sfiorò Eragon con il muso, facendo indietreggiare Fiammabianca. Ora sì che sarà divertente cacciare. Sono prede ben più appetibili di quelle che ho trovato sulla Dorsale o da qualsiasi altra parte! Se avrò tempo a Tarnag... No! disse Eragon. Non possiamo permetterci di offendere i nani.


La dragonessa sbuffò irritata. Potrei sempre chiedere loro il permesso.


Ora il sentiero che li aveva a lungo nascosti sotto il fogliame scuro entrò nella grande radura che circondava Tarnag. Gruppi di osservatori si erano già radunati nei campi quando sette Feldùnost dai finimenti ingioiellati uscirono dalla città. I cavalieri portavano lance sormontate da lunghi vessilli che schioccavano in aria come fruste. Tirando le redini per fermare la strana bestia, il nano al comando disse: «Vi porgo il benvenuto nella città di Tarnag. Per otho di Ùndin e Gannel, io, Thorv, figlio di Brokk, vi offro in pace l'asilo delle nostre dimore.» Il suo accento era più aspro e rauco di quello di Orik.


«E per otho di Rothgar, noi dellTngietum accettiamo la vostra ospitalità» replicò Orik.


«Anch'io, a nome di Islanzadi» fece eco Arya.


Con evidente soddisfazione, Thorv fece un cenno ai suoi compagni, che spronarono le Feldùnost per disporle in formazione intorno ai quattro. Con gran pompa, i nani li scortarono a Tarnag, attraverso i cancelli della città. Il muro di cinta era spesso quaranta piedi e proiettava la sua ombra sulle prime fattorie che circondavano Tarnag. Altri cinque gradoni - ciascuno difeso da un cancello fortificato - li portarono oltre i campi fino alla città vera e propria. In contrasto con i massicci bastioni e i contrafforti, gli edifici all'interno di Tarnag, sebbene di pietra, erano stati eretti con tale maestria da dare un'impressione di grazia e leggerezza. Eleganti bassorilievi, perlopiù di animali, adornavano le case e le botteghe. Ma ancora più sorprendente era la pietra stessa: vibranti sfumature, dallo scarlatto acceso al più tenue dei verdi, scintillavano nella roccia in strati traslucidi.


E appese in tutta la città c'erano le lanterne senza fiamma dei nani, con le loro scintille multicolori che lasciavano presagire le lunghe notti dei Monti Beor.


Diversamente da Tronjheim, Tarnag era stata costruita a misura di nano, senza alcuna concessione per elfi, umani o draghi in visita. Le porte più grandi erano alte cinque piedi, ma la maggior parte non raggiungevano i quattro. Eragon era di statura media, ma adesso si sentiva un gigante in un teatrino di burattini.


Le strade erano ampie e affollate. Nani di diversi clan si dedicavano laboriosi ai propri mestieri, o si affaccendavano nelle botteghe. Molti indossavano strani, esotici costumi, come un gruppo di fieri nani dai capelli neri che portavano elmi d'argento a forma di teste di lupo.


Eragon guardava soprattutto le donne, poiché le aveva viste soltanto di sfuggita a Tronjheim. Erano più robuste degli uomini, con volti duri ma occhi luminosi e capelli lustri, e mani gentili posate sui minuscoli figli. Non amavano adornarsi di monili preziosi, fatta eccezione per piccole, elaborate spille di ferro e pietra.


Al rumore di zoccoli delle Feldùnost, i nani si voltavano a guardare i nuovi arrivati. Non li acclamarono come Eragon si era aspettato, ma s'inchinavano e mormoravano: «Ammazzaspettri.» Quando videro il martello e le stelle sull'elmo di Eragon, l'ammirazione fu sostituita dallo spavento e, in molti casi, da espressioni offese. Alcuni nani, fra i più arrabbiati, si strinsero attorno a Eragon, imprecando a gran voce.


Eragon si sentì rizzare i capelli sulla nuca. A quanto pare, avermi adottato non è stata la decisione più popolare che Rothgar potesse prendere.


Già, concordò Saphira. Può aver rafforzato il suo controllo su di te, ma a costo di alienarsi molti nani... Sarà meglio che ci togliamo dai piedi, prima che cominci a scorrere il sangue. Thorv e le altre guardie incedevano fra la folla come se non esistesse, sgombrando la strada per altri sette livelli, finché non rimase un ultimo cancello a separarli dalla mole di Celbedeil. Poi Thorv svoltò a sinistra, verso un grande palazzo addossato al fianco della montagna, protetto sul fronte da un barbacane con due torri munite di caditoie.


Mentre si avvicinavano, un gruppo di nani armati uscì da dietro le case, schierandosi a formare una barriera che bloccava la strada. Lunghi veli viola coprivano i loro volti e le spalle, come calotte di maglia.


Le guardie subito arrestarono le loro Feldùnost, scuri in volto. «Cosa c'è?» chiese Eragon a Orik, ma il nano si limitò a scuotere la testa e a farsi avanti, la mano sull'ascia.


«Etzil nithgech!» gridò un nano velato, sollevando un pugno. «Formv Hrethcarach... formv Jurgencarmeitder nos età goroth bahst Tarnag, dùr encesti rak kythn! Jok is warrev az barzulegùr dùr dùrgrimst, Az Sweldn rak Anhùin, mògh tor rak Jurgenvren? Né ùdim etal os rast knurlag. Rnurlag ana...» Per un intero minuto, continuò a blaterare con crescente livore.


«Vrron!» latrò Thorv, tagliando corto, poi i due nani cominciarono a litigare. Malgrado l'asprezza dei toni, Eragon si accorse che Thorv provava rispetto per l'altro nano.


Il giovane si spostò di lato nel tentativo di vedere meglio la scena da dietro la Feldùnost di Thorv, e il nano velato tacque di colpo, indicando inorridito l'elmo di Eragon.


«Knurlag qana qirànù Dùrgrimst Ingietum!» strillò. «Barzul ana Rothgar oen volfild...»


«Jok is frekk dùrgrimstvren?» lo interruppe Orik a voce bassa, estraendo l'ascia. Preoccupato, Eragon rivolse un'occhiata ad Arya, ma anche lei era troppo assorbita dal confronto per notarlo. Senza farsi notare, fece scivolare la mano sull'impugnatura di Zar'roc.


Lo strano nano guardò truce Orik, si tolse un anello di ferro dalla tasca, si strappò tre peli dalla lunga barba e li avvolse intorno a esso, poi lo scagliò sulla strada e sputò. Senza altre parole, i nani ammantati di viola se ne andarono. Thorv, Orik e gli altri guerrieri trasalirono quando l'anello rimbalzò tintinnando sul selciato di granito. Perfino Arya parve sconcertata. Due dei nani più giovani sbiancarono e misero mano alle lame, poi le abbassarono quando Thorv gridò: «Età!»


La loro reazione turbò Eragon molto più del rauco alterco. Mentre Orik si chinava a raccogliere l'anello per infilarlo in un sacchetto, Eragon chiese: «Cosa significa?»


«Significa» rispose Thorv «che hai dei nemici.»


Oltre il barbacane si apriva un ampio cortile apparecchiato con tre tavoli da banchetto, decorato da lanterne e stendardi. Trovarono un nutrito gruppo di nani ad attenderli davanti ai tavoli, fra cui spiccava uno dalla barba grigia vestito con una pelle di lupo. Allargò le braccia e disse: «Benvenuti a Tarnag, dimora del Dùrgrimst Ragni Hefthyn. Ho sentito tessere le tue lodi, Eragon Ammazzaspettri. Io sono Ùndin, figlio di Derùnd, e capoclan.» Un altro nano si fece avanti. Aveva le spalle e il torace da guerriero, con un paio di occhi neri infossati che non si staccarono dal volto di Eragon nemmeno per un secondo. «E io sono Gannel, figlio di Orm Scuredisangue, capoclan del Dùrgrimst Quan.»


«È un onore essere vostri ospiti» disse Eragon chinando il capo. Percepì l'irritazione di Saphira nell'essere ignorata. Pazienza, mormorò, con un sorriso forzato.


La dragonessa sbuffò.


I capiclan salutarono Arya e Orik a turno, ma la loro cordialità fu inutile con Orik, il quale per tutta risposta tese la mano col palmo aperto, mostrando l'anello di ferro.


Ùndin sgranò gli occhi, e prese l'anello con cautela, tenendolo fra il pollice e l'indice come se fosse uno scorpione velenoso. «Chi te lo ha dato?»


«L'Az Sweldn rak Anhùin. E non l'ha dato a me, ma a Eragon.»


Quando sui volti dei nani si dipinse un'espressione allarmata, Eragon si sentì di nuovo cogliere dalla preoccupazione. Aveva visto nani che da soli affrontavano un gruppo di Kull senza battere ciglio. L'anello doveva simboleggiare qualcosa di spaventoso, se poteva minare il loro coraggio.


Ùndin si accigliò mentre ascoltava i mormorii dei suoi consiglieri, poi disse: «Dobbiamo consultarci su questo argomento. Ammazzaspettri, è stata preparata una festa in tuo onore. Se vuoi essere così gentile da seguire i miei servitori, ti mostreranno i tuoi alloggi, dove potrai rinfrescarti, e poi potremo cominciare.»


«Prego» disse Eragon, porgendo le redini di Fiammabianca a un nano in attesa, e ne seguì un altro nel palazzo. Nel varcare la soglia, scoccò un'occhiata indietro ad Arya e Orik, impegnati con i capiclan, le teste chine e ravvicinate. Non ci metterò molto, promise a Saphira.


Dopo aver percorso a schiena curva una serie di passaggi a misura di nano, fu sollevato nel vedere che la stanza che gli era stata assegnata era abbastanza spaziosa da consentirgli di stare dritto. Il servitore s'inchinò e disse: «Tornerò non appena Grimstborith Ùndin sarà pronto.»


Come il nano lo lasciò da solo, Eragon trasse un profondo respiro, godendosi il silenzio. L'incontro con i nani velati continuava a turbarlo, impedendogli di rilassarsi. Se non altro non resteremo a lungo qui a Tarnag. Questo dovrebbe far sì che non ci facciano del male.


Si tolse i guanti e si avvicinò a un bacile di marmo posato sul pavimento, accanto al letto basso. Infilò le mani nell'acqua e le ritrasse di scatto con un gridolino involontario. L'acqua era bollente. Dev'essere un'usanza dei nani, pensò. Attese che si raffreddasse un po', poi si lavò la faccia e il collo, strofinandoli con cura mentre il vapore si levava dalla sua pelle.


Rinvigorito, si sfilò i calzoni e la tunica, e indossò gli abiti che aveva usato per le esequie di Ajihad. Toccò Zar'roc, poi decise che sarebbe stato un insulto alla tavola di Ùndin, e alla cintura allacciò soltanto il suo coltello da caccia. Estrasse dallo zaino la pergamena che gli aveva affidato Nasuada con l'incarico di consegnarla a Islanzadi e la soppesò, domandandosi dove nasconderla. La lettera era troppo importante per lasciarla incustodita nella stanza, dove avrebbero potuto leggerla o rubarla. Non trovando posto migliore, se la infilò in una manica. Qui sarà al sicuro, purché non capiti di combattere, e in questo caso avrò problemi ben più grossi di cui preoccuparmi.


Quando il servitore tornò a chiamare Eragon, era passata un'ora o poco più da mezzogiorno, ma il sole era già calato dietro le montagne torreggianti, immergendo Tarnag nell'oscurità. Uscito nel cortile, Eragon rimase sorpreso dalla trasformazione della città. Con la notte prematura, le lanterne dei nani rivelavano la loro vera potenza, inondando le vie di una luce pura e intensa che faceva risplendere l'intera valle.


Ùndin e gli altri nani erano disposti intorno ai tavoli, insieme a Saphira, che si era sistemata a un capotavola. Nessuno sembrava intenzionato a contestare la sua scelta.


Successo niente? chiese Eragon, affrettandosi verso di lei.


Ùndin ha convocato altri guerrieri, e poi hanno sbarrato i cancelli. Si aspetta un attacco?


Quantomeno lo considera un'eventualità.


«Eragon, ti prego, unisciti a noi» disse Ùndin, indicando la sedia alla propria destra. Il capoclan si sedette non appena lo fece Eragon, e il resto della compagnia li imitò.


Eragon fu contento quando Orik prese posto accanto a lui, con Arya seduta dall'altro lato del tavolo, anche se entrambi erano scuri in volto. Prima di poter chiedere a Orik dell'anello, Ùndin battè le mani e ruggì: «Ignh az voth!» I servitori sciamarono dal palazzo, portando vassoi d'oro massiccio carichi di carni, torte e frutta. Si divisero in tre colonne - una per ciascun tavolo - e deposero i vassoi profondendosi in inchini.


Davanti a loro c'erano zuppe e stufati guarniti di una grande varietà di tuberi, cacciagione arrosto, lunghi filoni di pane lievitato, e schiere di torte al miele grondanti di marmellata di lamponi. Su un letto d'insalata erano adagiati filetti di trota profumata al prezzemolo, e l'anguilla in salamoia fissava mesta un vaso di formaggio molle, come se sperasse in qualche modo di tornare in un fiume. Un cigno troneggiava su ciascun tavolo, circondato da stormi di pernici, anatre e oche ripiene.


C'erano funghi dappertutto: soffritti in succosi filetti, infilati sulla testa di un volatile a mo' di cuffia, o tagliati a forma di castelli in mezzo a fossati ricolmi di sugo. Ce n'era una varietà incredibile: da bianchi funghi carnosi grandi quanto il pugno di Eragon, ad alcuni che avrebbe potuto scambiare per corteccia secca, a delicati funghetti tagliati a metà a mostrare la polpa azzurrognola.


Poi venne introdotto il piatto forte del banchetto: un gigantesco cinghiale arrosto, lucente di sugo. Almeno, Eragon pensò che fosse un cinghiale, perché la carcassa era grande quanto Fiammabianca, e ci erano voluti sei nani per portarlo. Le zanne erano più lunghe del suo braccio, il muso tozzo grande quanto la sua testa. E l'odore sovrastava tutti gli altri in ondate pungenti che gli facevano lacrimare gli occhi.


«Nagra» mormorò Orik. «Cinghiale gigante. Ùndin ti rende un vero onore stasera, Eragon. Soltanto i nani più audaci osano cacciare il Nagra, che viene servito solo a ospiti di grande prestigio. Inoltre ho ragione di credere che il suo gesto miri a conquistarti i favori del Dùrgrimst Nagra.»


Eragon si chinò verso di lui per non farsi udire da orecchie indiscrete. «Quindi anche questo è un animale nativo dei Monti Beor? Quali sono gli altri?»


«Lupi delle foreste così enormi da predare i Nagra, e tanto agili da cacciare le Feldùnost. Orsi delle cavèrne, che chiamiamo Urzhadn, e gli elfi chiamano Beorn, da cui deriva il nome che usano per queste vette, anche se noi non le chiamiamo così. Il nome delle montagne è un segreto che non condividiamo con nessun'altra razza. E...» «Smer voth» comandò Ùndin, sorridendo ai suoi ospiti. I servitori estrassero subito piccoli coltelli ricurvi con cui tagliarono porzioni di Nagra che deposero sui piatti di ciascun commensale - tranne che su quello di Arya -, compreso un pezzo enorme per Saphira. Ùndin sorrise di nuovo, prese il pugnale e si tagliò una fetta di carne. Eragon prese il proprio coltello, ma Orik gli afferrò il braccio. «Aspetta.»


Ùndin masticò lentamente, roteando gli occhi e annuendo in modo esagerato, poi inghiottì e proclamò: «Ilf gauhnith!» «Ora» disse Orik, e cominciò a mangiare, mentre fra i tavoli si accendevano cordiali e animate conversazioni. Eragon non aveva mai assaggiato niente come quel cinghiale. Era succoso, morbido, e stranamente speziato, come se la carne fosse stata marinata in miele e sidro, e il sapore era esaltato dalla menta. Come hanno fatto a cuocere una bestia così grande?


A fuoco lento, commentò Saphira, addentando il suo pezzo di Nagra.


Fra un boccone e l'altro, Orik spiegò: «È nostra usanza, dai tempi in cui l'avvelenamento era una pratica alquanto diffusa fra i clan, che il padrone di casa assaggi per primo il cibo e lo dichiari sicuro per i suoi ospiti.» Durante il banchetto, Eragon divise il suo tempo fra un assaggio della moltitudine di pietanze e la conversazione con Orik, Arya e i nani del suo tavolo. Così le ore parvero scorrere in fretta, quando in realtà il banchetto durò tanto a lungo che solo nel tardo pomeriggio venne servita l'ultima portata, masticato l'ultimo boccone e vuotato l'ultimo calice. Mentre i servitori sparecchiavano, Ùndin si rivolse a Eragon. «Hai gradito il pranzo?»


«Delizioso.»


Ùndin annuì. «Sono lieto che ti sia piaciuto. Ho fatto spostare i tavoli all'esterno, ieri, perché potessi mangiare con il drago.» Il suo sguardo rimase su Eragon tutto il tempo.


Eragon si sentì gelare dentro. Che lo avesse fatto volontariamente oppure no, Ùndin aveva trattato Saphira come una bestia qualsiasi. Eragon aveva avuto intenzione di chiedere spiegazioni sui nani velati in privato, ma ora, come spinto dal desiderio di irritare Ùndin, disse: «Saphira e io ti ringraziarne» E poi: «Perché hanno scagliato quell'anello davanti a noi?»


Un silenzio avvilito discese sul cortile. Con la coda dell'occhio, Eragon vide Orik che faceva una smorfia. Arya però sorrideva, come se avesse capìto che cosa stava facendo.


Ùndin posò il pugnale, visibilmente accigliato. «I knur-lagn che hai incontrato appartengono a un tragico clan. Prima della caduta dei Cavalieri erano fra le più antiche e ricche famiglie del nostro regno. Il loro destino, però, fu segnato da due terribili errori: vivevano ai confini occidentali dei Monti Beor, e inviarono i loro più valorosi guerrieri al servizio di Vrael.»


La rabbia s'impadronì della sua voce, rendendola rauca. «Galbatorix e i suoi Rinnegati, siano maledetti per sempre, li massacrarono nella vostra città di Ùru'baen. Poi volarono su di noi, e ne uccisero molti. Di quel clan, soltanto Grimstcarvlorss Anhùin e le sue guardie sopravvissero. La povera Anhùin morì presto di crepacuore, e i suoi uomini assunsero il nome di Az Sweldn rak Anhùin, le Lacrime di Anhùin, coprendosi il volto per rammentare a se stessi il loro lutto e il desiderio di vendetta.»


Le guance gli formicolarono di vergogna, ma Eragon si sforzava di mantenere un'espressione neutra. «E così» proseguì Ùndin, fissando torvo un dolcetto, «ricostruirono il clan nel corso dei decenni, aspettando la loro rivalsa. E adesso arrivi tu, portando l'emblema di Rothgar. È un insulto gravissimo per loro, malgrado le tue gesta nel Farthen Dùr. E quindi l'anello rappresenta un gravissimo gesto di sfida. Significa che il Dùrgrimst Az Sweldn rak Anhùin si opporrà a te con tutte le sue forze, in ogni questione, grande o piccola. Si sono schierati contro di te, si sono dichiarati nemici di sangue.»


«Vuoi dire che intendono farmi del male?» domandò Eragon, rigido.


Lo sguardo di Ùndin vacillò nel rivolgere una fugace occhiata a Gannel, poi Ùndin scrollò il capo ed emise una rauca risata che risuonò forse un po' troppo ostentata. «No, Ammazzaspettri! Nemmeno loro oserebbero nuocere a un ospite. È proibito. Vogliono soltanto che tu vada via, lontano e il più presto possibile.» Eragon non sembrava del tutto convinto. Allora Ùndin aggiunse: «Ti prego, non parliamo più di questi sgradevoli argomenti. Gannel e io ti abbiamo offerto il nostro cibo e il nostro idromele in segno di amicizia. Non è questo ciò che più conta?» Il sacerdote lì accanto mormorò un assenso.


«Lo apprezzo molto» concesse infine Eragon.


Saphira lo guardò con occhi solenni e disse: Hanno paura, Eragon. Paura e risentimento, perché sono stati costretti ad accettare l'assistenza di un Cavaliere.


Già. Se sarà necessario, combatteranno con noi, ma non per noi.

Celbedeil

Il mattino senza alba trovò Eragon nel salone principale di Ùndin, ad ascoltare il capoclan che discorreva con Orik nella lingua dei nani. Ùndin s'interruppe nel vedere Eragon che si avvicinava, poi disse: «Ah, Ammazzaspettri. Hai dormito bene?»


«Sì.»


«Bene.» Fece un cenno a Orik. «Stavamo parlando della vostra partenza. Mi sarebbe piaciuto che vi tratteneste più a lungo qui da noi, ma date le circostanze è preferibile che riprendiate il vostro viaggio domattina presto, quando non ci sarà nessuno per la strada che possa importunarvi. Ho già dato ordine di preparare le provviste e i mezzi di trasporto. Per esplicita volontà di Rothgar, una scorta vi accompagnerà fino a Ceris, e dal canto mio ho aumentato il loro numero da tre a sette.»


«E nel frattempo?»


Ùndin si strinse nelle spalle ammantate di pelliccia. «Avrei voluto mostrarti le meraviglie di Tarnag, ma adesso non sarebbe saggio lasciarti girare per la mia città. Tuttavia Grimstborith Gannel ti ha invitato a Celbedeil. Se lo desideri, accetta. Con lui sarai al sicuro.» Il capoclan sembrava aver dimenticato l'affermazione del giorno prima, secondo cui gli Az Sweldn rak Anhùin non gli avrebbero torto un capello.


«Ti ringrazio. Credo che accetterò.» Nel lasciare la sala, Eragon prese da parte Orik e gli chiese: «Quanto è seria questa faida? Devo sapere la verità.»


Orik rispose, con malcelata riluttanza: «In passato, non era raro che le faide durassero per generazioni. Intere famiglie si sono estinte nel sangue. Sono stati sconsiderati gli Az Sweldn rak Anhùin ad appellarsi alle antiche usanze; una cosa del genere non accadeva dai tempi delle guerre fra clan... Finché non revocheranno il loro giuramento, dovrai guardarti dai loro complotti, che sia per un anno oppure per un secolo. Mi rincresce che la tua amicizia con Rothgar abbia provocato tutto questo, Eragon. Ma non sei solo. Il Dùrgrimst Ingietum è dalla tua parte.»


Una volta uscito, Eragon corse da Saphira, che aveva trascorso la notte accucciata in cortile. Ti dispiace se vado a visitare Celbedeil?


Se proprio devi, va'pure. Ma porta Zar'roc. Il giovane seguì il suo consiglio, e s'infilò la pergamena di Nasuada nella tunica. Quando Eragon si avvicinò al cancello incassato nel muro di cinta del palazzo, cinque nani spinsero da parte i battenti di legno grezzo, poi si strinsero intorno a lui, le mani salde sulle impugnature delle spade e delle asce, gli occhi che guizzavano da un lato e dall'altro per ispezionare la strada. Le guardie lo scortarono nel ripercorrere il tragitto del giorno prima, fino all'ingresso sbarrato del più elevato livello di Tarnag.


Eragon rabbrividì. La città era innaturalmente deserta. Le porte erano sprangate, le finestre chiuse, e i pochi passanti distoglievano lo sguardo e imboccavano vicoli laterali per evitarlo. Hanno paura di mostrarsi accanto a me, comprese Eragon. Forse perché sanno che gli Az Sweldn rak Anhùin si vendicheranno contro chiunque mi aiuti. Spinto dal desiderio sempre più pressante di togliersi dalla strada troppo esposta, Eragon alzò una mano per bussare, ma le sue nocche non avevano ancora toccato il legno che una porta si aprì verso l'esterno con un lieve cigolìo, e un nano dalla lunga veste nera gli fece cenno di entrare. Stringendosi il cinturone, Eragon entrò, lasciando la scorta ad aspettarlo fuori.


La sua prima impressione fu di colore. Un vasto prato verdeggiante circondava la mole colonnata di Celbedeil, come un arazzo adagiato sulla collina simmetrica da cui svettava il tempio. L'edera rampicante strangolava le antiche mura dell'edificio con lunghi tentacoli barbati, le foglie appuntite scintillavano di rugiada. E a dominare su tutto il resto, tranne che sulle montagne, sorgeva la grande cupola bianca dalle coste in rilievo d'oro cesellato. L'impressione successiva fu l'odore. Fiori e incenso mescolavano le proprie fragranze in un aroma così etereo da dare a Eragon la sensazione che avrebbe potuto vivere solo di quel profumo.


L'ultima fu il suono, o meglio, la sua assenza, poiché sebbene gruppi di sacerdoti passeggiassero lungo i vialetti a mosaico e i vasti piazzali, l'unico rumore che Eragon udì fu il fievole frullo d'ali di un corvo nero che volava in alto. Il nano gli fece un altro cenno e s'incamminò lungo il viale principale che portava a Celbedeil. Nel passare sotto i cornicioni, Eragon non potè che ammirare la profusione di ricchezze e la maestria con cui erano stati costruiti. Le mura erano tempestate di gemme di ogni colore e taglio tutte purissime - e nelle venature che screziavano i soffitti, il pavimento e le mura di pietra erano state martellate lamine d'oro rosso, intervallate da perle lucenti e borchie d'argento. Più di una volta oltrepassarono paraventi fatti interamente di giada intagliata.


Il tempio era privo di ornamenti in tessuto. In compenso, i nani avevano scolpito un'abbondanza di statue, perlopiù creature mostruose e divinità impegnate in epiche battaglie.


Dopo aver risalito diversi livelli, varcarono una porta coperta di verderame, con una serie di nodi intricati e complessi lavorati a sbalzo, per entrare in una sala vuota dal pavimento di legno. Le pareti erano coperte di armature e rastrelliere stipate di lunghe aste di legno con una lama a ciascuna estremità, identiche a quella che Angela aveva usato per combattere nel Farthen Dùr.


Nella sala c'era Gannel, impegnato ad allenarsi al combattimento con tre nani più giovani. Il capoclan aveva la veste raccolta intorno alle cosce per potersi muovere liberamente, il volto una maschera di concentrazione mentre faceva roteare il bastone, le lame smussate che guizzavano come calabroni infastiditi.


Due nani si lanciarono verso Gannel, ma furono bloccati in un clangore di legno e metallo, mentre il sacerdote piroettava colpendogli le ginocchia e la testa, spedendoli a terra. Eragon sorrise guardando Gannel che disarmava l'ultimo avversario con un'elegante sequenza di colpi.


Finalmente il capoclan notò Eragon e congedò gli altri nani. Mentre Gannel riponeva l'arma sulla rastrelliera, Eragon gli domandò: «Tutti i Quan sono così esperti nelle arti marziali? È strano che i sacerdoti coltivino questa pratica.» Gannel si volse. «Dobbiamo essere capaci di difenderci, non credi? Molti nemici calpestano questa terra.» Eragon annuì. «Queste sono armi molto singolari. Non ne ho mai viste di simili, tranne che nella battaglia del Farthen Dùr, in mano a un'erborista.»


Il nano trattenne il fiato, poi lo liberò con un sibilo a denti stretti. «Angela.» La sua espressione si fece torva. «Vinse il bastone a un sacerdote in una gara di indovinelli. Fu un trucco sleale, dato che noi siamo gli unici ad aver diritto di usare gli hùthvìrn. Lei e Arya...» Scrollò le spalle e si diresse a un tavolinetto dove riempì due boccali di birra. Porgendone uno a Eragon, disse: «Ti ho invitato qui, oggi, su richiesta di Rothgar. Mi ha detto che se tu avessi accettato la sua offerta di entrare a far parte dell'Ingietum, io avrei dovuto insegnarti le tradizioni dei nani.» Eragon sorseggiò la birra e tacque, osservando come la fronte sporgente di Gannel coglieva la luce, proiettando scure ombre sugli zigomi.


Il capoclan proseguì. «A nessuno straniero sono mai state rivelate le nostre segrete credenze, né potrai mai parlarne con umano o elfo. Ma senza questa conoscenza, non potresti mai comprendere cosa significa essere knurla. Ora sei un Ingietum: il nostro sangue, la nostra carne, il nostro onore. Capisci?»


«Sì.»


«Vieni.» Con il boccale in mano, Gannel condusse Eragon fuori dalla sala di allenamento; percorsero cinque ampi corridoi e si fermarono sotto un arco che affacciava su una stanza dalla fioca illuminazione, satura di fumi d'incenso. Davanti a loro, dal pavimento al soffitto si ergeva una poderosa statua col volto cupo scolpito nel granito marrone con insolita crudezza.


«Chi è?» chiese Eragon, intimidito.


«Gùntera, il re degli dei. È un guerriero e un sapiente, ma di umore volubile; per assicurarci la sua benevolenza bruciamo offerte in occasione dei solstizi, prima della semina, alle nascite e alle morti.» Gannel fece uno strano gesto con la mano e s'inchinò alla statua. «È lui che preghiamo prima delle battaglie, poiché fu lui a plasmare questa terra con le ossa di un gigante, e dona al mondo il suo ordine. Tutti i regni appartengono a Gùntera.»


Poi Gannel insegnò a Eragon la maniera corretta per venerare il dio, spiegandogli i segni e le parole da usare. Gli illustrò il significato dell'incenso - simbolo di vita e prosperità - e gli narrò con dovizia di particolari le leggende su Gùntera, raccontandogli come il dio era nato già perfettamente formato da una lupa all'alba dei tempi; come aveva combattuto mostri e giganti per conquistare in Alagaésia una terra per la sua specie; come infine aveva preso Kilf, la dea dei fiumi e del mare, in sposa.


Passarono quindi alla statua di Kilf, che era stata scolpita con grazia squisita nel pallido turchese. I capelli le ricadevano in liquide onde sulle spalle e incorniciavano due occhi di brillante ametista. Nelle mani a coppa teneva un giglio d'acqua e un ramo di roccia rossa porosa che Eragon non riconobbe.


«Cos'è?» domandò indicando.


«Corallo raccolto dal mare che bagna i Monti Beor.»


«Corallo?»


Gannel bevve un sorso di birra, poi disse: «I nostri tuffatori l'hanno trovato mentre cercavano perle. A quanto pare, nell'acqua salata certe pietre crescono come piante.» Eragon lo contemplò, ammirato. Non aveva mai pensato a ciottoli e sassi come creature viventi, eppure lì c'era la prova che bastavano acqua e sale per farli prosperare. Questo finalmente spiegava come mai le rocce continuavano ad affiorare nei loro campi nella Valle Palancar anche quando il terreno veniva dissodato ogni primavera. Crescono!


Proseguirono verso Urùr, dio dell'aria e dei cieli, e suo fratello Morgothal, dio del fuoco. Davanti alla statua rosso carminio di Morgothal, il sacerdote gli narrò che i fratelli si amavano tanto che nessuno dei due poteva vivere senza l'altro. Per questo motivo, nel cielo il Palazzo di Morgothal ardeva di giorno, e le scintille della sua forgia comparivano ogni notte. E sempre per la stessa ragione Urùr alimentava costantemente suo fratello per non farlo morire. Mancavano soltanto altre due statue: Sindri - madre della terra - ed Helzvog.


La statua di Helzvog era diversa dalle altre. Il dio nudo era chino su un masso di silice grigia, delle dimensioni di un nano, e lo sfiorava con la punta dell'indice. I muscoli della schiena erano tesi e gonfi di fatica sovrumana, eppure la sua espressione era incredibilmente tenera, come se davanti a lui ci fosse un neonato.


La voce di Gannel si ridusse a un sussurro. «Gùntera sarà anche il re degli dei, ma è Helzvog che regna nei nostri cuori. Fu lui che avvertì l'esigenza di ripopolare la terra dopo la scomparsa dei giganti. Gli altri dei non erano d'accordo, ma Helzvog li ignorò e in segreto plasmò il primo nano dalle radici di una montagna.


«Quando il suo gesto fu scoperto, gli dei si ingelosirono e Gùntera creò gli elfi per controllare Alagaésia in sua vece. Allora Sindri generò gli umani dal suolo, mentre Urùr e Morgothal fusero le loro conoscenze per dare origine ai draghi. Soltanto Kilf si astenne. Fu così che le prime razze comparvero sulla terra.»


Eragon ascoltava le parole di Gannel, riconoscendo la sua sincerità, ma non poteva fare a meno di chiedersi: Come fa a saperlo? Eragon capì che sarebbe stata una domanda indelicata, e si limitò ad annuire.


«Questo» disse Gannel, bevendo l'ultimo sorso di birra «ci porta al nostro rito più importante, di cui so che Orik ti ha già parlato... Tutti i nani devono essere sepolti nella pietra, altrimenti i nostri spiriti non si uniranno mai a Helzvog nella sua dimora. Non siamo fatti di terra, aria o fuoco, ma di pietra. E come membro dell'Ingietum è tuo dovere assicurare una degna sepoltura a qualunque nano muoia in tua compagnia. Se mancherai di farlo, in assenza di ferite o nemici, Rothgar ti esilierà, e nessun nano riconoscerà la tua presenza fin dopo la tua morte.» Raddrizzò le spalle, fissando Eragon negli occhi. «Hai ancora molto da imparare, ma fa' tesoro degli insegnamenti di oggi, e le tue azioni seguiranno il giusto corso.»


«Non li dimenticherò» promise Eragon.


Soddisfatto, Gannel si allontanò dalle statue per imboccare una scala a chiocciola. Mentre salivano, il capoclan s'infilò una mano nella veste e ne trasse una collana, una semplice catena che passava in un ciondolo d'argento a forma di martello in miniatura. La diede a Eragon.


«Questo è un altro favore che mi ha chiesto Rothgar» spiegò Gannel. «Teme che Galbatorix possa aver scorto una tua immagine dalla mente di Durza, o dei Ra'zac, o di qualcuno dei soldati che hai incontrato viaggiando per l'Impero.» «Cosa avrei da temere?»


«Galbatorix potrebbe divinarti. Forse lo ha già fatto.»


Un brivido di apprensione gli corse lungo la schiena, come un serpente di ghiaccio. Avrei dovuto pensarci, si rimproverò. «La collana impedirà a chiunque di divinare te o il tuo drago, purché la indossi sempre. Ho formulato io l'incantesimo, perciò dovrebbe resistere anche alla più potente delle menti. Ma ti avverto: quando si attiva, la collana attingerà alla tua forza finché non la toglierai, o il pericolo sarà cessato.»


«E quando dormo? La collana potrebbe consumarmi tutta l'energia senza che me ne accorga?»


«No. Ti sveglierà.»


Eragon si fece rotolare il piccolo martello fra i polpastrelli. Era difficile bloccare gli incantesimi di un'altra persona, soprattutto quelli di Galbatorix. Se Gannel è così potente, quali altri incantesimi può aver nascosto nel suo dono? Notò una riga di rune incise sul manico del martello. Dicevano Astim Hefthyn. La scala terminò mentre chiedeva: «Come mai i nani scrivono con le rune degli umani?»

Per la prima volta da quando si erano conosciuti, Gannel scoppiò a ridere; le sue larghe spalle tremavano e il tempio riecheggiò della sua voce profonda. «È il contrario: gli umani scrivono con le nostre rune. Quando i vostri antenati giunsero in Alagaésia, erano illetterati come conigli. Tuttavia adottarono il nostro alfabeto e lo adattarono al loro linguaggio. Alcune delle vostre parole addirittura derivano dalle nostre, come padre, che in origine era farthen.» «Quindi Farthen Dùr significa...?» Eragon s'infilò la collana e la nascose sotto la tunica.


«Nostro Padre.»


Fermandosi davanti a una porta, Gannel invitò Eragon a entrare in una galleria che correva tutto intorno alla cupola di Celbedeil; gli archi aperti che la fiancheggiavano offrivano una visuale completa delle montagne alle spalle di Tarnag, come della città terrazzata sottostante.


Tuttavia Eragon notò a malapena il panorama, poiché la parete interna della galleria era coperta da uno straordinario fregio ininterrotto, una gigantesca fascia narrativa che cominciava con la creazione dei nani da parte di Helzvog. Le figure e gli oggetti spiccavano in rilievo, donando allo sfondo una qualità iperrealista, con i suoi colori saturi e scintillanti e i dettagli minuti.


Affascinato, Eragon chiese: «Com'è stato fatto?»


«Ogni scena è stata scolpita su piccole lastre di marmo, che in seguito sono state smaltate a fuoco e unite a formare un unico pezzo.»


«Non sarebbe stato più facile usare colori normali?»


«Sì» rispose Gannel, «ma non sarebbero durati secoli, millenni, senza cambiare. Lo smalto non sbiadisce né si opacizza, come accade ai colori a olio. La prima sezione è stata realizzata soltanto un decennio dopo la scoperta del Farthen Dùr, molto prima che gli elfi mettessero piede in Alagaésia.»


Il sacerdote prese Eragon sotto braccio e lo guidò lungo il fregio. A ogni passo, percorrevano innumerevoli anni di storia.


Eragon vide che un tempo i nani erano nomadi che vagavano per una sconfinata pianura, finché la terra non era diventata così rovente e desolata da costringerli a migrare a sud, verso i Monti Beor. Ecco come si è formato il Deserto di Hadarac, pensò, stupito.


Via via che fiancheggiavano il murale, girando intorno a Celbedeil, Eragon fu testimone di ogni momento cruciale della storia, dall'addomesticamento delle Feldùnost alla creazione di Isidar Mithrim, dal primo incontro fra nani ed elfi alle incoronazioni dei re dei nani. I draghi apparivano di frequente, ma sempre nell'atto di incendiare e uccidere. Eragon ebbe difficoltà a trattenersi dai commenti davanti a quelle sezioni.


Rallentò il passo quando si accorse che la fascia istoriata si stava avvicinando all'evento che aveva sperato di trovare: la guerra fra elfi e draghi. Qui i nani avevano dedicato ampio spazio alle devastazioni che le due razze avevano arrecato ad Alagaésia. Eragon rabbrividì di orrore alla vista di elfi e draghi che si uccidevano a vicenda. Le battaglie si susseguivano per diverse iarde, ogni immagine più sanguinosa della precedente, finché le tenebre non s'illuminarono, mostrando un giovane elfo inginocchiato sull'orlo di una rupe, con in mano un bianco uovo di drago. «È... ?» mormorò Eragon.


«Sì, è Eragon, il Primo Cavaliere. È un ritratto fedele, poiché lui acconsentì a posare per i nostri artigiani.» Affascinato, Eragon studiò il volto del suo omonimo. L'ho sempre immaginato più vecchio. Gli occhi dal classico taglio obliquo, il naso adunco e il mento aguzzo gli conferivano un'aria feroce; era un viso remoto, completamente diverso dal suo... eppure l'atteggiamento dell'elfo, le spalle dritte e tese, gli rammentavano come si era sentito lui quando aveva trovato l'uovo di Saphira. Non siamo poi tanto diversi, tu e io, pensò, accarezzando il freddo smalto. E una volta che le mie orecchie saranno diventate come le tue, saremo davvero fratelli nel tempo... Mi domando se approveresti le mie azioni. Sapeva che avevano fatto almeno una scelta identica: entrambi avevano tenuto l'uovo. In quel momento, sentì una porta aprirsi e chiudersi; si volse e vide Arya che si avvicinava dal fondo della galleria. L'elfa scrutò la parete istoriata con la stessa espressione neutra che Eragon le aveva visto usare al cospetto del Consiglio degli Anziani. Quali che fossero le sue particolari emozioni, Eragon capì soltanto che lei trovava la situazione sgradevole.


Arya chinò la testa. «Grimstborith.»


«Arya.»


«Stai insegnando a Eragon la vostra mitologia?»


Gannel le rivolse un sorriso glaciale. «Un individuo deve sempre conoscere la fede della società cui appartiene.» «Ma la conoscenza non sempre implica la fede.» L'elfa sfiorò con l'indice il pilastro di un arco. «Né significa che coloro che alimentano tali credenze lo facciano per scopi che non siano... puramente materiali.»


«Vuoi forse negare il valore dei sacrifici che compie il mio clan per portare conforto ai nostri fratelli?» «Non nego nulla, ma mi domando soltanto se non sarebbe stato preferibile condividere le vostre ricchezze con i più bisognosi: gli affamati, i senzatetto, o magari perfino i Varden. Invece le avete accumulate per innalzare un monumento alle vostre pie illusioni.»


«Basta!» Il nano serrò i pugni, il volto chiazzato di rosso. «Senza di noi i raccolti si seccherebbero per la siccità. I fiumi e i laghi strariperebbero. Le nostre greggi darebbero vita a bestie da un occhio solo. Il cielo stesso si squarcerebbe per l'ira degli dei!» Arya sorrise. «Soltanto le nostre preghiere impediscono che questo accada. Se non fosse stato per Helzvog, dove...»


Eragon perse il filo. Non comprese le vaghe critiche di Arya nei confronti del Dùrgrimst Quan, ma dalle risposte di Gannel intuì che, in maniera implicita e sempre in tono affabile e cortese, l'elfa aveva suggerito che le divinità dei nani non esistessero, pareva mettere in dubbio le facoltà mentali di ogni nano che entrava in un tempio, e sostenere che i ragionamenti dei nani presentassero numerose lacune.


Dopo qualche minuto, Arya levò una mano per interrompere Gannel e disse: «Questa è la differenza tra noi, Grimstborith. Tu ti sei consacrato a qualcosa che credi vero ma non puoi provare. Non ci resta che trovarci d'accordo sul fatto che non siamo d'accordo.» Poi si rivolse a Eragon. «Gli Az Sweldn rak Anhùin hanno aizzato la popolazione di Tarnag contro di te. Ùndin ritiene, come me, del resto, che sia meglio se resti all'interno delle sue mura fino alla partenza.»


Eragon esitò. Voleva continuare a visitare Celbedeil, ma se c'erano guai in vista, allora il suo posto era accanto a Saphira. S'inchinò a Gannel e domandò scusa. «Non devi giustificarti, Ammazzaspettri» disse il capoclan, scoccando un'occhiata torva all'indirizzo di Arya. «Fai ciò che devi, e che la benedizione di Gùntera sia con te.» Insieme, Eragon e Arya lasciarono il tempio e circondati da una decina di guerrieri attraversarono la città. Eragon sentì una folla inferocita che gridava da una terrazza più in basso. Un sasso rimbalzò su un tetto vicino. Il movimento attirò il suo sguardo verso un pennacchio scuro di fumo che risaliva dai margini della città.


Una volta al sicuro nel palazzo, Eragon corse in camera sua. S'infilò la cotta di maglia, e si legò i bracciali e gli schinieri; si calcò la calotta di cuoio in testa, e poi l'elmo, e afferrò lo scudo. Raccolse in fretta lo zaino e le bisacce, e tornò subito nel cortile, dove si sedette con la schiena appoggiata alla zampa destra di Saphira.


Tarnag è come un termitaio stuzzicato, osservò lei.


Speriamo di non essere morsi.


Arya li raggiunse poco dopo, seguita a ruota da uno squadrone di cinquanta nani armati di tutto punto, che si schierarono al centro del cortile. I nani aspettavano impassibili, borbottando piano fra di loro, mentre occhieggiavano di continuo il cancello sprangato e la montagna che si ergeva alle loro spalle.


«Hanno paura» disse Arya, sedendosi accanto a Eragon «che i dimostranti ci impediscano di raggiungere i battelli.» «Saphira può sempre portarci in volo.»


«E Fiammabianca? E le guardie di Ùndin? No, se ci fermano, dovremo aspettare che la rabbia dei nani sbollisca.» Studiò il cielo che si andava oscurando. «È un peccato che tu sia riuscito a offendere così tanti nani, ma forse era inevitabile. I clan sono sempre stati litigiosi: quello che piace a uno scontenta un altro.»


Eragon giocherellò con le maglie della cotta. «Vorrei non aver accettato il dono di Rothgar.»


«Già. Ma come nel caso di Nasuada, credo che tu abbia fatto l'unica scelta possibile. Non è colpa tua. La colpa, semmai, è di Rothgar, per averti fatto quell'offerta. Doveva prevedere le ripercussioni del suo gesto.» Tacquero per qualche minuto. Una mezza dozzina di nani marciavano intorno al cortile per sgranchirsi le gambe. Alla fine, Eragon chiese: «Hai dei familiari che ti aspettano nella Du Weldenvarden?»


Arya restò a lungo in silenzio, prima di rispondere. «Nessuno a cui mi senta vicina.»


«Come... come mai?»


Lei esitò di nuovo. «Non hanno approvato la mia scelta di diventare messaggera e ambasciatrice della regina. Lo ritenevano inappropriato. Quando ignorai le loro obiezioni e mi feci tatuare lo yawé sulla spalla, simbolo di totale dedizione al bene supremo della nostra razza, come l'anello che ti ha dato Brom, la mia famiglia si è rifiutata di rivedermi.»


«Ma è stato più di settantanni fa» protestò lui. Arya distolse lo sguardo, nascondendo il volto dietro una cortina di capelli. Eragon tentò di immaginare che cosa avesse significato per lei: bandita dalla sua stessa famiglia e mandata a vivere fra due razze completamente diverse. Non c'è da sorprendersi che sia tanto riservata, si disse. «Ci sono altri elfi fuori dalla Du Weldenvarden?»


Con il volto ancora nascosto, Arya rispose: «Tre di noi partirono da Ellesméra. Fàolin e Glenwing viaggiavano sempre con me quando trasportavamo l'uovo di Saphira fra la Du Weldenvarden e Tronjheim. Soltanto io sono sopravvissuta all'agguato di Durza.» «Com'erano?»


«Prodi guerrieri. Glenwing amava parlare agli uccelli con la mente. Se ne stava per ore nella foresta circondato da uno stormo di usignoli che cantavano per lui. E subito dopo ci cantava le più dolci melodie.»


«E Fàolin?» Questa volta Arya si rifiutò di rispondere, e strinse con forza l'arco che teneva in grembo. Senza perdersi d'animo, Eragon cercò un altro argomento. «Perché Gannel ti è tanto antipatico?»


Lei si volse a guardarlo e gli sfiorò la guancia con le dita delicate. Eragon trasalì, sorpreso. «Questa» disse lei «è una discussione da rimandare a un altro momento.» Poi si alzò e si andò a sedere in un'altra zona del cortile. Confuso, Eragon rimase a fissare la sua schiena. Non la capisco, disse, appoggiandosi al ventre di Saphira. La dragonessa sbuffò divertita, poi circondò Eragon con il collo e la coda e si addormentò all'istante. Mentre la valle piombava nell'oscurità, Eragon si sforzava di restare sveglio. Prese la collana di Gannel e la sondò più volte con l'ausilio della magia, ma trovò soltanto l'incantesimo di protezione del sacerdote. Alla fine si arrese; si rimise la collana sotto la tunica, si coprì con lo scudo e si preparò ad attendere tutta la notte.


Alle prime luci dell'alba - anche se la valle era ancora in ombra e tale sarebbe rimasta fino a mezzogiorno - Eragon svegliò Saphira. I nani si erano già alzati e stavano avvolgendo le armi con pezze di stoffa per poter attraversare Tarnag senza fare rumore. Ùndin invitò persino Eragon a coprire di stracci le unghie di Saphira e gli zoccoli di Fiammabianca. Quando furono pronti, Ùndin e i suoi guerrieri fecero quadrato intorno a Eragon, Saphira e Arya. I cancelli dai cardini perfettamente oliati si schiusero adagio senza un cigolìo, e il gruppo cominciò a marciare in direzione del lago. Tarnag sembrava deserta; le strade erano sgombre, le case silenziose, e i loro occupanti dormivano e sognavano ignari. I pochi nani che incontrarono li guardarono di sottecchi, poi si dileguarono come fantasmi nell'oscurità. Ai cancelli di ciascun livello, una guardia faceva loro cenno di passare, senza commenti. Ben presto si lasciarono gli edifici alle spalle e attraversarono i campi deserti ai piedi di Tarnag, per raggiungere infine la banchina di pietra che costeggiava le acque grigie e immobili.


Li aspettavano due grandi battelli, ormeggiati presso un pontile di legno. Tre nani erano accovacciati sulla prima zattera, quattro sulla seconda. Non appena videro Ùndin, scattarono in piedi.


Eragon aiutò i nani a infilare una cavezza e un cappuccio sulla testa di Fiammabianca, poi fecero salire l'animale ricalcitrante sul secondo battello, dove lo costrinsero a mettersi in ginocchio e lo legarono. Nel frattempo, Saphira si era tuffata dal pontile. Soltanto la testa emergeva dalla superficie mentre pagaiava con le zampe nell'acqua. Ùndin afferrò il braccio di Eragon. «Qui ci separiamo. Vi ho dato i miei uomini migliori; vi proteggeranno finché non raggiungerete la Du Weldenvarden.» Eragon fece per ringraziarlo, ma Ùndin scosse il capo. «Non devi ringraziarmi. È mio dovere. Sappi che mi vergogno profondamente del fatto che l'odio cieco degli Az Sweldn rak Anhùin abbia funestato la tua permanenza a Tarnag.»


Eragon s'inchinò, poi s'imbarcò sulla prima zattera insieme a Orik e Arya. I nani sciolsero gli ormeggi e spinsero via i battelli dal pontile con lunghi pali. Mentre l'alba allungava sull'acqua le sue dita rosate, le due zattere scivolarono verso la bocca dell'Az Ragni, con Saphira che nuotava nel mezzo.

Diamanti nella notte

L'Impero ha violato la mia casa. Questo pensava Roran nell'ascoltare i gemiti di dolore degli uomini feriti durante lo scontro della notte prima con i Ra'zac e i soldati. Il suo corpo era scosso da brividi febbrili di rabbia e di paura che gli lasciarono le guance bollenti e il fiato corto. E si sentiva triste, molto triste... come se le nefandezze dei Ra'zac avessero distrutto l'innocenza della sua infanzia.


Lasciando la guaritrice, Gertrude, a occuparsi dei feriti, Roran proseguì verso la casa di Horst, notando le barricate che riempivano i varchi fra gli edifici: assi di legno, botti, mucchi di pietre, e le carcasse dei due carri distrutti dalle esplosioni dei Ra'zac. Aveva tutto un'aria così penosamente fragile.


Le poche persone che si aggiravano per Carvahall avevano gli occhi vitrei per la paura, il dolore e la stanchezza. Anche Roran non si era mai sentito così stanco in vita sua. Non dormiva da due notti, e le braccia e la schiena gli dolevano per la lotta.


Entrò in casa di Horst e vide Elain ferma accanto alla porta aperta della stanza da pranzo, intenta ad ascoltare le voci concitate che provenivano dall'interno. Lei gli fece cenno di avvicinarsi.


Dopo aver respinto il contrattacco dei Ra'zac, i membri più importanti della comunità di Carvahall si erano rinchiusi in volontario isolamento nel tentativo di decidere una linea d'azione per il villaggio, come anche l'eventualità di una punizione per Horst e compagni, che avevano dato inizio alle ostilità. Il gruppo era riunito in assemblea da ore. Roran sbirciò nella stanza. Seduti intorno al lungo tavolo c'erano Brigit, Loring, Sloan, Gedric, Delwin, Fisk, Morn e molti altri. Horst presiedeva a capotavola.


«... e io dico che è stata una mossa stupida e sconsiderata!» esclamò Kiselt, puntando i gomiti ossuti sul tavolo. «Non avevi motivo di mettere a repentaglio...»


Morn lo zittì con la mano. «Ne abbiamo già discusso. Non ha più importanza se quello che è stato fatto dovesse essere fatto o meno. Si da il caso che io sia d'accordo: Quimby era amico mio come di tutti voi, e rabbrividisco al pensiero di cosa quei mostri farebbero a Roran. Ma quello che voglio davvero sapere è come possiamo uscire da questa situazione.»


«Facile, ammazziamo i soldati» latrò Sloan.


«E poi? Ne verranno degli altri, finché non annegheremo in un mare di tuniche cremisi. Se anche consegnassimo Roran, non servirebbe a niente. Avete sentito tutti cos'hanno detto i Ra'zac: ci uccideranno se proteggiamo Roran, e ci faranno schiavi se non lo faremo. Tu puoi essere di diverso avviso, ma per quanto mi riguarda, preferisco morire che passare la vita da schiavo.» Morn scosse il capo con le labbra tese in una smorfia. «Non possiamo sopravvivere.» Intervenne Fisk. «Potremmo andarcene.»


«E dove?» ribattè Kiselt. «Alle spalle abbiamo la Grande Dorsale, i soldati bloccano la strada, e più in là non c'è che l'Impero.»


«E tutta colpa tua» strillò Thane, puntando un dito tremante contro Horst. «Daranno fuoco alle nostre case e uccideranno i nostri figli per colpa tua. Tua!»


Horst scattò in piedi così di colpo da rovesciare la sedia. «Ma dov'è il tuo onore, uomo? Lasceresti che ci mangiassero senza combattere?»


«Sì, se il contrario significa il suicidio.» Thane guardò torvo gli uomini intorno al tavolo, poi uscì di corsa, urtando Roran sulla soglia. Il suo volto era una maschera di puro, genuino terrore.


Fu allora che Gedric si accorse di Roran e lo invitò con la mano. «Vieni, entra, ti stavamo aspettando.» Roran si strinse le mani dietro la schiena, mentre decine di occhi lo fissavano. «Che posso fare?» «Io credo» disse Gedric, indicando gli altri, «che qui siamo tutti d'accordo che non servirebbe a niente consegnarti all'Impero, a questo punto. E non è il caso, adesso, di discutere se lo avremmo fatto in circostanze diverse. L'unica cosa che ci resta da fare è prepararci per un altro attacco. Horst fabbricherà delle lance, e altre armi se ne avrà tempo, e Fisk ha acconsentito a costruire gli scudi. Per fortuna la sua falegnameria non è andata a fuoco. E qualcuno dovrà occuparsi delle opere di difesa. Vorremmo che fossi tu. Avrai piena assistenza.»


Roran annuì. «Farò del mio meglio.»


Al fianco di Morn si alzò Tara, torreggiando sul marito. Era una donna corpulenta, con i capelli neri striati di grigio e mani forti, capaci tanto di tirare il collo a una gallina quanto di separare due litiganti. «Farai del tuo meglio sì, Roran, altrimenti ci saranno altri funerali.» Poi si rivolse a Horst. «Prima di procedere, abbiamo degli uomini da seppellire. E ci sono dei bambini che devono essere messi al sicuro, magari nella fattoria di Cawley a Nost Creek. Dovresti andare anche tu, Elain.»


«Non lascerò Horst» dichiarò Elain, con calma serafica.


Tara si scaldò. «Non c'è posto qui per una donna incinta di cinque mesi. Perderai il bambino, se te ne andrai in giro correndo di qua e di là come hai già fatto.»


«Mi farebbe ancora più male se fossi lontana a tormentarmi nell'ignoranza. Qui ho partorito i miei figli, e qui resterò, come so che farete tu e tutte le altre donne di Carvahall.»


Horst girò intorno al tavolo e con un'espressione di profonda tenerezza prese la mano di Elain. «Né io ti vorrei da qualche altra parte che non sia al mio fianco. Ma i bambini dovrebbero andare. Cawley si prenderà cura di loro, e noi faremo in modo che la via per arrivare alla sua fattoria sia sgombra.»


«Non solo» gracchiò Loring, «ma nessuno di noi, assolutamente nessuno deve avere contatti con le famiglie giù della valle, a parte Cawley, s'intende. Loro non possono aiutarci, e noi non dobbiamo permettere che quei profanatori le perseguitino.»


Tutti convennero che aveva ragione, poi l'assemblea si sciolse e i partecipanti si dispersero per Carvahall. Poco dopo, però, si riunirono tutti di nuovo, insieme alla maggior parte del villaggio, nel piccolo cimitero alle spalle della casa di Gertrude. Dieci cadaveri avvolti in bianchi teli erano adagiati accanto alle fosse, un rametto di cicuta sui gelidi petti e un amuleto d'argento intorno a ciascun collo.


Gertrude fece un passo avanti e recitò i nomi degli uomini: «Parr, Wyglif, Ged, Bardrick, Farold, Hale, Garner, Kelby, Melkolf e Albem.» Depose sugli occhi di ciascuno due sassolini neri, levò le braccia, alzò il viso al cielo e intonò un lugubre canto di morte. Le lacrime le scorrevano dagli occhi chiusi, mentre la sua voce, rotta dai singhiozzi, cantilenava frasi antiche quanto il mondo. Cantò della terrà e della notte e dell'eterno dolore dell'umanità a cui nessuno può sfuggire.


Quando l'ultima nota dolente si spense nel silenzio, i membri delle famiglie pronunciarono brevi discorsi per ricordare coloro che avevano perduto. Poi le salme furono interrate.


Mentre ascoltava, Roran posò lo sguardo sull'anonimo tumulo dove erano stati sepolti i tre soldati. Uno ucciso da Nolfavrell, e due da me. Sentiva ancora lo schianto viscerale dei muscoli e delle ossa che cedevano... si spezzavano... si riducevano in poltiglia sotto il suo martello. Sentì in bocca l'amaro sapore della bile e dovette sforzarsi di non vomitare davanti a tutto il villaggio. Sono io che li ho massacrati. Roran non aveva mai pensato né desiderato di uccidere, eppure aveva tolto più vite di chiunque altro a Carvahall. Aveva la sensazione che un marchio di sangue gli fosse stato impresso sulla fronte.


Si allontanò il più in fretta possibile, senza nemmeno fermarsi a parlare con Katrina, e si inerpicò su un colle per poter osservare tutta Carvahall e decidere come meglio proteggerla. Purtroppo le case erano troppo distanti l'una dall'altra per formare un perimetro difensivo semplicemente barricando gli spazi fra gli edifici. E comunque non sarebbe stata una buona idea far arrivare i soldati fin sotto le case della gente, a combattere nei loro giardini. Il fiume Anora protegge il nostro fianco occidentale, pensò, ma non riusciremmo a tenere lontano neppure un bambino dal resto... Cosa possiamo costruire in poche ore che faccia da solida barriera difensiva?


Tornò di corsa nel cuore del villaggio, gridando: «Mi serve ogni uomo libero per aiutarmi a tagliare gli alberi!» Dopo un minuto, gli uomini cominciarono a riversarsi sulla strada dalle case. «Avanti, ancora! Dobbiamo dare tutti una mano!» Roran attese che il gruppo intorno a lui aumentasse.


Uno dei figli di Loring, Darmen, gli si affiancò. «Qual è il tuo piano?»


Roran alzò la voce perché tutti potessero udirlo. «Ci serve uno sbarramento intorno a Carvahall, il più massiccio possibile. Ho pensato che se tagliamo qualche grosso albero, lo mettiamo di traverso e facciamo la punta ai rami, dovremmo essere in grado di fermare i Ra'zac.»


«Quanti alberi pensi che ci occorrano?» domandò Orval.


Roran esitò, cercando di calcolare a mente la circonferenza di Carvahall. «Una cinquantina, almeno. Magari sessanta, per fare le cose come si deve.» Gli uomini imprecarono e cominciarono a obiettare. «Aspettate!» Roran contò quanti erano. Quarantotto. «Se ciascuno di voi abbatte un albero nella prossima ora, ci saremo quasi. Che ne dite, ce la farete?»


«Ma per chi ci hai presi?» ribatte Orval. «L'ultima volta che ci ho messo un'ora per abbattere un albero, avevo dieci anni!»


Intervenne Darmen: «E i cespugli di rovi? Potremmo metterli sui tronchi. Non conosco nessuno che sappia arrampicarsi in un groviglio di spine.»


Roran sogghignò. «Ottima idea. Mi rivolgo a quelli che hanno figli. Fateli andare a prendere i cavalli, per poter trascinare qui gli alberi.» Gli uomini assentirono e si sparpagliarono per Carvahall a prendere seghe e accette. Roran fermò Darmen e disse: «Assicurati che gli alberi abbiano rami lungo tutto il tronco, altrimenti sarà inutile.» «Tu dove vai?» chiese Darmen.


«A lavorare a un'altra linea di difesa.» Roran lo lasciò per correre a casa di Quimby, dove trovò Brigit occupata a inchiodare assi alle finestre.


«Sì?» disse lei.


Lui le spiegò per sommi capi il suo piano con gli alberi. «Voglio scavare una trincea all'interno dello sbarramento di alberi, per rallentare chiunque riesca a passare. Potremmo persino piantare dei pali appuntiti sul fondo e...» «Vieni al punto, Roran.»


«Vorrei che fossi tu a organizzare il gruppo delle donne e dei bambini in grado di scavare. Non posso fare tutto da solo, e non ci resta molto...» Roran la guardò dritto negli occhi. «Ti prego.»


Brigit aggrottò la fronte. «Perché lo chiedi a me?»


«Perché tu, come me, odi i Ra'zac, e so che faresti di tutto per fermarli.»


«Già» mormorò Brigit, poi battè le mani decisa. «Molto bene, come desideri. Ma non dimenticherò mai, Roran Garrowsson, che siete stati tu e la tua famiglia a decretare il fato di mio marito.» Si allontanò a grandi passi, senza lasciargli il tempo di rispondere.


Roran accettò il livore della donna con serenità; doveva aspettarselo, tenendo conto del lutto che l'aveva colpita. Era fortunato, anzi, che la donna non avesse preteso una faida di sangue. Si riscosse e andò di corsa all'incrocio dove la strada maestra entrava a Carvahall. Era il punto più debole del villaggio e necessitava di una doppia protezione. Non dobbiamo più permettere ai Ra'zac di aprirsi un varco con un'esplosione.


Roran reclutò Baldor, e insieme cominciarono a scavare una trincea perpendicolare alla strada. «Dovrò andarmene presto» lo avvertì Baldor, fra una picconata e l'altra. «Papà ha bisogno di me alla fucina.»


Roran borbottò il suo assenso senza alzare gli occhi. Mentre lavorava, la sua mente tornò ad affollarsi di ricordi dei soldati: come gli erano parsi mentre li colpiva, e la sensazione, l'orribile sensazione di fracassare un corpo come fosse legno marcio. Si fermò, nauseato, e notò il fermento che animava Carvahall, mentre la gente si preparava al prossimo attacco.


Quando Baldor se ne andò, Roran completò da solo la trincea profonda fino alla cintola, poi andò alla bottega di Fisk. Col permesso del carpentiere, prese cinque lunghi pali di legno stagionato e li fece trascinare dai cavalli fino alla strada maestra. Lì infilò i pali appuntiti nella trincea, formando una barriera impenetrabile.


Mentre compattava il terreno intorno alla base dei pali, arrivò Darmen. «Abbiamo gli alberi. Li stanno sistemando proprio come hai detto.» Roran lo accompagnò ai margini settentrionali di Carvahall, dove dodici uomini sgobbavano per allineare quattro pini dalle verdi chiome rigogliose, mentre un tiro di cavalli, spronati dalla frusta di un ragazzino tornava sulle colline pedemontane. «Quasi tutti stanno sistemando gli alberi abbattuti. Gli altri si sono fatti trascinare dalla passione: sembravano decisi ad abbattere tutta la foresta quando me ne sono andato.»


«Bene, il legno in più ci sarà utile.»


Darmen indicò una catasta di rovi accumulata ai margini del podere di Kiselt. «Li ho tagliati lungo l'Anora. Usali dove serve. Io vado a cercarne degli altri.»


Roran gli diede una pacca sulla schiena, poi si avviò nella zona orientale di Carvahall, dove una lunga fila di donne, bambini e uomini lavorava nella terra. Trovò Brigit che impartiva ordini come un generale, e distribuiva acqua da bere agli scavatori. La trincea era già larga cinque piedi e profonda due. Quando Brigit si fermò per riprendere fiato, Roran disse: «Sono colpito.»


Lei si scostò una ciocca di capelli senza guardarlo. «Prima di tutto abbiamo arato il terreno. Così è stato più facile.» «Hai una pala da darmi?» chiese. Brigit gli indicò un cumulo di attrezzi dall'altro capo della trincea. Sul cammino intravvide lo scintillio ramato dei capelli di Katrina in mezzo alle altre schiene curve. Al suo fianco, Sloan il macellaio aggrediva il terreno con un'energia rabbiosa e ossessiva, come se volesse scuoiare la terra, privarla della sua pelle di argilla per esporre i muscoli sottostanti. I suoi occhi scintillavano di luce selvaggia, e i suoi denti lampeggiavano in un ghigno malevolo, malgrado i granelli di terra che gli insozzavano le labbra.


Roran rabbrividì davanti all'espressione di Sloan, e si affrettò a superarlo, voltando il viso per evitare di incontrare i suoi occhi iniettati di sangue. Afferrò un badile e lo affondò nel terreno, facendo del suo meglio per dimenticare le preoccupazioni con la fatica fisica.


La giornata proseguì in un continuo susseguirsi di attività, senza intervalli per mangiare o riposare. La trincea diventò sempre più lunga e profonda, finché non circondò due terzi del villaggio e raggiunse le sponde dell'Anora. La terra smossa venne accumulata sul bordo interno della trincea, nel tentativo di impedire a chiunque di saltarla, e di rendere difficile a chiunque uscirne.


Lo sbarramento di alberi venne terminato nel primo pomeriggio. Roran smise di scavare per aiutare ad appuntire i numerosi rami - contorti e intrecciati - e spargere le matasse di rovi. Di tanto in tanto dovevano spostare un albero affinchè i contadini come Ivor potessero guidare il bestiame al sicuro, all'interno di Carvahall.


Giunta la sera, le fortificazioni erano più robuste ed estese di quanto Roran avesse osato sperare, ma occorrevano ancora lunghe ore di lavoro per completare l'opera come desiderava.


Si sedette in terra, a masticare un pezzo di pane lievitato e a guardare le stelle attraverso il velo di nebbia della stanchezza. Una mano gli si posò su una spalla; era Albriech. «Tieni.» Albriech gli porse un rozzo scudo fatto di assi segate e inchiodate e una lancia lunga sei piedi. Roran li accettò con gratitudine, poi Albriech si allontanò per distribuire lance e scudi a chiunque incontrasse.


Roran si costrinse a rimettersi in piedi, andò a prendere il martello a casa di Horst e così armato andò all'imbocco della strada maestra, dove Baldor e altri due montavano di guardia. «Svegliami quando hai bisogno di riposare» disse Roran, sdraiandosi sull'erba soffice sotto la grondaia di una casa vicina. Posò le armi in maniera tale da trovarle anche al buio e chiuse gli occhi, in trepida attesa.


«Roran.»


La voce gli aveva sussurrato nell'orecchio destro. «Katrina?» Si affannò a mettersi seduto, battendo le palpebre quando lei socchiuse lo sportellino della lanterna e un fascio di luce gli colpì la gamba. «Che cosa ci fai qui?» «Volevo vederti.» I suoi occhi, grandi e misteriosi sul volto pallido, erano pozzi di ombre notturne. Katrina lo prese per mano e lo condusse sotto un portico deserto, lontano dalle orecchie indiscrete di Baldor e degli altri. Lì gli posò le mani sulle guance e lo baciò teneramente, ma lui era troppo stanco e preoccupato per rispondere con trasporto. Lei si ritrasse e lo studiò. «Qualcosa non va, Roran?»


Una risata senza allegria gli sfuggì di gola. «Qualcosa non va? Il mondo non va! È tutto storto, come una cornice appesa di sghimbescio.» Si piantò un pugno nello stomaco. «E sono io che non vado. Ogni volta che tento di pensare ad altro, vedo i soldati che sanguinano sotto il mio martello. Uomini che ho ucciso, Katrina. E i loro occhi... i loro occhi! Sapevano che stavano per morire, e non potevano farci niente.» Cominciò a tremare nel buio. «Loro sapevano... io sapevo... ma dovevo farlo. Non potevo...» Le parole gli vennero meno, quando sentì le calde lacrime scorrergli lungo il viso.


Katrina gli prese la testa fra le braccia e lo cullò, mentre Roran finalmente piangeva tutto il suo dolore. Piangeva per Garrow e per Eragon; piangeva per Parr, Quimby e gli altri morti; piangeva per se stesso; e piangeva per il destino di Carvahall. Singhiozzò finché la marea di emozioni non si ritrasse, lasciandolo prosciugato e inaridito come un guscio vuoto.


Tratto un profondo respiro, Roran guardò Katrina e si accorse delle sue lacrime, che asciugò con il pollice, dove brillarono come diamanti nella notte. «Katrina... amore mio.» Lo disse di nuovo, assaporando le parole. «Amore mio. Non ho niente da offrirti, se non il mio amore. Ma... devo chiedertelo. Vuoi sposarmi?»


Nella fioca luce della lanterna, Roran vide il volto di lei irradiare pura gioia e stupore. Poi Katrina esitò, e comparve l'ombra del dubbio. Roran non avrebbe dovuto farle quella domanda, e lei non avrebbe dovuto accettare, senza il permesso di Sloan. Ma a Roran non importava più; doveva sapere, e subito, se lui e Katrina avrebbero trascorso il resto della vita insieme.


«Sì, Roran» rispose lei in un soffio. «Sarò tua moglie.»

Sotto un cielo di piombo

Quella notte piovve.


Enormi masse di nuvole grigie si addensarono sulla Valle Palancar, aggrappandosi alle montagne con artigli tenaci; l'aria era satura di una nebbiolina densa e fredda. Dal coperto, Roran guardava la fitta cortina di pioggia che batteva sulle tremule foglie degli alberi, riduceva in fanghiglia la trincea intorno a Carvahall e inzuppava i tetti di paglia, scorrendo a fiumi giù dalle grondaie, mentre le nuvole si liberavano del loro carico. Tutto era fradicio, appannato e nascosto dall'inesorabile diluvio.


A metà mattina il temporale era cessato, anche se un'acquerugiola persistente continuava a filtrare dalla nebbia. Quando Roran andò a rilevare la guardia presso la barricata sulla strada maestra, si ritrovò subito capelli e abiti bagnati. Si accovacciò accanto ai pali aguzzi, scrollò il mantello e si tirò il cappuccio sul viso, cercando di ignorare il freddo. Malgrado il tempo, Roran era raggiante e in cuor suo esultava per la risposta di Katrina. Erano fidanzati! Aveva la sensazione che un pezzo mancante del mondo si fosse finalmente incastrato al posto giusto, che gli fosse stata infusa l'audacia di un guerriero invulnerabile. Che importavano i soldati, o i Ra'zac, o l'Impero stesso, davanti a un amore come il loro? Non erano altro che fuscelli al vento.


Nonostante il suo nuovo stato di grazia, però, non riusciva a distogliere la mente da quello che era diventato il fulcro della sua esistenza: assicurarsi che Katrina sopravvivesse alle ire di Galbatorix. Non pensava ad altro da quando si era svegliato. La cosa migliore per Katrina sarebbe andare da Cawley, decise, gli occhi fissi sulla strada nebbiosa, ma lei non accetterebbe mai di andarsene... a meno che Sloan non glielo ordini. Dovrei riuscire a convincerlo; sono sicuro che la vuole lontano dal pericolo almeno quanto me.


Mentre rifletteva sulla maniera migliore di accostarsi al macellaio, le nuvole tornarono ad addensarsi e la pioggia rinnovò il suo assalto al villaggio, scrosciando a ondate gelide e pungenti. Le pozzanghere intorno a Roran si animarono, colpite dalle gocce d'acqua che rimbalzavano come cavallette impaurite.


Quando gli venne fame, Roran passò la guardia a Lame - il figlio più giovane di Loring - e andò verso casa per pranzare, correndo dal riparo di una grondaia a un altro.


Svoltando un angolo, rimase sorpreso nel vedere, sul portico, Albriech che discuteva animatamente con un gruppo di uomini.


Ridley gridava: «... sei cieco... Seguiamo il pioppeto e non ci vedranno mai! Ti stai cacciando in una situazione senza via d'uscita.»


«Provaci, se ci tieni» ribatte Albriech.


«Puoi scommetterci!»


«Così mi potrai dire se ti piace il sapore delle frecce.»


«Magari» intervenne Thane «noi non siamo degli smidollati come te.»


Albriech si girò di scatto verso di lui, con un ringhio. «Le tue parole sono vuote come il tuo cervello. Non sono io lo stupido a rischiare la vita della mia famiglia portandola al riparo di qualche foglia che non ho mai nemmeno visto.» Thane strabuzzò gli occhi e la sua faccia si coprì di chiazze viola. «Be'?» incalzò Albriech. «Ti sei mangiato la lingua?» Thane ruggì e sferrò un pugno sullo zigomo di Albriech.


Il giovane si mise a ridere. «Sei debole come una femminuccia.» Poi prese Thane per le spalle e lo scaraventò giù dal portico, facendolo volare in mezzo al fango, dove rimase stordito e umiliato.


Impugnando la lancia come un bastone, Roran balzò davanti ad Albriech, impedendo a Ridley e agli altri di aggredirlo. «Basta» ringhiò Roran, su tutte le furie. «I nostri nemici sono altri. Più in là potremo organizzare un'assemblea e gli arbitri decideranno se il risarcimento spetta ad Albriech o a Thane. Ma fino a quel momento non possiamo azzuffarci fra di noi.»


«Per te è facile parlare» sibilò Ridley. «Tu non hai moglie o figli.» Poi aiutò Thane a rimettersi in piedi e si allontanò col gruppo di uomini.


Roran squadrò Albriech con aria severa, mentre un livido violaceo si allargava sotto l'occhio destro dell'uomo. «Chi ha cominciato?» chiese. «Io...» Albriech s'interruppe con una smorfia e si tastò lo zigomo. «Ero andato in perlustrazione con Darmen. I Ra'zac hanno appostato i soldati sulle colline. In questo modo possono controllare l'Anora e tutta la valle. Uno o due di noi potrebbero, dico potrebbero, riuscire a svignarsela senza farsi vedere, ma non ce la faremo mai a portare i bambini da Cawley senza uccidere i soldati. Tanto varrebbe dire ai Ra'zac dove stiamo andando.» Roran si sentì prendere dal panico, come un veleno che gli scorreva nelle vene e nel cuore. Cosa faccio? Fiaccato dalla sensazione di un destino incombente, cinse le spalle di Albriech con un braccio. «Andiamo. Sarà meglio che Gertrude ti dia un'occhiata.»


«No» disse Albriech, liberandosi dalla stretta con una scrollata di spalle. «Ha casi più gravi del mio.» Trasse un lungo respiro - come se stesse per tuffarsi in un lago - e si slanciò sotto la pioggia battente diretto alla fucina. Roran lo guardò allontanarsi, poi scosse il capo ed entrò in casa. Trovò Elain seduta sul pavimento, circondata da un gruppo di bambini che affilavano un mucchio di punte di lancia con lime e cote. Roran fece un cenno a Elain, e quando furono in un'altra stanza, le raccontò quello che era appena accaduto.


Elain imprecò con violenza - una sorpresa, perché Roran non l'aveva mai sentita usare un linguaggio simile - poi gli domandò: «E questo basta perché Thane proclami una faida?»


«Può darsi» ammise Roran. «Si sono insultati a vicenda, ma le offese di Albriech sono state le più gravi... Tuttavia, è stato Thane a colpire per primo. Avreste tutti i diritti di dichiarare voi stessi una faida.»


«Sciocchezze» sentenziò Elain, avvolgendosi uno scialle sulle spalle. «Questo è un caso da sottoporre ad arbitrato. Se dovremo pagare un'ammenda, che sia, purché si eviti uno spargimento di sangue.» E con queste parole, uscì dalla stanza, stringendo in mano una lancia finita.


Preoccupato, Roran trovò pane e carne in cucina, poi andò ad aiutare i bambini ad affilare le punte della lancia. Quando arrivò Felda, una delle madri, Roran lasciò i bambini alla sua custodia, e riattraversò i torrenti di fango di Carvahall per tornare sulla strada maestra.


Mentre si accovacciava nel fango, un improvviso raggio di sole squarciò la cappa grigia, illuminando le gocce di pioggia che sembravano ardere di un fuoco cristallino. Roran contemplava rapito lo spettacolo, incurante della pioggia che gli bagnava il viso. Lo squarcio fra le nubi continuò ad allargarsi, finché il poderoso fronte di nubi temporalesche si fermò sul versante occidentale della Valle Palancar, mentre dall'altro lato si stagliava una limpida fascia di cielo azzurro: era come se il pennello di un artista avesse tracciato una riga netta sul panorama bagnato, con i campi, i cespugli, gli alberi, il fiume e le montagne che da una parte sfolgoravano di colori brillanti, e dall'altra erano grevi di ombre scure. Sembrava che il mondo fosse stato trasformato in una scultura di metallo brunito.


Poi, d'un tratto, Roran colse un movimento con la coda dell'occhio e vide un soldato fermo sulla strada, la cotta di maglia che scintillava come ghiaccio. L'uomo spalancò la bocca sbalordito davanti alle nuove fortificazioni di Carvahall, poi si volse per dileguarsi in fretta nella nebbiolina dorata.


«Soldati!» gridò Roran, balzando in piedi. Era un peccato non avere l'arco con sé, ma lo aveva lasciato in casa per proteggerlo dagli elementi. La sua unica consolazione era che anche i soldati avrebbero avuto difficoltà a tenere le armi asciutte.


Dalle case del villaggio, uomini e donne accorsero per assieparsi lungo la trincea e sbirciarono fra i rami dello sbarramento di pini imperlati di gocce di pioggia, zirconi lucenti che riflettevano file di occhi angosciati. Roran si trovò al fianco di Sloan. Il macellaio impugnava uno degli scudi costruiti da Fisk nella sinistra, e nella destra una mannaia ricurva come una mezzaluna. Aveva la cintura festonata da una dozzina di coltelli, tutti grandi e affilati come rasoi. Lui e Roran si scambiarono un cenno d'intesa, poi tornarono a concentrarsi sul punto dov'era scomparso il soldato.


Meno di un minuto dopo, la voce disincarnata di un Ra'zac sibilò nella bruma: «La vossstra ossstinazione nel difendere Carvahall è una dichiarazione d'intenti. Il vossstro dessstino è sssegnato: morirete!»


Rispose Loring: «Mostrate le vostre facce pustolose se osate, luridi vermi, insetti schifosi, viscidi serpenti, mostril Vi spaccheremo il cranio e ingrasseremo i porci con il vostro sangue!»


Una sagoma scura volò verso di loro, seguita dal tonfo sordo di una lancia che si conficcava in una porta, a un soffio dal braccio sinistro di Gedric.


«Al riparo!» gridò Horst dal centro della linea. Roran s'inginocchiò dietro lo scudo e sbirciò attraverso il sottile spiraglio fra due tavole. Fece appena in tempo, poiché una mezza dozzina di lance sfrecciarono oltre lo sbarramento di alberi per piombare fra i villici rannicchiati.


Da qualche parte, nella nebbia, si udì un grido straziante.


Il cuore di Roran sobbalzò. Aveva il fiato corto, anche se non aveva mosso un muscolo, e le mani fradicie di sudore. Udì un debole rumore di vetro infranto ai margini settentrionali di Carvahall... poi il boato di un'esplosione e lo schianto del legno.


Voltandosi di scatto, lui e Sloan si precipitarono dall'altra parte di Carvahall, dove trovarono una squadra di sei soldati che spostavano i resti tranciati di alcuni alberi. Alle loro spalle, lividi e infuriati nella luccicante cortina di pioggia, sedevano i Ra'zac sui loro neri destrieri. Senza rallentare, Roran balzò contro il primo uomo con la lancia in pugno. Il soldato parò il primo e il secondo affondo con un braccio levato, poi Roran lo colpì al fianco e, quando l'uomo barcollò, gli trapassò la gola.


Sloan ululò come una bestia impazzita e scagliò la mannaia, che si andò a conficcare nell'elmo di un soldato, spaccandogli il cranio. Due soldati lo caricarono con le spade sguainate. Sloan scartò di lato, ridendo, adesso, e si difese dall'attacco con lo scudo. Un soldato colpì tanto forte che la lama gli restò conficcata nel legno. Sloan lo attirò a sé e gli piantò un coltello nell'occhio. Estratta un'altra mannaia, il macellaio cominciò a saltellare intorno al secondo avversario, fissandolo con un ghigno da folle. «Mi divertirò a sbudellarti come un capretto!» gracchiò, gli occhi iniettati di sangue.


Roran perse la lancia nel combattere contro gli altri due rimasti. Riuscì appena in tempo a estrarre il martello per parare il fendente di una spada, che altrimenti gli avrebbe tagliato la gamba. Il soldato che gli aveva strappato la lancia di mano gliela scagliò addosso, mirando al petto. Roran lasciò cadere il martello e l'afferrò al volo, con una mossa fulminea che sorprese lui stesso almeno quanto i soldati. Poi si volse e la piantò fra le costole dell'uomo che l'aveva tirata, e quella rimase incastrata nel metallo della corazza. Ormai disarmato, si vide costretto a indietreggiare davanti all'altro soldato. Inciampò su un cadavere, ferendosi il polpaccio su una spada nel cadere, e rotolò di fianco per schivare un colpo, cercando a tentoni nel fango qualcosa, qualunque cosa, da poter usare come arma. Le sue dita frenetiche si strinsero su un'elsa. Strappò la lama dal fango e recise di netto la mano del soldato che impugnava la spada. L'uomo si guardò inebetito il moncherino sanguinante. «Colpa mia che non ho usato lo scudo» farfugliò.


«Già» assentì Roran, e gli tagliò la testa.


In preda al panico, l'ultimo soldato fuggì verso le impassibili sagome dei Ra'zac, mentre Sloan lo subissava di insulti e maledizioni. Nella fitta cortina di pioggia, Roran osservò con un brivido di orrore le due figure nere protendersi dai cavalli e afferrare l'uomo per la gola con mani deformi. Le dita crudeli si strinsero; l'uomo emise un gorgoglio disperato e si divincolò, poi il suo corpo si afflosciò inerte. I Ra'zac trassero il cadavere su una delle selle, poi voltarono i cavalli e si allontanarono.


Roran rabbrividì e guardò Sloan, che stava pulendo le lame. «Hai combattuto bene.» Mai avrebbe immaginato che il macellaio avesse in corpo tanta ferocia.


Sloan disse a bassa voce: «Non avranno mai Katrina. Mai, dovessi scuoiarli uno per uno, o combattere mille Urgali, e anche il re, se necessario. Tirerò giù il cielo e farò annegare l'Impero nel suo stesso sangue, prima che le venga torto un capello.» Poi serrò le labbra, si rimise i coltelli nella cintura, e cominciò a trascinare i tre alberi spezzati al loro posto. Nel frattempo Roran fece rotolare i soldati morti nel fango, lontani dalle fortificazioni. Adesso ne ho uccisi cinque. Alla fine si stiracchiò la schiena indolenzita e si guardò intorno, perplesso, perché non sentiva altro che il sibilo della pioggia nel silenzio. Perché nessuno è venuto ad aiutarci?


Chiedendosi che cos'altro era successo, tornò con Sloan sulla scena del primo attacco. Due soldati penzolavano inerti dai rami viscidi dello sbarramento di alberi, ma non fu quello ad attirare la loro attenzione. Horst e gli altri abitanti del villaggio erano inginocchiati in circolo intorno a un corpicino immobile. Roran trasalì. Era Elmund, figlio di Delwin, e aveva soltanto dieci anni. Il ragazzino era stato colpito al fianco da una lancia. I genitori erano seduti nel fango accanto a lui, le facce bianche come cenci lavati.


Bisogna fare qualcosa, si disse Roran, cadendo in ginocchio, le mani strette intorno alla lancia per sostenersi. Pochi bambini sopravvivevano ai loro primi cinque o sei anni. Ma perdere il primogenito adesso, quando tutto indicava che sarebbe cresciuto per diventare alto e forte e prendere il posto di suo padre a Carvahall, era una tragedia insopportabile. Katrina, i bambini... bisogna metterli al sicuro.


Ma dove?... Dove?... Dove?... Dove?

Lungo la corrente impetuosa

Durante il primo giorno di navigazione da Tarnag, Eragon s'impegnò per imparare i nomi delle guardie di Ùndin. Erano Ama, Trihga, Hedin, Ekksvar, Shrrgnien - un nome che trovò impronunciabile, ma gli dissero che significava Cuordilupo - Dùthmér e Thorv.


Ogni zattera aveva una piccola cabina al centro, ma Eragon preferiva trascorrere il tempo seduto sul bordo dei legni, ad ammirare i Monti Beor che gli scorrevano davanti. Martin pescatori e taccole volteggiavano bassi sul fiume limpido, mentre aironi azzurri se ne stavano appollaiati immobili come statue sulle rive paludose, screziate di luce che filtrava dalle chiome dei noccioli, dei faggi e dei salici. Di tanto in tanto una rana gracidava da un cespuglio di felci. Quando Orik si sedette al suo fianco, Eragon disse: «È bellissimo.»


«Lo credo anch'io.» Il nano si accese la pipa, poi si adagiò sulla schiena ed emise uno sbuffo di fumo. Eragon ascoltava gli scricchiolii del legname e delle corde, mentre Trihga timonava la zattera con una lunga pagaia fissata a poppa. «Orik, tu lo sai perché Brom si unì ai Varden? So così poco di lui. Per gran parte della mia vita non è stato altro che il vecchio cantastorie del villaggio.»


«Lui non si unì mai ai Varden. Contribuì a fondarli.» Orik fece una pausa per gettare un po' di cenere nell'acqua. «Dopo che Galbatorix ascese al trono, Brom rimase l'unico Cavaliere ancora in vita, a parte i Rinnegati.» «Ma lui non era un Cavaliere, non più, allora. Il suo drago era rimasto ucciso nella battaglia di Dorù Areaba.» «Be', restava comunque un Cavaliere nel suo cuore. Brom fu il primo a organizzare gli amici e gli alleati dei Cavalieri che erano stati costretti all'esilio. Fu lui che convinse Rothgar a ospitare i Varden nel Farthen Dùr, e che ottenne l'aiuto degli elfi.»


Qualche attimo di silenzio, poi Eragon chiese: «Come mai rifiutò il comando?»


Orik sorrise mesto. «Forse perché non l'aveva mai desiderato. Tutto questo accadde prima che Rothgar mi adottasse, e vedevo così poco Brom a Tronjheim... Era sempre lontano a combattere i Rinnegati o impegnato in qualche complotto.» «I tuoi genitori sono morti?»


«Sì. Se li portò via il vaiolo quando ero piccolo, e Rothgar fu così gentile da accogliermi nel suo palazzo, e dato che non aveva figli suoi, mi nominò suo erede.»


Eragon pensò all'elmo con il simbolo dell'Ingietum. Rothgar è stato altrettanto gentile con me.


Quando calarono le prime ombre della sera, i nani appesero una lanterna rotonda a ciascun angolo dei battelli. Eragon rammentò che il tipico colore rosso delle lanterne serviva a migliorare la visione notturna. Mentre scrutava le pure e immobili profondità delle lampade, domandò ad Arya, in piedi accanto a lui: «Sai come sono fatte?» «Funzionano con un incantesimo che donammo ai nani molto tempo fa. Sanno usarlo con grande perizia.» Eragon si grattò il mento e le guance, sentendo le prime chiazze di peluria che gli cresceva. «Puoi insegnarmi altre magie durante il viaggio?»


L'elfa si teneva in perfetto equilibrio sui tronchi ondeggianti; lo guardò severa. «Non è compito mio. Un insegnante ti aspetta.»


«Allora puoi dirmi almeno una cosa?» insistette lui. «Cosa significa il nome della mia spada?»


La voce di Arya si ridusse a un sussurro. «Miseria è la tua spada. E questo rimase finché non l'hai avuta tu.» Eragon guardò Zar'roc con avversione. Più cose apprendeva sulla spada, più maligna e funesta gli sembrava, come se la lama fosse dotata di una propria volontà in grado di causare sventure. Non solo Morzan l'ha usata per uccidere i Cavalieri, ma lo stesso nome di Zar'roc è malvagio. Se non fosse stato Brom a dargliela, e se Zar'roc non avesse avuto il pregio di non rompersi e non perdere mai il filo, Eragon l'avrebbe scagliata nel fiume all'istante.


Prima che si facesse buio, Eragon andò a nuoto da Saphira. Insieme volarono per la prima volta da quando avevano lasciato Tronjheim, e si librarono in alto sull'Az Ragni, dove l'aria era rarefatta e l'acqua sottostante un minuscolo rigagnolo viola.


Senza sella, Eragon strinse forte le ginocchia intorno ai fianchi di Saphira, sentendo le sue squame strofinare contro le cicatrici che gli erano rimaste dal loro primo volo.


Quando Saphira virò a sinistra, sfruttando una corrente ascensionale, Eragon vide tre puntolini marroni lanciarsi dalle pendici dei monti e ascendere rapidamente. Sulle prime Eragon li prese per falchi, ma mentre si avvicinavano, si rese conto che gli animali erano lunghi venti piedi, con code affusolate e ali membranose. In effetti assomigliavano ai draghi, solo che il corpo era più piccolo, più magro e più serpentesco di quello di Saphira. E le loro squame non scintillavano, ma erano screziate di verde e marrone.


Eccitato, Eragon li indicò a Saphira. Secondo te sono draghi? domandò.


Non saprèi. La dragonessa batteva le ali per restare ferma in aria, mentre i nuovi arrivati le volteggiavano intorno. Le creature parvero sconcertate da Saphira. Si lanciarono contro di lei sibilando, ma solo per deviare sopra la sua testa all'ultimo momento.


Eragon sogghignò ed espanse la mente, nel tentativo di toccare i loro pensieri. Nello stesso istante, le tre creature sussultarono e lanciarono acute strida, aprendo le fauci come serpenti infuriati. Le loro grida laceranti erano mentali oltre che fisiche, e trafissero Eragon con una forza inaudita, cercando di renderlo inoffensivo. Anche Saphira la percepì. Continuando a strillare, le selvagge creature attaccarono, con gli artigli snudati.


Reggiti, lo avvertì Saphira. Ripiegò l'ala sinistra e fece un mezzo giro su se stessa, evitando due degli animali, poi battè rapida le ali per librarsi sopra il terzo. Nello stesso tempo, Eragon si affannava nel tentativo di bloccare le grida. Nell'istante in cui la sua mente fu di nuovo lucida, fece ricorso alla magia. Non li uccidere, disse Saphira. Lascia a me questo piacere.


Benché le creature fossero più agili di Saphira, la dragonessa aveva dalla sua il vantaggio della mole e della forza fisica. Una delle bestie alate si gettò in picchiata su di lei. Saphira si capovolse - volando in caduta libera - e sferrò un calcio al petto della creatura.


Il grido calò mentre l'avversario ferito batteva in ritirata.


Saphira dispiegò le ali, tornando in posizione normale per affrontare gli altri due che convergevano su di lei. Inarcò il collo, Eragon sentì un rombo sonoro scuoterle le costole, e poi una vampa di fuoco scaturì dalle sue fauci. Un alone azzurro avvolse la testa di Saphira, scorrendo lungo le squame sfaccettate finché la dragonessa non sfolgorò tutta di una luce abbagliante che sembrava illuminarla dall'interno.


Le due bestie serpentesche lanciarono grida sgomente e ciascuna virò su un lato di Saphira. L'assalto mentale cessò, mentre volavano via, dileguandosi veloci fra le montagne.


Per poco non mi facevi cadere, si lamentò Eragon, sciogliendosi i muscoli indolenziti delle braccia che aveva tenuto avvinghiate al suo collo.


Lei gli rivolse un sogghigno divertito. Per poco, ma non abbastanza.


È vero, rise lui.


Accaldati per l'eccitazione della vittoria, tornarono alle zattere. Mentre Saphira ammarava sollevando due ampi ventagli di spruzzi, Orik gridò: «Siete feriti?»


«No» esclamò Eragon. L'acqua gelida gli lambiva le gambe, mentre Saphira nuotava verso il battello. «Erano un'altra delle razze native dei Beor?»


Orik lo aiutò a issarsi sulla zattera. «Li chiamiamo Fanghur. Non sono intelligenti come i draghi, e non possono sputare fuoco, ma restano pur sempre combattenti formidabili.»


«L'abbiamo visto.» Eragon si massaggiò le tempie per alleviare il mal di testa provocato dall'attacco dei Fanghur. «Ma con Saphira non avevano scampo.»


Naturale, si vantò lei.


«È così che cacciano» spiegò Orik. «Usano la mente per immobilizzare la preda mentre la uccidono.» Saphira schizzò Eragon con un guizzo di coda. £ una buona idea. Me ne ricorderò la prossima volta che vado a caccia. Lui annuì. Potrebbe tornarci utile anche in battaglia.


Arya si avvicinò al bordo della zattera. «Sono lieta che non li abbiate uccisi. I Fanghur sono così rari che sarebbe stato un peccato eliminare quei tre.»


«Ne restano comunque abbastanza da decimare il nostro bestiame» brontolò Thorv dall'interno della cabina. Il nano uscì e si diresse verso Eragon, borbottando sotto la massa intricata della barba. «Non andate più a volare mentre siamo ancora fra i Monti Beor, Ammazzaspettri. Già è difficile proteggerti, senza che tu e il tuo drago vi azzuffiate con le vipere del cielo.»


«Resteremo a terra finché non raggiungeremo le pianure» promise Eragon.


«Bene!»


Quando si fermarono per la notte, i nani ormeggiarono le zattere ad alcuni pioppi che crescevano sulla bocca di un piccolo affluente. Ama accese un falò, mentre Eragon aiutava Ekksvar a sbarcare Fiammabianca. Legarono lo stallone in una zona erbosa.


Thorv controllò l'allestimento di sei grandi tende. Hedin raccolse tanta legna da poter alimentare il fuoco fino al mattino. Dùthmér andò a prendere le provviste sulla seconda zattera e si accinse a preparare la cena. Arya montò di guardia ai margini dell'accampamento, dove ben presto fu raggiunta da Ekksvar, Ama e Trìhga, che avevano finito di svolgere le altre mansioni.


Eragon si accorse di non avere niente da fare, così andò ad accovacciarsi davanti al falò, in compagnia di Orik e Shrrgnien. Quando Shrrgnien si tolse i guanti per avvicinare le mani deformi al fuoco, Eragon notò che da ciascuna nocca, tranne che dai pollici, spuntava un chiodo di lucido acciaio lungo all'incirca un quarto di pollice. «Cosa sono?» domandò.


Shrrgnien guardò Orik e rise. «Sono i miei Ascùdgamln, i miei pugni d'acciaio.» Senza alzarsi, girò il busto e sferrò un pugno al tronco di un pioppo, lasciando quattro fori simmetrici nella corteccia. «Comodi per colpire, eh?» La cosa suscitò la curiosità e l'invidia di Eragon. «Come sono fatti? Voglio dire, i chiodi, come sono attaccati alle mani?»


Shrrgnien esitò, cercando di trovare le parole giuste. «Un guaritore ti fa cadere in un sonno profondo, per non farti sentire dolore. Poi ti vengono... trapanate, giusto?... trapanate le articolazioni e...» S'interruppe e si rivolse a Orik nel linguaggio dei nani, parlando fitto fitto.


«In dascun foro viene inserito un dado di metallo» spiegò Orik, «che viene sigillato nella carne con la magia. Quando il guerriero si è completamente ristabilito, nei dadi si possono avvitare chiodi di diversa misura.»


«Già, guarda» disse Shrrgnien con un sogghigno. Afferrò il chiodo dell'indice sinistro e lo svitò lentamente, poi lo porse a Eragon.


Eragon sorrise mentre soppesava il pezzo di metallo acuminato nel palmo della mano. «Non mi dispiacerebbe avere questi pugni d'acciaio.» Restituì il chiodo a Shrrgnien.


«È un'operazione pericolosa» lo ammonì Orik. «Sono ben pochi i knurlan che si fanno impiantare gli Ascùdgamln, perché c'è il rischio di perdere l'uso della mano, se il trapano arriva troppo in profondità.» Levò un pugno e lo mostrò a Eragon. «Le nostre ossa sono più robuste delle vostre. Potrebbe non funzionare per un umano.» «Me lo ricorderò.» Ma Eragon non potè fare a meno di immaginare come si sarebbe sentito a combattere con gli Ascùdgamln, a poter colpire qualsiasi cosa senza correre rischi, persino le armature degli Urgali. L'idea lo solleticava. Dopo mangiato, Eragon si ritirò nella sua tenda. La luce del falò all'esterno gli consentiva di vedere la sagoma di Saphira accucciata accanto alla tenda, come una figura ritagliata da un foglio nero e incollata alla parete di tela. Eragon si sedette con le coperte tirate sulle gambe e si guardò in grembo, assonnato: non aveva ancora voglia di addormentarsi. Libera di pensare, la sua mente cominciò a vagare fra i ricordi di casa. Eragon si domandò che cosa stessero facendo Roran, Horst e gli altri abitanti di Carvahall, e se il tempo nella Valle Palancar fosse abbastanza mite da permettere ai contadini di dare inizio alla semina. Lo pervase una profonda tristezza e sentì nostalgia di casa. Prese una ciotola di legno dallo zaino e la riempì fino all'orlo con l'acqua versata dalla borraccia. Poi si concentrò su un'immagine di Roran e mormorò: «Draumr kópa.»


Come sempre, l'acqua prima divenne nera per poi illuminarsi e rivelare la persona o la cosa da divinare. Eragon vide Roran seduto da solo in una stanza da letto illuminata dalla fiamma di una candela. Eragon riconobbe la casa di Horst. Roran deve aver lasciato il suo lavoro a Therinsford, pensò. Suo cugino aveva la schiena curva, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, e fissava il muro con espressione corrucciata, segno di qualche grave problema. Eppure sembrava sano, anche se un po' stanco, ed Eragon si sentì rincuorato. Dopo un minuto, dissolse l'incantesimo e l'acqua tornò limpida.


Confortato, vuotò la ciotola, poi si sdraiò, tirandosi le coperte fino al mento. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare nel tiepido sopore che separa la veglia dal sonno, dove la realtà si piega e ondeggia al flusso dei pensieri, e la fantasia sboccia in tutta libertà, svincolata dalla materia, e tutto è possibile.


Il sonno lo vinse. Dormì tranquillo, ma poco prima di destarsi, i soliti fantasmi notturni furono sostituiti da una visione non meno chiara e vibrante che se fosse stato sveglio.


Vide un cielo tormentato, nero e cremisi di fumo. Corvi e aquile volteggiavano sopra nugoli di frecce che volavano da un lato all'altro di due schieramenti in battaglia. Un uomo annaspava nel fango con l'elmo ammaccato e l'armatura insanguinata, il volto celato da un braccio alzato.


Una mano guantata d'acciaio entrò nella visuale di Eragon,


tanto vicina da oscurare metà del mondo con lo scintillio del metallo. Come una macchina inesorabile, il pollice e le ultime tre dita si chiusero a pugno, lasciando l'indice teso verso l'uomo riverso, implacabile e crudele come il fato. La visione era ancora vivida nella mente di Eragon quando sgusciò fuori dalla tenda. Trovò Saphira a una certa distanza dall'accampamento, intenta a masticare una massa pelosa. Quando le raccontò cosa aveva visto, la dragonessa smise di masticare, poi inarcò il collo e inghiottì il boccone ancora intero.


L'ultima volta che ti è successo, disse lei, si è rivelata un'esatta predizione di eventi che si svolgevano altrove. Credi che ci sia una battaglia in corso in Alagaè'sia?


Lui tirò un calcio a un rametto spezzato. Non ne sono sicuro... Brom disse che si possono divinare soltanto persone, luoghi e cose che uno ha già visto. Eppure quel luogo non l'ho mai visto. Né avevo mai conosciuto Arya quando la sognai la prima volta a Teirm. Magari Togira Ikonoka saprà darci una spiegazione.


Mentre si preparavano alla partenza, i nani sembravano molto più tranquilli ora che avevano messo una discreta distanza fra loro e Tarnag. Quando cominciarono a navigare lungo l'Az Ragni, Ekksvar - che timonava la zattera di Fiammabianca - cominciò a cantare con la sua roca voce da basso:


Lungo la corrente impetuosa


Del sangue spumeggiante di Kilf,


Cavalchiamo i legni ondeggianti,


Per la patria, il clan e l'onore.


Sotto il dominio delle aquile, Nelle foreste dei lupi di montagna


Cavalchiamo i legni sanguinanti, Per il ferro, l'oro e il diamante.


Ascia e piccozza, riempite il mio palmo, Lamina da guerra, proteggi la mia pietra, Mentre lascio la dimora dei miei padri Per le terre desolate e ignote.


Gli altri si unirono a Ekksvar, intonando altre strofe nel linguaggio dei nani. Il canto basso e vibrante accompagnò Eragon mentre puntava cauto verso la prua del battello, dove Arya era seduta a gambe incrociate. «Ho avuto... una visione durante il sonno» disse Eragon. Arya lo guardò con interesse, e lui le riferì le immagini che aveva visto. «Se stavo divinando, allora...»


«Non era divinazione» lo interruppe Arya, poi proseguì con voluta lentezza, per non dar luogo a equivoci. «Ho riflettuto a lungo su come tu sia riuscito a vedermi imprigionata a Gil'ead, e sono giunta alla conclusione che mentre ero priva di sensi il mio spirito ha vagato in cerca di aiuto, ovunque riuscisse a trovarlo.»


«Ma perché io?»


Arya indicò con la testa la mole di Saphira che fendeva le acque. «Durante i quindici anni in cui ho sorvegliato il suo uovo, mi ero abituata alla presenza di Saphira. Probabilmente mi stavo dilatando verso qualunque cosa mi fosse familiare, quando ho toccato i tuoi sogni.»


«Sei davvero così potente da evocare qualcuno a Teirm da Gil'ead? Ti avevano anche drogata!.» Un lieve sorriso comparve sulle labbra di Arya. «Potrei trovarmi alle porte di Vroengard e parlarti con la stessa chiarezza con cui parliamo adesso.» Fece una pausa. «Poiché a Teirm non si trattò di divinazione, vuol dire che anche questo nuovo sogno non lo hai divinato, e perciò


dev'essere stata una premonizione. Si sa che ogni tanto capitano alle razze senzienti, specie a coloro che usano la magia.»


La zattera rollò ed Eragon, per sostenersi, si afferrò alla rete che conteneva le provviste. «Se quello che ho visto si realizzerà, allora come possiamo cambiare le cose che avvengono? Le nostre scelte non contano niente? E se mi gettassi in acqua in questo preciso istante e mi lasciassi annegare?»


«Non lo farai.» Arya immerse l'indice nel fiume e fissò la goccia solitària che le restava sospesa alla pelle, come una tremula lente. «Tanto tempo fa, l'elfo Maerzadi ebbe la premonizione che avrebbe ucciso accidentalmente suo figlio in battaglia. Piuttosto che vivere per vederlo succedere, preferì uccidersi, salvare suo figlio e al tempo stesso provare che il futuro non è prestabilito. Ma a meno che tu non ti suicidi, puoi fare ben poco per cambiare il tuo destino, poiché non sai quali scelte ti condurranno a quel particolare momento nel tempo che hai visto.» Scrollò la mano e la goccia piovve sul legno fra di loro. «Sappiamo che è possibile carpire informazioni al futuro... gli indovini spesso percepiscono il corso che prenderà la vita di una persona... ma non siamo stati capaci di raffinare il processo al punto tale da poter scegliere che cosa, dove e quando vedere.»


Eragon trovava profondamente inquietante l'idea di far scorrere la conoscenza attraverso il tempo. Suscitava troppi interrogativi sulla natura della realtà. Che il fato e il destino esistano oppure no, l'unica cosa che posso fare è godermi il presente e vivere nel modo più onorevole possibile. Eppure non potè fare a meno di domandare: «Che cosa mi impedisce, però, di divinare uno dei miei ricordi? In essi ho già visto tutto... perciò dovrei riuscire a vederli con la magia.»


Arya si volse di scatto a guardarlo negli occhi. «Se ti preme la vita, non provarci mai. Tanti anni fa, alcuni dei nostri maghi si dedicarono al tentativo di sconfiggere gli enigmi del tempo. Quando cercarono di evocare il passato, riuscirono soltanto a creare un'immagine sfuocata nello specchio, prima che l'incantesimo consumasse tutta la loro energia e li uccidesse. Non abbiamo più compiuto esperimenti del genere. Si dice che l'incantesimo funzionerebbe con la partecipazione di un numero maggiore di maghi, ma nessuno ha voglia di rischiare e la teoria resta non provata. Se anche uno riuscisse a divinare il passato, non avrebbe alcuna utilità. E per divinare il futuro, bisognerebbe conoscere esattamente cosa sta per accadere, quando e dove, il che vanifica lo scopo.


«È un mistero quindi, come una persona possa avere premonizioni mentre dorme, come possa fare inconsapevolmente qualcosa che ha sconfitto i nostri più grandi sapienti. Le premonizioni possono essere legate alla natura e alla sostanza stessa della magia... o magari funzionano in maniera simile alla memoria ancestrale dei draghi. Non lo sappiamo. Sono molte le vie della magia ancora da esplorare.» L'elfa si alzò con fluida agilità. «Cerca di non smarrirti in esse.»

Inquietudini

Nel corso della mattinata, la valle andò sempre più allargandosi, a mano a mano che le zattere procedevano verso un ampio varco fra due montagne. A mezzogiorno raggiunsero lo sbocco e finalmente abbandonarono un regno di ombre per affacciarsi su una pianura assolata che si perdeva a vista d'occhio.


La corrente li trascinò oltre i picchi innevati, e le pareti del mondo si aprirono per rivelare un cielo sconfinato e un orizzonte piatto. Quasi all'istante l'aria si fece più mite. L'Az Ragni curvava a est, lambendo le colline da un lato e la pianura dall'altro.


La vastità del panorama sembrava turbare i nani. Borbottavano fra di loro e rivolgevano sguardi struggenti alla gola cavernosa che si lasciavano alle spalle.


Eragon si sentì rinvigorito dai raggi del sole. Era difficile persino sentirsi svegli quando per tre quarti della giornata eri immerso nella penombra. Dietro la sua zattera, Saphira spiccò il volo dall'acqua e si librò sulla prateria fino a diventare un puntino splendente sotto l'azzurra volta.


Che cosa vedi? le domandò.


Vedo branchi di gazzelle a nord e a est. A ovest, il Deserto di Hadarac. Tutto qui.


Nient'altro? Niente Urgali, o carovane di mercanti di schiavi, o di nomadi?


Siamo soli.


Quella sera Thorv scelse una piccola insenatura per accamparsi. Mentre Dùthmér preparava la cena, Eragon sgombrò una zona di fianco alla sua tenda, poi estrasse Zar'roc e assunse la posizione di guardia che Brom gli aveva insegnato quando si allenavano. Eragon sapeva di non essere all'altezza degli elfi, e non aveva alcuna intenzione di arrivare a Ellesméra fuori esercizio.


Con estrema lentezza, levò Zar'roc sopra la testa e la calò con entrambe le mani come per spaccare l'elmo di un nemico. Mantenne la posizione per un secondo; poi, sempre controllando i movimenti, torse il busto a destra, girando la lama di Zar'roc per parare un colpo immaginario... poi si fermò con le braccia rigide.


Con la coda dell'occhio, Eragon vide Orik, Arya e Thorv che lo osservavano. Li ignorò e tornò a concentrarsi soltanto sulla lama rossa tra le sue mani: la maneggiava come se fosse un serpente che poteva sgusciargli dalle mani e morderlo. Voltandosi ancora, eseguì una serie di movimenti fluidi, passando dall'uno all'altro con disciplinata scioltezza, mentre aumentava via via la rapidità. Non era più nell'insenatura ombreggiata, ma circondato da un manipolo di feroci Urgali e Kull. Si abbassava, si lanciava in un affondo, parava, riprendeva posizione, schivava e fendeva, in un turbine di movimenti. Combatteva con energia intuitiva, come aveva fatto nel Farthen Dùr, senza pensare a salvarsi la pelle, colpendo e massacrando i nemici immaginari.


Fece roteare Zar'roc nel tentativo di passarsela da una mano all'altra, ma la spada gli cadde di mano quando un'atroce fitta di dolore gli straziò la schiena. Barcollò e cadde. Sopra di sé sentì Arya e i nani che parlottavano concitati, ma non vedeva altro che una nebbia rossa, come un sudario insanguinato che velava il mondo. Nessuna sensazione esisteva, a parte il dolore. Gli oscurò pensiero e ragione, lasciando solo una bestia selvaggia che urlava per essere liberata. Quando Eragon si riprese abbastanza da capire dove si trovava, scoprì che era nella sua tenda, sotto le coperte. Arya sedeva accanto a lui, e Saphira faceva capolino dai lembi dell'ingresso.


Sono rimasto svenuto a lungo? chiese Eragon.


Un po'. Alla fine ti sei addormentato. Ho cercato di estrarti dal tuo corpo per farti entrare nel mio e proteggerti dal dolore, ma ho potuto fare ben poco mentre eri incosciente.


Eragon annuì e chiuse gli occhi. Si sentiva pulsare tutto il corpo. Inspirò a fondo, guardò Arya e con voce sommessa chiese: «Come potrò allenarmi?... Come potrò combattere o usare la magia?... Sono un relitto inutile.» Di colpo il suo viso dimostrò molti più anni di quanti ne avesse.


Lei rispose con altrettanta dolcezza. «Puoi sempre sederti a osservare. Puoi ascoltare. Puoi leggere. E puoi imparare.» Malgrado le sue parole, Eragon avvertì una nota di incertezza, forse addirittura di timore, nella sua voce. Si voltò su un fianco per evitare il suo sguardo. Provava vergogna nel mostrarsi così indifeso davanti a lei. «Cosa mi ha fatto lo Spettro?»


«Non ho risposte da darti, Eragon. Non sono né la più saggia né la più forte degli elfi. Facciamo tutti del nostro meglio, e non puoi prendertela con te stesso. Forse il tempo guarirà la tua ferita.» Arya gli premette le dita sulla fronte e mormorò: «Sé mor'ranr ono finna» poi uscì dalla tenda.


Eragon si alzò a sedere e fece una smorfia nel distendere i muscoli contratti della schiena. Si fissava le mani senza vederle. Ho paura.


Perché? chiese Saphira.


Perché... esitò lui. Perché non posso fare niente per impedire un altro attacco. Non so quando e dove mi capiterà, so soltanto che sarà inevitabile. Perciò aspetto, e in ogni momento ho paura che se sollevo qualcosa di pesante o faccio la mossa sbagliata, il dolore tornerà ad affliggermi. Il mio corpo mi è diventato nemico.


Saphira emise un sordo brontolìo di gola. Nemmeno io ho risposte da darti. La vita è fatta di dolore e piacere. Se è questo il prezzo che devi pagare per le ore in cui sei felice, è troppo?


Sì, tagliò corto lui. Si tolse le coperte e uscì dalla tenda urtandola, piombando al centro dell'accampamento dove Arya e i nani sedevano intorno al falò. «È rimasto qualcosa da mangiare?» chiese Eragon.


Dùthmér gli riempì in silenzio una scodella e gliela porse. Con espressione deferente, Thorv gli chiese: «Ti senti meglio, adesso, Ammazzaspettri?» Lui e gli altri nani sembravano impressionati da quanto avevano visto.

«Sto bene.»


«Porti un pesante fardello, Ammazzaspettri.»


Eragon gli scoccò un'occhiataccia e si rintanò in un angolo appartato ai bordi del campo, dove si sedette al buio. Imprecò a denti stretti e infilzò lo stufato di Dùthmér con rabbia.


Proprio mentre si accingeva ad addentare il primo boccone, Orik comparve al suo fianco all'improvviso. «Non dovresti trattarli così.»


Eragon guardò torvo la faccia del nano. «Cosa?»


«Thorv e i suoi uomini sono stati mandati a proteggere te e Saphira. Darebbero la vita per te, se necessario, e affidano a te la loro sacra sepoltura. Dovresti ricordarlo.»


Eragon si ricacciò in gola un'aspra risposta, e fissò la nera superficie del fiume - sempre in movimento, mai fermo - nel tentativo di placare la mente. «Hai ragione. Mi sono fatto prendere dalla collera.»


I denti di Orik scintillarono nella notte quando sorrise. «È una lezione che ogni comandante deve imparare. Io l'ho imparata a suon di legnate da parte di Rothgar, quando da giovane scagliai uno stivale contro un nano che aveva lasciato la sua alabarda in un punto dove la gente poteva inciampare.»


«E lo colpisti?»


«Gli ruppi il naso» ridacchiò Orik.


Suo malgrado, anche Eragon rise. «Mi ricorderò di non farlo.» Prese la scodella tra le mani a coppa, per riscaldarle. Si udì un tintinnio metallico quando Orik trasse qualcosa dalla sua scarsella. «Tieni» disse il nano, facendo cadere una piccola catena di anelli d'oro intrecciati nel palmo di Eragon. «È un rompicapo che usiamo per mettere alla prova l'abilità e la destrezza. Sono otto anelli. Se riesci a sistemarli nella maniera giusta, formano un singolo anello. Io lo trovo utile quando voglio distrarmi da qualche preoccupazione.»


«Ti ringrazio» mormorò Eragon, già assorto nella complessità della catena scintillante.


«Puoi tenerlo, se ci riesci.»


Quando tornò alla tenda, Eragon si distese sulla pancia e ispezionò la catena nella fioca luce del falò che filtrava dai lembi sollevati. Quattro anelli passavano attraverso gli altri quattro; ciascuno era liscio nella metà inferiore, mentre la parte superiore presentava delle scanalature dove avrebbe dovuto incastrarsi con gli altri pezzi.


Eragon sperimentò varie configurazioni, ma si sentiva sempre più frustrato nel constatare un semplice fatto: sembrava impossibile mettere in parallelo le due serie di anelli per formarne uno solo.


Concentrato nella sfida, dimenticò il terrore che lo attanagliava.


Eragon si svegliò poco prima dell'alba. Si strofinò gli occhi per cancellare gli ultimi residui di sonno e uscì dalla tenda per stiracchiarsi. Il suo respiro si condensò in candide nuvolette nell'aria frizzante del mattino. Fece un cenno a Shrrgnien - che montava di guardia presso il fuoco - e andò sulla sponda del fiume, dove si accovacciò per lavarsi la faccia, rabbrividendo per l'acqua gelida.


Trovò Saphira con un guizzo mentale, si allacciò Zar'roc e si avviò verso di lei fra i pioppi che orlavano l'Az Ragni. A un tratto si ritrovò la strada sbarrata da un groviglio di pruni, che gli bagnarono il volto e le mani di rugiada. Con uno sforzo, si fece largo nel fitto intrico di rami e finalmente uscì allo scoperto, nella vasta pianura. Davanti a lui si ergeva una collinetta tondeggiante. In cima - come due antiche statue - c'erano Saphira e Arya, rivolte verso oriente, dove i primi bagliori rosati dell'alba tingevano d'oro la prateria.


Quando un raggio di luce colpì le due figure, Eragon rammentò come Saphira aveva osservato il sorgere del sole, appollaiata su una colonnina del suo letto, poco dopo essere uscita dall'uovo. Sembrava un falco o un'aquila, lo sguardo intenso e brillante sotto le sporgenze cornee della fronte, il fiero arco del collo, e la muscolosa energia che permeava ogni tratto del suo corpo. Era una vera predatrice, dotata di tutta la selvaggia bellezza insita nel termine. I lineamenti affilati e la grazia felina di Arya erano perfettamente complementari alla dragonessa al suo fianco. Non c'era alcuna differenza nei loro atteggiamenti mentre stavano immobili, immerse nei primi raggi del mattino. Eragon si sentì percorrere la schiena da un brivido di gioia e timore reverenziale. Era questo che gli apparteneva, come Cavaliere, ed era tanto fortunato da essere legato, fra tutte le cose di Alagaésia, proprio a questo. Stupore e riconoscenza gli fecero salire le lacrime agli occhi, e sulle sue labbra affiorò un sorriso di selvaggia esultanza che dissipò ogni dubbio e timore, in un impeto di pura emozione.


Ancora col sorriso sulle labbra, risalì il pendio e prese posto al fianco di Saphira, per contemplare insieme a lei il sorgere del nuovo giorno.


Arya lo guardò. Eragon incontrò i suoi occhi, e qualcosa si agitò dentro di lui. Arrossì senza saperne il motivo, ma con la percezione di un'improvvisa comunione con lei, la sensazione che l'elfa lo comprendesse meglio di chiunque altro, a parte Saphira. La propria reazione lo sconcertò, poiché nessuno aveva mai avuto un tale effetto su di lui. Per tutto il giorno bastò che Eragon ripensasse a quel momento per mettersi a sorridere e rievocare il miscuglio di sensazioni che non riusciva a identificare. Trascorse gran parte del tempo seduto con la schiena appoggiata alla cabina del battello, giocando con l'anello di Orik e contemplando il mutevole panorama.


Verso mezzogiorno passarono davanti all'imboccatura di una valle, da cui scorreva un affluente che s'immetteva nell'Az Ragni. Il fiume raddoppiò in velocità e ampiezza, finché le sponde non furono distanti oltre un miglio. I nani si prodigarono per impedire alle zattere di essere sballottate come turaccioli nei gorghi spumeggianti e di andare a fracassarsi contro i tronchi trasportati dalla corrente.


Un miglio dopo la congiunzione dei due fiumi, l'Az Ragni curvava verso nord, lambendo un picco solitario velato di nubi che si distaccava dalla catena dei Monti Beor, come una gigantesca torre di guardia costruita per sorvegliare le pianure.


I nani chinarono il capo nel passare ai piedi della montagna, e Orik spiegò a Eragon: «Si chiama Moldùn il Fiero. È l'ultima vera montagna che vedremo nel nostro viaggio.»


Quando ormeggiarono le zattere per la notte, Eragon vide Orik trarre dallo zaino una lunga scatola nera tempestata di rubini e intarsiata di madrcperla e filigrana d'argento. Orik fece scattare la fibbia intagliata e sollevò il coperchio decorato per rivelare un arco disteso su una fodera di velluto rosso. Sulle parti flessibili, nere come l'ebano, spiccavano intricate ramificazioni di foglie, fiori, animali e rune, tutte di oro purissimo. Era un'arma così straordinaria che Eragon si chiese come qualcuno osasse usarla.


Orik incordò l'arco, alto quasi quanto lui, ma non più grande di un arco per bambini secondo i criteri di Eragon, ripose la custodia, e disse: «Vado a cercare un po' di carne fresca. Sarò di ritorno fra un'ora.» E scomparve nella boscaglia. Thorv borbottò scuotendo la testa, ma non fece alcun tentativo di fermarlo.


Fedele alla parola data, Orik tornò con una coppia di oche dal lungo collo. «Le ho trovate appollaiate su un albero» disse, gettando i volatili a Dùthmér.


Quando Orik riprese la custodia ingioiellata, Eragon gli chiese: «Di che legno è fatto il tuo arco?» «Legno?» scoppiò a ridere Orik, scuotendo la testa. «Non si può fare un arco così piccolo con il legno e scoccare una freccia più lontano di venti iarde; si rompe, oppure s'imbarca dopo appena qualche tiro. No, questo è un arco di corno di Urgali!»


Eragon lo guardò sospettoso, sicuro che il nano lo stesse prendendo in giro. «Il corno non è abbastanza elastico per fare un arco.»


«Ah» lo corresse Orik, «perché non sai come trattarlo. All'inizio provammo con le corna di Feldùnost, ma funziona altrettanto bene con quelle di Urgali. Si taglia il corno a metà per la lunghezza, poi si rifila il bordo esterno fino allo spessore desiderato. Si fa bollire la lista per appiattirla e si scartavetra fino a ottenere la forma finale, prima di fissarla a una doga di frassino con colla fatta di squame di pesce e pelle di palato di trota. La parte posteriore della doga viene quindi coperta da strati multipli di tendini, che conferiscono all'arco il suo scatto. L'ultimo passo è la decorazione. L'intero processo può richiedere una decina d'anni.»


«Non ho mai sentito di un arco costruito in questo modo prima d'ora» disse Eragon. Al confronto, la sua arma sembrava un ramo sgrossato alla meno peggio. «Qual è la sua gittata?»


«Prova» disse Orik. Eragon prese l'arco, maneggiandolo con cura per paura di graffiarne i decori. Orik estrasse una freccia dalla faretra e gliela porse. «Ricorda però che mi dovrai una freccia.»


Eragon incoccò la freccia alla corda, mirò verso l'Az Ragni e scoccò. L'ampiezza di tensione dell'arco non arrivava a due piedi, ma rimase sorpreso nel constatare che il suo peso superava di gran lunga quello della sua arma; aveva la forza appena sufficiente per mantenere tesa la corda. Liberò la freccia che svanì con uno schiocco, soltanto per riapparire sul fiume. Eragon guardò affascinato la freccia che si tuffava in un ventaglio di spruzzi a metà dell'Az Ragni. Subito superò le barriere della propria mente per evocare la magia, e disse: «Gath sem oro un lam iet.» Dopo un paio di secondi, la freccia guizzò fuori dall'acqua per atterrare nel suo palmo aperto. «Tieni» disse al nano, «la freccia che ti devo.»


Orik si battè il pugno sul petto, poi abbracciò arco e freccia tutto gongolante. «Splendido! Adesso ne ho ancora due dozzine. Altrimenti avrei dovuto aspettare fino a Hedarth per reintegrare la mia scorta.» Tolse la corda dall'arco e lo ripose, avvolgendo la custodia in morbidi stracci per proteggerla.


Eragon si accorse che Arya li stava osservando. Le domandò: «Anche gli elfi usano archi di corno? Siete così forti che un arco di legno si schianterebbe fra le vostre mani.»


«Noi cantiamo i nostri archi da alberi che non crescono.» Detto questo, l'elfa si allontanò.


Per giorni e giorni seguirono la corrente attraverso campi verdeggianti, mentre i Monti Beor svanivano in una nebulosa parete bianca dietro di loro. Le rive ospitavano spesso branchi di gazzelle e cervi che li guardavano con i loro occhi liquidi.


Ora che i Fanghur non erano più una minaccia, Eragon volava spesso con Saphira. Era la loro prima opportunità di passare tanto tempo insieme in aria, dai tempi di Gil'ead, e la sfruttarono al massimo. Inoltre Eragon approfittava dell'occasione per sfuggire al ponte affollato della zattera, dove si sentiva turbato e a disagio, con Arya così vicina.

Arya Svit-kona

Eragon e la sua compagnia seguirono il corso dell'Az Ragni fino al punto in cui si immetteva nel fiume Edda, seguitando a scorrere verso l'ignoto oriente. Visitarono così l'avamposto commerciale dei nani, Hedarth, e barattarono le zattere con dei muli. I nani non usavano mai i cavalli per via della loro altezza.


Arya rifiutò la cavalcatura, affermando: «Non tornerò nella terra dei miei antenati a dorso di mulo.» Thorv aggrottò la fronte. «E come terrai il passo con noi?» «Correrò.» E l'elfa corse davvero, lasciando Fiammabianca e i muli a mangiare la sua polvere, per poi sedersi ad aspettarli sulla collina o nel boschetto successivi. Malgrado lo sforzo, non mostrava mai segni di affaticamento quando si fermavano per la notte, e nessuna propensione a scambiare più di qualche parola fra la colazione e la cena. A ogni passo sembrava più tesa.


Da Hedarth viaggiarono verso nord, risalendo lungo il corso dell'Edda fino al suo punto di origine, il lago Eldor. Giunsero in vista della Du Weldenvarden dopo tre giorni. La foresta comparve dapprima come un bassorilievo caliginoso all'orizzonte, poi si ingrandì rapidamente in un mare smeraldino di antichi faggi, aceri e querce. Dal dorso di Saphira, Eragon vide che la foresta si estendeva ininterrotta a nord e a est, dove sapeva che continuava oltre, fiancheggiando l'intero territorio di Alagaèsia.


Le ombre annidate sotto i rami frondosi degli alberi gli apparivano misteriose e invitanti, e anche pericolose, poiché fra di esse vivevano gli elfi. Nascoste da qualche parte nel cuore verde della Du Weldenvarden c'erano Ellesméra, dove avrebbe completato il suo addestramento, Osilon e le altre città elfiche che ben pochi estranei avevano visitato dopo la caduta dei Cavalieri. La foresta era un luogo denso di pericoli per i mortali, ed Eragon aveva la netta sensazione che avrebbe dovuto affrontare strane magie e ancor più strane creature.


È come se fosse un altro mondo, osservò. Una coppia di farfalle risalì danzando a spirale dall'interno oscuro della foresta.


Spero, disse Saphira, che ci sia spazio per me fra gli alberi del sentiero che gli elfi decideranno di seguire. Non posso volare tutto il tempo.


Sono sicuro che hanno trovato il modo di ospitare i draghi all'epoca dei Cavalieri.


Mmm.


Quella notte, proprio mentre Eragon andava in cerca delle coperte, Arya gli comparve accanto, materializzandosi dal nulla come uno spirito. Il giovane trasalì; non riusciva a capacitarsi di come l'elfa potesse muoversi in maniera tanto furtiva e silenziosa. Prima di avere il tempo di chiederle che cosa volesse, la mente di lei toccò la sua e disse: Seguimi facendo meno rumore possibile.


Rimase sorpreso dal contatto quanto dalla richiesta. Avevano condiviso i pensieri durante il volo verso il Farthen Dùr era stato l'unico modo per comunicare con lei attraverso il coma che si era autoindotta - ma da quando si era ripresa, Eragon non aveva fatto alcun tentativo di cercarla con la mente. Era un'esperienza molto intima e personale. Ogni volta che si espandeva nella coscienza di un altro individuo, aveva la sensazione di urtare uno spigolo della propria anima contro la sua. Gli sembrava un atto rozzo e villano, e per paura di tradire la fiducia già labile di Arya, si era astenuto. Inoltre temeva che un simile legame avrebbe rivelato i suoi nuovi e confusi sentimenti per lei, e non aveva alcuna intenzione di rendersi ridicolo.


Seguì l'elfa che sgusciava dal cerchio di tende, attenta a evitare Trìhga, che aveva scelto il primo turno di guardia, per allontanarsi dalle orecchie indiscrete degli altri. Dentro di lui, Saphira lo controllava vigile, pronta a scattare al suo fianco se necessario.


Arya si sedette su un ceppo coperto di muschio e si cinse le ginocchia con le braccia, senza guardarlo in faccia. «Ci sono cose che devi sapere prima di raggiungere Ceris ed Ellesméra, per evitare di mettere in imbarazzo te stesso o me per la tua ignoranza.»


«Tipo?» Lui si accovacciò di fronte a lei, incuriosito.


Arya esitò. «Nel corso degli anni che ho passato come ambasciatrice di Islanzadi, sono arrivata alla conclusione che gli umani e i nani sono molto simili. Condividete la maggior parte delle passioni e delle credenze. Più di un umano è riuscito a vivere tranquillamente fra i nani perché poteva comprendere la loro cultura, così come loro comprendono la vostra. Entrambe le vostre razze amano, desiderano, odiano, combattono e creano grossomodo nella stessa maniera. La tua amicizia con Orik e l'aver accettato di entrare nel Dùrgrimst Ingietum ne sono una prova.» Eragon annuì, anche se per lui le differenze erano numerose e più che evidenti. «Tuttavia gli elfi non sono come le altre razze.» «Parli come se non fossi una di loro» disse lui, riecheggiando le parole di lei nel Farthen Dùr.


«Ho vissuto con i Varden abbastanza a lungo da abituarmi alle loro tradizioni» rispose Arya in tono irritato. «Ah... Perciò mi stai dicendo che gli elfi non provano le stesse emozioni dei nani e degli umani? Lo trovo difficile da credere. Tutti gli esseri viventi condividono gli stessi bisogni e desideri elementari.»


«Non sto dicendo questo!» Eragon trasalì, poi aggrottò la fronte e la studiò. Non era da lei comportarsi in modo così brusco. Arya chiuse gli occhi e si portò le mani alle tempie, inspirando a fondo. «Noi elfi viviamo tanti anni, e perciò consideriamo la cortesia come la suprema virtù sociale: non possiamo permetterci di offendere, quando il rancore rischia di sopravvivere per decenni, o secoli. La cortesia è l'unico modo per impedire all'ostilità di accumularsi. Non sempre riesce, ma ci atteniamo scrupolosamente ai nostri rituali, poiché ci proteggono dagli eccessi. E dato che non siamo molto fecondi, è essenziale evitare i conflitti fra di noi. Se avessimo lo stesso tasso di crimini di voi umani o dei nani, ben presto ci estingueremmo.


«C'è una maniera appropriata di rivolgersi alle sentinelle di Ceris; gesti formali da osservare quando verrai presentato alla regina Islanzadi; e un centinaio di modi diversi di salutare quelli intorno a te, quando non sia preferibile restare in silenzio.»


«Con tutti i vostri usi» si azzardò a commentare Eragon, «mi sembra che in realtà abbiate reso più facile offendere la gente.»


Un lieve sorriso affiorò sulle labbra dell'elfa. «Può darsi. Sai bene quanto me che verrai giudicato secondo criteri molto severi. Se commetti uno sbaglio, gli elfi penseranno che lo hai fatto apposta. Ancora peggio se scopriranno che era dovuto all'ignoranza. Meglio essere scortese e capace che scortese e incapace, altrimenti rischi di essere manipolato come il Serpente in una coppia di Rune. La nostra politica si muove in cicli estremamente lunghi e sofisticati. Quello che vedi fare o senti dire a un elfo un giorno potrebbe essere soltanto un'abile mossa di una strategia che risale a millenni addietro, e non avere niente a che fare con il comportamento che l'elfo adotterà il giorno dopo. È una partita che giochiamo tutti ma pochi sanno controllare, una partita in cui tu stai per entrare.


«Forse adesso ti rendi conto della ragione per cui sostengo che gli elfi non sono come le altre razze. Anche i nani vivono molto a lungo, ma sono più prolifici di noi, e non condividono la nostra riservatezza o il nostro gusto per l'intrigo. Quanto agli umani...» La sua voce si spense in un rispettoso silenzio.


«Gli umani» disse Eragon «fanno del loro meglio con quanto è stato dato loro.»


«Giusto.»


«Perché non dici queste cose anche a Orik, dato che anche lui, come me, resterà a Ellesméra?»


La voce di Arya si colorì di un certo nervosismo. «In una certa misura, conosce già la nostra etichetta. Tuttavia, in qualità di Cavaliere, sarà meglio che tu ti dimostri più educato di lui.»


Eragon accettò il monito senza protestare. «Cosa devo imparare?»


E così Arya cominciò a istruirlo, e attraverso di lui anche Saphira fu introdotta alle sottigliezze della società elfica. In primo luogo Arya spiegò che quando un elfo incontra un altro elfo, entrambi si fermano e si portano due dita alle labbra, per significare: "Non altereremo la verità durante la nostra conversazione." Poi segue la frase: "Atra esterni ono thelduin", alla quale si risponde: "Atra du evarirna ono varda".


«Inoltre» aggiunse Arya, «se la circostanza è particolarmente formale, si usa una terza formula: "Un atra mor'- ranrlifa unin hjarta onr" che significa "Possa la pace regnare nel tuo cuore." Queste frasi sono state tratte da una benedizione che pronunciò un drago a suggello del nostro patto. Recita così:


Atra esterni ono thelduin, Mor'ranr Ufa unin hjarta onr, Un du evarinya ono varda.


«Che sta per: "Che la fortuna ti assista, che la pace regni nel tuo cuore, e che le stelle ti proteggano."» «Come si fa a capire chi deve parlare per primo?»


«Se incontri qualcuno di rango sociale più elevato, o se desideri onorare un tuo subordinato, parli per primo tu. Se incontri qualcuno di rango inferiore, allora parli dopo. Se invece sei indeciso sulla posizione, offri alla controparte l'occasione di parlare, e se resta in silenzio, allora parli tu. È questa la regola.»


Vale anche per me? chiese Saphira.


Arya si chinò a raccogliere una foglia secca che sbriciolò fra le dita. Alle sue spalle, l'accampamento piombò nell'oscurità quando i nani spensero il falò, soffocando le fiamme con uno strato di terriccio affinchè i carboni e la brace si mantenessero caldi fino al mattino. «Essendo un drago, nessuno è superiore a te nella nostra cultura. Nemmeno la regina rivendicherebbe una simile autorità su di te. Puoi dire e fare ciò che desideri. Non riteniamo i draghi vincolati dalle nostre leggi.»


Poi insegnò a Eragon come muovere la mano destra e portarsela allo sterno in uno strano gesto. «Questo» disse «lo userai al cospetto di Islanzadi. Indica che le stai offrendo la tua lealtà e la tua obbedienza.»


«È vincolante, come il mio giuramento di fedeltà a Nasuada?»


«No, è soltanto un gesto di cortesia, e nemmeno troppo impegnativo.»


Eragon si impegnò a fondo per ricordare gli svariati modi per salutarsi che Arya gli andava via via insegnando. I saluti erano diversi a seconda che si trattasse di un uomo o di una donna, di un adulto o un bambino, di un ragazzo o una ragazza, e variavano in base al rango e al prestigio. Era una lista infinita, ma Eragon sapeva di doverla memorizzare alla perfezione.


Quando ebbe assorbito il più possibile, Arya si alzò e si spazzolò le mani. «Cerca di non dimenticare nulla, e tutto andrà bene.» Si volse per andarsene.


«Aspetta» disse Eragon. Tese una mano per fermarla, poi la ritrasse prima che lei notasse il suo gesto sfrontato. Lei lo guardò da sopra una spalla, con aria interrogativa; Eragon si sentì stringere lo stomaco mentre tentava di dare voce ai propri pensieri. Malgrado i suoi sforzi, finì per dire soltanto: «Stai bene, Arya? Mi sei sembrata distratta e di malumore da quando abbiamo lasciato Hedarth.» Quando il volto dell'elfa si trasformò in una maschera di granito, Eragon capì di aver scelto l'approccio sbagliato, anche se non riusciva a capire come la domanda avesse potuto offenderla tanto. «Quando ci troviamo nella Du Weldenvarden» lo informò lei asciutta, «mi aspetto che tu non ti rivolga a me in toni così familiari, a meno che tu non voglia insultarmi.» E si allontanò a grandi passi.


Corrile dietro! esclamò Saphira.


Cosa?


Non possiamo permetterci che sia arrabbiata con te. Vai a scusarti.


L'orgoglio del giovane si ribellò. No! È colpa sua, non mia.


Vai a scusarti, Eragon, o ti riempirò la tenda di carogne. Non era una minaccia inconsistente.


Come faccio?


Saphira riflettè per qualche istante, poi gli disse come fare. Senza più obiettare, Eragon balzò in piedi e corse dietro ad Arya, piantandosi di fronte a lei. L'elfa fu costretta a fermarsi e lo squadrò con espressione sdegnosa. Lui si toccò le labbra con due dita, e disse: «Arya Svit-kona» usando l'appellativo onorifico appena imparato per una donna di grande saggezza. «Le mie parole sono state scortesi, e per questo imploro il tuo perdono. Saphira e io eravamo soltanto preoccupati per il tuo benessere. Dopo quanto hai fatto per noi, ci è sembrato il minimo offrirti il nostro aiuto in cambio, se ti occorre.»

Finalmente Arya si distese e disse: «Apprezzo le vostre premure. E anch'io ho parlato in maniera scortese.» Abbassò lo sguardo. Nell'oscurità, i contorni delle sue spalle e del suo busto avevano una rigidità innaturale. «Mi chiedi cosa mi affligge, Eragon. Vuoi davvero saperlo? Allora te lo dirò.» La sua voce si ridusse a un fievole sussurro. «Ho paura.» Sconcertato, Eragon rimase senza parole, e lei gli passò accanto, lasciandolo solo nella notte.

Ceris

Il mattino del quarto giorno, mentre Eragon cavalcava insieme a Shrrgnien, il nano disse: «Dimmi una cosa. È vero che gli uomini hanno dieci dita dei piedi come si dice? Sai, in verità non ho mai varcato i nostri confini prima d'ora.» «Certo che abbiamo dieci dita!» esclamò Eragon, sbalordito. Si spostò di lato sulla sella, alzò il piede destro, si tolse lo stivale e la calza, e agitò le dita sotto gli occhi stupefatti di Shrrgnien. «Voi no?»


Shrrgnien scrollò la testa con aria solenne. «Nooo, noi abbiamo sette dita per ciascun piede. È così che ci ha fatti Helzvog. Cinque è troppo poco, e sei è il numero sbagliato, ma sette... sette è il numero giusto.» Scoccò un'altra occhiata al piede di Eragon, poi spronò avanti il mulo e cominciò a parlare animatamente con Hedin e Ama, che alla fine gli consegnarono parecchie monete d'argento.


Ho idea, disse Eragon, rinfilandosi lo stivale, di essere appena stato oggetto di una scommessa. Per qualche ragione, Saphira lo trovò molto divertente.


Al calar della sera, mentre sorgeva la luna piena, il corso del fiume Edda si avvicinò ai margini della Du Weldenvarden. Cavalcarono lungo uno stretto sentiero attraverso fitti cespugli di sanguinella e rosa selvatica, che riempivano l'aria della sera con la loro tiepida fragranza.


Il cuore di Eragon era colmo di trepida attesa mentre scrutava l'oscura foresta, sapendo che erano già entrati nel dominio degli elfi ed erano vicini a Ceris. Era teso sulla sella di Fiammabianca, le redini strette in pugno. { L'eccitazione di Saphira era grande quanto la sua; volava sulle loro teste facendo guizzare la coda avanti e indietro con impazienza. Eragon aveva la sensazione di camminare in un sogno. Non sembra vero, disse.


Già. Qui le antiche leggende ancora camminano sulla terra.


Alla fine giunsero in una piccola radura erbosa, tra il fiume e la foresta. «Fermatevi» disse Arya a bassa voce. Poi s'incamminò fino a raggiungere il centro del prato rigoglioso e gridò nell'antica lingua: «Fatevi avanti, fratelli miei! Non avete nulla da temere. Sono io, Arya di Ellesméra. I miei compagni sono amici e alleati, e le loro intenzioni sono benevole.» Aggiunse altre parole, ma per Eragon erano sconosciute. Per lunghi minuti non si udì che il mormorio del fiume che scorreva alle loro spalle, finché da sotto il fogliame immobile si levò una voce elfica così esile e rapida che Eragon non riuscì a coglierne il senso. Arya rispose «Sì.»


Con un fruscìo di fronde, due elfi comparvero ai margini della foresta, mentre altri due uscivano allo scoperto sui rami di una quercia nodosa. Quelli a terra portavano lunghe lance dalla punta bianca, mentre gli altri impugnavano gli archi. Tutti indossavano tuniche del colore del muschio e della corteccia, sotto mantelli svolazzanti fermati sulle spalle da spille d'avorio. Uno aveva la chioma nera come quella di Arya, mentre gli altri tre avevano capelli biondi come raggi di stelle.


Gli elfi saltarono giù dagli alberi e abbracciarono Arya, ridendo con le loro voci pure e cristalline. Si presero per mano e danzarono in cerchio attorno a lei, come bambini, cantando allegri mentre giravano sul prato.


Eragon li osservò stupito. Arya non gli aveva mai dato ragione di sospettare che agli elfi piacesse - o addirittura che sapessero - ridere. Era un suono meraviglioso, come flauti e arpe che vibravano di delizia per la loro stessa musica. Avrebbe potuto ascoltarlo per sempre.


Poi Saphira discese oltre il fiume e atterrò accanto a Eragon. Alla sua comparsa, gli elfi gridarono allarmati e puntarono le armi contro di lei. Arya si affrettò a parlare in tono conciliante, indicando prima Saphira, poi Eragon. Quando si fermò per riprendere fiato, Eragon si tolse il guanto della mano destra e voltò il palmo per mostrare il gedwéy ignasia al chiaro di luna. Poi disse, come aveva fatto con Arya tanto tempo prima: «Eka ai fricai un Shur'tugal.» Sono un Cavaliere e un amico. Rammentando la lezione del giorno prima, si sfiorò le labbra, aggiungendo: «Atra esterni ono thelduin.» Gli elfi abbassarono le armi, mentre i volti affilati si illuminavano di gioia. Si premettero due dita sulle labbra e s'inchinarono a lui e a Saphira, mormorando la loro risposta nell'antica lingua.


Poi si rialzarono, indicarono i nani e risero come per una battuta allusa. Tornando verso la foresta, fecero un cenno con le mani e dissero: «Venite, venite!»


Eragon seguì Arya insieme a Saphira e ai nani, che brontolavano fra di loro. Passando sotto il denso fogliame degli alberi, piombarono in una tenebra vellutata, dove solo qualche sprazzo di luna scintillava fra i rami e le foglie. Eragon sentiva gli elfi ridere e sussurrare, ma non riusciva a vederli. Di tanto in tanto gridavano indicazioni quando lui o i nani esitavano.


Davanti a loro, un falò ardeva fra gli alberi, spandendo ombre guizzanti che danzavano sul tappeto di foglie come tanti folletti. Quando Eragon entrò nel cono di luce, vide tre piccoli capanni addossati al tronco di un'enorme quercia. In alto, fra i rami, c'era una piattaforma di legno dove una sentinella poteva sorvegliare il fiume e la foresta. Fra due capanni era appeso un palo, da cui pendevano mazzi di piante lasciate a essiccare.


I quattro elfi svanirono nei capanni per tornare con le braccia cariche di frutta e verdura - niente carnee cominciarono a preparare la cena per gli ospiti. Mentre lavoravano, canticchiavano a bassa voce, passando da una melodia all'altra senza mai interrompersi. Quando Orik chiese i loro nomi, l'elfo con i capelli neri indicò se stesso e disse: «Io sono Lifaen del Casato di Rìlvenar. E i miei compagni sono Edurna, Celdin e Nari.»


Eragon si sedette accanto a Saphira, lieto dell'opportunità di riposare e osservare gli elfi. Benché fossero tutti e quattro maschi, i loro volti ricordavano quello di Arya, con le labbra delicate, i nasi sottili e i grandi occhi obliqui che brillavano sotto le sopracciglia arcuate. Il resto del corpo era proporzionato, con spalle strette e braccia e gambe affusolate. Erano più nobili e leggiadri di qualsiasi umano Eragon avesse mai visto, sebbene in maniera esotica, rarefatta. Chi mai avrebbe pensato che un giorno avrei visitato il regno degli elfi? si disse Eragon. Sorrise, e si appoggiò alla parete di un capanno, cullato dal calore del fuoco. Sopra di lui, i vigili occhi azzurri di Saphira seguivano ogni movimento degli elfi.


C'è più magia in questa razza, osservò lei alla fine, che negli umani o nei nani. Loro non sentono di provenire dalla terra o dalla pietra, ma piuttosto da un altro regno. Appartengono a questo mondo soltanto per metà, come riflessi nell'acqua.


Di certo sono molto aggraziati, disse Eragon. Gli elfi si muovevano con la leggerezza e la fluidità dei danzatori. Brom aveva detto a Eragon che era scortese parlare con la mente al drago di un Cavaliere senza permesso, e gli elfi si attenevano scrupolosamente a questa usanza, esprimendo ad alta voce i loro commenti a Saphira, che a sua volta rispondeva loro direttamente. Di norma Saphira si asteneva dal toccare i pensieri degli umani e dei nani, e lasciava che fosse Eragon a riferire le sue parole, dato che erano pochi i membri delle due razze in grado di schermare la propria mente dagli intrusi. Inoltre sembrava quasi un abuso ricorrere a una forma di contatto così intima per scambiare quattro chiacchiere informali. Tuttavia gli elfi non avevano queste inibizioni; accolsero con gioia Saphira nella propria mente, godendo della sua presenza.


Alla fine la cena fu pronta e servita su piatti intagliati che sembravano fatti d'osso, anche se tra i fiori e le foglie che decoravano il bordo si scorgevano i nodi del legno. Eragon ricevette anche un calice di vino di uvaspina - fatto con lo stesso insolito materiale - che recava un drago scolpito avvolto intorno allo stelo.


Mentre mangiavano, Lifaen prese un flauto di canna e cominciò a suonare una delicata melodia, con le dita che correvano lievi sui fori. Bel presto, l'elfo biondo più alto, Narì, cominciò a cantare:


Il giorno muore; le stélle splendono; La luna è bianca; le foglie tacciono! Ridi dei crucci e ridi del nemico, La stirpe di Menoa le tenebre proteggono!


In guerra perdemmo un virgulto di foresta; Una figlia silvana alla vita si desta! Libera dalla paura e libera dalla fiamma, Un Cavaliere ha strappato all'oscurità funesta!


I draghi tornano di nuovo a volare, E le loro sofferenze vogliamo vendicare!


Forti di spada e forti di braccio; L'era di un re sta per tramontare!


Il vento è dolce; profonda la corrente; Gli alberi alti; la fauna dormiente! Ridi dei crucci e ridi del nemico, È giunta l'ora del trionfo fulgente!


Solo quando Narì terminò, Eragon si ricordò di respirare. Non aveva mai sentito una voce simile; era come se l'elfo avesse rivelato la sua essenza, la sua anima. «È stato magnifico, Nari-vodhr.»


«Una semplice composizione, Argetlam» si schermì Nari. «Ma ti ringrazio comunque.»


Thorv borbottò. «Già, bella canzone, mastro elfo. Ma invece di starcene qui a recitare versi, sarebbe meglio occuparci di questioni più urgenti. Dobbiamo accompagnare ancora Eragon?»


«No» intervenne Arya, attirandosi gli sguardi degli altri elfi. «Voi potrete ripartire domattina. Penseremo noi a scortare Eragon fino a Ellesméra.»


Thorv chinò il capo. «Allora il nostro compito è finito.»


Mentre Eragon se ne stava disteso sul giaciglio che gli elfi gli avevano preparato, tese le orecchie nel tentativo di cogliere le parole di Arya, che provenivano da un capanno vicino. Sebbene usasse molti termini dell'antica lingua che gli erano sconosciuti, dedusse che stava spiegando agli elfi come aveva perso l'uovo di Saphira e la successione di eventi. Alla fine, seguì un lungo silenzio, poi un elfo disse: «È bello che tu sia tornata, Arya Dròttningu. Islanzadi è rimasta profondamente addolorata quando ha saputo che eri stata catturata e l'uovo rubato, e dagli Urgali, per giunta! Aveva, e ha, la morte nel cuore.»


«Sst, Edurna... sst» mormorò un altro. «I Dvergar sono piccoli, ma hanno le orecchie lunghe e sono sicuro che riferiranno tutto a Rothgar.»


Poi le voci si abbassarono ed Eragon non riuscì più a comprendere una parola. Il sommesso brusìo degli elfi e il fruscìo delle foglie lo cullarono mentre si abbandonava al sonno, e il canto dell'elfo continuò a riecheggiare nei suoi sogni. L'aria era satura del profumo dei fiori quando Eragon si destò, davanti a una Du Weldenvarden bagnata dai raggi dorati del sole. Sopra di lui si estendeva una fitta cupola di foglie ondeggianti, sostenuta da grossi tronchi che svettavano da un terreno brullo e asciutto. Soltanto muschi, licheni e sparuti cespugli sopravvivevano nella densa ombra verde. La scarsità del sottobosco consentiva di vedere a grandi distanze fra i pilastri nodosi e di camminare liberamente sotto la volta screziata.


Eragon si alzò e vide che Thorv e le sue guardie erano già pronti a partire. Il mulo di Orik era legato dietro a quello di Ekksvar. Eragon si avvicinò a Thorv e disse: «Ringrazio tutti voi per aver protetto me e Saphira. Ti prego di porgere i miei omaggi a Ùndin.»


Thorv si portò il pugno al petto. «Riferirò le tue parole.» Esitò, scoccando un'occhiata furtiva ai capanni. «Gli elfi sono una razza strana, piena di luci e ombre. La mattina brindano con te; la sera ti pugnalano alle spalle. Tieni gli occhi aperti, Ammazzaspettri. Sono caratteri capricciosi.»


«Lo terrò a mente.»


«Mmm.» Thorv fece un cenno verso il fiume. «Hanno intenzione di attraversare il lago Eldor con le barche. Cosa farai del tuo cavallo? Potremmo riportarlo a Tarnag con noi, e da lì a Tronjheim.»


«Barche!» esclamò Eragon, sgomento. Aveva sempre pensato di portare Fiammabianca a Ellesméra. Era utile avere un cavallo quando Saphira era lontana, o nei luoghi troppo ristretti per la sua mole. Si accarezzò la rada peluria del mento. «È un'offerta gentile. Mi garantisci che Fiammabianca sarà ben accudito? Non potrei sopportare che gli accadesse qualcosa.»


«Sul mio onore» disse Thorv, «al tuo ritorno lo troverai grasso e lucido.»


Eragon andò a prendere Fiammabianca e affidò lo stallone, la sella e le bisacce alle cure di Thorv. Si congedò da ciascuno dei guerrieri, poi lui, Saphira e Orik rimasero a guardare i nani che si allontanavano lungo il sentiero da cui erano arrivati.


Nel tornare ai capanni, Eragon e quanto restava del suo gruppo seguirono gli elfi in un boschetto sulle rive dell'Edda, dove trovarono, ormeggiate ai lati di un grosso scoglio, due canoe bianche con lunghi fregi intagliati sulle fiancate. Eragon salì su quella più vicina e s'infilò lo zaino sotto i piedi. Rimase stupefatto dalla leggerezza dell'imbarcazione: avrebbe potuto sollevarla con una mano. Ancor più sorprendente era il fatto che gli scafi sembravano composti da lamine di corteccia di betulla fuse insieme senza che si vedessero comenti. Incuriosito, toccò il fianco. La corteccia era dura e compatta come pergamena, e fredda per il contatto con l'acqua. La battè con le nocche. Il guscio fibroso riverberò come un tamburo sordo.


«Tutte le vostre imbarcazioni sono fatte così?» chiese.


«Tutte, tranne le più grosse» rispose Nari, sedendosi a prua della canoa di Eragon. «Per quelle cantiamo il cedro e la quercia migliori.»


Eragon non ebbe modo di chiedere che cosa voleva dire, perché Orik salì sulla loro canoa, mentre Arya e Lifaen s'imbarcavano sulla seconda. Arya si rivolse a Edurna e Celdin, fermi sulla riva, e disse: «Restate qui di guardia perché nessuno ci segua, e non fate parola a nessuno della nostra presenza. La regina dovrà essere la prima a sapere. Vi manderò rinforzi non appena giungeremo a Silthrim.»


«Arya Dròttningu.»


«Che le stelle vi proteggano!» rispose lei.


Chinandosi in avanti, Nari e Lifaen estrassero pali appuntiti da dentro le barche e cominciarono a spingere le canoe controcorrente. Saphira scivolò in acqua dietro di loro e li raggiunse facendo leva con gli artigli sul fondo del fiume. Quando Eragon la guardò, lei ammiccò divertita e s'immerse; il fiume si gonfiò sul suo dorso dentellato. Gli elfi risero a quella scena e si profusero in complimenti per la sua forza e le sue dimensioni. Dopo un'ora raggiunsero il lago Eldor, increspato da piccole onde schiumose. Uccelli e mosche sfrecciavano dentro e fuori da una parete di alberi sulla riva occidentale, mentre quella orientale risaliva verso la prateria, dove pascolavano centinaia di cervi. Una volta sfuggiti alla corrente del fiume, Nari e Lifaen issarono i pali a bordo e distribuirono pagaie a forma di foglia. Orik e Arya sapevano già come governare una barca, ma Nari dovette spiegare il procedimento a Eragon. «La barca gira dalla parte in cui remi» disse l'elfo. «Perciò, se io pagaio a destra e Orik a sinistra, allora tu dovrai pagaiare prima da un lato, e poi dall'altro, altrimenti perderemo la rotta.» Alla luce del sole, i capelli di Nari scintillavano come preziosa filigrana.


Eragon imparò subito a manovrare la pagaia e mentre il movimento diventava automatico, la sua mente fu libera di fantasticare, fluttuando sul freddo lago, smarrita nei favolosi mondi nascosti ai suoi occhi. Quando fece una pausa per riposarsi le braccia, estrasse dalla cintura il rompicapo di Orik, e si dedicò con caparbietà a trovare la giusta disposizione degli anelli d'oro.


Nari notò quello che stava facendo. «Posso vederlo?» Eragon lo passò all'elfo, che si volse di schiena. Per qualche istante, Eragon e Orik governarono da soli la canoa, mentre Nari era impegnato con gli anelli intrecciati. Poi, con un'esclamazione soddisfatta, alzò la mano, mostrando un unico anello d'oro al dito medio. «Un giochetto divertente» disse. Si sfilò l'anello e lo scosse, così che tornò fra le mani di Eragon nel suo stato originale.


«Come hai fatto?» disse Eragon sbalordito, e invidioso che Nari avesse risolto il rompicapo così facilmente. «Aspetta... Non dirmelo. Voglio riuscirci da solo.» ' «Ma certo» disse Nari con un sorriso.

Ferite del passato

Per tre giorni e mezzo, gli abitanti di Carvahall diI scussero dell'ultimo attacco, della tragica morte di Elmund e di quello che si poteva fare per sfuggire alla drammatica situazione. Dibattiti dai toni accesi infuriavano in ogni singola stanza di ogni singola casa; nel tempo di una parola, gli amici si rivoltavano contro gli amici, i mariti contro le mogli, i figli contro i genitori, per poi riconciliarsi qualche istante dopo nel disperato tentativo di trovare una maniera per sopravvivere. Alcuni sostenevano che, dal momento che Carvahall era condannata in ogni caso, avrebbero fatto meglio a uccidere i Ra'zac e i soldati rimasti, se non altro per appagare la sete di vendetta. Altri dicevano che se Carvahall era davvero condannata, l'unica cosa logica da fare era arrendersi e rimettersi alla clemenza del re, anche se questo significava tortura e morte per Roran e schiavitù per tutti gli altri. Altri ancora non appoggiavano né l'una né l'altra fazione, e covavano una sorda rabbia contro chiunque avesse attirato quella disgrazia sul villaggio. Molti facevano del loro meglio per nascondere il panico sul fondo di un boccale.


Dal canto loro, sembrava che i Ra'zac si fossero resi conto che con undici soldati morti non disponevano più di una forza sufficiente ad attaccare Carvahall; si erano infatti ritirati ancora più su lungo la strada e avevano appostato le sentinelle nei vari punti strategici della Valle Palancar.


«Aspettano rinforzi da Ceunon o da Gil'ead, se volete sapere come la penso» disse Loring durante una riunione. Roran ascoltava in silenzio, tenendo per sé le proprie opinioni, e valutando ogni proposta. Sembravano tutte ugualmente rischiose.


Roran non aveva ancora detto a Sloan che lui e Katrina erano fidanzati. Sapeva che era sciocco aspettare, ma aveva paura della reazione che avrebbe avuto il macellaio nell'apprendere che Roran e Katrina avevano infranto la tradizione e di conseguenza minato la sua autorità. Per giunta restava ancora molto lavoro a distrarre Roran: si convinse che rafforzare le difese di Carvahall era al momento la priorità più urgente.


Trovare gente disposta ad aiutarlo fu più facile del previsto. Dopo l'ultima battaglia, i compaesani erano più inclini ad ascoltarlo e a obbedirgli, se non altro quelli che non lo ritenevano responsabile della situazione. Al principio era rimasto sconcertato da quell'atteggiamento che gli conferiva un'autorità mai avuta prima, ma poi si era reso conto che era il risultato della soggezione, della stima e forse persino della paura ispirate dalle uccisioni che aveva commesso. Lo chiamavano Fortemartello. Roran Fortemartello.


Il nome gli piaceva.


Quando la notte inghiottì la valle, Roran si appoggiò in un angolo della stanza da pranzo di Horst, con gli occhi chiusi. Donne e uomini, seduti intorno al tavolo illuminato da una candela, conversavano tra di loro. Kiselt stava illustrando lo stato delle scorte alimentari di Carvahall. «Non moriremo di fame» concluse, «ma se non ci occuperemo presto dei campi e del bestiame, tanto vale tagliarci la gola da soli prima del prossimo inverno. Sarebbe un destino più clemente.» Horst si accigliò. «Sciocchezze!»


«Sciocchezze o no» disse Gertrude, «dubito che avremo occasione di scoprirlo. Eravamo superiori di numero, dieci contro uno, quando sono arrivati i soldati. Loro hanno perso undici uomini; noi dodici, e io mi sto prendendo cura di nove feriti. Cosa succederà, Horst, quando la situazione si ribalterà?»


«Daremo ai bardi un motivo per ricordare i nostri nomi» ribattè il fabbro. Gertrude scrollò il capo avvilita. Loring picchiò un pugno sul tavolo. «Io dico che è il nostro turno di attaccare, prima di trovarci in inferiorità numerica. Ci servono soltanto uomini, scudi e lance, e ci libereremo da questa infestazione. Potremmo farlo stanotte!» Roran non riusciva a stare fermo per l'inquietudine. Aveva già sentito quei discorsi e, come sempre, la proposta di Loring suscitò aspre polemiche che consumavano il gruppo. Dopo un'ora, la questione era ancora irrisolta, e non erano state fatte nuove proposte, tranne quella di Thane a Gedric, quando gli disse di andarsi ad annegare in una vasca da concia. La rissa fu evitata per un soffio. Alla fine, mentre la conversazione languiva, Roran si avvicinò al tavolo, zoppicando per il polpaccio ferito. «Ho una cosa da dire.» La situazione richiedeva un intervento immediato, come se avesse messo un piede su una spina e dovesse strapparsela via senza pensare al dolore: prima lo faceva, meglio era. Gli sguardi di tutti - severi, indulgenti, arrabbiati, indifferenti e curiosi - si volsero verso di lui. Roran trasse un profondo respiro. «L'indecisione finirà per ucciderci quanto una spada o una freccia.» Orval roteò gli occhi, ma gli altri continuarono ad ascoltare. «Non so se dovremmo attaccare o fuggire...»


«Dove?» lo interruppe Kiselt.


«... ma una cosa la so: i nostri bambini, le nostre madri e i nostri infermi devono essere protetti dal pericolo. I Ra'zac hanno sbarrato la strada che ci collega alla fattoria di Cawley e alle altre famiglie della valle. E allora? Conosciamo questa terra meglio di chiunque altro in Alagaésia, e c'è un posto... c'è un posto, dove i nostri cari saranno al sicuro. La Grande Dorsale.»


Roran si fece piccolo piccolo sotto la tempesta di voci irate che si scatenò. Sloan era quello più infervorato e gridò: «Mi farò impiccare prima di mettere piede su quelle maledette montagne!»


«Roran» disse Horst, urlando sugli altri. «Tu più di tutti dovresti sapere che la Grande Dorsale è troppo pericolosa... è dove Eragon ha trovato la pietra che ha portato qui i Ra'zac! Le montagne sono fredde, e popolate di lupi, orsi e altri mostri. Come ti è venuto in mente?»


Per salvare Katrina! avrebbe voluto gridare Roran. Invece disse: «Per quanti soldati i Ra'zac riescano a radunare, non oseranno mai affrontare la Grande Dorsale. Non dopo che Galbatorix ha perso mezzo esercito fra quei monti.» «È stato tanto tempo fa» obiettò Morn, dubbioso.


Roran approfittò di quella affermazione. «Giusto, e le leggende non hanno fatto altro che ingigantirsi a furia di aggiungere fantasiosi dettagli sempre più terrificanti! Esiste già un sentiero che porta in cima alle Cascate di Igualda. Ci basta mandare i bambini e gli altri lassù. Resteranno appena ai margini della Dorsale, ma saranno al sicuro. Se Carvahall cade, potranno aspettare finché i soldati non se ne andranno, e poi scendere a cercare rifugio a Therinsford.» «È troppo pericoloso» ringhiò Sloan. Il macellaio afferrò il bordo del tavolo con una stretta così tenace che le punte delle sue dita sbiancarono. «Il freddo, le bestie. Nessun uomo sano di mente manderebbe la sua famiglia lassù.» «Ma...» Roran balbettò, colto di sorpresa dalla reazione di Sloan. Benché sapesse che il macellaio odiava le montagne più di chiunque altro - sua moglie si era gettata da una rupe vicino alle Cascate di Igualda - aveva sperato che il suo profondo desiderio di proteggere Katrina sarebbe stato abbastanza forte da vincere l'avversione. Ma capì che avrebbe dovuto convincere Sloan come tutti gli altri. Adottando un tono più conciliante, proseguì: «Non è così brutta come pensi. La neve si sta già sciogliendo. Ormai sulla Grande Dorsale non fa più freddo di quanto non lo faceva qui appena qualche mese fa. E dubito che i lupi o gli orsi provino ad attaccare un gruppo così numeroso.»


Sloan fece una smorfia, arricciando le labbra sui denti serrati, e scosse il capo. «Non troverai altro che la morte sulla Grande Dorsale.»


Di fronte agli evidenti cenni d'assenso degli altri, Roran si sentì ancora più determinato, convinto com'era che Katrina sarebbe morta se non fosse riuscito a persuaderli. Scrutò i volti in cerca di un'espressione amica. «Delwin, lo so che è crudele dirlo da parte mia, ma se Elmund non si fosse trovato a Carvahall sarebbe ancora vivo. Non puoi non essere d'accordo con me quando dico che questa è la cosa giusta da fare! Hai l'occasione di risparmiare ad altri genitori le tue sofferenze...»


Nessuno rispose. «E tu, Brigit!» Roran si trascinò verso di lei, aggrappandosi alle spalliere delle seggiole per non cadere. «Vuoi forse che Nolfavrell condivida il destino di suo padre? Deve andarsene. Non capisci, è l'unico modo per salvarlo...» Suo malgrado, Roran si sentì inondare gli occhi di lacrime. «È per il bene dei bambini!» gridò all'improvviso. L'assemblea taceva. Roran fissava il legno che stringeva fra le mani nel tentativo di controllarsi. Delwin fu il primo a scuotersi. «Non lascerò mai Carvahall finché gli assassini di mio figlio restano qui. Tuttavia...» Fece una pausa, poi riprese. «Tuttavia non posso negare che nelle tue parole c'è del vero: bisogna proteggere i bambini.» «Io l'ho detto fin dal principio» dichiarò Tara.


Poi fu il turno di Baldor. «Roran ha ragione. Non possiamo farci accecare dalla paura. La maggior parte di noi è salita fino in cima alle cascate, una volta o l'altra. È un posto sicuro.»


«Anch'io» intervenne Brigit «sono d'accordo.»


Horst annuì. «Preferirei di no, ma date le circostanze... non credo che abbiamo altra scelta.» Dopo qualche secondo, gli altri presenti cominciarono ad accettare la proposta a malincuore.


«È una follia!» esplose Sloan. Si alzò di scatto e puntò l'indice contro Roran. «Dove prenderanno il cibo sufficiente ad aspettare per settimane e settimane? Non possono portarlo con sé. Come faranno a riscaldarsi? Se accenderanno il fuoco, li vedranno! Come, come, come? Se non muoiono di fame, moriranno di freddo. Se non congeleranno, verranno divorati dalle bestie. Se non saranno le bestie... Chi lo sa? Potrebbero cadere!»


Roran allargò le braccia. «Se diamo tutti una mano, avranno cibo a sufficienza. Il fuoco non sarà un problema se si spingono nella foresta, cosa che dovranno fare comunque, dato che non c'è abbastanza spazio sulle cascate per accamparsi.»


«Scuse! Giustificazioni!»


«Cos'altro vuoi che facciamo, Sloan?» chiese Morn, fissandolo con curiosità.


Sloan rise amaramente. «Non questo.»


«Allora cosa?»


«Non importa. Solo che questa è la decisione sbagliata.»


«Non devi partecipare per forza» puntualizzò Horst.


«Infatti» disse il macellaio. «Fate come vi pare, ma né io né il mio sangue saliremo sulla Grande Dorsale, finché avrò midollo nelle ossa.» Detto questo, afferrò il cappello e se ne andò, scoccando un'occhiata velenosa a Roran, che ricambiò con uno sguardo torvo.


Per come la vedeva Roran, Sloan stava mettendo in pericolo Katrina per la propria testardaggine. Se non riesce ad accettare la Dorsale come rifugio, decise Roran, allora diventerà mio nemico e dovrà vedersela con me. Horst poggiò i gomiti sul tavolo e intrecciò le dita. «Allora... Se vogliamo adottare il piano di Roran, quali preparativi occorre fare?» I presenti si scambiarono qualche breve occhiata circospetta; poi, a poco a poco, cominciarono a discutere dell'argomento.


Roran aspettò fino a quando non ebbe la certezza di aver centrato l'obiettivo prima di scivolare inosservato dalla stanza. Vagò per il villaggio immerso nel buio in cerca di Sloan, setacciando il perimetro interno allo sbarramento di alberi. Alla fine scorse il macellaio accovacciato accanto a una torcia, lo scudo stretto fra le braccia, contro le ginocchia. Roran fece dietrofront e corse alla bottega di Sloan, ed entrò nella cucina sul retro.


Katrina stava apparecchiando e si fermò a guardarlo stupita. «Roran! Che ci fai qui? Hai parlato con papà?» «No.» Il giovane si fece avanti e le prese le mani, assaporando il contatto. Il semplice fatto di stare nella stessa stanza con lei lo colmava di gioia. «Ho un grande favore da chiederti. È stato deciso di mandare i bambini e pochi altri sulla Grande Dorsale, in cima alle Cascate di Igualda.» Katrina trasalì. «Voglio che li accompagni.»


Con espressione sconvolta, Katrina si liberò dalla sua stretta e si volse verso il caminetto, cingendosi il corpo con le braccia mentre fissava le braci ardenti. Per lunghi istanti non disse nulla, poi: «Papà mi ha proibito di avvicinarmi alle cascate da quando la mamma è morta. La fattoria di Albem è il posto più vicino alla Grande Dorsale in cui sia stata negli ultimi dieci anni.» Rabbrividì, e il suo tono divenne accusatorio. «Come fai a suggerirmi di abbandonare te e mio padre? Questa è anche casa mia. E perché dovrei andarmene, quando Elain, Tara e Brigit resteranno?»


«Katrina, ti prego.» Timidamente, Roran le posò le mani sulle spalle. «I Ra'zac sono qui per me, e non voglio che ti accada nulla di male per causa mia. Finché sei in pericolo, non posso concentrarmi su quello che va fatto: difendere Carvahall.»


«Chi mi rispetterebbe se fuggissi come una vigliacca?» La ragazza sollevò fiera il mento. «Mi vergognerei di guardare in faccia le donne di Carvahall e di essere tua moglie.»


«Vigliacca? Quale vigliaccheria c'è nel proteggere e sorvegliare i bambini sulla Grande Dorsale? Direi piuttosto che ci vuole più coraggio per andare sulle montagne che non per restare.»


«Che orrore è mai questo?» mormorò Katrina, girandosi fra le sue braccia, con gli occhi lucidi e le labbra serrate. «L'uomo che dovrebbe diventare mio marito non mi vuole più al suo fianco.»


Lui scosse il capo. «Non è vero. Io...»


«È vero! Che cosa succede se ti uccidono mentre sono lontana?»


«Non dire...»


«No! Carvahall ha ben poche speranze di sopravvivere, e se dobbiamo morire, preferisco morire insieme a te, piuttosto che rifugiarmi sulla Dorsale senza più cuore né vita. I bambini sapranno badare a se stessi. Come me, del resto.» Una lacrima le rotolò lungo la guancia.


Gratitudine e stupore pervasero Roran davanti a tanta devozione. La guardò nel profondo degli occhi. «E in nome di questo amore che ti chiedo di andare. So cosa provi. So che questo è il sacrificio più grande che entrambi possiamo fare, e te lo chiedo adesso.»


Katrina rabbrividì. Il suo corpo si fece teso, mentre le mani bianche torcevano l'orlo del grembiule di mussola. «Se accetto» disse con voce tremante, «tu devi promettermi, qui e adesso, che non mi farai mai più una richiesta del genere. Devi promettermi che se anche ci trovassimo di fronte a Galbatorix in persona, e soltanto uno di noi due potesse salvarsi, tu non mi chiederai di andarmene.»


Roran la guardò disperato. «Non posso.»


«Allora come ti aspetti che faccia quello che tu non faresti?» gridò lei. «Questo è il mio prezzo, e né l'oro, né i gioielli, né tutte le belle parole di questo mondo valgono il tuo giuramento. Se non ci tieni abbastanza a me da fare tu un sacrificio, Roran Fortemartello, allora vattene e non farti mai più vedere!»


Non posso perderla. Sebbene il dolore fosse intollerabile, abbassò il capo e disse: «Hai la mia parola.» Katrina annuì e si adagiò su una sedia - la schiena rigida ed eretta - e si asciugò le lacrime con una manica. Con voce tranquilla disse: «Papà mi odierà per questo.»


«Come farai a dirglielo?»


«Non glielo dirò» rispose lei, con aria di sfida. «Non mi permetterà mai di andare sulla Grande Dorsale, ma dovrà capire che questa è una mia decisione. A ogni modo, non oserà inseguirmi sulle montagne. Le teme più della morte.» «Ma potrebbe temere di più di perderti.»


«Si vedrà. Se... quando verrà il momento di tornare, mi aspetto che tu abbia già parlato con lui del fidanzamento. Questo dovrebbe dargli il tempo di accettare il fatto compiuto.»


Roran annuì, pensando in cuor suo che sarebbero stati davvero fortunati se gli eventi avessero preso quella piega.

Ferite del presente

Quando giunse l'alba, Roran si svegliò, ma rimase disteso a fissare il soffitto intonacato, ascoltando il lento raschio del proprio respiro. Dopo un minuto scese dal letto, si vestì e andò in cucina, dove si preparò una fetta di pane spalmata di formaggio molle. Uscì a mangiare sul portico, ammirando il sorgere del sole.


La sua tranquillità fu interrotta da una masnada di bambini scalmanati che attraversarono di corsa il giardino di una casa accanto, lanciando gridolini mentre giocavano a prendersi. Li seguivano alcuni adulti, ciascuno indaffarato a bloccare i propri figli. Roran osservò la baraonda svanire dietro un angolo, poi mangiò l'ultimo boccone e tornò in cucina, dove nel frattempo si era riunito il resto della famiglia.


Elain lo salutò. «Buongiorno, Roran.» Aprì le imposte della finestra e alzò lo sguardo al cielo. «Sembra che ricomincerà a piovere.»


«Meglio così» sentenziò Horst. «Ci aiuterà a nasconderci mentre scaliamo il monte Narnmor.»


«Scaliamo?» disse Roran. Si sedette al tavolo accanto ad Albriech, che si strofinava gli occhi ancora assonnati. Horst annuì. «Sloan aveva ragione a proposito delle provviste; dobbiamo aiutarli a trasportarle fin sulle cascate, altrimenti non potranno portarne abbastanza.»


«Resteranno abbastanza uomini per difendere il villaggio?»


«Puoi contarci.»


Dopo la colazione, Roran aiutò Baldor e Albriech a impacchettare cibo, coperte e vettovaglie in tre grossi fagotti che si misero in spalla per poi dirigersi verso la zona nord del villaggio. Il polpaccio gli faceva ancora male, ma non in modo insopportabile. Per la strada incontrarono i tre fratelli, Darmen, Lame e Hamund, che recavano in spalla altrettanti fardelli.


Lungo il margine interno della trincea che circondava le case, Roran e i suoi compagni trovarono un vasto gruppo di bambini, genitori e nonni, impegnati a organizzarsi per la spedizione. Alcune famiglie avevano dato in prestito i propri muli per portare le provviste e i bambini più piccoli; gli animali legati scalpitavano impazienti, e il ragliare si aggiungeva alla confusione generale.


Roran posò il fagotto a terra e scrutò il gruppo. Vide Svart - lo zio di Ivor che, a quasi sessantanni, era l'uomo più anziano di Carvahall - seduto su una balla di indumenti, intento a far giocare un piccoletto con la punta della sua lunga barba bianca; Nolfavrell, sorvegliato da Brigit; Felda, Nolla, Calitha e altre madri dall'aria preoccupata; e un gran numero di uomini e donne dall'espressione riluttante. Tra la folla, Roran scorse anche Katrina, impegnata ad annodare i lembi di un fagotto. Lei levò lo sguardo e gli sorrise, poi tornò al suo lavoro.


Dato che nessuno sembrava essersi occupato del coordinamento, Roran si adoperò per organizzare al meglio la raccolta di provviste. Scoprì che mancavano le borracce d'acqua, ma quando ne chiese delle altre, finì con averne tredici di troppo. Lungaggini simili consumarono le prime ore della mattinata.


Mentre discuteva con Loring sull'eventuale necessità di scarpe di riserva, Roran notò Sloan fermo all'imbocco di un vicolo.


Il macellaio osservava la scena con uno sdegno che gli accentuava le rughe intorno alle labbra serrate. La sua indignazione si trasformò in rabbia incredula nel vedere Katrina infilarsi lo zaino in spalla, fugando ogni dubbio che fosse lì soltanto per dare una mano. Una vena cominciò a pulsargli al centro della fronte.


Roran corse verso Katrina, ma Sloan arrivò per primo. Le afferrò il manico dello zaino e lo scrollò con violenza, gridando: «Chi ti ha convinta a farlo?» Katrina disse qualcosa a proposito dei bambini e cercò di liberarsi, ma Sloan strattonò lo zaino, torcendole le braccia quando gli spallacci le scivolarono via, e lo gettò in terra. Il contenuto si sparse a terra. Continuando a gridare, Sloan afferrò il braccio di Katrina e cominciò a trascinarla via. Lei piantò i talloni nel terreno e si divincolò, i capelli ramati che le ondeggiavano davanti al viso come una tempesta di sabbia. Furibondo, Roran si scagliò contro Sloan per separarlo dalla figlia, e spinse il macellaio sul petto con una tale foga da farlo barcollare all'indietro di diversi passi. «Fermati! Sono io che gliel'ho chiesto.»


Sloan fulminò Roran con un'occhiata e ruggì: «Non ne hai il diritto!»


«Sì che ce l'ho!» Roran guardò il cerchio di spettatori che si era radunato intorno a loro, e poi dichiarò a gran voce, perché tutti potessero udire: «Katrina e io siamo fidanzati e ci sposeremo. E non permetterò che la mia futura moglie venga trattata in questo modo!» Per la prima volta, gli abitanti di Carvahall tacquero; perfino i muli si zittirono. Sorpresa, e un profondo, inconsolabile dolore affiorarono sul viso vulnerabile di Sloan, insieme al luccichio delle lacrime. Per un istante Roran provò compassione per lui, ma poi una serie di spasmi deformarono i lineamenti del padre di Katrina, ciascuno più intenso del precedente, finché la sua pelle non diventò paonazza. Lanciò un'imprecazione e disse: «Tu, codardo dalla doppia faccia! Come hai potuto guardarmi negli occhi e parlarmi come un uomo onesto, mentre corteggiavi mia figlia senza il mio permesso? Io mi sono fidato di te, e adesso ti scopro a intrufolarti in casa mia appena volto la schiena.»


«Era mia intenzione fare le cose come si deve» disse Roran, «ma gli eventi hanno cospirato contro di me. Non avrei mai voluto ferirti. Purtroppo è andata diversamente da come tutti noi speravamo, ma vorrei ugualmente ricevere la tua benedizione, se acconsenti.»


«Preferirei avere un porco verminoso come genero! Tu non hai fattoria. Tu non hai famiglia. E non avrai niente a che fare con mia figlia!» Il macellaio imprecò ancora. «E lei non avrà niente a che fare con la Grande Dorsale!» Sloan si avventò su Katrina, ma Roran gli sbarrò il passo, l'espressione feroce, i pugni serrati. I due si fissarono ad appena un palmo di distanza, tremando per l'intensità delle loro emozioni. Gli occhi orlati di rosso di Sloan luccicavano di follia.


«Katrina, vieni qui» ordinò Sloan.


Roran indietreggiò di un passo - i tre formarono un triangolo - e fissò Katrina. Le lacrime le inondavano il viso, mentre il suo sguardo guizzava fra Roran e il padre. Fece un passo avanti, esitò, poi con un grido di angoscia si tirò i capelli, tormentata dall'indecisione.


«Katrina!» esclamò Sloan, terrorizzato.


«Katrina» mormorò Roran.


Al suono della sua voce, Katrina smise di versare lacrime e drizzò la schiena, il viso ora composto e pacato. «Mi dispiace, papà» disse, «ma ho deciso di sposare Roran.» E si affiancò al giovane.


Sloan sbiancò. Si morse il labbro così forte da far sgorgare una gocciolinà di sangue. «Non puoi abbandonarmi! Sei mia figlia!» Le si avventò contro con le dita contratte come artigli. Nello stesso momento, Roran ruggì e colpì il macellaio con tutte le sue forze, scaraventandolo a terra davanti all'intero villaggio.


Sloan si rialzò lentamente, il viso e il collo rossi di umiliazione. Quando il suo sguardo si posò di nuovo su Katrina, il macellaio parve rimpicciolirsi, come ripiegato in sé, finché Roran non ebbe l'impressione di guardare il fantasma dell'uomo che era stato. Con un filo di voce, il macellaio disse: «È sempre così: sono quelli che ami di più che ti danno i dolori più grandi. Tu non avrai alcuna dote da me, vipera, né riceverai l'eredità di tua madre.» Piangendo amare lacrime, Sloan si volse e corse verso la sua bottega.


Katrina si appoggiò a Roran, e lui le cinse le spalle con un braccio. Restarono aggrappati l'uno all'altra, mentre la gente si assiepava intorno a loro, chi per congratularsi, chi per disapprovare, chi per dare consigli. Malgrado il clamore, Roran non si accorgeva di niente se non della donna che teneva fra le braccia, e che ricambiava la sua stretta. All'improvviso tra la folla si fece largo Elain a suon di gomitate, nonostante il pancione. «Oh, povera cara!» esclamò, e gettò le braccia al collo di Katrina, strappandola a Roran. «Siete davvero fidanzati?» Katrina annuì e sorrise, poi scoppiò in un pianto dirotto sulla spalla di Elain. «Su, su, non temere.» Elain cullava Katrina con dolcezza materna, lisciandole i capelli e mormorandole parole affettuose, ma invano. Ogni volta che Roran pensava che stesse per smettere, Katrina ricominciava a piangere ancora più forte. Alla fine, Elain lo guardò da sopra le spalle tremanti di Katrina e gli disse: «La porto a casa.»


«Vi accompagno.»


«No» replicò Elain. «Ha bisogno di tempo per calmarsi, e tu hai del lavoro da sbrigare. Vuoi il mio consiglio?» Roran annuì stordito. «Sta' alla larga da lei fino a stasera. Ti garantisco che si sarà ripresa. Domani potrà raggiungere gli altri.» E senza aspettare risposta, Elain guidò la singhiozzante Katrina lontano dallo sbarramento di alberi. Roran rimase con le braccia inerti lungo i fianchi, in preda a uno strano torpore. Cosa abbiamo fatto? Si pentiva di non aver rivelato prima la notizia del loro fidanzamento a Sloan. Rimpiangeva di non poter più lavorare insieme a Sloan per proteggere Katrina dall'Impero. E si rammaricava di aver costretto Katrina a rinnegare la sua famiglia per lui. Ora era doppiamente responsabile della sua vita. Non avevano scelta, se non sposarsi. Ho combinato un disastro. Sospirò e strinse il pugno, facendo una smorfia per le nocche escoriate.


«Come ti senti?» gli chiese Baldor, avvicinandosi.


Roran abbozzò un sorriso. «Non è andata come speravo. Sloan non vuole sentire ragioni quando si tratta della Grande Dorsale.»


«E di Katrina.»


«Già. Io...» Roran tacque nel vedere Loring che si avvicinava.


«È stata una sciocchezza madornale!» ringhiò il calzolaio, arricciando il naso. Poi protese il mento e sogghignò, mostrando i denti smozzicati. «Ma auguro a te e alla ragazza ogni fortuna.» Scosse il capo. «Eh, ne avrai un gran bisogno, Fortemartello!»


«Tutti ne avremo bisogno» lo rimbeccò Thane, passando vicino.


Loring lo congedò con un gesto della mano. «Bah, lascia perdere quel vecchio acido. Ascolta, Roran. Vivo a Carvahall da tanti anni e con la mia esperienza posso dirti che è stato meglio che sia accaduto ora, piuttosto che quando il villaggio sonnecchia tranquillo e beato.»


Baldor annuì, ma Roran chiese: «Perché?»


«Non è ovvio? In circostanze normali, tu e Katrina sareste stati sulla bocca di tutti per i prossimi nove mesi.» Loring si grattò un lato del naso. «Invece, con tutti i problemi che abbiamo, sarete presto dimenticati e potrete godervi un po' di pace.»


Roran si accigliò. «Avrei preferito i pettegolezzi a quei profanatori accampati sulla strada.»


«Lo so, è così per tutti. Ma bisogna trovare il lato positivo di ogni situazione... e il cielo sa se non ne abbiamo tutti bisogno... specie tu, una volta che ti sarai sposato!» Loring ridacchiò e indicò Roran. «Ehi, ragazzo, sei diventato tutto rosso!»


Brontolando fra sé, Roran cominciò a raccogliere le cose di Katrina sparse per terra. Tutti quelli che si trovarono a passargli accanto mormoravano un commento, nessuno dei quali troppo adatto a calmargli i nervi. «Balle!» sibilò fra i denti, dopo una critica particolarmente maligna.


Sebbene la spedizione sulla Grande Dorsale avesse subito un ulteriore ritardo per colpa della scenata a cui i paesani avevano appena assistito, la carovana di uomini e muli partì poco prima di mezzogiorno, seguendo la pista battuta che risaliva le pendici del monte Narnmor fino al culmine delle Cascate di Igualda. Era una salita ripida, da percorrere con cautela, per via dei bambini e del peso che ciascuno portava.


Roran passò gran parte del tempo intralciato da Calitha - la moglie di Thane - e dai suoi cinque figli, ma non se ne fece un cruccio, anzi, così non affaticava il polpaccio ferito e poteva ripensare ai recenti eventi. Lo scontro con Sloan lo aveva profondamente scosso. Se non altro, si consolava, Katrina non resterà a Carvahall ancora a lungo. Poiché nel profondo del suo cuore, Roran era convinto che il villaggio sarebbe stato presto sconfitto. Era una semplice constatazione, terribile, ma inevitabile.


A tre quarti dell'ascesa si fermò a riposare, e si appoggiò al tronco di un albero ad ammirare il panorama della Valle Palancar. Cercò di individuare l'accampamento dei Ra'zac - che sapeva trovarsi a sinistra dell'Anora e a sud della strada


- ma non riuscì a scorgere nemmeno un filo di fumo.


Roran sentì il ruggito delle Cascate di Igualda molto prima di vederle. Avevano l'aspetto di una spumeggiante criniera bianca che si riversava dalla vetta frastagliata del Narnmor giù nella valle, mezzo miglio più sotto. La grande corrente seguiva un percorso sinuoso nel precipitare, a seconda degli ostacoli e delle raffiche di vento.

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