«Ecco quello che ci serve» disse Roran, indicando la nave.


Brigit emise un brontolìo cupo. «Dovremmo vendere noi stessi come schiavi per permetterci un passaggio su quel mostro.»


Clovis li aveva avvertiti che le saracinesche di Teirm chiudevano al tramonto, così affrettarono il passo per evitare di trascorrere la notte in aperta campagna. Nell'avvicinarsi alle bianche mura, videro la strada affollata da due fiumane di gente che andava e veniva da Teirm.


Roran non si era aspettato tanto traffico, ma capì al volo che questo avrebbe aiutato il gruppo a passare inosservato. Chiamando a sé Mandel, disse: «Resta indietro per qualche minuto, e poi accodati a qualcun altro che varca il cancello, perché le guardie non si convincano che sei con noi. Ti aspetteremo dall'altra parte. Se ti fanno domande, di' che sei venuto a cercare lavoro come marinaio.»


«Sissignore.»


Non appena Mandel fu rimasto indietro, Roran abbassò una spalla e cominciò a zoppicare, ripassando la storia che Loring aveva inventato per giustificare la loro presenza a Teirm. Si fece da parte e chinò il capo, mentre passava un uomo intento a spronare due buoi indolenti, lieto che le ombre gli nascondessero i lineamenti.


Il cancello si apriva dinnanzi a loro, immerso nella luce arancione per le fiaccole che ardevano su ciascun lato dell'ingresso. Sotto l'arco c'erano due soldati con la fiamma di Galbatorix ricamata sul davanti delle loro tuniche cremisi. Nessuno dei due degnò Roran e i suoi compagni di un'occhiata mentre arrancavano sotto le punte aguzze della saracinesca, superando la breve galleria che veniva dopo.


Roran raddrizzò le spalle e sentì che parte della tensione si scioglieva. Lui e gli altri si radunarono dietro l'angolo di una casa, dove Loring mormorò: «Fin qui, tutto liscio.»


Quando arrivò anche Mandel, andarono in cerca di un ostello poco costoso dove affittare una camera. Mentre camminavano, Roran studiava la città, con le sue case fortificate che crescevano in altezza verso la cittadella, e la disposizione a griglia delle strade. Quelle da nord a sud partivano dalla cittadella per espandersi come un fuoco d'artificio, mentre quelle da est a ovest seguivano un andamento curvilineo che formava con le prime una specie di ragnatela, creando numerosi luoghi dove si potevano innalzare barricate e appostare soldati.


Se Carvahall fosse stata costruita così, pensò Roran, non avrebbe potuto sconfiggerci nessuno, se non il re in persona.


Al calar della sera avevano trovato un alloggio presso la Castagna Verde, una squallida taverna che serviva una birra orribile e aveva i letti infestati di pulci. L'unico vantaggio era che non costava praticamente nulla. Andarono a dormire senza cena, per risparmiare denaro prezioso, e si distesero vicini per impedire a qualche altro ospite della stamberga di rubar loro le borse.


Il giorno dopo, Roran e i suoi compagni lasciarono la Castagna Verde prima dell'alba, in cerca di provviste e un mezzo di trasporto.


Gertrude disse: «Ho sentito parlare di un'erborista in gamba, una certa Angela, che vive qui e pare sia in grado di curare ogni malanno, forse con un tocco di magia.


Vado a cercarla, perché se ho bisogno di qualcuno, è proprio di lei.»


«Non dovresti andare da sola» disse Roran. Guardò Mandel. «Accompagnala tu, aiutala con la spesa, e proteggila a tutti i costi se venite attaccati. I tuoi nervi verranno messi alla prova, forse, ma non fare niente per destare allarme, perché significherebbe tradire i tuoi amici e la tua famiglia.»


Mandel si toccò la ciocca di capelli sulla fronte e annuì, obbediente. Lui e Gertrude imboccarono una traversa e si allontanarono, mentre gli altri riprendevano la ricerca.


Roran aveva la pazienza di un predatore appostato, ma perfino lui cominciò a smaniare di inquietudine quando la mattinata e il pomeriggio passarono senza che riuscisse a trovare una nave che li portasse nel Surda. Venne a sapere che il veliero a tre alberi, l'Ala di Drago, era stato appena costruito e stava per intraprendere il suo viaggio inaugurale; che non avrebbero avuto alcuna possibilità di noleggiarlo dalla Compagnia di Navigazione Blackmoor, a meno che non avessero avuto a disposizione una montagna d'oro rosso dei nani; e che in effetti non avevano abbastanza soldi nemmeno per ingaggiare la più sgangherata carretta ormeggiata in porto. Né avrebbero risolto i problemi impadronendosi delle chiatte di Clovis, perché sarebbe rimasta comunque la questione di che cosa mangiare durante il viaggio.


«È difficile» osservò Brigit, «anzi, direi impossibile rubare qualcosa qui, con tutti i soldati, e le case addossate l'una all'altra, e le sentinelle all'ingresso. Se cercassimo di trasportare troppa roba fuori da Teirm, ci fermerebbero per sapere che cosa stiamo facendo.»


Roran annuì. Anche quello.


Roran aveva suggerito a Horst che se gli abitanti del villaggio fossero stati costretti a fuggire da Teirm con i soli viveri rimasti, avrebbero potuto compiere qualche razzìa.. In cuor suo, Roran sapeva che un simile gesto avrebbe significato che erano diventati dei mostri come quelli che odiavano: una cosa era combattere e uccidere quelli che servivano Galbatorix, o persino rubare le chiatte di Clovis, dato che aveva altri mezzi di sostentamento, un'altra era appropriarsi delle provviste di contadini innocenti che lottavano per sopravvivere come gli stessi abitanti di Carvahall. Sarebbe stato un crimine efferato.


Tutti questi problemi pesavano sulle spalle di Roran come macigni. L'impresa era stata sempre esile, nel migliore dei casi, sostenuta in parti eguali dalla paura, dalla disperazione, dall'ottimismo e dall'improvvisazione. Ora temeva di aver guidato il villaggio nel covo del nemico, e di averlo intrappolato con una catena forgiata dalla loro stessa povertà. Potrei fuggire da solo e continuare a cercare Katrina, ma che vittoria sarebbe se lasciassi il mio villaggio alla mercé dell'Impero? Qualunque destino ci aspetti a Teirm, resterò al fianco di coloro che si sono fidati di me abbastanza da abbandonare le loro case per le mie parole.


Per alleviare i morsi della fame, si fermarono da un fornaio e comprarono una pagnotta di pane di segala, come pure un piccolo vaso di miele da spalmarci sopra. Mentre pagavano, Loring accennò al garzone del fornaio che erano in cerca di navi, equipaggiamento e viveri.


Roran si sentì battere sulla spalla e si volse. Un uomo dagli ispidi capelli neri e dal gran pancione rotondo gli disse: «Perdona se ho ascoltato quanto dicevate al giovanotto lì, ma se è una nave che cercate, e a un buon prezzo, credo che dovreste partecipare all'asta.»


«Di che asta parli?» chiese Roran.


«Ah, è una storia triste, ma se ne sentono tante al giorno d'oggi. Uno dei nostri mercanti, Jeod - Jeod Gambelunghe, come lo chiamiamo noi - ha subito il più devastante dei rovesci di fortuna. In meno di tin anno ha perduto quattro delle sue navi, e quando ha cercato di vendere le sue merci sulla terraferma, la carovana è caduta in un'imboscata ed è stata distrutta da una banda di ladri. I suoi investitori lo hanno costretto a dichiarare bancarotta, e adesso venderanno le sue proprietà per rientrare delle perdite. Riguardo ai viveri non so dirvi, ma state certi che a quell'asta troverete tutto ciò che vi serve.»


Un debole barlume di speranza si accese nel cuore di Roran. «Quando si terrà l'asta?»


«Ma come? Il manifesto è affisso su tutti i tabelloni della città. A ogni buon conto, sarà dopodomani.» Questo spiegava perché non avevano avuto sentore dell'asta; avevano fatto di tutto per stare alla larga dai tabelloni con gli avvisi, al fine di evitare che qualcuno riconoscesse Roran dal ritratto sul manifesto dei ricercati. «Ti ringrazio molto» disse Roran all'uomo. «Ci hai risparmiato un sacco di fatica.»


«Oh, di niente.»


Una volta che Roran e i suoi compagni furono usciti dalla bottega, si riunirono al margine della strada. Roran disse: «Pensate che dovremmo andare a dare un'occhiata?»


«Non abbiamo alternative» borbottò Loring.


«Brigit?»


«E me lo chiedi? È ovvio. Ma non possiamo aspettare fino a dopodomani.»


«No. Io dico di andare a conoscere questo Jeod per vedere se riusciamo a concludere un affare prima che l'asta abbia inizio. Che ne dite?»


Tutti assentirono, e si misero in cerca della casa di Jeod, grazie alle indicazioni di un passante. La casa - o meglio, la residenza - si trovava nella zona ovest di Teirm, vicina alla cittadella, insieme ad altre decine di ricche dimore abbellite da trafori, cancelli di ferro battuto, statue e fontane.


Roran rimase stupito di fronte a tanta opulenza; non riusciva quasi a comprendere come la vita di quelle persone fosse tanto diversa dalla sua.


Bussò alla porta della residenza di Jeod, accanto a quella che sembrava una bottega abbandonata. Dopo un momento, la porta si aprì e comparve un florido maggiordomo, armato di una chiostra di denti scintillanti. Dalla soglia adocchiò i quattro stranieri con palese disgusto, poi fece risplendere il sorriso radioso e chiese: «Come posso aiutarvi, gentili signori e gentile signora?»


«Vorremmo parlare con Jeod, se non è impegnato.»


«Avete un appuntamento?»


Roran pensò che il maggiordomo sapeva perfettamente che non ce l'avevano. «La nostra permanenza a Teirm è troppo breve per organizzare un incontro formale.»


«Ah, capisco, ma in questo caso mi rincresce comunicarvi che fareste meglio a impiegare il vostro tempo da qualche altra parte. Il mio padrone ha parecchie faccende da sbrigare. Non può dedicarsi a ogni branco di straccioni che bussa alla sua porta in cerca di elemosina» disse il maggiordomo con un sorriso affettato, se possibile ancor più abbagliante, e fece per chiudere la porta.


«Aspetta!» esclamò Roran. «Non cerchiamo elemosina; abbiamo un affare da proporre a Jeod.»


Il maggiordomo inarcò un sopracciglio. «Davvero?»


«Sì. Per favore, chiedigli di riceverci. Abbiamo fatto tanta strada ed è assolutamente necessario che Jeod ci riceva oggi stesso.»


«Posso chiedere la natura della vostra proposta?»


«È confidenziale.»


«Molto bene, signori» disse il maggiordomo. «Riferirò il vostro messaggio, ma vi avverto che Jeod è occupato al momento, e dubito che voglia essere disturbato. Con quale nome debbo annunciarti, signore?»


«Puoi chiamarmi Fortemartello.» Il maggiordomo arricciò un angolo della bocca, come divertito dal nome, poi scivolò dietro la porta e la chiuse. «Se la sua testa fosse poco più grande, non entrerebbe nella latrina» borbottò Loring fra i denti. Nolfavrell scoppiò a ridere per la battuta.


Brigit commentò: «Speriamo soltanto che il servo non somigli al padrone.»


Un minuto dopo, la porta si riaprì e il maggiordomo annunciò, con espressione lievemente irritata: «Jeod ha acconsentito a ricevervi nel suo studio.» Si scostò e con la mano tesa fece loro cenno di entrare. «Da questa parte.» Varcato il sontuoso ingresso, il maggiordomo li precedette e li condusse lungo un corridòio rivestito di lucido legno per fermarsi davanti a una delle numerose porte. L'aprì e li invitò a entrare.

Jeod Gambelunghe

Se Roran avesse saputo leggere, sarebbe rimasto molto più impressionato dagli scaffali traboccanti di libri che tappezzavano le pareti dello studio. Invece riservò la sua attenzione all'uomo alto dai capelli grigi che li attendeva in piedi dietro una scrivania ovale. L'uomo che Roran diede per scontato fosse Jeod - sembrava stanco almeno quanto lo si sentiva Roran. Il suo viso era scavato, consumato dalle preoccupazioni, e triste, e quando si voltò per osservarli, Roran notò una brutta cicatrice biancastra che gli solcava la tempia sinistra. Per Roran era indice di grande tempra in un uomo. Magari sepolta da tempo, ma sempre tempra.


«Sedetevi» disse Jeod. «Non mi piacciono le cerimonie in casa mia.» Li scrutò con curiosità mentre si accomodavano nelle morbide poltrone di pelle. «Posso offrirvi qualche dolcetto e un bicchiere di brandy di albicocche? Non posso concedervi molto tempo, ma so che siete in cammino da parecchie settimane, e ricordo bene come mi sentivo la gola riarsa dopo un viaggio del genere.»


Loring sogghignò. «Sì, un goccio di brandy mi ci vuole proprio. Sei generoso, signore.»


«Per mio figlio, solo un bicchiere di latte» disse Brigit.


«Ma certo, madam.» Jeod tirò il cordone della campanella per chiamare il maggiordomo, gli impartì le istruzioni, poi si sedette nella sua poltrona. «Credo di essere in svantaggio. Voi conoscete il mio nome, ma io non conosco i vostri.» «Fortemartello, per servirti» disse Roran.


«Mardra, per servirti» disse Brigit.


«Kell, per servirti» disse Nolfavrell.


«E io sono Wally, per servirti» concluse Loring.


«Bene, e io sono qui per servire voi» rispose Jeod. «Dunque, Rolf mi ha detto che avete un affare da propormi. È giusto che sappiate che non sono nella posizione di poter vendere merci, né possiedo oro da investire, né navi per trasportare lana o viveri, gemme o spezie. Quindi come posso esservi utile?»


Roran appoggiò i gomiti sulle ginocchia, poi intrecciò le dita e le fissò a lungo, mentre cercava di mettere ordine nei suoi pensieri. Una parola di troppo potrebbe ucciderci, rammentò a se stesso. «Per farla breve, signore, noi rappresentiamo un gruppo di persone che, per varie ragioni, devono acquistare un grande quantitativo di merci a pochissimo prezzo. Sappiamo che i tuoi beni verranno messi all'asta dopodomani per ripagare i tuoi debiti, e vorremmo fare un'offerta per quelli che ci servono. Avremmo aspettato il giorno dell'asta, ma le circostanze ci impongono fretta e non possiamo aspettare altri due giorni. Se dobbiamo concludere un affare, dev'essere stasera o domani, non più tardi.»


«Che genere di merci vi occorrono?»


«Viveri, e quant'altro sia necessario per armare una nave o un altro tipo di imbarcazione per un lungo viaggio per mare.»


Una scintilla d'interesse illuminò il viso sciupato di Jeod. «Avete una nave ben precisa in mente? Perché conosco ogni scafo che abbia solcato i mari negli ultimi vent'anni.»


«Dobbiamo ancora decidere.»


Jeod non replicò. «Capisco perché avete pensato di rivolgervi a me, ma temo che stiate equivocando.» Allargò le braccia, indicando la stanza. «Tutto quello che vedete


non appartiene più a me, ma ai miei creditori. Non ho la facoltà di vendere i miei beni, e se lo facessi senza permesso, mi getterebbero in galera per averli frodati del denaro che devo loro.»


Fece una pausa quando Rolf rientrò nello studio, portando un grande vassoio d'argento colmo di pasticcini, calici di vetro sfaccettato, un bicchiere di latte e una caraffa di brandy. Il maggiordomo posò il vassoio sul grande pouf imbottito e si accinse a servire i rinfreschi. Roran prese il suo calice e bevve un sorso di brandy dolce, chiedendosi come fare a congedarsi in fretta, di fronte a tanta cortesia, per riprendere le ricerche.


Quando Rolf lasciò la stanza, Jeod svuotò il calice in un unico lungo sorso e disse: «Io non posso esservi d'aiuto, ma conosco un certo numero di persone nel mio campo che potrebbero... potrebbero... aiutarvi. Se voleste darmi qualche altro dettaglio circa le cose che intendete acquistare, saprò a chi indirizzarvi.»


Roran non ci vide nulla di male, e cominciò a elencare una lista di oggetti indispensabili per gli abitanti del villaggio, oggetti potenzialmente necessari o desiderati ma che non avrebbero mai potuto permettersi a meno che la fortuna non decidesse di stare dalla loro parte. Brigit e Loring intervenivano di quando in quando, se Roran dimenticava qualcosa come l'olio per le lampade - e Jeod li guardava per un momento prima di posare di nuovo il suo sguardo sempre più incuriosito su Roran. L'interesse di Jeod preoccupava Roran; era come se il mercante sapesse o sospettasse che cosa stavano nascondendo.


«Ho l'impressione» disse Jeod, quando Roran ebbe finito l'inventario «che si tratti di un quantitativo di rifornimenti sufficiente a trasportare centinaia di persone fino a Feinster o Arughia... e anche oltre. Devo ammettere che sono stato piuttosto impegnato nelle ultime settimane, ma


non ho sentito parlare di una simile massa di gente in questa zona, né riesco a immaginare da dove possa venire.» Con volto inespressivo, Roran sostenne lo sguardo di Jeod e non disse niente. Dentro di sé, si dava dello sciocco per aver dato a Jeod informazioni sufficienti a fargli trarre quella conclusione.


Jeod scrollò le spalle. «Be', in ogni caso sono affari vostri. Vi suggerisco di provare da Galton, in Market Street, per l'acquisto di viveri, e dal vecchio Hamill giù al porto per tutto il resto. Sono uomini onesti e vi tratteranno bene.» Allungando una mano, prese un pasticcino dal vassoio, lo addentò, e quando ebbe finito di masticare chiese a Nolfavrell: «Allora, giovane Kell, ti piace stare a Teirm?»


«Sì, signore» rispose Nolfavrell, e sorrise. «Non ho mai visto niente di più grande, signore.»


«Davvero?»


«Sì. Io...»


Con la sensazione di essersi addentrato in un territorio pericoloso, Roran intervenne: «Sono curioso, Jeod, di conoscere la natura del negozio qui a fianco. Mi sembra strano che un'umile bottega si trovi in mezzo a queste magnifiche residenze.»


Per la prima volta, un sorriso, seppur lieve, illuminò l'espressione di Jeod, cancellando anni dal suo viso. «Be', era di proprietà di una donna anche lei un po' strana: Angela l'erborista, la migliore guaritrice che abbia mai conosciuto. Ha mandato avanti la bottega per oltre vent'anni; poi, appena qualche mese fa, ha venduto tutto ed è partita per destinazione ignota.» Sospirò. «È un peccato, perché era una vicina davvero interessante.»


«Non è quella che cercava Gertrude?» disse Nolfavrell, guardando sua madre.


Roran represse un ringhio di collera, e scoccò a Nolfavrell un'occhiataccia sufficiente a farlo ricadere ammutolìto in poltrona. Il nome non significava niente per Jeod, ma se Nolfavrell non teneva a freno la lingua, prima o poi si sarebbe fatto sfuggire qualcosa di molto più pericoloso. È ora di andare, pensò Roran, posando il suo calice. In quel momento si accorse che in qualche modo il nome aveva significato qualcosa per Jeod. Il mercante sgranò gli occhi, esterrefatto, e strinse i braccioli della poltrona tanto da sbiancarsi le dita. «Non può essere!» Jeod fissò Roran con attenzione, come se volesse vedere sotto la barba, poi, con un filo di voce, disse: «Roran... Roran Garrowsson.»

Un alleato inatteso

Roran aveva già estratto il martello dalla cintura e stava per slanciarsi dalla poltrona quando sentì fare il nome di suo padre. Fu l'unica cosa che lo trattenne dallo scagliarsi su Jeod per tramortirlo. Come fa a conoscere Garrow? Ai suoi lati, Loring e Brigit balzarono in piedi e si fecero scivolare in mano i coltelli da dentro le maniche, mentre Nolfavrell era già pronto a combattere con il pugnale in mano.


«Sei Roran, non è vero?» chiese Jeod, senza scomporsi davanti alle loro armi.


«Come l'hai capìto?»


«Perché Brom venne qui con Eragon, e tu somigli a tuo cugino. Quando ho visto il tuo manifesto accanto a quello di Eragon, ho capìto che l'Impero doveva aver tentato di catturarti, e che tu eri fuggito. Sebbene» aggiunse, guardando gli altri tre, «per quanto io sia dotato di fervida immaginazione, non avrei mai pensato che ti saresti portato dietro tutta Carvahall.»


Colpito, Roran ricadde in poltrona, posandosi il martello in grembo, pronto a usarlo. «Eragon è stato qui?» «Sì. E anche Saphira.»


«Saphira?»


Jeod apparve sorpreso. «Non lo sai, eh?»


«Sapere cosa?»


Jeod tacque per riflettere. Poi: «Credo sia giunto il momento di smetterla con la commedia, Roran Garrowsson, e di parlare apertamente, senza più sotterfugi. Io sono in grado di rispondere a molte delle domande che probabilmente ti assillano, e spiegarti il motivo per cui l'Impero ti da la caccia, ma in cambio devo conoscere la ragione per cui siete venuti a Teirm... la vera ragione.»


«Perché dovremmo fidarci di te, Gambelunghe?» intervenne Loring. «Potresti essere un agente di Galbatorix, per quanto ne sappiamo.»


«Sono stato amico di Brom per oltre vent'anni, prima che facesse il cantastorie a Carvahall» disse Jeod, «e ho fatto del mio meglio per aiutare lui ed Eragon quando li ho ospitati sotto il mio tetto. Ma siccome nessuno dei due è presente a confermare la mia parola, rimetto la mia vita nelle vostre mani. Potrei gridare aiuto, ma non lo farò. Né vi combatterò. Vi chiedo soltanto di raccontarmi la vostra storia, e di ascoltare la mia. Poi potrete decidere quali azioni intraprendere. Non siete in pericolo immediato, perciò che male c'è a parlare?» Brigit attirò l'attenzione di Roran con un gesto del mento. «Magari lo dice solo per salvarsi la pelle.»


«Può darsi» disse Roran, «ma dobbiamo scoprire quello che sa.» Infilando un braccio sotto la poltrona, la trascinò dall'altro capo della stanza, l'addossò alla porta e si sedette, perché nessuno potesse entrare all'improvviso e coglierli di sorpresa. Puntò il martello contro Jeod. «D'accordo. Vuoi parlare? Parliamo, allora.»


«Sarebbe meglio che cominciassi tu.»


«Se lo faccio, e dopo non saremo soddisfatti delle tue risposte, dovremo ucciderti» lo avvisò Roran. Jeod incrociò le braccia. «E sia.»


Nonostante tutto, Roran rimase impressionato dalla fermezza del mercante; Jeod sembrava incurante della propria sorte, anche se teneva le labbra strette. «E sia» ripetè Roran.


Roran aveva rivissuto gli eventi dall'arrivo dei Ra'zac a


Carvahall più di una volta, ma non li aveva mai descritti ad alta voce a un'altra persona. Mentre parlava, fu colpito da quante cose erano accadute a lui e agli altri abitanti del villaggio in così poco tempo, e di come era stato facile per l'Impero distruggere la loro vita nella Valle Palancar. Resuscitare gli antichi terrori fu terribile per Roran, ma almeno ebbe la soddisfazione di vedere Jeod manifestare un totale e sincero stupore nell'apprendere come il villaggio aveva scacciato i soldati e i Ra'zac dall'accampamento, del conseguente assedio di Carvahall, del tradimento di Sloan e del rapimento di Katrina, di come Roran aveva convinto i compaesani a fuggire, e delle traversie del viaggio fino a Teirm. «Per i re perduti!» esclamò Jeod. «Una storia straordinaria. Straordinaria! E pensare che siete riusciti a farla in barba a Galbatorix, e che adesso l'intero villaggio di Carvahall è nascosto a poche miglia da una delle più grandi città dell'Impero e il re non lo sa...» Scosse il capo, colmo di ammirazione.


«Già, questa è la nostra situazione» borbottò Loring, «ed è alquanto precaria, perciò sarà meglio che ti sbrighi a darci un motivo valido per cui dovremmo lasciarti in vita.»


«Perché anch'io...»


Jeod s'interruppe quando qualcuno provò a girare la maniglia alle spalle di Roran, nel tentativo di aprire la porta. Seguì una gragnuola di colpi sulle tavole di quercia. Nel corridòio, una donna gridò: «Jeod! Fammi entrare, Jeod! Non puoi nasconderti per sempre in quella tana!»


«Posso?» bisbigliò Jeod.


Roran schioccò le dita guardando Nolfavrell, e il ragazzo gli lanciò il pugnale. Roran scivolò dietro la scrivania e appoggiò la lama contro la gola di Jeod. «Falla andare via.»


Alzando la voce, Jeod disse: «Non posso parlare adesso; sono in una riunione d'affari.»


«Bugiardo! Non hai alcun affare. Sei in bancarotta! Vieni fuori e guardami in faccia, vigliacco! Che razza di uomo sei, se non hai il coraggio di guardare tua moglie negli occhi?» La donna tacque per un secondo, come in attesa di una risposta, poi riprese a strillare più forte. «Vigliacco! Sei un verme schifoso, un lurido topo di fogna, uno squallido pezzente senza un briciolo di buonsenso per gestire un banco al mercato, figuriamoci una società di navigazione. Mio padre non avrebbe mai perso così tanto denaro!»


Roran fremette mentre gli insulti continuavano. Non riuscirò più a contenere Jeod, se va avanti di questo passo. «Taci, donna!» tuonò Jeod, ottenendo il silenzio. «La nostra sorte potrebbe cambiare se tenessi a freno quella tua linguaccia e non strillassi come una pescivendola.»


La risposta arrivò gelida. «Aspetterò i tuoi comodi in sala da pranzo, marito caro, ma se non verrai a cenare insieme a me e non mi darai spiegazioni, lascerò questa maledetta casa per non rimetterci più piede.» Si udì un rumore di passi che si allontanavano.


Quando fu sicuro che la donna se n'era andata, Roran scostò il pugnale dalla gola di Jeod e lo restituì a Nolfavrell, poi si sedette di nuovo sulla poltrona addossata alla porta.


Jeod si massaggiò il collo e con aria avvilita disse: «Se non veniamo a un accordo, tanto vale che tu mi uccida; sarà più facile che spiegare a Helen che l'ho sgridata per niente.»


«Hai tutta la mia simpatia, Gambelunghe» disse Loring.


«Non è colpa sua... È che non capisce perché la sfortuna ci perseguita.» Jeod sospirò. «Forse è colpa mia, perché non ho il coraggio di dirglielo.»


«Dirle cosa?» domandò Nolfavrell.


«Che sono un agente dei Varden.» Jeod fece una pausa davanti alle cominciare


dal principio. Roran, ti sono giunte voci, negli ultimi mesi, dell'esistenza Galbatorix?»


«Sì, qualche chiacchiera qui e là, ma niente a cui abbia prestato fede.» Jeod esitò. «Non so come altro dirtelo, Roran... ma esiste un nuovo Cavaliere in Alagaésia, ed è tuo cugino Eragon. La pietra che trovò sulla Grande Dorsale era in realtà un uovo di drago, che io stesso aiutai i Varden a sottrarre a Galbatorix anni fa. L'uovo si è schiuso davanti a Eragon, e lui ha chiamato il drago, una femmina, Saphira. Ecco perché i Ra'zac sono venuti a Carvahall la prima volta, e sono tornati perché nel frattempo Eragon era diventato un nemico formidabile dell'Impero, e con la tua cattura Galbatorix sperava di metterlo in condizioni di non nuocere.» Roran gettò indietro il capo e scoppiò in una risata gutturale, fino a farsi venire le lacrime agli occhi, tenendosi la pancia che gli doleva per lo sforzo. Loring, Brigit e Nolfavrell lo guardavano esterrefatti e spaventati, ma Roran non si curò delle loro opinioni. Rideva dell'assurdità delle asserzioni di Jeod. Rideva della terribile possibilità che quanto diceva corrispondesse al vero.


Ansimando per riprendere fiato, Roran si calmò, pur continuando a scoppiare in brevi sprazzi di ilarità sotto i baffi. Si asciugò la faccia con la manica e poi guardò Jeod con un sorriso gelido sulle labbra. «Una storia che risponde a molte domande, te lo concedo. Ma come un'altra mezza dozzina di spiegazioni a cui ho pensato.»


Brigit chiese: «Se la pietra di Eragon era un uovo di drago, da dove veniva?»


«Ah» rispose Jeod, «questa è una parte della storia che conosco fin troppo bene...»


Sprofondato nella poltrona, Roran ascoltò incredulo


loro espressioni sconvolte. «Sarà meglio

di un nuovo Cavaliere che si oppone a Jeod che infilava una sfilza di assurdità dietro l'altra, come il fatto che Brom - quel vecchio trombone di Brom! - un tempo era stato un Cavaliere e aveva contribuito alla nascita dei Varden, che Jeod aveva scoperto un passaggio segreto per introdursi di soppiatto a Urù'baen, che i Varden erano riusciti a rubare le ultime tre uova di drago a Galbatorix, e che soltanto un uovo si era salvato, dopo che Brom aveva combattuto e ucciso Morzan dei Rinnegati. Come se questo non fosse già abbastanza assurdo da parte sua, Jeod proseguì descrivendo un accordo stretto fra Varden, nani ed elfi, secondo cui l'uovo avrebbe dovuto essere trasportato avanti e indietro dalla Du Weldenvarden ai Monti Beor, motivo per cui l'uovo e i suoi custodi erano vicini ai margini della grande foresta quando erano caduti nell'imboscata di uno Spettro.


Uno Spettro... ma sicuro! pensò Roran.


Per quanto scettico, ascoltò con rinnovato interesse quando Jeod cominciò a raccontare di Eragon che trovava l'uovo e allevava il drago nella foresta vicino alla fattoria di Garrow. All'epoca, Roran era stato molto impegnato con i preparativi della partenza per Therinsford, dove avrebbe lavorato al mulino di Dempton, ma rammentava come gli era sembrato distratto Eragon, che passava ogni minuto libero fuori di casa, facendo chissà cosa...


Quando Jeod spiegò come e perché Garrow era morto, Roran si sentì montare la collera al pensiero che Eragon avesse osato tenere il drago in gran segreto, quando era così ovvio che avrebbe messo tutti in pericolo. È colpa sua se mio padre è morto!


«Ma cosa credeva di fare?» esplose.


Jeod lo guardò con un'aria di serafica compassione che lo infastidì. «Dubito che Eragon lo sapesse. I Cavalieri e i loro draghi sono così intimamente legati che spesso è difficile distinguere l'uno dall'altro. Eragon non avrebbe potuto fare del male a Saphira più di quanto non lo avrebbe fatto a se stesso.»


«Sì che avrebbe potuto» ribattè Roran. «Perché a causa sua io sono stato costretto a fare cose altrettanto dolorose, e so... che avrebbe potuto.»


«Hai tutti i diritti di pensarla così» disse Jeod, «ma non dimenticare che la ragione per cui Eragon è fuggito dalla Valle Palancar era per proteggere te e il villaggio. Credo che sia stata una decisione molto sofferta per lui. Dal suo punto di vista, si è sacrificato per garantirvi la salvezza e vendicare tuo padre. E sebbene la sua partenza non abbia avuto l'effetto sperato, le cose sarebbero andate peggio se fosse rimasto.»


Roran non disse niente finché Jeod non parlò del motivo per cui Brom ed Eragon erano andati a Teirm: il tentativo di localizzare i Ra'zac attraverso i registri delle spedizioni. «E ci sono riusciti?» esclamò Roran, balzando in piedi. «Sì.»


«Allora, dove sono? Per amor del cielo, uomo, dimmelo. Sai quanto è importante per me!»


«Dai registri, e in seguito ho ricevuto un messaggio dai Varden secondo cui il racconto di Eragon lo confermava, risultava che il covo dei Ra'zac si trova sulla formazione rocciosa nota come Helgrind, vicino a Dras-Leona.» Roran strinse il martello, in preda all'eccitazione. È un lungo viaggio fino a Dras-Leona, ma Teirm ha accesso all'unico valico fra qui e le -propaggini meridionali della Grande Dorsale. Se riesco a far imbarcare tutti gli altri sani e salvi per proseguire lungo la costa, io potrò andare a questo Helgrind, salvare Katrina se è lì, e poi seguire il fiume Jietfino al Sur da.


I suoi pensieri dovevano aver lasciato filtrare qualcosa sul suo volto, perché Jeod disse: «Non è possibile, Roran.» «Cosa?»


«Nessun uomo può conquistare l'Helgrind. È una solida, liscia montagna di pietra nera, impossibile da scalare. Pensa alle orribili cavalcature dei Ra'zac; è molto probabile che abbiano scelto come rifugio la cima dell'Helgrind piuttosto che rintanarsi in qualche anfratto ai suoi piedi, dove sarebbero più vulnerabili. Come pensi di raggiungerli? E se anche ci riuscissi, come potresti sconfiggere tutti e due i Ra'zac, le loro bestie, e chissà cos'altro? Non ho il minimo dubbio che tu sia un guerriero formidabile... in fin dei conti, tu ed Eragon avete lo stesso sangue... ma questi sono nemici ben più potenti di qualsiasi essere umano.»


Roran scosse il capo. «Non posso abbandonare Katrina. Potrà anche essere vano, ma devo tentare di liberarla, dovesse costarmi la vita.»


«A Katrina non servirà un bel niente se ti fai uccidere» lo ammonì Jeod. «Se mi permetti un consiglio, cerca di raggiungere il Surda, come hai progettato. Una volta lì, sono sicuro che potrai contare sull'aiuto di Eragon. Perfino i Ra'zac non possono competere in uno scontro diretto con un Cavaliere e il suo drago.»


Con gli occhi della mente, Roran vide le enormi bestie alate che i Ra'zac cavalcavano. Odiava doverlo ammettere, ma sapeva che simili creature superavano le sue capacità di uccidere, per quanto forti fossero le sue ragioni. Nell'istante in cui accettò quella verità, credette anche a tutta la storia di Jeod: perché in caso contrario avrebbe perso Katrina per sempre.


Eragon, pensò. Eragon! Per il sangue che ho versato e che mi insudicia le mani, giuro sulla tomba di mio padre che pagherai per ciò che hai fatto attaccando l'Helgrind con me. Se sei stato tu a provocare questo disastro, allora ti costringerò a rimediarlo.


Roran fece un cenno a Jeod. «Continua il tuo racconto. Facci sentire il seguito di questa triste vicenda prima che il giorno invecchi.»


E così Jeod parlò della morte di Brom; di Murtagh, figlio di Morzan; della cattura e della fuga da Gil'ead; del disperato volo per salvare un'elfa; degli Urgali e dei nani, e di una grande battaglia in un luogo chiamato Farthen Dùr, dove Eragon aveva sconfitto uno Spettro. E rivelò loro che i Varden erano partiti dai Monti Beor per rifugiarsi nel Surda, e che al momento Eragon si trovava nel cuore della Du Weldenvarden, per apprendere i misteriosi segreti della magia e dell'arte guerresca, ma che sarebbe tornato presto.


Quando il mercante alla fine tacque, Roran si riunì con gli altri tre compagni per conferire nell'angolo più lontano dello studio. Sottovoce, Loring disse: «Non so se sta mentendo oppure no, ma chiunque sappia raccontare una storia come questa sotto minaccia di morte merita di vivere. Un nuovo Cavaliere! Ed è Eragon, per giunta!» Scrollò il capo. «Brigit?» disse Roran.


«Non saprèi. È così incredibile...» Esitò. «Ma dev'essere vero. Un nuovo Cavaliere è l'unica cosa che avrebbe spinto l'Impero a darci questa caccia feroce.»


«Già» convenne Loring. I suoi occhi scintillavano di eccitazione. «Siamo rimasti coinvolti in eventi ben più straordinari di quanto pensassimo. Un nuovo Cavaliere. Ma ci pensate! Il vecchio ordine ha i giorni contati, vi dico... Roran, tu hai avuto ragione fin dal principio.»


«Nolfavrell?»


Il ragazzo parve lusingato di essere stato interpellato. Si morse un labbro, poi disse: «Jeod mi sembra una persona onesta. Io credo che possiamo fidarci di lui.»


«D'accordo» disse Roran. Tornò da Jeod, piantò le nocche sul bordo della scrivania e disse: «Ancora due domande, Gambelunghe. Come sono fatti Brom ed Eragon? E come hai riconosciuto il nome di Gertrude?»


«Sapevo di Gertrude perché Brom mi disse di averle affidato una lettera per te. Quanto al loro aspetto... Brom era poco più basso di me. Barba folta, naso aquilino, e portava sempre con sé un bastone intagliato. E oserei dire che era alquanto irritabile, a volte.» Roran annuì: era Brom. «Eragon era... giovane. Capelli castani, occhi marroni, una cicatrice sul polso, e non la smetteva mai di fare domande.» Roran annuì di nuovo: quello era suo cugino. Roran si infilò di nuovo il martello nella cintura. Brigit, Loring e Nolfavrell rinfoderarono le lame. Poi Roran spostò la poltrona dalla porta, e i quattro presero di nuovo posto come persone civili. «E adesso, Jeod?» chiese Roran. «Puoi aiutarci? So che ti trovi in un brutto frangente, ma noi... noi siamo disperati e non abbiamo nessun altro a cui rivolgerci. Come agente dei Varden, puoi garantirci la loro protezione? Noi li serviremo volentieri, se ci difenderanno dalle ire di Galbatorix.»


«I Varden» disse Jeod «saranno più che lieti di accogliervi. Più che lieti. Immagino che tu lo sappia già. Quanto all'aiuto...» Si passò una mano sul lungo volto scavato e guardò, oltre le spalle di Loring, le file di libri sugli scaffali. «Ormai da un anno ho capìto che la mia vera identità, come quella di molti altri mercanti che qui e altrove aiutano i Varden, è stata svelata all'Impero. È per questo che non ho osato fuggire nel Surda. Se avessi tentato, l'Impero mi avrebbe fatto arrestare, e chissà quali orrori avrei dovuto subire... Sono già stato costretto ad assistere alla graduale distruzione della mia compagnia senza poter far niente... E non è tutto: ora che non posso inviare nulla ai Varden, e loro non osano inviare un convoglio, temo che Lord Risthart mi farà mettere in catene e gettare in galera, dato che non sono più d'interesse per l'Impero. Me lo aspetto da un momento all'altro, da quando ho dichiarato bancarotta.» «Può darsi» suggerì Brigit «che vogliano che tu fugga per poter catturare chiunque venga con te.» Jeod sorrise. «Può darsi. Ma ora che siete qui, ho un mezzo per fuggire che non si aspetteranno mai.» «Hai un piano?» chiese Loring.


Il volto di Jeod s'illuminò. «Oh, sì che ce l'ho un piano. Avete visto quella nave ormeggiata in porto, l'Ala di Drago?» Roran ripensò al veliero. «Sì.»


«L'Ala di Drago è di proprietà della Compagnia di Navigazione Blackmoor, un nome di copertura per l'Impero. Trasportano rifornimenti per l'esercito, che di recente si è mobilitato a ritmo vertiginoso, reclutando soldati fra i contadini e confiscando cavalli, asini e buoi.» Jeod inarcò un sopracciglio. «Non sono sicuro di che cosa voglia dire, ma è possibile che Galbatorix intenda marciare sul Surda. A ogni buon conto, l'Ala di Drago partirà per Feinster nel giro di una settimana. È la migliore nave mai costruita, su progetto del maestro d'ascia Kinnell.»


«E tu intendi appropriartene» concluse Roran.


«Esatto. Non solo per sprezzo dell'Impero o perché l'Ala di Drago gode della reputazione di essere la più veloce nave a vele quadre della sua stazza, ma perché è già completamente equipaggiata per un lungo viaggio. E dato che trasporta viveri, ne avremo abbastanza per l'intero villaggio.»


Loring emise una risatina nervosa. «Spero che tu sappia governarla da solo, Gambelunghe, perché nessuno di noi sa manovrare qualcosa di più grosso di una chiatta.»


«Alcuni degli uomini dei miei equipaggi sono ancora a Teirm. Si trovano nella mia stessa posizione, non possono combattere né fuggire. Sono convinto che coglieranno al volo l'occasione di andare nel Surda. Potranno insegnarvi quanto vi occorre sull'Ala di Drago. Non sarà facile, ma non vedo alternative.»


Roran sogghignò. Il piano era come piaceva a lui: astuto, risoluto e inaspettato.


«Hai detto» intervenne Brigit «che durante Tanno passato nessuna delle tue navi, né quelle di altri mercanti che servono i Varden, ha raggiunto la propria destinazione. Allora perché questa missione dovrebbe avere successo là dove tante altre hanno fallito?»


Jeod fu pronto a rispondere. «Perché abbiamo dalla nostra la sorpresa. La legge impone agli armatori delle navi di presentare all'autorità portuale l'itinerario per sottoporlo ad approvazione almeno due settimane prima della partenza. Ci vuole molto tempo per armare una nave, così, se partiamo senza preavviso, ci vorrà più di una settimana prima che Galbatorix riesca a inviare delle navi per intercettarci. Se la fortuna ci assiste, non vedremo che gli alberi di gabbia dei nostri inseguitori. Quindi» proseguì Jeod, «se siete disposti a tentare questa impresa, questo è ciò che dobbiamo fare...»

La fuga

Dopo aver considerato la proposta di Jeod da ogni angolazione possibile, e aver deciso di accettarla, sia pur con qualche modifica, Roran mandò Nolfavrell a chiamare Gertrude e Mandel alla Castagna Verde, dato che Jeod aveva offerto ospitalità a tutto il gruppo.


«Ora, se volete scusarmi» disse Jeod, alzandosi, «devo andare a rivelare a mia moglie quello che non avrei mai dovuto tenerle nascosto, e le chiederò di accompagnarmi nel Surda. Le vostre camere si trovano al primo piano. Rolf vi chiamerà quando sarà pronta la cena.» Incamminandosi a passo lento, uscì dallo studio.


«È prudente lasciarlo parlare con quella megera?» chiese Loring.


Roran si strinse nelle spalle. «Prudente o no, non possiamo fermarlo. E non credo che si sentirà in pace finché non l'avrà fatto.»


Invece di andare nella sua stanza, Roran vagò per la casa, evitando d'istinto i domestici, mentre rifletteva su quanto Jeod aveva detto. Si fermò davanti a un bovindo che affacciava sulle stalle dietro la casa, e si riempì i polmoni d'aria frizzante e fumosa, satura dell'odore familiare del letame.


«Lo detesti?»


Si volse di scatto, sorpreso, e vide la sagoma di Brigit che si stagliava sulla soglia. La donna si strinse lo scialle intorno alle spalle e avanzò.


«Chi?» chiese lui, sapendolo perfettamente.


«Eragon. Lo detesti?»


Roran guardò il cielo che si andava oscurando. «Non lo so. Lo odio perché è stato la causa della morte di mio padre, ma è pur sempre sangue del mio sangue, e per questo gli voglio bene... Suppongo che se non avessi bisogno di lui per salvare Katrina, non vorrei più averci a che fare per un bel pezzo.»


«Come io ho bisogno di te e ti odio, Fortemartello.»


Lui le rivolse un sorriso amaro. «Già, siamo uniti a filo doppio, io e te. Tu devi aiutarmi a trovare Eragon per vendicarti sui Ra'zac della morte di Quimby.»


«E per vendicarmi di te in seguito.»


«Anche questo.» Roran guardò i suoi occhi inflessibili per un istante, riconoscendo il legame che li univa. Provava uno strano conforto nel sapere che condividevano la stessa urgenza, lo stesso fuoco rabbioso che li spronava ad andare avanti dove gli altri esitavano. In lei vedeva uno spirito affine.


Tornando sui suoi passi, Roran si fermò davanti alla sala da pranzo ad ascoltare la cadenza della voce di Jeod. Incuriosito, avvicinò l'occhio allo spiraglio dei cardini. Jeod era di fronte a una donna snella e bionda, che Roran intuì essere Helen.


«Se quanto dici è vero, come puoi pretendere che mi fidi di te?»


«Non lo pretendo» rispose Jeod.


«Eppure mi chiedi di fuggire con te.»


«Una volta mi proponesti di lasciare la tua famiglia e di viaggiare con me senza meta. Mi implorasti di portarti via da Teirm.»


«Una volta. All'epoca pensavo che fossi terribilmente affascinante, con quella tua spada e la tua cicatrice.» «Ce le ho ancora» mormorò lui. «Ho fatto molti errori con te, Helen; soltanto adesso me ne rendo conto. Ma ti amo ancora e non voglio che ti accada nulla di male. Per me non c'è futuro qui. Se resto, provocherò soltanto sofferenze alla tua famiglia. Tu puoi tornare da tuo padre, o venire con me. Fa' quello che ti rende più felice. Tuttavia ti supplico di darmi una seconda opportunità, di avere il coraggio di lasciare questo posto e di liberarti dagli amari ricordi della nostra vita qui. Possiamo ricominciare daccapo nel Surda.»


Lei rimase in silenzio per lungo tempo. «Il giovane che è stato qui è davvero un Cavaliere?»


«Sì. Soffiano i venti del cambiamento, Helen. I Varden sono sul piede di guerra, i nani si stanno ammassando, e perfino gli elfi si muovono nei loro antichi eremi. La guerra è prossima, e se siamo fortunati, anche la caduta di Galbatorix.» «Sei una persona importante fra i Varden?»


«Mi tengono in una certa considerazione per il ruolo che


ho svolto nel rubare l'uovo di Saphira.»


«Allora ti offriranno una posizione di rilievo nel Surda?»


«Immagino di sì.» Le posò le mani sulle spalle, e lei non si sottrasse.


«Jeod, Jeod» mormorò lei, «non mettermi fretta. Non posso decidere così all'istante.»


«Ci penserai, allora?»


Helen rabbrividì. «Sì, ci penserò.»


Roran sentì una fitta di dolore al cuore.


Katrina.


Quella sera a cena, Roran notò che lo sguardo di Helen si posava spesso su di lui, come per studiarlo, prendergli le misure; e confrontarlo, ne era certo, con Eragon.


Dopo mangiato, Roran fece cenno a Mandel di seguirlo, e lo condusse nel cortile alle spalle della casa. «Cosa c'è, Fortemartello?» chiese Mandel.


«Desidero parlarti in privato.»


«Di cosa?»


Roran fece scorrere le dita sulla testa affilata del martello. Si accorse che si sentiva come Garrow, quando suo padre gli dava una lezione di responsabilità; Roran poteva addirittura sentire le stesse frasi che gli premevano in gola. Così avanza la nuova generazione sulla vecchia, pensò. «Ti sei fatto amico certi marinai, ultimamente.» «Non sono nostri nemici» obiettò Mandel.


«Chiunque è nostro nemico, a questo punto. Clovis e i suoi uomini potrebbero tradirci in un batter d'occhio. Non sarebbe un problema, comunque, se frequentarli non ti avesse distolto dai tuoi dovéri.» Mandel s'irrigidì e le guance gli si arrossarono, ma non si svilì agli occhi di Roran negando l'accusa. Compiaciuto, Roran gli chiese: «Qual è la cosa più importante che possiamo fare adesso, Mandel?»


«Proteggere le nostre famiglie.» «Giusto. E cos'altro?»


Mandel esitò, turbato, poi confessò: «Non lo so.»


«Aiutarci l'uno con l'altro. È l'unico modo che abbiamo per sopravvivere. Sono rimasto molto deluso nell'apprendere che ti sei giocato a dadi il cibo con quei marinai, perché questo mette a repentaglio tutto il villaggio. Impiegheresti meglio il tuo tempo andando a caccia, invece che giocando a dadi o imparando a tirare coltelli. Morto tuo padre, la responsabilità di tua madre e dei tuoi fratelli ricade su di te. Dipendono da te. Sono stato chiaro?» «Chiarissimo» rispose Mandel con voce strozzata.


«Mi prometti che questo non accadrà più?»


«Mai più!»


«Bene. Sappi che non ti ho portato qui soltanto per rimproverarti. In te vedo una promessa, ed è per questo che ti assegnerò un compito che non affiderei a nessun altro, se non a me stesso.»


«Sissignore!»


«Domattina devi tornare all'accampamento e consegnare un messaggio a Horst. Jeod è convinto che l'Impero abbia messo delle spie a sorvegliare questa casa, perciò è di vitale importanza che ti assicuri di non essere seguito. Aspetta di essere lontano dalla città, poi semina chiunque ti segua nella campagna. Uccidilo, se necessario. Quando troverai Horst, digli...» Mentre Roran gli spiegava le sue istruzioni, osservò l'espressione di Mandel mutare dalla sorpresa al terrore, e infine tingersi di timore reverenziale.


«E se Clovis si oppone?» chiese Mandel.


«In quel caso, durante la notte spezza i timoni delle chiatte perché non possano più governarle. È un vile espediente, ma sarebbe un disastro se Clovis o qualcuno dei suoi uomini arrivasse a Teirm prima di te.»


«Non permetterò che accada» giurò Mandel.


Roran sorrise. «Bene.» Soddisfatto di aver risolto la questione del comportamento di Mandel e sicuro che il giovanotto avrebbe fatto di tutto per consegnare il messaggio a Horst, Roran rientrò e augurò la buonanotte al padrone di casa, prima di andare a dormire.


Con l'eccezione di Mandel, Roran e i suoi compagni rimasero confinati nella residenza di Jeod per tutto il giorno seguente, approfittandone per riposare, affilare le armi e ripassare la strategia.


Dall'alba al tramonto, qualche volta scorsero Helen che si affaccendava da una stanza all'altra, molto più spesso il maggiordomo Rolf con i suoi denti scintillanti simili a perle lustrate, ma nemmeno una volta Jeod, perché il mercante si era recato in città per incontrare, fingendo che fosse per caso, i pochi uomini di mare di cui si fidava per la spedizione. Al suo ritorno, disse a Roran: «Possiamo contare su altri


cinque marinai. Spero solo che bastino.» Jeod rimase nel suo studio per il resto della serata, a redigere vari documenti legali e a occuparsi dei suoi affari.


Tre ore prima dell'alba, Roran, Loring, Brigit, Gertrude e Nolfavrell si alzarono e ricacciando indietro prodigiosi sbadigli si riunirono nell'ingresso, dove indossarono lunghi mantelli col cappuccio per nascondere il viso. Uno stocco pendeva al fianco di Jeod quando si unì a loro, e Roran pensò che la spada sottile in qualche modo completava l'uomo snello dalle gambe lunghe, come per ricordare a Jeod chi era in realtà.


Jeod accese una lanterna a olio e la levò davanti a sé. «Siamo pronti?» disse. I cinque annuirono. Jeod aprì la porta e gli altri uscirono in fila sulla strada deserta. Dietro di loro, Jeod indugiò nell'ingresso, scoccando un'occhiata struggente alle scale, ma Helen non comparve. Con un brivido, Jeod lasciò la sua casa e chiuse la porta. Roran gli mise una mano sul braccio. «Quel che è fatto è fatto.»


«Lo so.»


Corsero fra le vie ancora buie della città, fermandosi come un muro compatto ogniqualvolta incontravano una pattuglia di ronda o altre creature della notte, che si dileguavano non appena li vedevano. A un tratto sentirono dei passi sul tetto di un edificio vicino. «La conformazione di Teirm» spiegò Jeod «rende più facile ai ladri arrampicarsi da un tetto all'altro.»


Rallentarono solo quando giunsero in vista del cancello est della città. Poiché il cancello affacciava sul porto, veniva chiuso soltanto quattro ore per notte, per non intralciare troppo i traffici commerciali. In effetti, malgrado l'ora, già parecchia gente affollava il varco.


Anche se Jeod li aveva avvertiti che sarebbe potuto accadere, Roran fu colto dal panico quando le guardie incrociarono le picche e vollero sapere chi fossero. Roran si umettò le labbra e cercò di non mostrarsi allarmato, mentre la sentinella più anziana esaminava una pergamena che Jeod gli aveva porto. Dopo un interminabile minuto, la guardia annuì e restituì il rotolo. «Potete passare.»


Una volta giunti al porto, lontani da orecchie indiscrete, Jeod disse: «Una vera fortuna che quello non sapesse leggere.»


I sei aspettarono sul pontile umido finché, uno dopo l'altro, gli uomini di Jeod non emersero dalla grigia nebbia che aleggiava sulla costa. Erano individui torvi e taciturni, con lunghe trecce che pendevano loro sulla schiena, mani annerite dal catrame e un assortimento di cicatrici che incutevano rispetto persino a Roran. Gli piacque ciò che vide, e capì che anche loro lo approvavano. Ma non fu lo stesso per Brigit.


Uno dei marinai, un omaccione grande e grosso, la indicò col pollice e accusò Jeod: «Non ci avevi detto che ci sarebbe stata anche una femmina. Come faccio a concentrarmi per combattere se mi ritrovo quella montanara stracciona fra i piedi?»


«Non parlare di lei in questo modo» sibilò Nolfavrell a denti stretti.


«E pure il marmocchio?»


Con voce calma, Jeod rispose: «Brigit ha combattuto i Ra'zac. E suo figlio ha già ucciso uno dei migliori soldati di Galbatorix. Tu puoi vantare lo stesso, Uthar?»


«Non è giusto» disse un altro uomo. «Io non mi sento al sicuro con una donna accanto; portano sfortuna. Una signora non dovrebbe...»


Qualunque cosa stesse per dire andò perduta, perché in quell'istante Brigit fece una cosa assai poco femminile. Con un gesto fulmineo, sferrò un calcio all'inguine di Uthar, poi afferrò il secondo uomo per un braccio, premendogli il coltello alla gola. Lo tenne in quella posizione per qualche istante, perché tutti potessero vedere, poi lo liberò. Uthar si rotolava sul pontile, con le mani strette fra le gambe, vomitando un fiume di imprecazioni.


«Qualche altra obiezione?» chiese Brigit. Al suo fianco, Nolfavrell fissava la madre a bocca aperta. Roran si calò il cappuccio sul volto per nascondere un ghigno divertito. Per fortuna non hanno notato Gertrude, pensò.


Nessun altro osò sfidare Brigit e Jeod disse: «Avete portato quello che ho chiesto?» Gli uomini estrassero dalle camicie un randello e un rotolo di corda ciascuno.


Così armati, s'incamminarono lungo la banchina verso l'Ala di Drago, facendo del loro meglio per non essere visti. Jeod tenne la lanterna chiusa tutto il tempo. Vicino al molo, si nascosero dietro un magazzino e videro le due lanterne portate dalle sentinelle sobbalzare sul ponte della nave. La passerella era tolta per la notte.


«Ricordate» mormorò Jeod, «la cosa fondamentale è impedire che l'allarme suoni prima che siamo pronti a salpare.» «Due uomini sopracoperta, due uomini sottocoperta, giusto?» chiese Roran.


Uthar rispose: «Di solito è così.»


Roran e Uthar si denudarono fino alla cintola, si legarono la corda e i randelli in vita - Roran lasciò indietro il martello - e poi corsero lungo il molo, lontani dalla visuale delle sentinelle, dove si immersero nell'acqua gelida. «Brr, quanto odio farlo» protestò Uthar tra i denti.


«L'hai già fatto altre volte?»


«Quattro, con questa. Non smettere di muoverti o ti congelerai.»


Passando da un pilone viscido all'altro, tornarono a nuoto da dove erano venuti fino a raggiungere il molo di pietra che portava all'Ala di Drago, poi deviarono a destra. Uthar avvicinò le labbra all'orecchio di Roran. «Io prendo l'ancora di dritta.» Roran annuì.


Si tuffarono entrambi sotto l'acqua nera, poi si divisero. Uthar nuotò come una rana sotto la prua della nave, mentre Roran andò dritto all'ancora di sinistra e si aggrappò alla pesante catena. Slegò il randello dalla cintura e lo strinse fra i denti - sia per impedire a questi di battere, sia per avere le mani libere - e aspettò. Il metallo gli sottraeva il calore dalle mani come ghiaccio.

Nemmeno tre minuti dopo, Roran sentì il rumore degli stivali di Brigit passargli sulla testa, mentre la donna si spostava dall'altro lato del molo, oltre la mezzanave, e poi udì la sua voce fievole avviare una conversazione con le sentinelle. Se tutto andava bene, avrebbe distolto la loro attenzione dalla prua.


Ora!


Roran si arrampicò lungo la catena. La spalla destra gli bruciava, dove il Ra'zac lo aveva morso, ma resistette al dolore. Dall'occhio di cubia dove passava la catena dell'ancora, si issò su una delle travi che sostenevano la polena dipinta, scavalcò la murata e atterrò sul ponte. Uthar era già lì, gocciolante e col fiato grosso.


Con i randelli in pugno, strisciarono verso poppa, nascondendosi in ogni anfratto. Si fermarono a meno di dieci passi dalle sentinelle. I due uomini erano affacciati al parapetto, intenti a scambiare quattro chiacchiere con Brigit. In un lampo, Roran e Uthar uscirono allo scoperto e colpirono le sentinelle sulla testa prima che potessero sguainare le sciabole. Sul molo, Brigit fece segno a Jeod e agli altri, e insieme sollevarono la passerella, per poi farla scivolare sulla nave, dove Uthar l'assicurò al parapetto.


Quando Nolf avrell corse a bordo, Roran gli lanciò la sua fune e disse: «Lega e imbavaglia quei due.» Tutti, tranne Gertrude, scesero sottocoperta in cerca degli altri uomini di guardia. Trovarono altri quattro membri dell'equipaggio - il commissario, il nostromo, il cuoco e il suo assistente - che furono tutti buttati giù dalle brande, tramortiti se resistevano, e poi legati con cura. Anche in questo caso Brigit dimostrò il suo valore, neutralizzando due uomini da sola.


Jeod fece portare gli sventurati prigionieri sul ponte, per poterli tenere d'occhio, poi dichiarò: «Abbiamo ancora molto da fare, e poco tempo. Roran, da questo momento Uthar è il comandante dell'Ala di Drago. Tu e gli altri prenderete ordini da lui.»


Nelle due ore successive, la nave fu un brulicare di attività. I marinai si occuparono delle sartie e delle vele, mentre Roran e i suoi compagni svuotavano la stiva di ogni mercé superflua, come le balle di lana grezza. Invece di gettarle fuori bordo, le calarono lentamente in acqua, perché nessuno udisse i tonfi. Se l'intero villaggio doveva trovare posto a bordo dell'Ala di Drago, era necessario sgombrare più spazio possibile.


Roran stava assicurando una fune intorno a un barile, quando udì un grido rauco: «Arriva qualcuno!» Tutti coloro che si trovavano sul ponte, tranne Jeod e Uthar, si distesero ventre a terra e impugnarono le armi. I due uomini rimasti in piedi cominciarono a camminare sul ponte come se fossero le sentinelle. Il cuore martellava nel petto di Roran che giaceva immobile, chiedendosi che cosa stava per accadere. Trattenne il fiato quando Jeod si rivolse all'intruso... poi riecheggiarono dei passi sulla passerella.


Era Helen.


Indossava un abito semplice e teneva i capelli raccolti sotto un fazzoletto; in spalla portava una sacca di tela. Senza dire una parola, scese a portare le sue cose nella cabina principale, poi tornò per mettersi al fianco di Jeod. Roran non aveva mai visto un uomo più felice.


Il cielo sulle lontane vette della Grande Dorsale aveva appena cominciato a rischiararsi quando uno dei marinai arrampicati sulle sartie puntò un dito verso nord e lanciò un fischio per indicare che aveva individuato gli abitanti del villaggio.


Roran accelerò i movimenti. Il tempo era agli sgoccioli. Corse al parapetto e scrutò la linea scura di gente che avanzava lungo la costa. Questa parte del piano dipendeva dal fatto che, al contrario delle altre città costiere, le mura esterne di Teirm non erano aperte sul mare, ma cingevano completamente la città per proteggerla dai frequenti attacchi dei pirati. Questo significava che la zona vicina al porto era transitabile senza passare per nessun cancello, e che gli abitanti di Carvahall potevano arrivare dritti all'Ala di Drago.


«Svelti! Sbrigatevi!» disse Jeod.


Su ordine di Uthar, i marinai arrivarono con le braccia cariche di giavellotti per le grandi baliste montate sul ponte, e con barili di pece dall'odore acre che spalmarono sulla metà superiore dei dardi. Poi tesero e caricarono le baliste sul lato di dritta; ci vollero due uomini per tendere ciascuna corda e agganciarla al fermo.


Gli abitanti del villaggio avevano percorso due terzi del tragitto fino alla nave, quando le sentinelle di ronda sulle mura di Teirm li individuarono e suonarono l'allarme. Ancor prima che svanisse la prima nota, Uthar urlò: «Accendete e tirate!»


Correndo da una balista all'altra, Nolfavrell incendiò la pece dei giavellotti con la fiamma della lanterna di Jeod. Nel momento in cui il dardo prendeva fuoco, l'uomo alla balista liberava la corda e il giavellotto schizzava con un sonoro schiocco. In tutto, dodici dardi infuocati partirono dall'Ala di Drago e colpirono le navi e gli edifici della baia come ruggenti meteore incandescenti piovute dal cielo.


«Ricaricate!» gridò Uthar.


Lo scricchiolio del legno piegato echeggiava nell'aria, mentre gli uomini tendevano le corde. Una seconda batteria di giavellotti fu collocata sulle baliste, e ancora una volta Nolfavrell fece il giro con la lanterna. Roran sentì la vibrazione sotto i piedi quando la balista davanti a lui scagliò il suo mortale proiettile.


L'incendio si propagò in rapida successione lungo il porto, formando una barriera impenetrabile che impediva ai soldati di raggiungere l'Ala di Drago dal cancello est di Teirm. Roran aveva contato sulla colonna di fumo per nascondere la nave agli arcieri sui bastioni, ma era ancora troppo sottile; un nugolo di frecce piovve fra le sartie, e un dardo si conficcò sul tavolato a un soffio da Gertrude prima che i soldati perdessero di vista la nave.


Dalla prua, Uthar gridò: «Fuoco a volontà!»


Nel frattempo, gli abitanti di Carvahall avevano raggiunto la spiaggia e correvano alla rinfusa; quando i primi arrivarono alla banchina, alcuni inciamparono e caddero, mentre gli arcieri di Teirm cambiavano bersaglio. I bambini strillavano terrorizzati. Poi i profughi ripresero la corsa, facendo vibrare le assi del pontile; superarono un magazzino in fiamme e si riversarono sul molo. La folla ansimante prese d'assalto la nave in una massa confusa di corpi che si spintonavano.


Brigit e Gertrude guidarono la fiumana di gente attraverso i boccaporti di prua e di poppa. In pochi minuti, ogni ponte della nave fu occupato, dalla stiva alla cabina del comandante. Quelli che non trovarono posto sottocoperta rimasero rannicchiati sul ponte, coprendosi la testa con gli scudi di Fisk.


Come Roran aveva chiesto nel suo messaggio, tutti gli uomini abili di Carvahall si ammassarono intorno all'albero di maestra, in attesa di istruzioni. Roran vide Mandel fra loro, e gli fece un cenno di approvazione.


Poi Uthar indicò un marinaio e latrò: «Tu, laggiù, Bonden! Porta questa marmaglia agli argani e levate le ancore, poi scendete ai remi. Di corsa!» Al resto degli uomini alle baliste, ordinò: «Metà Respingete chiunque tenti di abbordarci.»


Roran fu tra quelli che cambiarono murata. Mentre preparava la balista, uno barcollando dal fumo denso e salì sulla nave. Jeod ed Helen trascinarono i sei prigionieri verso la passerella, e uno per uno li fecero rotolare sul molo.


In un batter d'occhio, le ancore furono levate, le cime che assicuravano la passerella tagliate, e un tamburo risuonò sotto le assi del ponte, per dare il tempo ai rematori. Seppur lentamente, l'Ala di Drago virò a dritta verso il mare aperto, poi, a velocità crescente, si allontanò dal molo.


Roran accompagnò Jeod al casseretto, dove osservarono l'inferno cremisi che divorava ogni cosa fra Teirm e l'oceano. Al di là della cortina di fumo, il sole sorse come un disco opaco color del sangue.


Quanti ne avrò uccisi, adesso? si chiese Roran.


Come leggendogli nella mente, Jeod osservò: «Molti innocenti soffriranno.»


Il senso di colpa spinse Roran a rispondere con più veemenza di quanta avrebbe voluto. «Preferiresti trovarti nelle prigioni di Lord Risthart? Dubito che l'incendio provocherà molte vittime, e i feriti non affronteranno la morte, come accadrebbe a noi se l'Impero ci catturasse.»


«Non c'è bisogno che mi insegni la lezione, Roran. La conosco fin troppo bene. Abbiamo fatto quello che dovevamo. Solo, non chiedermi di provare piacere per le sofferenze che abbiamo causato per salvarci la pelle.» A mezzogiorno, i remi vennero tirati a bordo e l'Ala di Drago cominciò a veleggiare, sospinta dai venti favorevoli che spiravano da nord. Le sartie vibravano al vento con un basso ronzio.


La nave era sovraffollata, ma Roran era fiducioso che con un'attenta organizzazione sarebbero arrivati nel Surda col minimo disagio. Il peggior inconveniente erano le razioni limitate; se non volevano morire di stenti, il cibo avrebbe di voi passi alle baliste di sinistra.

sparuto gruppo di ritardatari uscì dovuto essere distribuito in esigue porzioni. E con tutta quella gente stipata, le malattie erano una possibilità tutt'altro che remota.


Dopo che Uthar ebbe pronunciato un breve discorso sull'importanza della disciplina a bordo, i contadini si apprestarono a svolgere le attività più urgenti, come curare i feriti, disfare i loro miseri bagagli e sfruttare al meglio lo spazio per poter improvvisare giacigli per tutti. Inoltre vennero assegnati loro i diversi compiti: qualcuno avrebbe cucinato, altri avrebbero imparato a fare il marinaio con la guida degli uomini di Uthar, e così via. Roran stava aiutando Elain ad appendere un'amaca quando rimase coinvolto in un'accesa discussione fra Odele, la sua famiglia e Frewin, che aveva disertato la chiatta di Torson per stare con la ragazza. I due volevano sposarsi, ma i genitori di Odele si opponevano strenuamente, sostenendo che il giovane marinaio non aveva una famiglia, una professione rispettabile e i mezzi per garantire alla figlia una vita dignitosa. Roran era dell'opinione che la coppia di innamorati dovesse restare insieme - in fin dei conti, era impensabile cercare di tenerli separati dal momento che si trovavano sulla stessa nave - ma i genitori di Odele si rifiutavano di dargli ascolto.


Frustrato, Roran esclamò: «Che intendete fare, allora? Non potete metterla sotto chiave, e credo che Frewin abbia dimostrato la sua devozione in più...»


«Ra'zac!»


Il grido venne dalla coffa.


Senza pensarci due volte, Roran si sfilò il martello dalla cintura, si volse e risalì di corsa la scaletta del boccaporto di prua, sbucciandosi un ginocchio. Si fece largo tra la folla assiepata sul casseretto e si fermò al fianco di Horst. Il fabbro puntò un dito.


Una delle ributtanti cavalcature dei Ra'zac sorvolava la linea di costa come un'ombra sfilacciata, con un Ra'zac in groppa. Vedere i due mostri alla luce del giorno non diminuiva affatto l'orrore che ispiravano a Roran. Trasalì quando la creatura alata emise il suo grido terrificante, e poi la voce da insetto del Ra'zac volò sull'acqua, fievole ma distinta: «Non ci sssfuggirete!»


Roran guardò le baliste, ma non poteva girarle abbastanza da mirare al Ra'zac o alla sua cavalcatura. «Qualcuno ha un arco?»


«Sì, io» disse Baldor. Si appoggiò su un ginocchio e cominciò a incordare l'arma. «Fate che non mi veda.» Tutti quelli che erano sul casseretto si strinsero in cerchio intorno a Baldor, facendogli scudo con i propri corpi dallo sguardo malevolo del Ra'zac.


«Perché non attaccano?» ringhiò Horst.


Perplesso, Roran cercò di trovare una spiegazione, invano. Fu Jeod che suggerì: «Forse c'è troppa luce per loro. I Ra'zac vanno a caccia di notte, e per quanto ne so non abbandonano volentieri le loro tane finché c'è ancora sole nel cielo.»


«Non è soltanto questo» intervenne Gertrude. «Credo che abbiano paura dell'oceano.»


«Paura dell'oceano?» le fece eco Horst, accigliato.


«Guardateli. Non osano avanzare per più di una iarda sull'acqua.»


«Ha ragione!» esclamò Roran. Almeno una debolezza che potrò usare contro di loro!


Qualche secondo dopo, Baldor disse: «Pronto!»


La muraglia umana che lo proteggeva si aprì di colpo, sgombrandogli la mira. Baldor scattò in piedi, avvicinò l'impennaggio alla guancia e scoccò la freccia.


Fu un lancio eroico. Il Ra'zac era al limite della gittata di un arco normale - molto più distante di qualsiasi bersaglio che Roran avesse visto colpire da un arciere - ma Baldor non fallì. La sua freccia colpì la creatura volante al fianco destro, e la bestia lanciò un grido di dolore così potente da infrangere i vetri sul ponte e spaccare le pietre sulla riva. Roran si coprì le orecchie con le mani per proteggerle dal grido feroce. Ancora gridando, il mostro invertì la rotta e si diresse verso l'entroterra per sparire dietro una fila di colline nebbiose.


«L'hai ucciso?» chiese Jeod, pallido in volto.


«Temo di no» rispose Baldor. «Credo di averlo soltanto ferito.»


Loring, che era appena arrivato, osservò con soddisfazione: «Già, ma almeno l'hai colpito, e scommetto che ci penseranno due volte prima di darci ancora fastidio.»


Con un'espressione tetra, Roran disse: «Risparmiati il trionfo per dopo, Loring. Non è stata una vittoria.» «Perché no?» disse Horst.


«Perché adesso l'Impero sa esattamente dove ci troviamo.» Sul casseretto calò il silenzio, mentre tutti riflettevano sulle implicazioni delle sue parole.

Una bambina intraprendente

E questo» disse Trianna «è l'ultimo modello che abbiamo realizzato.» Nasuada prese il velo nero dalle mani della maga e se lo fece scorrere piano piano fra le dita, ammirandone la qualità. Nessun umano avrebbe potuto produrre un merletto così fine. Guardò con soddisfazione le scatole sulla sua scrivania, che contenevano i campioni dei diversi modelli creati dal Du Vrangr Gata. «Ottimo lavoro» disse. «Molto meglio di quanto sperassi. Di' ai tuoi stregoni che mi compiaccio del loro lavoro. Significa molto per i Varden.»


Trianna chinò il capo, lusingata. «Riferirò loro il tuo messaggio, ledy Nasuada.»


«Hanno...»


Un trambusto alla porta dei suoi appartamenti interruppe Nasuada. Sentì le guardie che imprecavano e alzavano la voce, poi un grido di dolore. L'urto di metallo contro metallo risuonò nel corridòio. Nasuada si allontanò dalla porta, in allarme, sguainando il pugnale.


«Fuggì, mia signora!» disse Trianna. La maga si parò davanti a Nasuada e si rimboccò le maniche, scoprendo le bianche braccia per prepararsi a combattere con la magia. «Usa la porta della servitù.»


Ma prima che Nasuada riuscisse a fare un solo passo, la porta principale si spalancò di colpo e una piccola figura la placcò alle ginocchia, gettandola a terra. Nello spazio dove si trovava Nasuada una frazione di secondo prima, sfrecciò un oggetto argenteo che si andò a conficcare nella parete di fondo con un tonfo sordo.


I quattro uomini di guardia si precipitarono nello studio e, nella confusione, Nasuada sentì che la liberavano dal suo aggressore. Quando si rialzò, vide che tenevano stretta la piccola Elva.


«Che significa?» domandò, ansante.


La ragazzina dai capelli neri sorrise, poi si piegò in due e vomitò sul prezioso tappeto. Quando si riprese, guardò Nasuada con i suoi occhi violetti e con voce terribile e colma di saggezza disse: «Fai esaminare il muro dalla tua maga, figlia di Ajihad, e vedi se non ho mantenuto la mia promessa.»


Nasuada fece un cenno a Trianna, che si avvicinò al foro nella parete e mormorò un incantesimo. Tornò tenendo in mano un piccolo dardo metallico. «Era incastrato nel legno.» «Ma da dove veniva?» chiese Nasuada, sconvolta. Trianna indicò la finestra aperta che si affacciava sulla città di Aberon. «Da qualche parte là fuori, immagino.» Nasuada rivolse la sua attenzione alla bambina. «Cosa sai di questa storia, Elva?»


L'orribile sorriso della bambina si allargò. «Era un sicario.»


«Chi lo ha mandato?»


«Un sicario addestrato da Galbatorix in persona nell'uso oscuro della magia.» Le palpebre le calarono sugli occhi ardenti, come se fosse in trance. «Quell'uomo ti odia. È venuto per te. Ti avrebbe uccisa se non fossi intervenuta.» Il suo corpo si contorse in uno spasmo e la bambina vomitò di nuovo, spargendo il contenuto del suo stomaco sul pavimento. Nasuada ebbe un conato di disgusto. «E soffrirà molto per questo.»


«Perché?»


«Perché ti informo che alloggia nell'ostello della strada del Tempio, nell'ultima stanza, all'ultimo piano. Sarà meglio che vi affrettiate, altrimenti scapperà... scapperà...» Gemette come una bestia ferita e si strinse la pancia. «Sbrigatevi, prima che l'incantesimo di Eragon mi costringa a impedirvi di fargli del male. Te ne pentiresti!»


Trianna si stava già muovendo quando Nasuada disse: «Riferisci a Jòrmundur quanto è successo, poi prendi i tuoi stregoni più potenti e rintraccia quell'uomo. Catturatelo vivo, se potete. Altrimenti, uccidetelo.» Quando la maga se ne fu andata, Nasuada guardò le sue guardie e vide che molti perdevano sangue da piccole ferite. Si rese conto di quale sforzo era costato a Elva far loro del male. «Andate» disse agli uomini. «Trovate un guaritore che vi curi quelle ferite.» I soldati scossero il capo, e il capitano disse: «No, mia signora. Resteremo al tuo fianco finché non saremo sicuri che tu non corra più alcun pericolo.»


«Come vuoi, capitano.»


Gli uomini sbarrarono le finestre, aumentando il calore già opprimente che affliggeva il Castello Farnaci, poi tutti si ritirarono nelle stanze più interne per prudenza.


Nasuada camminava avanti e indietro, col cuore in tumulto: solo ora si rendeva conto di quanto era stata vicina alla morte. Che cosa accadrebbe ai Varden se io morissi? s'interrogò. Chi sarebbe il mio successore? Era sgomenta; non aveva lasciato disposizioni ai Varden in caso di sua morte, una negligenza che avrebbe potuto trasformarsi in un disastro di proporzioni immani. Non permetterò che i Varden precipitino nel caos perché ho mancato di prendere precauzioni!


Si fermò. «Sono in debito con te, Elva.»


«Ora e sempre.»


Nasuada trasalì, sconcertata come sempre dalle risposte della bambina, poi continuò: «Mi rincresce di non aver ordinato alle mie guardie di lasciarti passare in qualsiasi momento, giorno e notte. Avrei dovuto prevedere una cosa del genere.»


«Avresti dovuto» ripete Elva, in tono vagamente ironico.


Lisciandosi il davanti della veste, Nasuada ricominciò a misurare la stanza a grandi passi, sia per sfuggire alla vista del volto di Elva, pallido e marchiato dal drago, sia per dissipare la tensione. «Come hai fatto a uscire dalle tue stanze senza compagnia?»


«Ho detto alla mia domestica, Greta, quello che voleva sentirsi dire.»


«Tutto qui?»


Elva ammiccò. «L'ho resa molto felice.»


«E Angela?»


«È uscita stamattina per una commissione.»


«Be', comunque sia, avrai per sempre la mia gratitudine. Chiedimi qualsiasi cosa, e per quanto mi sarà possibile, te la concederò.»


Elva fece scorrere lo sguardo violetto intorno alla stanza, poi disse: «Hai qualcosa da mangiare? Ho tanta fame...»

Venti di guerra

Due ore più tardi, Trianna tornò, seguita da una coppia di soldati che trascinavano fra loro un corpo inerte. A un cenno di Trianna, gli uomini lasciarono cadere il corpo a terra. La maga disse: «Abbiamo trovato il sicario dove aveva detto Elva. Si chiamava Drail.»


Spinta da una curiosità morbosa, Nasuada esaminò il volto dell'uomo che aveva tentato di ucciderla. Il sicario era basso e tarchiato, aveva la barba ed era d'aspetto insignificante, come centinaia di altri uomini che vagavano per la citta. In uno strano senso, si sentiva accomunata a lui, come se il tentativo di ucciderla, e il fatto che lei avesse in cambio ordinato la sua eliminazione, in qualche modo li legasse intimamente. «Com'è morto?» chiese. «Non vedo segni sul cadavere.»


«Si è suicidato con la magia quando abbiamo travolto le sue difese e siamo entrati nella sua mente, appena prima che riuscissimo a prendere il controllo delle sue azioni.»


«Siete riusciti a cogliere qualche informazione utile prima che morisse?»


«Sì. Drail faceva parte di una rete di agenti infiltrati qui nel Surda, fedeli a Galbatorix. Si chiamano la Mano Nera. Ci spiano, sabotano i nostri sforzi e da quanto siamo riusciti a determinare dal fugace sguardo ai suoi ricordi, sono responsabili di decine di omicidi fra i Varden. A quanto pare, aspettavano l'occasione giusta per eliminarti fin da quando siamo arrivati dal Farthen Dùr.»


«Perché questa Mario Nera non ha ancora ucciso re Orrin?»


Trianna si strinse nelle spalle. «Non saprèi. Può darsi che Galbatorix ti consideri più pericolosa di Orrin. Se fosse questo il caso, quando la Mano Nera si renderà conto che sei protetta dai loro attentati...» il suo sguardo si posò per un istante su Elva, «... Orrin non sopravviverà un altro mese, se non verrà sorvegliato dagli stregoni giorno e notte. Oppure Galbatorix si è astenuto da un'azione così clamorosa perché voleva che la Mano Nera restasse segreta. Finora il Surda è sopravvissuto per la sua tolleranza. Ora che è diventato una minaccia...»


«Puoi proteggere anche Orrin?» chiese Nasuada, rivolgendosi a Elva.


I suoi occhi violetti scintillarono. «Se me lo chiede con garbo.»


Nasuada si arrovellò nel tentativo di trovare il modo di difendersi da questa nuova minaccia. «Tutti gli agenti di Galbatorix sono in grado di usare la magia?»


«La mente di Drail era confusa, perciò è difficile stabilirlo» disse Trianna, «ma suppongo che un discreto numero lo sia.»


Magia, imprecò Nasuada fra sé. Per i Varden il maggior pericolo rappresentato dagli stregoni - o da chiunque fosse stato addestrato a usare la propria mente - non era tanto l'assassinio quanto lo spionaggio. Gli stregoni sapevano spiare i pensieri altrui e raccogliere informazioni da usare per distruggere i Varden. Era questo il motivo per cui Nasuada e gli altri vertici dei Varden erano stati addestrati a capire quando qualcuno tentava di toccar loro la mente e a schermarla da simili attenzioni. Nasuada sospettava che Orrin e Rothgar adottassero analoghe precauzioni all'interno dei propri governi.


Tuttavia, poiché era impossibile che tutti coloro che


avevano accesso a informazioni potenzialmente pericolose possedessero quella facoltà, uno dei tanti incarichi del Du Vrangr Gata era rintracciare chiunque tentasse di carpire informazioni non appena entrava nella mente delle persone. Il prezzo di questa vigilanza era che il Du Vrangr Gata finiva per spiare i Varden quanto i nemici, un fatto che Nasuada badava bene a nascondere al grosso della popolazione, perché non avrebbe suscitato altro che malanimo, odio e diffidenza. Non le piaceva, ma non vedeva alternative.


Quello che aveva saputo sulla Mano Nera rafforzò le sue convinzioni: in qualche modo, gli stregoni dovevano essere controllati.


«Perché» chiese «non l'avete scoperto prima? Posso capire che vi sia sfuggito un sicario isolato, ma un'intera rete di stregoni votata alla nostra distruzione? Dammi una spiegazione, Trianna.»


Gli occhi della maga fiammeggiarono all'accusa. «Perché qui, al contrario che nel Farthen Dùr, non possiamo esaminare tutte le menti in cerca di impostori. La popolazione è troppo numerosa per controllare tutti. Ecco perché non abbiamo saputo niente della Mano Nera finora, ledy Nasuada.»


Nasuada tacque per qualche istante, poi chinò il capo. «Capisco. Avete identificato altri membri della Mano Nera?» «Qualcuno.»


«Bene. Usateli per stanare il resto degli agenti. Voglio che distruggiate l'organizzazione per me, Trianna. Eliminali come faresti con un'infestazione di parassiti. Ti darò tutti gli uomini di cui avrai bisogno.»


La maga s'inchinò. «Come desideri, ledy Nasuada.»


Qualcuno bussò alla porta, e le guardie sguainarono le spade e si disposero ai lati della soglia, mentre il capitano apriva la porta di colpo. Si trovò davanti un giovane paggio, con il pugno ancora alzato per bussare di nuovo. Il ragazzo guardò attonito il cadavere sul pavimento per poi voltarsi di scatto quando il capitano gli chiese: «Cosa c'è, ragazzo?» «Un messaggio per ledy Nasuada da parte di re Orrin.»


«Allora parla» disse Nasuada.


Il paggio impiegò un momento per ricomporsi. «Re Orrin ti invita a recarti subito nella sala consiliare, perché ha ricevuto notizie dall'Impero che richiedono la tua immediata attenzione.»


«È tutto?»


«Sì, signora.»


«Devo andare. Trianna, sai cosa fare. Capitano, ordinate a uno dei vostri uomini di sbarazzarsi di Drail.» «Sì, mia signora.»


«E fategli cercare Farica, la mia ancella. Provvedere lei a pulire il mio studio.» «E io?» chiese Elva, alzando la testolina nera.


«Tu» disse Nasuada «mi accompagnerai. Se ti senti abbastanza in forze, s'intende.»


La bambina gettò indietro la testa e dalla boccuccia rotonda emise una gelida risata. «Io sono forte, Nasuada. E tu?» Ignorando la domanda, Nasuada uscì in corridòio, scortata dalle sue guardie. Le pietre del castello emanavano un forte odore di terra nella calura. Alle sue spalle, Nasuada sentiva i passettirii affrettati di Elva, e provò una sorta di piacere perverso per il fatto che la terrificante bambina dovesse correre per tenere il passo con la lunga falcata degli adulti. Le guardie si fermarono nel vestibolo della sala consiliare, mentre Nasuada ed Elva proseguirono. La sala era spoglia e austera, e rifletteva la natura militare del Surda. I re del paese avevano preferito spendere le loro risorse per proteggere la popolazione e opporsi a Galbatorix più che per decorare il Castello Farnaci con una profusione di ricchezze, come avevano fatto i nani a Tronjheim.


Al centro della sala consiliare c'era un tavolo di legno grezzo, lungo dodici piedi, su cui era distesa una mappa di Alagaèsia, con i quattro angoli fissati da un pugnale. Come di consueto, Orrin sedeva a capotavola, mentre i vari ministri - molti dei quali, sapeva Nasuada, le erano apertamente ostili - occupavano le sedie in fondo. Era presente anche il Consiglio degli Anziani. Nasuada notò l'espressione preoccupata di Jòrmundur quando la vide, e intuì che Trianna doveva averlo messo già al corrente.


«Sire, hai chiesto di me?»


Orrin si alzò. «Sì, ledy Nasuada. Abbiamo appena...» S'interruppe quando scorse Elva dietro di lei. «Ah, sì, Fronte Splendente. Non ho avuto ancora l'opportunità di darti udienza, anche se ho molto sentito parlare di te. Devo confessare che ero piuttosto curioso di conoscerti. Hai trovato di tuo gradimento gli alloggi che ti ho assegnato?» «Sono alquanto confortevoli, sire. Ti ringrazio.» Nel sentire quella voce innaturale, la voce di un'adulta per bocca di una bambina, tutti i presenti sussultarono.


Irwin, il primo ministro, si alzò di scatto e puntò un dito tremante contro Elva. «Perché hai portato questa... questa aberrazione fra di noi?»


«Dimentichi le buone maniere, ministro» rispose Nasuada, pur comprendendo le ragioni di Irwin. Orrin aggrottò la fronte. «Sì, contieniti, Irwin. Tuttavia la sua obiezione è valida, Nasuada. La bambina non può assistere alle nostre riunioni.»


«L'Impero» disse Nasuada «ha appena tentato di assassinarmi.» La sala echeggiò di esclamazioni di sorpresa. «Se non fosse stato per l'intervento tempestivo di Elva, a quest'ora sarei morta. Quindi gode della mia piena fiducia; dove vado io, viene lei.» Che si chiedano pure che cosa Elva è in grado di fare.


«È una notizia sconvolgente!» esclamò il re. «Avete catturato il responsabile?»


Notando le espressioni bramose dei ministri, Nasuada esitò. «Preferirei parlartene in privato, sire.» Orrin parve contrariato dalla risposta, ma decise di non insistere. «D'accordo. Ma siediti, prego! Abbiamo appena ricevuto un rapporto inquietante.» Quando Nasuada ebbe preso posto di fronte a lui - con Elva in piedi alle sue spalle il re continuò: «Pare che le nostre spie a Gil'ead siano state indotte in errore circa l'entità dell'esercito di Galbatorix.» «Ossia?»


«Loro ritengono che l'esercito si trovi a Gil'ead, mentre abbiamo qui una lettera di un nostro infiltrato a Urù'baen, che avrebbe visto un'enorme milizia marciare oltre la capitale verso sud una settimana e mezzo fa. Era notte, per cui non ha potuto stabilire il numero con precisione, ma è sicuro che fossero molti di più dei sedicimila soldati che compongono il nucleo delle truppe di Galbatorix. Potrebbero essere addirittura centomila, se non di più.»


Centomila soldati! Nasuada si sentì sprofondare il cuore in un pozzo gelido. «Possiamo fidarci della tua fonte?» «I suoi rapporti sono sempre stati attendibili.»


«Non capisco» disse Nasuada. «Come ha fatto Galbatorix a mobilitare tanti uomini senza che noi ne avessimo sentore? Soltanto i convogli delle salmerie dovevano essere lunghi miglia e miglia. Sapevamo che l'esercito si stava muovendo, ma l'Impero era ben lungi dal poterlo schierare.»


Intervenne Falberd, picchiando il pugno sul tavolo. «Siamo stati ingannati. Le nostre spie devono essere state tratte in errore con la magia, perché pensassero che i soldati fossero ancora nelle caserme di Gil'ead.»


Nasuada si sentì gelare il sangue nelle vene. «L'unico in grado di sostenere un'illusione di questa portata e durata...» «È Galbatorix in persona» concluse Orrin. «Anche noi siamo giunti alla stessa conclusione. Significa che Galbatorix è finalmente uscito allo scoperto per uno scontro diretto. Il nero nemico si avvicina.»


Irwin prese la parola. «La domanda adesso è come reagire. Certo, dobbiamo affrontare la minaccia, ma in che modo? Dove, quando e come? Le nostre milizie non sono pronte per una campagna di questa portata, mentre i tuoi uomini, ledy Nasuada, i Varden, sono già abituati al feroce clamore della guerra.»


«Cosa vorresti insinuare?» Che dovremmo farci massacrare per voi?


«Ho soltanto fatto un'osservazione. Pensala come vuoi.»


Orrin disse: «Da soli verremmo annientati, da un esercito così imponente. Dobbiamo trovare degli alleati, e avere Eragon, soprattutto se dovremo affrontare lo stesso Galbatorix. Nasuada, vorresti richiamarlo?»


«Lo farei se potessi, ma finché Arya non torna, non ho modo di comunicare con gli elfi o di convocare Eragon.» «In questo caso» disse Orrin con voce grave «non ci resta che sperare che arrivi presto. Non credo che possiamo aspettarci l'aiuto degli elfi in questo frangente. Anche se un drago può coprire le leghe che separano Ellesméra da Aberon con la rapidità di un falco, sarebbe impossibile per gli elfi marciare per la stessa distanza prima che l'Impero ci raggiunga. Non ci restano che i nani. So che sei amica di Rothgar da molti anni; potresti mandargli una richiesta di aiuto da parte nostra? I nani ci hanno sempre promesso che avrebbero combattuto con noi, al momento del bisogno.» Nasuada annuì. «Il Du Vrangr Gata è in contatto con alcuni stregoni dei nani tramite un sistema di segnalazioni immediate. Riferirò il vostro... il nostro... messaggio. E chiederò a Rothgar di mandare un emissario a Ceris per informare gli elfi della situazione, perché almeno siano avvertiti.»


«Bene. Siamo piuttosto lontani dal Farthen Dùr, ma se riusciamo a rallentare l'Impero per almeno una settimana, i nani potranno raggiungerci in tempo.»


La discussione che seguì fu parecchio tormentata. Esistevano varie tattiche per sconfiggere un esercito più numeroso, anche se non necessariamente più forte, ma nessuno dei presenti riusciva a escogitare un modo per sconfiggere Galbatorix, considerando che Eragon era ancora relativamente impotente in confronto all'antico re. L'unico espediente che poteva avere qualche speranza di successo era circondare Eragon di quanti più stregoni possibile, sia nani che umani, e poi cercare di costringere Galbatorix ad affrontarli da solo. Il punto debole di questo piano, pensò Nasuada, è che Galbatorix ha avuto la meglio su nemici ben più formidabili quando eliminò i Cavalieri, e da allora la sua forza non ha fatto che crescere. Era sicura che anche gli altri ci avessero pensato. Se avessimo i maghi degli elfi a ingrossare le nostre fila, forse potremmo aspirare alla vittoria. Senza di loro... Se non riusciremo a sbarazzarci di Galbatorix, l'unica via di scampo sarà abbandonare Alagaesia per mare e trovare una nuova terra dove ricostruire le nostre esistenze. Poi aspetteremo che Galbatorix muoia. Nemmeno lui può vivere per sempre. L'unica certezza, in questo caos, è che tutte le cose sono destinate a finire, prima o poi.


Passarono dalla tattica alla logistica, e qui il dibattito si fece più acceso quando il Consiglio degli Anziani litigò con i ministri di Orrin per la distribuzione delle responsabilità fra i Varden e il Surda: chi avrebbe sovvenzionato questo o quello, chi avrebbe fornito le razioni agli operai che lavoravano per entrambi, chi si sarebbe sobbarcato le spese per il salario dei soldati, e numerosi altri argomenti spinosi.


Nel bel mezzo dello scontro verbale, Orrin si sfilò un rotolo di pergamena dalla cintura e si rivolse a Nasuada. «In materia di finanze, vorresti essere così gentile da spiegarmi una curiosa questione che è stata portata alla mia attenzione?»


«Farò del mio meglio, sire.»


«Ho in mano una protesta formale da parte della gilda dei tessitori, che asseriscono che i loro membri in tutto il Surda hanno subito un drastico calo dei profitti perché il mercato tessile è stato invaso da merletti a bassissimo costo, merletti che, sono pronti a giurare, vengono realizzati dai Varden.» Il suo volto era addolorato. «Sembra sciocco persino chiedertelo, ma la loro protesta è fondata: e in questo caso, perché i Varden avrebbero fatto una cosa del genere?»


Nasuada non fece nulla per nascondere il suo sorriso. «Se ben ricordi, sire, quando hai negato ai Varden un ulteriore prestito, mi hai consigliato di trovare un altro modo per provvedere a noi stessi.»


«Ricordo. E dunque?» chiese Orrin, gli occhi ridotti a due fessure.


«Ebbene, mi è venuto in mente che mentre ci vuole molto tempo per realizzare i merletti a mano, ed è il motivo per cui costano tanto, avrei potuto facilmente produrli con la magia, grazie all'esigua quantità di energia necessaria. Proprio tu, fra tutti, un filosofo naturalista, dovresti apprezzare la mia idea. Con la vendita dei merletti qui e nell'Impero siamo riusciti a provvedere a noi stessi. I Varden non hanno più bisogno di elemosinare vitto e alloggio.» Poche cose nella vita le avevano dato una così grande


soddisfazione quanto l'espressione incredula di Orrin in quel momento. La mano paralizzata che reggeva la pergamena sospesa sul tavolo, la bocca semiaperta, la fronte aggrottata, tutto contribuiva a dare al re l'aspetto di un uomo confuso, che non capisce quello che vede. Nasuada si godette la scena.


«Merletti?» balbettò Orrin.


«Esatto, sire.»


«Ma non puoi combattere Galbatorix con i merletti!»


«Perché no, sire?»


Orrin esitò un momento, poi ringhiò: «Perché... perché non è decoroso, ecco perché. Quale bardo si sognerebbe mai di comporre un poema epico sulle nostra gesta e scrivere di merletti?»


«Non combattiamo perché le nostre gesta siano lodate nei poemi epici.»


«Al diavolo i poemi epici! Come dovrei rispondere alla protesta della gilda? Vendendo i tuoi merletti a un prezzo così basso, tu danneggi la vita del mio popolo e pregiudichi la nostra economia. Non è giusto. Non è affatto giusto.» Con un sorriso sempre più accattivante e gentile, Nasuada usò il suo tono più mellifluo per rispondere: «Oh, mio caro sire. Se per le tue finanze è un fardello troppo grave, i Varden saranno più che disposti a offrirti un prestito per la generosità che ci hai dimostrato... a un equo tasso d'interesse, s'intende.»


Il Consiglio degli Anziani riuscì a stento a mantenere un contegno, ma alle spalle di Nasuada, Elva ridacchiò divertita.

Lama rossa, lama bianca

Nel momento stesso in cui il sole comparve oltre l'orizzonte di alberi, Eragon riportò il respiro alla normalità, accelerò i battiti cardiaci e aprì gli occhi, tornando alla piena coscienza. Non si era propriamente svegliato dal sonno, perché dalla sua trasformazione non dormiva più. Quando si sentiva stanco e si stendeva per riposare, entrava in una sorta di veglia sognante. Aveva molte visioni meravigliose e camminava fra le ombre grigie dei propri ricordi, pur restando consapevole di quanto lo circondava.


Guardò il sorgere del sole e pensò ad Arya; erano due giorni, dalla fine dell'Agaetì Blòdhren, che non faceva altro. La mattina dopo la celebrazione, era andato a cercarla nel Palazzo di Tialdari - con l'intenzione di scusarsi per il proprio comportamento - ma aveva scoperto che era già partita per il Surda. Quando la rivedrò? si domandava. Alla luce del giorno, si era reso conto di quanto la magia degli elfi e dei draghi gli avessero ottenebrato il senno durante l'Agaeti Blòdhren. Mi sarò anche comportato da sciocco, ma non è stata del tutto colpa mia. Era come se fossi ubriaco. Eppure era convinto di ogni parola che aveva detto ad Arya, anche se in circostanze normali non avrebbe rivelato così tanto di sé. Il rifiuto di lei lo aveva ferito nel profondo. Libero da incantesimi che gli annebbiavano la mente, era stato costretto ad ammettere che probabilmente l'elfa aveva ragione, che la differenza di età era un ostacolo troppo grande. Era una cosa difficile da accettare, e quando lo ebbe fatto, la consapevolezza non fece che accrescere la sua angoscia. Eragon aveva sentito l'espressione "cuore spezzato", ma fino ad allora l'aveva sempre considerata una descrizione astratta, non un vero sintomo fisico. Ora invece avvertiva un profondo dolore nel petto - come se avesse un muscolo dolente - e ciascun battito del cuore gli faceva male.


Il suo unico conforto era Saphira. In quei due giorni, lei non lo aveva mai criticato per quanto aveva fatto, né lo aveva lasciato da solo per più di qualche minuto; gli aveva offerto il sostegno della sua compagnia. Gli parlava a lungo, facendo del suo meglio per tirarlo fuori dal suo guscio di silenzio.


Per smettere di pensare ad Arya, Eragon prese il rompicapo ad anelli di Orik dal comodino e se lo rigirò fra le dita, meravigliandosi per la nuova acutezza dei suoi sensi. Percepiva ogni difetto del metallo. Mentre studiava il cerchio, avvertì uno schema nella disposizione delle fasce d'oro, un disegno che prima gli era sfuggito. Affidandosi all'istinto, manipolò le fasce nella sequenza suggerita dall'osservazione. Con sommo piacere, gli otto pezzi s'incastrarono formando un unico anello. Se lo infilò all'anulare della mano destra, ammirando come le fasce catturavano la luce. Prima non ci riuscivi, disse Saphira dalla pedana dove dormiva.


Adesso vedo molte cose che prima mi erano nascoste.


Eragon andò nel camerino da bagno ed eseguì la consueta serie di abluzioni mattutine, compresa la rasatura del viso con un incantesimo. Malgrado fosse diventato molto simile a un elfo, la sua barba continuava a crescere. Orik li stava aspettando quando Eragon e Saphira arrivarono sul campo di addestramento. I suoi occhi scintillarono quando Eragon gli mostrò l'anulare con il rompicapo risolto. «Ci sei riuscito!»


«Mi ci è voluto più di quanto mi aspettassi» disse Eragon. «Sei qui per allenarti anche tu?»


«Eh. Mi sono già scontrato con l'ascia con un elfo che si è divertito a colpirmi in testa. No... sono venuto per guardarti combattere.»


«Mi hai già visto altre volte» sottolineò Eragon.


«Sì, ma è passato parecchio tempo dall'ultima.»


«Vuoi dire che sei curioso di vedere come sono cambiato.» Orik rispose con una scrollata di spalle. Vanir si avvicinava dall'altro lato del campo. «Sei pronto, Ammazzaspettri?» gridò. L'atteggiamento sprezzante dell'elfo si era ridotto dal loro ultimo duello prima dell'Agaetì Blòdhren, ma non di molto.


«Sono pronto.»


Eragon e Vanir si misero in posizione in un'area sgombra del campo. Svuotando la mente, Eragon afferrò ed estrasse Zar'roc il più rapidamente possibile. Con sua sorpresa, la spada gli diede la sensazione di non pesare più di un fuscello. Senza l'attesa resistenza, il braccio di Eragon scattò all'indietro come una molla, perdendo la spada che volò roteando per venti iarde prima di conficcarsi nel tronco di un pino.


«Non sai nemmeno tenere la spada in mano, Cavaliere?» lo canzonò Vanir.


«Ti chiedo scusa, Vanir-vodhr» rispose Eragon, sbalordito. Si massaggiò il gomito per alleviare il dolore all'articolazione. «Non ho saputo valutare la mia forza.»


«Vedi che non si ripeta.» Andando verso l'albero, Vanir afferrò l'elsa di Zar'roc e tentò di liberarla. L'arma rimase immobile. Le sopracciglia di Vanir si incresparono quando scrutò la lama rossa, come se sospettasse qualche trucco. Facendosi forza, l'elfo si curvò all'indietro e con uno schianto di legno strappò Zar'roc dal pino.


Eragon accettò l'arma dalle mani di Vanir e la soppesò, preoccupato da quanto era leggera. C'è qualcosa che non va, si disse.


«In guardia!»


Questa volta fu Vanir a iniziare il duello. Con un solo balzo, coprì la distanza che li separava e tentò un affondo contro la spalla destra di Eragon. Eragon ebbe l'impressione che l'elfo si muovesse più lentamente del solito, come se i suoi riflessi fossero scesi al livello di un umano. Fu facile per Eragon deviare la spada di Vanir, e azzurre scintille sprizzarono dal metallo delle lame.


Vanir arretrò con espressione attonita. Si volse e ripartì all'attacco, ma Eragon schivò la spada flettendo la schiena all'indietro, come un albero ondeggiante nel vento. In rapida successione, Vanir provò una ventina di colpi diversi, che Eragon schivò o parò usando sia il fodero di Zar'roc che la lama stessa per arrestare l'assalto.


Eragon si rese conto che lo spettrale drago dell'Agaetì Blòdhren non gli aveva soltanto alterato l'aspetto fisico, ma gli aveva anche conferito le capacità atletiche di un elfo. In forza e agilità, era pari al più vigoroso degli elfi. Animato da questa nuova consapevolezza, e desideroso di mettere alla prova i suoi limiti, Eragon balzò più in alto che potè. Zar'roc sfavillò rossa alla luce del sole, mentre lui volava verso il cielo, librandosi a oltre dieci piedi dal suolo, prima di fare una capriola a mezz'aria come un acrobata e atterrare alle spalle di Vanir, nella direzione opposta da cui era partito.


Eragon scoppiò in una risata trionfante. Non era più inerme davanti agli elfi, agli Spettri o altre creature magiche. Non avrebbe più subito il disprezzo degli elfi. Non avrebbe più dovuto contare su Saphira o Arya per affrontare nemici come Durza.


Si slanciò su Vanir, e il campo risuonò di un feroce clangore quando la lama rossa e la lama bianca cozzarono, mentre i due piroettavano sull'erba. L'impeto dei loro colpi creava folate di vento che gli scompigliavano i capelli. Gli alberi fremettero e persero una pioggia di aghi. Il duello si protrasse per tutta la mattina, perché, nonostante le nuove capacità di Eragon, Vanir restava pur sempre un avversario formidabile. Ma alla fine prevalse Eragon. Mulinando Zar'roc, superò la guardia di Vanir e lo colpì sul braccio, spezzandogli l'osso.


Vanir lasciò cadere la spada, il volto pallido per la sorpresa: «Com'è veloce la tua spada» disse, ed Eragon riconobbe la famosa strofa della Ballata di Umhodan.


«Per gli dei!» esclamò Orik. «È stato il miglior duello che abbia mai visto; eppure c'ero quando hai affrontato Arya nel Farthen Dùr.»


Poi Vanir fece un gesto che Eragon non si sarebbe mai aspettato; l'elfo voltò la mano ferita nel gesto di fedeltà, se la portò allo sterno e disse: «Imploro il tuo perdono per il mio comportamento, Eragon-elda. Pensavo che avessi consegnato la mia razza al vuoto, e la mia paura mi ha fatto agire in maniera vergognosa. Tuttavia, pare che la tua razza non metta più in pericolo la nostra causa.» In tono sommesso, aggiunse: «Adesso meriti il titolo di Cavaliere.» Eragon ricambiò con un inchino del capo. «Tu mi onori. Mi dispiace di averti inflitto quella brutta ferita. Mi permetti di guarirla?»


«No. Lascerò che la natura faccia il suo corso, come ricordo di quando ho incrociato la spada con Eragon Ammazzaspettri. E non temere che domani diserti il nostro allenamento. Sono altrettanto bravo con la sinistra.» Entrambi si inchinarono ancora, poi Vanir si allontanò.


Orik si battè una mano sulla coscia e disse: «Ora abbiamo una possibilità di vittoria, una vera possibilità! Lo sento nelle ossa. Ossa di pietra, dicono. Ah, questo renderà oltremodo felici Rothgar e Nasuada.»


Eragon camminava adagio a fianco del nano, concentrato sulla rimozione del blocco dai bordi taglienti di Zar'roc, ma disse a Saphira: Se fossero bastati ì muscoli per deporre Galbatorix, gli elfi lo avrebbero fatto già da tempo. Eppure non poteva fare a meno di sentirsi compiaciuto dalla sua nuova forza, come anche dalla tanto attesa scomparsa del tormento alla schiena. Senza le continue crisi, era come se un velo di nebbia si fosse dissipato dalla sua mente, consentendogli di pensare di nuovo con lucidità.


Gli restava qualche minuto prima dell'orario stabilito per andare da Oromis e Glaedr, così Eragon prese l'arco e la faretra appesi al dorso di Saphira e andò alla postazione dove gli elfi si esercitavano al tiro con l'arco. Poiché gli archi degli elfi erano molto più potenti del suo, i loro bersagli imbottiti erano sia troppo piccoli che troppo lontani per lui. Dovette tirare dalla metà della distanza.


Mettendosi in posizione, Eragon incoccò una freccia e tirò indietro la corda, sorpreso dalla facilità con cui ci riusciva. Prese la mira, scoccò la freccia e rimase immobile per vedere se centrava il bersaglio. Come un calabrone impazzito, la freccia ronzò verso il bersaglio e si conficcò nel centro. Eragon sorrise. Effettuò di nuovo la sequenza di tiro, con sempre maggiore sicurezza e rapidità, tanto che arrivò a scoccare trenta frecce in un minuto.


Alla trentunesima freccia, impresse sulla corda una trazione un po' più forte, superiore anche alle sue capacità. Con uno schianto assordante, l'arco di legno di tasso si spezzò nella sua mano sinistra, graffiandogli le dita e scagliando un ventaglio di schegge tutt'intorno. La mano gli si intorpidì per il colpo.


Eragon guardò i resti dell'arma con espressione avvilita. Era stato Garrow a dargli quell'arco come regalo di compleanno, tre anni prima. Da allora, di rado era passata una settimana senza che Eragon lo usasse. Con esso aveva procurato cibo per la sua famiglia in tante occasioni, quando altrimenti sarebbero morti di fame. Con esso aveva ucciso il suo primo cervo. Con esso aveva ucciso il suo primo Urgali. E attraverso di esso aveva usato la magia per la prima volta. Perdere l'arco era come perdere un vecchio amico su cui aveva potuto contare anche nella peggiore delle situazioni.


Saphira annusò i due monconi di legno che penzolavano dalla sua mano e disse: A quanto pare ti serve un altro scagliafrecce. Lui emise un borbottio incomprensibile, con poca voglia di parlare, e andò al bersaglio a recuperare le frecce.


Dal campo di addestramento, lui e Saphira volarono alla bianca rupe di Tel'naeir, e si presentarono a Oromis, seduto su uno sgabello davanti alla porta del capanno, gli occhi saggi persi in lontananza. «Ti sei ripreso, Eragon, dalla potente magia della Celebrazione del Giuramento di Sangue?» chiese il vecchio elfo.


«Sì, maestro.»


Seguì un lungo silenzio, mentre Oromis sorseggiava il suo té di more e continuava a contemplare l'antica foresta. Eragon attese senza dire una parola; si era abituato a quelle pause, dopo la lunga frequentazione del vecchio Cavaliere. Alla fine, Oromis disse: «Glaedr mi ha spiegato che cosa ti è successo durante la celebrazione. Non è mai accaduta una cosa del genere in tutta la storia dei Cavalieri... Ancora una volta, i draghi si sono dimostrati molto più capaci di quanto immaginassimo.» Bevve un sorso di té. «Glaedr non è riuscito a dirmi di preciso quali trasformazioni hai subito, perciò vorrei che fossi tu a descrivermi in cosa sei cambiato, compreso l'aspetto.»


Eragon raccontò in breve come era stato alterato, soffermandosi sull'accresciuta acutezza, della vista, dell'olfatto, dell'udito e del tatto, per concludere con un resoconto dettagliato del duello con Vanir.


«E come ti senti?» chiese Oromis. «Ti rincresce che il tuo corpo sia stato manipolato senza il tuo permesso?» «No, no. Affatto. Mi avrebbe dato fastidio prima della battaglia del Farthen Dùr, ma ora non posso che provare sollievo: la schiena non mi tormenta più. Mi sarei sottoposto volentieri a cambiamenti anche maggiori pur di sfuggire alla maledizione di Durza. No, l'unico sentimento che provo è gratitudine.»


Oromis annuì. «Mi compiaccio di vedere che sei abbastanza saggio da pensarla così, poiché questo dono vale più di tutto l'oro del mondo. Grazie a esso, credo che i nostri piedi si siano incamminati sul sentiero giusto.» Bevve un altro sorso di té. «Procediamo. Saphira, Glaedr ti aspetta alla rocca delle Uova Infrante. Eragon, oggi comincerai con il terzo livello di Rimgar, se possibile. Vorrei capire fino a che punto si sono accresciute le tue capacità.» Eragon si avviò verso lo spiazzo di terra battuta dove di solito eseguivano la Danza del Serpente e della Gru, poi esitò quando l'elfo dai capelli d'argento rimase indietro. «Maestro, non ti unisci a me?»


Un fievole sorriso illuminò di tristezza il volto di Oromis. «Non oggi, Eragon. Gli incantesimi dell'Agaeti Blòdhren hanno preteso un grande tributo da me. E oltre a questo ci sono le mie... condizioni. Le ultime forze le ho spese per venire qui fuori a sedermi.»


«Mi dispiace, maestro.» Gli rincresce forse che i draghi non abbiano scelto di guarire anche lui? si chiese Eragon, scacciando subito via quel pensiero. Oromis non sarebbe mai stato tanto meschino.


«Non occorre. Non è colpa tua se sono storpio.»


Mentre Eragon si sforzava di completare il terzo livello


della Rimgar, si rese conto che ancora gli mancavano l'equilibrio e la flessibilità degli elfi, due qualità che persino loro acquisivano solo grazie a un duro allenamento. In un certo senso, non gli dispiacevano quelle limitazioni, perché se fosse stato perfetto, che cos'altro gli sarebbe rimasto da conquistare?


Le settimane seguenti furono difficili per lui. Da una parte fece enormi progressi nell'addestramento, diventando sempre più padrone di argomenti che un tempo lo confondevano. Trovava ancora stimolanti le lezioni di Oromis, ma non aveva più la sensazione di annegare in un mare di' inadeguatezza. Leggeva e scriveva con maggior fluidità, e la sua forza accresciuta gli consentiva di evocare incantesimi per cui era necessaria tanta energia da uccidere un qualsiasi essere umano. La sua forza lo rese anche consapevole di quanto debole fosse Oromis rispetto agli altri elfi. Eppure, nonostante tutto, Eragon avvertiva un profondo sconforto. Per quanto si sforzasse di dimenticare Arya, ogni giorno che passava aumentava il suo struggimento, un dolore aggravato dal fatto di sapere che lei non voleva più vederlo né parlare con lui. Inoltre, aveva la sensazione che un'inesorabile tempesta si stesse addensando all'orizzonte, una tempesta che minacciava di scatenarsi da un momento all'altro, per spazzare la terra, distruggendo ogni cosa sul suo cammino.

Saphira condivideva il suo disagio. Disse: Il mondo si sta assottigliando, Eragon. Presto si spezzerà e la follia scoppierà. Quello che senti tu è ciò che sentono i draghi e gli elfi: l'inesorabile avanzata di un destino oscuro, mentre la fine della nostra epoca si avvicina. Piangi per coloro che moriranno nel caos che consumerà Alagaesia. E spera che ci sia data la possibilità di conquistare un futuro più radioso con la forza della tua spada e del tuo scudo, e quella delle mie zanne e dei miei artigli.

Visioni vicine e lontane

Evenne il giorno in cui Eragon andò nella radura vicino al capanno di Oromis, si sedette sul ceppo bianco al centro della conca muscosa, e quando aprì la mente per osservare le creature che lo circondavano percepì non soltanto gli uccelli, gli animali e gli insetti, ma anche le piante della foresta.


Le piante possedevano un diverso tipo di coscienza, lenta, deliberata e priva di un fulcro, ma a loro modo erano consapevoli quanto Eragon dell'ambiente attorno. Le deboli pulsazioni delle loro coscienze impregnavano la galassia di stelle che gli vorticava dietro le palpebre chiuse ogni scintilla rappresentava una vita - in un bagliore morbido e onnipresente. Perfino il suolo più arido brulicava di organismi; la terra stessa era viva e senziente. La vita intelligente, concluse, era dappertutto.


Mentre Eragon si immergeva nei pensieri e nelle sensazioni degli esseri intorno a lui, riuscì a raggiungere uno stato di pace interiore così profondo che in quel momento cessò di esistere come individuo. Si lasciò essere una non-entità, un vuoto, un ricettacolo delle voci del mondo. Nulla sfuggiva alla sua attenzione, perché la sua attenzione non era concentrata su nulla.


Lui era la foresta e i suoi abitanti.


È così che si sente un dio? si chiese quando tornò in se stesso.


Abbandonò la conca e cercò Oromis nel capanno. S'inginocchiò davanti all'elfo e disse: «Maestro, ho fatto come mi hai chiesto. Ho ascoltato finché non ho sentito più nulla.»


Oromis smise di scrivere e con espressione meditabonda guardò Eragon. «Raccontami.» Per un'ora e mezza, Eragon elargì eloquenti descrizioni di ogni aspetto delle piante e degli animali che popolavano la conca, finché Oromis alzò la mano e disse: «Mi hai convinto; hai sentito tutto quello che c'era da sentire. Ma hai capìto tutto?» «No, maestro.»


«Com'è giusto che sia. La comprensione verrà con l'età... Ben fatto, Eragon-finiarel. Ottimo lavoro. Se fossi stato mio allievo a Ilirea, prima che Galbatorix salisse al potere, ti saresti appena laureato dal tuo apprendistato e saresti stato considerato un membro del nostro ordine, intitolato agli stessi diritti e privilegi del più anziano dei Cavalieri.» Oromis si alzò a fatica dalla sedia, barcollando.


«Offrimi il tuo braccio, Eragon, e aiutami a uscire. Il mio corpo tradisce la mia volontà.»


Eragon corse al fianco del maestro e ne sostenne il peso leggero, mentre Oromis lo conduceva presso il ruscello che scorreva lungo il ciglio della rupe di Tel'naeir. «Ora che hai raggiunto questo livello di istruzione, posso insegnarti uno dei più grandi segreti della magia, un segreto che persino Galbatorix potrebbe non conoscere. È la nostra migliore speranza di contrastare il suo potere.» Lo sguardo dell'elfo s'indurì. «Qual è il prezzo della magia, Eragon?» «L'energia. Un incantesimo richiede la stessa quantità di energia che ci vorrebbe per realizzare il compito con mezzi normali.»


Oromis annuì. «E da dove deriva l'energia?»


«Dal corpo di colui che evoca la magia.»


«Soltanto?»


Eragon si lambiccò il cervello davanti alle terribili implicazioni della domanda di Oromis. «Vuoi dire che può venire da altre fonti?»


«Precisamente. È quello che accade quando Saphira ti aiuta con un incantesimo.»


«Sì, ma lei e io condividiamo un legame particolare» protestò Eragon. «È questa la ragione per cui posso attingere alla sua forza. Per farlo con qualcun altro, dovrei entrare...» Esitò, comprendendo dove Oromis voleva arrivare. «Dovresti entrare nella coscienza dell'essere o degli esseri che ti forniranno energia» disse Oromis, concludendo il pensiero di Eragon. «Oggi hai dimostrato che sei in grado di farlo anche con le più minuscole forme di vita. Ora...» L'elfo s'interruppe e tossì, premendosi una mano contro il petto, poi riprese: «Voglio che sollevi una sfera d'acqua dal torrente, usando soltanto l'energia che riesci a estrarre dalla foresta che ti circonda.» «Sì, maestro.» Mentre Eragon dilatava la mente per raggiungere le piante e gli animali vicini, sentì la mente di Oromis sfiorare la sua per osservare e giudicare i suoi progressi. Aggrottando la fronte nello sforzo della concentrazione, attinse dall'ambiente la forza necessaria e la trattenne dentro di sé finché non fu pronto a liberare la magia... «Eragon! Non prenderla da me! Sono già abbastanza debole così.»


Sgomento, Eragon si rese conto di aver incluso anche Oromis nella sua ricerca. «Mi dispiace, maestro» disse, mortificato. Riprese il processo, attento a non attingere alla vitalità dell'elfo, e quando si sentì pronto, ordinò: «Su!» Silenziosa come la notte, una sfera d'acqua larga un palmo si levò dal ruscello e fluttuò verso Eragon. E sebbene Eragon sperimentasse la consueta tensione derivante da uno sforzo intenso, l'incantesimo non lo affaticava affatto. La sfera si trovava in aria da appena un istante quando un'ondata di morte travolse le creature più piccole con cui Eragon era in contatto. Una fila di formiche si rovesciò inerte. Un topolino annaspò ed entrò nel vuoto perdendo la forza che gli faceva battere il cuore. Un certo numero di piante avvizzirono, sbriciolandosi in polvere. Eragon trasalì, inorridito da quanto aveva causato. Il nuovo rispetto che provava per la sacralità della vita lo induceva a ritenere di aver commesso un crimine agghiacciante, e cosa ancora peggiore, l'intimo legame che lo collegava a ogni essere che aveva cessato di esistere gli aveva dato la sensazione di essere morto centinaia di volte. Sciolse il contatto con la magia - facendo cadere la sfera con un tonfo liquido - e poi si volse di scatto verso Oromis, ringhiando: «Tu lo sapevi!»


Un'espressione di profonda costernazione si dipinse sul volto del vecchio Cavaliere. «Era necessario» rispose. «Necessario che così tanti morissero?»


«Necessario affinchè comprendessi il terribile prezzo che costa usare questo tipo di magia. Le semplici parole non possono descrivere la sensazione di far morire quelli di cui condividi la mente. Dovevi sperimentarlo sulla tua pelle.» «Non lo farò mai più» giurò Eragon.


«Non sarà necessario. Se sarai disciplinato, potrai scegliere di attingere al potere solo di quelle piante e di quegli animali che possono sopportare la perdita di energia. Non è praticabile in battaglia, ma ti servirà durante le lezioni.» Oromis gli fece un cenno e, ancora fremente di rabbia, Eragon permise all'elfo di reggersi a lui nel tornare al capanno. «Capisci ora perché non insegnavamo questa tecnica ai giovani Cavalieri. Se l'avesse imparata uno stregone con cattive intenzioni, avrebbe potuto distruggere ogni cosa intorno a sé, soprattutto perché sarebbe difficile fermare chiunque avesse accesso a tanto potere.» Una volta dentro, l'elfo sospirò e si accasciò sulla sedia, congiungendo i polpastrelli davanti a sé.


Anche Eragon si sedette. «Dato che è possibile assorbire energia dalla...» fece un ampio gesto con la mano «... dalla vita, è possibile anche assorbirla direttamente dalla luce o dal fuoco, o dalle altre forme di energia?» «Ah, Eragon, se così fosse potremmo distruggere Galbatorix in un batter d'occhio. Possiamo scambiare energia con gli altri esseri viventi, possiamo usare quell'energia per muovere i nostri corpi o alimentare un incantesimo, e possiamo persino immagazzinare l'energia in alcuni oggetti per un futuro utilizzo, ma non possiamo assorbire le fondamentali forze della natura. La ragione ci dice che è possibile, ma nessuno è mai riuscito a elaborare un incantesimo che lo consenta.»


Nove giorni dopo, Eragon si presentò da Oromis e disse: «Maestro, stanotte mi è venuto in mente che né tu, né le centinaia di pergamene che mi hai fatto leggere parlate della vostra religione. In che cosa credono gli elfi?» Un lungo sospiro fu la prima risposta di Oromis. Poi: «Noi crediamo che il mondo segua certe leggi inviolabili e che, grazie a uno sforzo tenace, possiamo scoprire queste leggi e usarle per predire eventi quando le circostanze si ripetono.»


Eragon battè le palpebre. Questo non rispondeva a quanto voleva sapere. «Ma chi o che cosa venerate?» «Nulla.»


«Venerate il concetto del nulla?»


«No, Eragon. Non veneriamo nulla.»


Il pensiero era così remoto che ci volle qualche istante perché Eragon afferrasse il significato delle parole di Oromis. Gli abitanti di Carvahall non seguivano una dottrina specifica, ma condividevano una serie di superstizioni e rituali che in gran parte erano diretti a scongiurare la malasorte. Nel corso del suo addestramento, Eragon aveva compreso che molti dei fenomeni che i suoi compaesani attribuivano a forze sovrannaturali non erano che semplici processi naturali, come quando aveva visto, nelle sue meditazioni, che le larve nascono da uova di mosca invece che spuntare d'incanto dal terreno, come aveva creduto fino ad allora. Né aveva più alcun senso per lui fare offerte di cibo per impedire agli spiriti di inacidire il latte, dato che adesso sapeva che il latte inacidiva per la proliferazione di microscopici organismi contenuti nel liquido. Eppure, Eragon restava convinto che forze ultraterrene influenzassero il mondo in modi misteriosi, una credenza che la frequentazione dei nani aveva alimentato. Disse: «Da dove pensi che venga il mondo, allora, se non è stato creato dagli dei?»


«Quali dei, Eragon?»


«I vostri dei, gli dei dei nani, gli dei degli umani... qualcuno deve averlo pur creato.»


Oromis inarcò un sopracciglio. «Non sono d'accordo con quanto sostieni, ma d'altro canto, non posso provare che gli dei non esistono. Né posso provare che il mondo e tutto quanto esso contiene non sia stato creato da un'entità, o più entità, nel remoto passato. Ma posso dirti che nel corso dei millenni in cui gli elfi hanno studiato la natura, non abbiamo mai assistito a un evento nel quale le regole che governano il mondo siano state infrante. Ossia non abbiamo mai visto un miracolo. Molti eventi esulano dalla nostra capacità di comprensione, ma siamo convinti di non essere riusciti a dare una spiegazione perché siamo ancora profondamente ignoranti sull'universo, e non perché una divinità ha alterato l'opera della natura.»


«Un dio non dovrebbe per forza alterare la natura per


realizzare la propria volontà» obiettò Eragon. «Potrebbe farlo all'interno del sistema che già esiste... Potrebbe usare la magia per influire sugli eventi.»


Oromis sorrise. «Verissimo. Ma fatti questa domanda, Eragon: se gli dei esistono, sono stati buoni custodi di Alagaésia? Morte, malattia, povertà, tirannia, e altri innumerevoli calamità affliggono la terra: se questa è opera di esseri divini, non sarebbe giusto allora ribellarsi e negare loro rispetto, obbedienza e devozione?»


«I nani credono...»


«Appunto! I nani credono. Su determinati argomenti, i nani si basano più sulla fede che sulla ragione. Arrivano persino a ignorare fatti dimostrati che contraddicono i loro dogmi.»


«Ossia?» chiese Eragon.


«I sacerdoti dei nani considerano il corallo una prova per dimostrare che la pietra è viva e può crescere, avallando la loro credenza secondo cui Helzvog creò la razza dei nani dal granito. Ma noi elfi abbiamo scoperto che il corallo non è altro che un esoscheletro secreto da minuscoli animali che vivono all'interno del corallo. Qualunque mago può percepire quegli animali, se apre la mente. L'abbiamo spiegato ai nani, ma loro si sono rifiutati di ascoltarci, dicendo che la vita che sentiamo risiede in ogni pietra, anche se i loro sacerdoti sarebbero gli unici a poter rilevare la vita nelle rocce di terraferma.»


Per lunghi minuti, Eragon guardò fuori dalla finestra, riflettendo sulle parole di Oromis. «Non credi nell'aldilà, quindi.» «Da quanto mi ha detto Glaedr, già lo sai.»


«E non hai fede negli dei.»


«Noi riponiamo fede soltanto in ciò di cui possiamo provare l'esistenza. Poiché non siamo stati in grado di provare che gli dei, i miracoli e gli altri eventi soprannaturali sono reali, non ce ne occupiamo. Se per caso le cose dovessero cambiare, se lo stesso Helzvog decidesse di rivelarsi a noi, potremmo sempre rivedere la nostra posizione alla luce di questa nuova informazione.»


«Si direbbe un mondo freddo, senza... qualcosa di più.» «Al contrario» disse Oromis, «è un mondo migliore. Un luogo dove siamo responsabili delle nostre azioni, dove possiamo essere buoni l'uno con l'altro per scelta, e perché è la cosa giusta da fare, invece che per paura di una punizione divina. Non ti dirò in che cosa credere, Eragon. È molto meglio insegnarti a pensare criticamente per poi lasciare a te la scelta, invece che imbottirti di convinzioni altrui. Tu mi hai chiesto della nostra religione, e io ti ho risposto in tutta sincerità. Puoi farne ciò che vuoi.»


Il colloquio, sommato alle precedenti preoccupazioni, lasciò Eragon così turbato che ebbe difficoltà a concentrarsi nei suoi studi i giorni seguenti, anche quando Oromis cominciò a mostrargli come cantare alle piante, una cosa che Eragon era avido di apprendere.


Eragon si accorse che le sue esperienze lo avevano già indotto ad assumere un atteggiamento più scettico; in linea di principio, concordava con la maggior parte di quanto sosteneva Oromis. Il problema che lo affliggeva, però, era che se gli elfi avevano ragione, significava che i nani e gli umani si illudevano, cosa che trovava difficile da accettare. Così tanta gente non può sbagliarsi, si ripeteva.


Quando chiese il suo parere a Saphira, la dragonessa rispose: Per me ha poca importanza, Eragon. I draghi non hanno mai creduto in entità superiori. Perché dovremmo, quando i cervi e gli altri animali considerano noi entità superiori? Eragon sorrise. Ti avverto soltanto: non ignorare la realtà per trovare conforto, perché altrimenti rendi più facile agli altri ingannarti.


Quella notte, nel suo stato di veglia sognante, Eragon fu tormentato dai dubbi, che vagavano per la sua mente come un orso ferito, strappando immagini disparate dai suoi ricordi per mescolarle in una tale confusione da dargli l'impressione di essere tornato nella mischia furibonda del Farthen Dùr. Vide Garrow disteso sul suo letto di morte in casa di Horst, poi Brom morto nella solitària caverna di arenaria, e poi Angela l'erborista che sussurrava: "Attento, Argetlam, il tradimento è evidente. E verrà da qualcuno della tua famiglia. Attento, Ammazzaspettril"


Voi il deh cremisi si squarciò ed Eragon vide di nuovo i due eserciti schierati come nella sua premonizione fra i Monti Beor. Le masse di guerrieri si scontrarono su un campo giallo e arancio, accompagnate dalle grida rauche dei corvi e dal sibilo delle frecce nere. La terra stessa sembrava bruciare: fiamme verdi eruttavano da oscure fosse che punteggiavano il suolo, bruciando i cadaveri accatastati sulla scia degli eserciti. Sentì il ruggito di una bestia gigantesca che dall'alto... Eragon balzò a sedere sul letto e afferrò la catena dei nani che gli ardeva al collo. Usando la tunica per proteggersi la mano, scostò il martello d'argento dalla pelle e rimase in attesa nel buio, col cuore che gli batteva forte per la sorpresa. Sentì la propria energia scemare mentre l'incantesimo di Gannel bloccava chiunque stesse cercando di divinare lui e Saphira. Ancora una volta si chiese se ci fosse lo stesso Galbatorix dietro la magia, o se fosse soltanto uno degli stregoni del re.


Eragon aggrottò la fronte e lasciò il martello quando sentì che il metallo tornava freddo. Qualcosa non va. Ne sono sicuro, e lo so da un pezzo, come lo sa Saphira. Troppo turbato per tornare nello stato di trance che ormai aveva sostituito il sonno, sgattaiolò dalla camera da letto senza svegliare Saphira, e salì la scala a chiocciola che portava allo studio. Tolse lo schermo a una lanterna bianca e lesse uno dei poemi epici di Analisia fino all'alba, nel tentativo di calmarsi.


Proprio mentre richiudeva il rotolo, Blagden entrò dal varco nella parete e con un frullo d'ali si posò su un angolo della scrivania intagliata. Il corvo bianco fissò Eragon f con gli occhietti rotondi e gracchiò: «Wyrda!» Eragon chinò il capo. «E che le stelle ti proteggano, mastro Blagden.» Il corvo zampettò più vicino. Inclinò la testa da un lato ed emise un colpo di tosse, come se si stesse schiarendo la gola, poi recitò con voce roca:


Per il becco e l'osso,


con la mia pietra nera posso


vedere inganni, tradimenti


e insanguinate correnti!


«Cosa significa?» chiese Eragon.


Blagden scrollò le spalle e ripetè i versi. Quando Eragon insistette per avere una spiegazione, l'uccello arruffò le penne, con aria delusa, e gracchiò: «Tale padre tale figlio, ciechi come talpe.»


«Aspetta!» esclamò Eragon, balzando in piedi. «Conosci mio padre? Chi è?»


Blagden tossicchiò ancora. Questa volta parve che ridesse.


Se due può dividere due,


e uno di due è certamente uno,


uno potrebbe essere due.


«Un nome, Blagden. Dammi un nome!» Davanti all'ostinato silenzio del corvo, Eragon dilatò la mente per carpire l'informazione dai ricordi dell'uccello.


Ma Blagden era scaltro e deviò la sonda mentale di Eragon con un guizzo di pensiero. Strillando: «Wyrda!» si avventò sul tappo di vetro di una boccetta d'inchiostro e si allontanò in volo con il trofeo stretto nel becco. Scomparve alla vista ancor prima che Eragon potesse evocare un incantesimo per riportarlo indietro.


Eragon si sentì attanagliare le viscere mentre cercava di decifrare i due enigmi di Blagden. L'ultima cosa che si sarebbe aspettato era di sentir parlare di suo padre a Ellesméra. Infine borbottò: «E sia.» Scoverò Blagden e gli strapperò la verità. Ma per il momento... dovrei essere un pazzo per ignorare quelle visioni. Corse di sotto e svegliò Saphira con la mente per raccontarle quello che aveva visto durante la notte. Preso lo specchio nel camerino da bagno, Eragon si sedette fra le due zampe anteriori di Saphira perché anche lei vedesse quello che vedeva lui.


Arya non gradirà un'invasione della sua intimità, l'ammonì Saphira. Devo sapere se è al sicuro.


Saphira accettò senza altre proteste. Come farai a trovarla? Hai detto che dopo la sua prigionia ha eretto intorno a sé barriere magiche, come la tua collana, per impedire a chiunque di divinarla.


Se riesco a divinare le persone che sono con lei, forse riuscirò a vedere come sta. Concentrandosi su un'immagine di Nasuada, Eragon passò una mano sullo specchio e pronunciò la consueta frase: «Rifletti l'immagine!» Lo specchio tremolò e divenne bianco, mostrando soltanto nove persone sedute intorno a un tavolo. Fra di loro, Eragon riconobbe Nasuada e il Consiglio degli Anziani, ma non riuscì a identificare una strana ragazzina vestita di nero, rannicchiata alle spalle di Nasuada. Rimase sconcertato, perché la cristallomanzia consentiva di divinare cose o persone già viste, ed Eragon era sicuro di non aver mai posato lo sguardo su quella bambina. Se ne dimenticò subito quando si accorse che gli uomini, e perfino Nasuada, erano in tenuta da combattimento.


Ascoltiamo le loro voci, suggerì Saphira.


Nell'istante in cui Eragon apportò la necessaria modifica all'incantesimo, dallo specchio risuonò la voce di Nasuada: "... e il caos ci distruggerà. I nostri guerrieri non possono seguire che un solo comandante in questo conflitto. Decidi chi dovrà essere, Orrin, e in fretta."


Eragon sentì un sospiro disincarnato. "Come desideri; l'incarico è tuo."


"Ma, sire, lei non possiede i requisiti!"


"Basta, Irwin" ordinò il re. "Nasuada ha più esperienza di guerra di chiunque altro nel Surda. E i Varden sono l'unica forza che abbia sconfitto un esercito di Galbatorix. Se Nasuada fosse un generale surdano - ammetto che sarebbe alquanto singolare - non esiteresti un istante a nominarla comandante in capo. Sarò ben lieto di discutere la questione dell'autorità in un secondo momento, perché vorrà dire che sarò ancora vivo, e non sepolto nella mia tomba. Comunque sia, il nostro numero è ancora così esiguo che temo che saremo spacciati se Rothgar non ci raggiungerà prima della fine della settimana. Ora, dov'è quella dannata pergamena sul convoglio delle salmerie?... Ah, ti ringrazio, Arya. Ancora tre giorni senza..."


A quel punto la discussione s'imperniò sulla scarsità di corde per arco; Eragon decise che non gli serviva a niente, così chiuse il contatto. Lo specchio tornò limpido, e lui si ritrovò a fissare il proprio volto.


È viva, mormorò. Il suo sollievo era però adombrato dal significato di quanto aveva udito.


Saphira lo guardò. Hanno bisogno di noi.


Sì. Perché Oromis non ci ha avvertiti? Lui deve saperlo.


Forse non voleva che interrompessimo l'addestramento.


Preoccupato, Eragon si domandò che cos'altro d'importante stesse accadendo in Alagaésia di cui non era a conoscenza. Roran. Con una punta di rimorso, Eragon si rese conto che erano passate settimane da quando aveva pensato l'ultima volta a suo cugino, e ancora di più da quando lo aveva divinato sulla via per Ellesméra. Rinnovando la formula magica, lo specchio rivelò due figure che si stagliavano contro uno sfondo bianco. Ci volle un lungo istante perché Eragon riconoscesse nella figura a destra suo cugino Roran. Indossava logori abiti da viaggio, un martello infilato alla cintura, e una folta barba gli oscurava il volto. La sua espressione tetra tradiva disperazione. A sinistra c'era Jeod. I due uomini si alzavano e si abbassavano, e il fragore delle onde copriva le loro parole. Dopo un po', Roran si volse e s'incamminò lungo quello che Eragon pensò fosse il ponte di una nave, rivelandogli altre decine di compaesani. Dove si trovano, e perché Jeod è con loro? si chiese, perplesso.


Trasferendo la magia da un luogo all'altro, Eragon divinò in rapida successione Teirm - sconvolto nel vedere che il porto della città era andato distrutto - e poi Therinsford, la vecchia fattoria di Garrow, e infine Carvahall. Allora non potè reprimere un grido di angoscia.


Il villaggio era scomparso.


Ogni edificio, compresa la bella casa di Horst, era ridotto a un cumulo di macerie fumanti. Carvahall non esisteva più: era solo una vasta, nera piaga sulle sponde dell'Anora. Le uniche forme di vita rimaste erano quattro lupi grigi che si aggiravano famelici fra le rovine.


Lo specchio gli scivolò di mano e si infranse sul pavimento. Eragon si aggrappò a Saphira, gli occhi colmi di lacrime per il dolore di aver perso le sue radici. Saphira lo confortò con i suoi lievi mormorii gutturali, sfiorandogli il braccio con il muso e avvolgendolo in una calda coperta di compassione. Non ti angustiare troppo, piccolo mio. Se non altro, i tuoi amici sono ancora vivi.


Eragon rabbrividì, mentre un nocciolo duro di determinazione si andava formando nelle sue viscere. Siamo rimasti isolati dal mondo troppo a lungo. È tempo di lasciare Ellesméra e di affrontare il nostro destino, qualunque esso sia. Per il momento, Roran dovrà badare a se stesso, ma i Varden... possiamo aiutare i Varden.


È tempo di combattere, Eragon? chiese Saphira, con una strana sfumatura formale nella voce.


Eragon sapeva che cosa intendeva dire: era tempo di sfidare l'Impero a viso aperto, tempo di uccidere e devastare ai limiti delle loro notevoli capacità, tempo di scatenare ogni oncia della loro rabbia finché Galbatorix non fosse caduto morto ai loro piedi? Era tempo di imbarcarsi in una campagna che forse avrebbe richiesto decenni per concludersi? Sì, è tempo.

Regali di commiato

Eragon impiegò meno di cinque minuti a preparare i bagagli. Prese la sella che gli aveva donato Oromis e la legò sul dorso di Saphira insieme alle bisacce.


Saphira gettò indietro la testa, con le narici dilatate, e disse: Ti aspetto al campo. Con un ruggito si slanciò dalla casa sull'albero con le ali azzurre spiegate e si allontanò sorvolando la foresta.


Veloce come un elfo, Eragon corse al Palazzo di Tialdari, dove trovò Orik seduto nel solito angolino, intento a giocare un solitario di rune. Il nano lo accolse con una calorosa pacca sul braccio. «Eragon! Cosa ti porta qui a quest'ora del mattino? Credevo fossi sul campo a incrociare le spade con Vanir.»


«Saphira e io partiamo» disse Eragon.


Orik rimase a bocca aperta, poi socchiuse gli occhi, facendosi improvvisamente serio. «Ci sono novità?» «Te ne parlerò in seguito. Vieni con noi?»


«Nel Surda?»


«Sì.»


Un ampio sorriso solcò la faccia barbuta del nano. «Dovresti mettermi in ceppi per farmi restare qui. Non ho niente da fare a Ellesméra, se non diventare un pigro botolo di lardo. Un po' di eccitazione mi farà bene. Quando si parte?» «Appena possibile. Fa' i bagagli e vediamoci sul campo di addestramento. Vedi se riesci a procurarti dei viveri che ci bastino per una settimana.»


«Una settimana? Ma ci vorranno...»


«Voleremo su Saphira.»


La pelle intorno alla barba di Orik impallidì. «Noi nani non amiamo troppo le altezze, Eragon. No, per niente. Sarebbe meglio se andassimo a cavallo, come abbiamo fatto per venire qui.»


Eragon scosse la testa. «Ci vorrebbe troppo. Per giunta, è piuttosto facile cavalcare su Saphira. Se cadi, lei viene a prenderti.» Orik mugugnò, poco convinto. Lasciando il palazzo, Eragon attraversò di corsa la città silvana e raggiunse Saphira. Insieme volarono alla rupe di Tel'naeìr.


Oromis era seduto sulla zampa anteriore destra di Glaedr


quando arrivarono. Le squame del drago riflettevano una


miriade di bagliori dorati tutto intorno. Né l'elfo né il drago


si mossero. Disceso da Saphira, Eragon s'inchinò. «Maestro Glaedr. Maestro Oromis.»


Glaedr disse: Avete deciso di tornare dai Varden, non è così?


Sì, rispose Saphira.


La sensazione di essere stato tradito ebbe la meglio sulla compostezza di Eragon. «Perché ci avete nascosto la verità? Siete così decisi a tenerci qui da ricorrere a questi bassi espedienti? I Varden stanno per essere attaccati e voi non ci avete detto una parola!»


Serafico come sempre, Oromis rispose: «Non volete sapere perché?»


Volentieri, maestro, intervenne Saphira prima che Eragon avesse il tempo di replicare. Poi, in privato, lo ammonì: Sii educato!


«Vi abbiamo taciuto gli eventi per due ragioni. Innanzitutto perché anche noi non sapevamo nulla fino a nove giorni fa, e la reale entità, la posizione e lo spostamento delle truppe dell'Impero ci sono rimaste nascoste fino a tre giorni fa, quando Lord Dàthedr è riuscito a penetrare


gli incantesimi che Galbatorix usava per deflettere la nostra cristallomanzia.»


«Questo ancora non spiega perché non ci avete detto niente» esclamò Eragon. «Non solo, ma quando avete scoperto che i Varden erano in pericolo, perché Islanzadi non ha esortato gli elfi alla battaglia? Siamo o non siamo alleati?» «Islanzadi ha esortato gli elfi, Eragon. La foresta riecheggia di martelli, di stivali, di lamenti di coloro che stanno per essere separati. Per la prima volta in cento anni, la nostra razza sta per emergere dalla Du Weldenvarden per sfidare il nostro più grande nemico. È giunta l'ora per gli elfi di camminare di nuovo per le terre di Alagaèsia.» Con gentilezza, Oromis aggiunse: «Sei stato distratto, di recente, Eragon, e ti capisco. Ora devi vedere oltre te stesso. Il mondo richiede la tua attenzione.»


Rosso dalla vergogna, Eragon riuscì soltanto a dire: «Mi dispiace, maestro.» Rammentò le parole di Blagden e sorrise amaramente. «Sono cieco come una talpa.»


«Non direi, Eragon. Ti sei comportato bene, considerando le enormi responsabilità che ti abbiamo chiesto di assumere.» Oromis lo guardò con aria grave. «Aspettiamo nei prossimi giorni una missiva di Nasuada in cui chiederà l'aiuto di Islanzadi e che tu ti unisca ai Varden. Intendevo informarti della situazione dei Varden allora, quando avresti avuto ancora tempo di raggiungere il Surda prima del levarsi delle armi. Se te l'avessi detto prima, il tuo giuramento di fedeltà ti avrebbe imposto di partire prima che avessi completato l'addestramento, per correre in difesa della tua signora. Ecco perché io e Islanzadi non ti abbiamo detto nulla.»


«Il mio addestramento non serve a niente se i Varden vengono distrutti.»


«No. Ma potresti essere l'unica persona in grado di impedire la loro distruzione, perché esiste la possibilità, remota ma terribile, che Galbatorix stesso scenda in campo. È troppo tardi perché i nostri guerrieri aiutino i Varden, il che significa che se Galbatorix sarà presente alla battaglia, tu dovrai affrontarlo da solo, senza la protezione dei nostri maghi. Date le circostanze, era di vitale importanza che il tuo addestramento continuasse il più a lungo possibile.» In un istante la collera di Eragon sbollì, sostituita da un freddo e duro calcolo, mentre capiva la necessità del silenzio di Oromis. I sentimenti personali erano irrilevanti in una situazione disperata come la loro. Con voce piatta disse: «Hai ragione. Il mio giuramento mi impone di accorrere in difesa di Nasuada e dei Varden. Tuttavia non sono pronto per affrontare Galbatorix. Non ancora, almeno.»


«Allora ti suggerisco» disse Oromis, «se Galbatorix dovesse presentarsi, di fare di tutto per distrarlo dai Varden finché le sorti della battaglia non saranno decise, nel bene o nel male, e di evitare di scontrarti con lui direttamente. Ma prima che ve ne andiate, voglio chiedervi una cosa: che giuriate, una volta che gli eventi lo permettano, di tornare qui a completare l'addestramento, perché avete ancora molto da imparare.»


Torneremo, promise Saphira, legandosi nell'antica lingua.


«Torneremo» ripete Eragon, e decretò il loro destino.


Soddisfatto, Oromis portò una mano dietro la schiena e prese una sacca rossa ricamata che aprì allargando i cordoni. «In previsione della tua partenza, ti avevo preparato tre regali, Eragon.» Dalla sacca estrasse una fiaschetta d'argento. «Innanzitutto, del faelnirv potenziato con qualche incantesimo personale. Questa pozione ti sosterrà quando tutti gli altri falliranno, e potrai trovare utili le sue proprietà anche in altre circostanze. Ma bevila con parsimonia, perché ho avuto il tempo di prepararne solo qualche sorso.»


Porse la fiaschetta a Eragon; poi dalla stessa sacca estrasse un lungo cinturone nero e blu. Eragon lo trovò insolitamente solido e pesante quando se lo fece scorrere tra le mani. Era fatto di fili di tessuto intrecciati in un disegno che raffigurava un tralcio di Liani Vine. Seguendo le istruzioni di Oromis, Eragon tirò un tassello alla fine della cintura e rimase senza fiato quando una striscia al centro scivolò indietro per rivelare dodici diamanti, ciascuno grande un pollice. Quattro diamanti erano bianchi, quattro neri, gli altri erano rossi, blu, gialli e marrone. Scintillavano freddi e brillanti, come ghiaccio all'alba, riflettendo un arcobaleno di colori sulle mani di Eragon.


«Maestro...» Eragon scosse il capo, a corto di parole. «Sei sicuro di volermi fare questo dono?» «Abbine cura, perché nessuno abbia la tentazione di rubartela. Questa è la cintura di Beloth il Savio, di cui hai letto nella storia dell'Anno delle Tenebre, ed è uno dei più grandi tesori dei Cavalieri. Sono le gemme più perfette che i Cavalieri siano riusciti a trovare. Alcune le abbiamo comprate dai nani. Altre le abbiamo vinte in battaglia, o estratte dalle miniere noi stessi. Le pietre non contengono magia, ma potrai usarle come ricettacolo del tuo potere e attingere alla riserva quando ne avrai bisogno. Questo, oltre al rubino incastonato nel pomo di Zar'roc, ti consentirà di ammassare una scorta di energia che ti aiuterà a non sprecare invano le tue forze nell'evocare incantesimi in battaglia, o quando dovrai affrontare stregoni nemici.»


Infine Oromis gli porse un sottile rotolo di pergamena, protetto da un tubo di legno scolpito con un bassorilievo dell'albero di Menoa. Aprendo il rotolo, Eragon vide il poema che aveva recitato all'Agaeti Blodhren. Era scritto con la minuta calligrafia di Oromis e illustrato dagli squisiti disegni a inchiostro dell'elfo. Piante e animali decoravano il primo glifo di ogni quartina, mentre delicate volute


tracciavano le colonne di parole e incorniciavano le immagini.


«Ho pensato» disse Oromis «che ti avrebbe fatto piacere conservare una copia per te.»


Eragon guardò i dodici pregiatissimi diamanti che reggeva con una mano e la pergamena di Oromis nell'altra, sapendo che era il rotolo a essere più prezioso. S'inchinò e, ridotto al linguaggio più essenziale dallo smisurato senso di gratitudine, disse: «Grazie, maestro.»


Poi Oromis lo sorprese cominciando per primo il tradizionale saluto elfico, a indicare così il suo rispetto per Eragon: «Che la fortuna ti assista.»


«Che le stelle ti proteggano.»


«E che la pace regni nel tuo cuore» concluse l'elfo dai capelli d'argento. Ripetè il commiato rivolto a Saphira. «Ora andate e volate più veloci del vento del nord, sapendo che tu, Saphira Squamediluce, e tu, Eragon Ammazzaspettri, portate con voi la benedizione di Oromis, ultimo discendente del Casato di Thràndurin, colui che è sia il Saggio Dolente che lo Storpio Che è Sano.»


E anche la mia, aggiunse Glaedr. Protese il collo e sfiorò la punta del naso di Saphira con il suo, gli occhi dorati che scintillavano come pozzi di brace. Ricorda di mantenere integro il tuo cuore, Saphira. Lei mormorò compunta. Si separarono con un solenne commiato. Saphira si levò in volo sulla fitta foresta, mentre Oromis e Glaedr restavano a guardarli, due figure solitàrie sulla rupe. Malgrado le difficoltà della sua permanenza a Ellesméra, a Eragon sarebbe mancato vivere fra gli elfi, perché tra di loro aveva trovato il posto più vicino a una casa da quando aveva lasciato la Valle Palancar.


Parto da qui come un uomo nuovo, pensò, e chiuse gli occhi, abbracciando il collo di Saphira.


Prima di andare all'appuntamento con Orik, fecero un'ultima sosta: il Palazzo di Tialdari. Saphira atterrò nei giardini interni, attenta a non danneggiare nessuna pianta con la coda o gli artigli. Senza aspettare che la dragonessa si accovacciasse, Eragon balzò a terra, un salto che in precedenza non avrebbe mai potuto compiere senza farsi male. Un elfo andò loro incontro, si toccò le labbra con le due dita e chiese in che cosa poteva essergli utile. Quando Eragon rispose che voleva un'udienza con la regina Islanzadi, l'elfo disse: «Ti prego di aspettare qui, Mano d'Argento.» Meno di cinque minuti più tardi, la regina emerse dai recessi alberati del Palazzo di Tialdari, la tunica cremisi come una goccia di sangue fra i signori e le dame vestiti di bianco che l'accompagnavano. Dopo aver osservato le opportune formule di saluto, la regina disse: «Oromis mi ha informato della vostra intenzione di lasciarci. Mi rincresce molto, ma nessuno può opporsi al volere del fato.»


«No, maestà... maestà, siamo venuti a prendere congedo prima di partire. Sei stata molto generosa con noi, e ringraziamo te e il tuo Casato per averci dato abiti, cibo e alloggio. Siamo in debito con voi.»


«Non sia mai, Cavaliere. Non è stato che un minimo risarcimento per ciò che dobbiamo a te e ai draghi per il nostro misero fallimento nella caduta dei Cavalieri. Tuttavia sono lusingata che abbiate apprezzato la nostra ospitalità.» Fece una pausa. «Quando arriverai nel Surda, porgi i miei saluti a ledy Nasuada e a re Orrin, e informali che i nostri guerrieri attaccheranno presto la metà settentrionale dell'Impero. Se la fortuna ci assiste, coglieremo Galbatorix impreparato e, col dovuto tempo, divideremo le sue forze.»


«Per servirti.»


«Inoltre sappi che ho inviato dodici dei nostri migliori stregoni nel Surda. Se sarai ancora vivo quando arriveranno, risponderanno ai tuoi ordini e faranno del loro meglio per difenderti dal pericolo, notte e giorno.» «Grazie, maestà.»


Islanzadi tese una mano, e uno dei signori elfici le porse una lunga scatola di legno disadorna. «Oromis ti ha fatto dei regali, e questo è il mio. Perché ti ricordi del periodo che hai trascorso con noi sotto gli ombrosi pini.» Aprì la scatola, ed Eragon vide un lungo arco scuro dai bracci flessuosi e dalle estremità ricurve adagiato su un drappo di velluto. Intarsi d'argento e di foglie di sanguinella decoravano le punte e l'impugnatura dell'arco. A fianco c'era una faretra colma di frecce dall'impennaggio di candido cigno. «Ora che condividi la nostra forza, mi è sembrato opportuno che avessi uno dei nostri archi. Ho cantato personalmente questo arco da un albero di tasso. La corda non si spezzerà mai. E finché userai queste frecce, non mancherai mai il bersaglio, anche se avrai il vento contro.»


Ancora una volta, Eragon si sentì sopraffatto dalla generosità degli elfi. S'inchinò. «Cosa posso dire, mia signora? È un privilegio ricevere in dono il lavoro delle tue mani.»


Islanzadi annuì, come se non si aspettasse niente di meno, poi lo oltrepassò e si rivolse a Saphira. «Saphira, non ho doni per te perché non sono riuscita a pensare a niente di cui tu possa aver bisogno o desiderio, ma se c'è qualcosa di nostro che vorresti, non devi far altro che chiedere, e sarà tuo.»


I draghi, replicò Saphira, non hanno bisogno di possedere qualcosa per essere felici. A che ci servono le ricchezze quando la nostra pelle è più gloriosa di qualunque tesoro al mondo? No, sono soddisfatta per la generosità che hai mostrato a Eragon.


Infine Islanzadi augurò loro un viaggio sicuro e tranquillo. Si volse, con un ampio svolazzo del mantello rosso, e fece per andarsene, ma poi si fermò al margine del giardino per dire: «Eragon?»


«Sì, maestà?»


«Quando incontrerai Arya, ti prego di esprimerle il mio affetto e di dirle che ci manca molto, qui a Ellesméra.» Le parole furono rigide e formali. Senza aspettare risposta, la regina si allontanò e scomparve fra i tronchi ombrosi che proteggevano l'interno del Palazzo di Tialdari, col suo seguito di dame e signori.


Saphira impiegò meno di un minuto per volare al campo di addestramento, dove Orik se ne stava seduto sul suo zaino, lanciandosi l'ascia da una mano all'altra, il volto corrucciato. «Era ora» borbottò. Si alzò e si infilò l'ascia nella cintura. Eragon si scusò per il ritardo, poi legò lo zaino di Orik dietro alla sella. Il nano scrutò la spalla di Saphira, che torreggiava su di lui. «Per la barba nera di Morgothal, come diamine faccio a salire lassù? Una rupe ha più appigli di te, Saphira.»


Vieni, disse lei. Si distese sul ventre e allungò di lato la zampa destra, per formare una specie di rampa. Issandosi sullo stinco con un sonoro sbuffo, Orik strisciò carponi lungo la zampa. Una piccola vampa di fuoco eruttò dalle narici della dragonessa. Sbrigati... mi fai il solletico!


Orik si fermò sull'articolazione della coscia, poi passò una gamba dall'altro lato della colonna vertebrale di Saphira e cominciò a risalire verso la sella. Battè la mano su una delle punte cornee del dorso che gli spuntava fra le gambe e disse: «La maniera più efficace per perdere la virilità.»


Eragon sogghignò. «Non scivolare.» Quando Orik si calò sulla parte anteriore della sella, Eragon montò su Saphira e si sedette dietro al nano. Per impedirgli di cadere durante le evoluzioni di Saphira, allentò le cinghie che servivano a legargli le braccia e le fece passare sopra le gambe di Orik.


Quando Saphira si erse in tutta la sua statura, Orik vacillò, poi strinse la punta avanti a sé. «Aarrgh! Eragon, non farmi aprire gli occhi finché non siamo per aria, altrimenti vomito. È una cosa innaturale, ti dico. I nani non sono fatti per cavalcare draghi. Non è mai accaduto prima.»


«Mai?»


Orik scosse il capo senza parlare.


Gruppi di elfi sciamarono dalla Du Weldenvarden per radunarsi ai margini del campo e osservare con espressione solenne Saphira che sollevava le ali translucide per spiccare il volo.


Eragon rafforzò la presa quando avvertì i muscoli della dragonessa gonfiarsi sotto di lui. Con una rapida e potente spinta, Saphira si lanciò verso il cielo azzurro, battendo le ali veloce per levarsi al di sopra degli alberi. Volò in circolo sulla grande foresta, guadagnando quota a ogni spirale, poi puntò a sud, verso il Deserto di Hadarac. Sebbene il vento ululasse nelle sue orecchie, Eragon sentì la voce limpida di un'elfa di Ellesméra che cantava: Volerai, volerai, lontano volerai, sui picchi e sulle valli fino alle perdute terre. Volerai, volerai, lontano volerai, e da me più non tornerai...

Le fauci dell'oceano

Il mare di ossidiana si gonfiò sotto l'Ala di Drago, spinI gendo la nave verso il cielo. Il vascello rimase in bilico per qualche istante sulla cresta di un'onda spumeggiante prima di puntare la prua verso il basso e precipitare nell'avvallamento successivo. L'aria gelida era spazzata da turbini di nebbiolina pungente, sospinta dal vento che ululava come uno spirito mostruoso.


A mezzanave, Roran si tenne stretto alle sartie di dritta e vomitò oltre il parapetto; non gli uscì altro che acida bile. Si era tanto vantato del fatto che il suo stomaco non gli avesse dato problemi durante il viaggio sulla chiatta di Clovis, ma la tempesta in cui erano incappati era così violenta che persino gli uomini di Uthar, marinai avvezzi a ogni tempo, avevano difficoltà a tenere il whisky in corpo.


Gli parve di essere colpito da un macigno di ghiaccio fra le scapole quando un'ondata investì la nave al traverso, inondando il ponte prima di scorrere via dagli ombrinali per tornare nel furioso, scatenato, schiumoso oceano da dove era venuta. Roran si asciugò l'acqua salata dagli occhi con le dita intorpidite dal gelo come ciocchi di legno, e strizzò le palpebre per scrutare l'orizzonte a poppa.


Forse la tempesta farà loro perdere le nostre tracce. Tre corvette dalle vele nere li inseguivano fin da quando avevano superato le Scogliere di Ferro e doppiato quello che Jeod aveva chiamato Edur Carthungavé, e Uthar lo Sperone di Rathbar. «La coda della Grande Dorsale» aveva detto Uthar, sogghignando. Le corvette erano più veloci dell'Ala di Drago, appesantita dalla moltitudine di passeggeri, e si erano sempre più avvicinate alla nave mercantile fino a potersi scambiare nugoli di frecce.


Sembrava inoltre che la corvetta in testa imbarcasse uno stregone, perché le sue frecce erano innaturalmente precise: spezzavano le cime, distruggevano le baliste e bloccavano i bozzelli. Dai loro attacchi, Roran dedusse che all'Impero non importava più di catturarlo vivo, ma soltanto di impedirgli di raggiungere i Varden. Aveva appena preparato i compaesani a respingere un abbordaggio, quando le nubi sopra di loro si erano addensate in un livido colore viola, cariche di pioggia, e una tempesta furiosa si era scatenata da nordovest. Al momento, Uthar stava bordeggiando con il vento al traverso, diretto verso le Isole Meridionali, dove sperava di eludere le corvette tra i fondali bassi e gli anfratti di Beirland.


Un fulmine orizzontale balenò fra due enormi cumulonembi,


trasformando il mondo in un quadro di pallido marmo, prima che le tenebre tornassero sovrane. Ogni lampo accecante imprimeva un'immagine fissa negli occhi di Roran, pulsando anche dopo che la luce era svanita.


Poi cadde una serie di fulmini a zigzag, e Roran vide come in una successione di dipinti monocromatici - l'albero di contromezzana torcersi, spezzarsi e cadere a sinistra nel mare ribollente. Aggrappandosi a una sagola di sicurezza, salì sul casseretto e, insieme a Bonden, mozzarono i cavi che ancora collegavano l'albero all'Ala di Drago facendola affondare di poppa. I cavi si contorsero come serpenti quando furono tagliati.


Roran si accasciò sul ponte, il braccio destro agganciato al parapetto, mentre la nave sprofondava di venti, trenta piedi in un avvallamento. Un'onda lo travolse, sottraendogli gli ultimi residui di calore dalle ossa. Il suo corpo era scosso dai brividi.


Non farmi morire così, pregò, anche se non sapeva a chi stesse rivolgendo la sua supplica. Non fra queste onde crudeli. Il mio compito non è ancora finito. Durante quella lunga notte, si aggrappò ai ricordi di Katrina, traendone conforto quando si sentiva esausto e la speranza minacciava di abbandonarlo.


La tempesta durò due giorni interi e cominciò a placarsi soltanto qualche ora prima dell'alba. Il mattino si annunciò con un cielo limpido, screziato di rosa, e tre vele nere all'orizzonte a nord. A sud, il profilo brumoso di Beirland si stagliava sotto una cortina di nubi raccolte intorno alla montagna frastagliata che dominava l'isola.


Roran, Jeod e Uthar s'incontrarono in una piccola cabina di prua - dato che quella del comandante era stata adibita a infermeria - dove Uthar srotolò alcune cartine nautiche e indicò un punto al largo di Beirland. «Qui è dove ci troviamo adesso» disse. Prese una mappa più grande di Alagaésia e indicò la foce del fiume Jiet. «E questa sarà la nostra destinazione, poiché i viveri non ci bastano per arrivare a Roccascissa. Come ci arriveremo senza essere presi è un altro paio di maniche. Senza l'albero di contromezzana, quelle maledette corvette ci raggiungeranno entro domani a mezzogiorno, al massimo entro sera, se ci va bene.»


«Non possiamo sostituire l'albero?» chiese Jeod. «So che vascelli di questa stazza portano sempre alberi di rispetto per riparazioni di questo genere.»


Uthar scrollò le spalle. «Potremmo, se avessimo un buon carpentiere navale a bordo. Ma siccome non ce l'abbiamo, non permetterò che mani inesperte montino l'albero col rischio che poi si schianti sul ponte e ferisca qualcuno.» Roran osservò: «Se non fosse per lo stregone, o gli stregoni,


io avrei detto di combattere, dato che siamo molto più numerosi degli equipaggi delle corvette. Ma eviterei uno scontro diretto. Mi sembra difficile poter vincere, considerando quante navi inviate in aiuto dei Varden sono scomparse.» Con un borbottio, Uthar tracciò un cerchio intorno alla loro attuale posizione. «Questa è la massima distanza che saremo in grado di coprire entro domani sera, purché il vento ci sia favorevole. Potremmo attraccare da qualche parte fra Beirland e Nìa, se volessimo, ma non vedo come questo possa esserci d'aiuto. Ci troveremmo in trappola. I soldati di quelle corvette o i Ra'zac o Galbatorix ci potrebbero stanare in qualsiasi momento.»


Roran aggrottò la fronte meditando sulle alternative: una battaglia con le corvette sembrava inevitabile. Per lunghi minuti l'unico rumore dentro la cabina fu lo sciabordio delle onde contro lo scafo. Poi Jeod posò il dito sulla mappa fra Beirland e Nia, guardò Uthar e disse: «Che ne pensi dell'Occhio del Cinghiale?»


Roran rimase sorpreso quando vide impallidire la faccia del rude lupo di mare. «Non ci penso neppure, mastro Jeod. Non correrei mai quel rischio. Preferirei affrontare le corvette e morire in mare aperto piuttosto che sfidare quel luogo maledetto. Ha inghiottito più navi di quante ne abbia l'intera flotta di Galbatorix.»


«Eppure mi pare di ricordare» insistette Jeod, appoggiandosi allo schienale «che il passaggio è sicuro al culmine dell'alta e della bassa marea. O mi sbaglio?»


Con grande, palese riluttanza, Uthar ammise: «No, è giusto, ma l'Occhio è così vasto che occorre calcolare i tempi alla perfezione per evitare il disastro. Non ce la faremo, con quelle corvette alle calcagna.»


«Ma se potessimo» continuò Jeod, «se riuscissimo a calcolare i tempi, le corvette andrebbero distrutte, oppure, se il coraggio mancasse loro, sarebbero costrette a circumnavigare Ma. In questo caso avremmo il tempo di trovare un nascondiglio.»


«Se, se... Ci farai colare a picco con i tuoi se.»


«Andiamo, Uthar, le tue paure sono irrazionali. La mia proposta è pericolosa, lo ammetto, ma non più di quanto lo sia stata quella di fuggire da Teirm. O dubiti di non essere in grado di attraversare lo stretto? Non sei abbastanza uomo da provarci?»


Uthar incrociò le braccia nude. «Non hai mai visto l'Occhio, vero?»


«No, mai.»


«Non è che io non sia uomo abbastanza, ma l'Occhio travalica le forze di un essere umano; le nostre navi più grandi, i nostri edifici più imponenti, qualsiasi cosa ti venga in mente impallidisce al confronto. Sarebbe come cercare di cavalcare una valanga; potresti riuscirci, ma potresti lo stesso finire ridotto in polvere.»


«Cosa sarebbe» intervenne Roran «l'Occhio del Cinghiale?»


«Le fameliche fauci dell'oceano» sentenziò Uthar.


In tono meno solenne, Jeod disse: «È un gorgo, Roran. L'Occhio si forma per le correnti di marea che si scontrano fra Beirland e Ma. Quando la marea sale, l'Occhio ruota da nord a ovest. Quando la marea cala, ruota da nord a est.» «Non suona così pericoloso.»


Uthar scrollò il capo, il codino gli frustò i lati del collo bruciato dal sole, e rise. «Non così pericoloso, dice! Ha!» «Quello che forse ti sfugge» continuò Jeod «sono le dimensioni del vortice. Al centro, l'Occhio misura una lega di diametro, mentre le spire possono arrivare fino a dieci, quindici miglia di distanza. Le navi inghiottite dall'Occhio vengono precipitate sul fondo dell'oceano, dove si schiantano sugli scogli. Relitti galleggianti si trovano spesso sulle spiagge delle due isole.»


«Qualcuno potrebbe mai aspettarsi che prendiamo quella rotta?» chiese Roran.


«No, e a ben vedere» grugnì Uthar. Jeod scosse il capo.


«Sarebbe possibile per noi attraversare l'Occhio?»


«Anche solo pensarci è una follia bella e buona.»


Roran annuì. «So che è un rischio che non vuoi correre, Uthar, ma rifletti sulle alternative. Io non sono un marinaio, perciò mi affido alla tua esperienza: possiamo attraversare l'Occhio?»


Il capitano esitò. «Forse sì, forse no. Bisogna essere dei pazzi forsennati per spingersi a meno di cinque miglia da quel mostro.»


Roran estrasse il martello dalla cintura e lo picchiò sul tavolo, lasciando una tacca profonda mezzo pollice. «Allora sono un pazzo forsennato! » Sostenne lo sguardo di Uthar finché il marinaio non mostrò il suo disagio. «Devo forse ricordarti che siamo arrivati fin qui facendo quello che pavidi pessimisti dicevano che non si poteva o non si doveva fare? Noi di Carvahall abbiamo osato abbandonare le nostre case e attraversare la Grande Dorsale. Jeod ha osato rubare l'Ala di Drago. E tu, Uthar, cosa sei in grado di osare? Se riusciamo a superare l'Occhio e a sopravvivere per raccontarlo, sarai ricordato come uno dei più grandi marinai della storia. Ora rispondimi con tutta onestà: si può fare?» Uthar si passò una mano sul volto. Quando parlò, la sua voce suonò sommessa, come se la foga di Roran lo avesse prosciugato dell'abituale spavalderia. «Non lo so, Fortemartello... Se aspettiamo che l'Occhio si plachi, le corvette potrebbero essere abbastanza vicine da scampare anche loro, insieme a noi. E se il vento dovesse calare, resteremmo intrappolati nella corrente, incapaci di manovrare.»


«In qualità di comandante, vuoi provarci? Né io né Jeod possiamo comandare l'Ala di Drago al posto tuo.» Uthar fissò a lungo le carte, una mano premuta sull'altra. Tracciò una riga o due dalla loro posizione e studiò una tabella di cifre che per Roran non aveva alcun significato Alla fine, disse: «Temo che finiremo nelle fauci dell'oceano, ma si, faro del mio meglio per passare.»


Soddisfatto, Roran ripose il martello. «E sia.»

L'Occhio del Cinghiale

Nel corso della giornata, le corvette si avvicinarono sempre di più all'Ala di Drago. Roran le teneva sotto costante osservazione, nel timore che potessero arrivare abbastanza vicine da attaccare prima che l'Ala di Drago raggiungesse l'Occhio del Cinghiale. Tuttavia Uthar sembrava in grado di tenere loro testa, almeno per un altro po'. Agli ordini di Uthar, Roran e gli altri passeggeri si adoperarono per risistemare la nave dopo la tempesta e prepararsi all'impresa che li aspettava. Finirono di lavorare al calar della notte, quando spensero ogni luce a bordo nel tentativo di confondere i loro inseguitori sulla rotta che l'Ala di Drago avrebbe seguito. Lo stratagemma ebbe in parte successo, perché quando sorse il sole, Roran vide che le corvette avevano perso oltre un miglio a nordovest, anche se recuperarono in fretta lo svantaggio.


Nella tarda mattinata, Roran si arrampicò sull'albero di maestra e salì sulla coffa, a centotrenta piedi dal ponte di coperta, dove gli uomini apparivano non più grandi del suo dito mignolo. L'acqua e il cielo ondeggiavano pericolosamente intorno a lui, mentre l'Ala di Drago rollava da un lato e dall'altro.


Roran prese il cannocchiale che aveva con sé, lo portò all'occhio e lo regolò per metterlo a fuoco sulle corvette, lontane quattro miglia a poppa ma in rapido avvicinamento. Devono aver capìto che cosa intendiamo fare, si disse. Spostando il cannocchiale, scrutò l'oceano in cerca dell'Occhio del Cinghiale. Si fermò quando vide un disco di schiuma grande quanto un'isola che ruotava da nord a est. Troppo tardi, pensò con un groppo allo stomaco. L'alta marea era già passata e l'Occhio del Cinghiale stava guadagnando velocità di rotazione e potenza mentre l'oceano si ritirava dalla terra. Roran abbassò il cannocchiale sul bordo della coffa e vide che la cima annodata che Uthar aveva legato a dritta della poppa - per rilevare quando sarebbero entrati nel raggio di trazione del gorgo - ora galleggiava lungo l'Ala di Drago, invece di essere trascinata dalla scia come al solito. L'unico vantaggio era che navigavano con la corrente dell'Occhio a favore, e non contro. In caso contrario, non avrebbero avuto scelta se non aspettare che la marea cambiasse.


Di sotto, Roran sentì Uthar gridare ai profughi di andare ai remi. Un momento dopo, dai fianchi dell'Ala di Drago sbucarono due ordini di remi, facendo somigliare la nave a un gigantesco ragno d'acqua. Al ritmo di un tamburo, accompagnato dalle incitazioni di Bonden che segnavano il tempo, i remi si levarono in alto per poi affondare nel mare verde e riemergere lasciando bianche striature spumeggiami nella scia. L'Ala di Drago accelerò, più veloce delle corvette, ancora lontane dall'influenza dell'Occhio.


Roran osservava con affascinato terrore il dramma che si dipanava intorno a lui. L'elemento essenziale, il punto cruciale da cui dipendeva l'esito dell'impresa, era il tempo. Malgrado il ritardo, l'Ala di Drago, con lo sforzo congiunto di remi e velatura, sarebbe stata abbastanza veloce da superare l'Occhio? E le corvette - che avevano in quel momento messo in mare i remi - potevano accorciare la distanza fra loro e l'Ala di Drago, assicurandosi la salvezza? Non sapeva dirlo. Il tamburo segnava lo scorrere dei minuti; Roran era acutamente consapevole di ogni momento che passava. Rimase sorpreso quando un braccio sporse dal bordo della coffa, e comparve la faccia di Baldor, che lo guardò. «Dammi una mano. Ho paura di cadere.»


Puntellandosi con le gambe divaricate, Roran aiutò Baldor a issarsi nella coffa. Baldor gli porse una galletta e una mela rinsecchita, dicendo: «Ho pensato che forse avevi fame.» Con un cenno di gratitudine, Roran addentò la galletta e riprese a guardare col cannocchiale. Quando Baldor gli chiese: «Riesci a vedere l'Occhio?» Roran gli passò lo strumento e continuò a mangiare.


Per la mezz'ora che seguì, il gorgo di schiuma aumentò la sua velocità di rotazione fino a girare come una trottola. L'acqua intorno alla schiuma cominciò a gonfiarsi e a sollevarsi, mentre la schiuma stessa s'inabissava, sparendo dalla visuale sul fondo di una gigantesca voragine che continuava ad allargarsi. L'aria sul vortice si riempì di un ciclone di nebbia, e dalla gola nera dell'abisso si levò un ululato lacerante come quello di un lupo ferito.


La velocità con cui si andava formando l'Occhio del Cinghiale sconvolse Roran. «Sarà meglio che tu avverta Uthar» disse.


Baldor scavalcò il bordo della coffa. «Legati all'albero, altrimenti verrai spazzato via.»


«Lo farò.»


Roran lasciò le braccia libere quando si legò, tenendo il coltello a portata di mano nel caso che avesse dovuto tagliare le corde per liberarsi. L'ansia cresceva mentre studiava la situazione. L'Ala di Drago aveva già superato di un miglio la mediana dell'Occhio, con le corvette a due miglia di distanza, mentre l'Occhio stesso stava per raggiungere il parossismo della sua furia. A peggiorare le cose, il vento, disturbato dal gorgo, soffiava a singhiozzi, irregolare, spirando prima da una parte, poi dall'altra. Le vele si gonfiavano per un momento, poi si afflosciavano, poi si riempivano di nuovo, a seconda dell'umore del vento.


Forse Uthar aveva ragione, pensò Roran. Forse mi sono spinto troppo oltre e ho sfidato un avversano che non si può sconfìggere con la sola determinazione. Forse ho consegnato i miei compagni fra le braccia di un destino orrìbile. Le forze della natura erano immuni alle intimidazioni.


L'orbita dell'Occhio del Cinghiale doveva ormai misurare quasi dieci miglia di circonferenza, e nessuno poteva ! calcolare la profondità del gorgo, tranne quelli che vi erano rimasti intrappolati. I lati del vortice avevano una pendenza di quarantacinque gradi, solcati da rilievi simmetrici I come argilla bagnata plasmata sul tornio di un ceramista. : Il sordo ululato divenne più forte, finché a Roran non parve che tutto il mondo sarebbe crollato in frantumi per l'intensità delle vibrazioni. Un glorioso arcobaleno emerse dalla nebbia sull'abisso vorticante. La corrente li trascinava a rotta di collo, spingendo l'Ala di Drago rasente i margini del gorgo; la prospettiva di riuscire ad affrancarsi dalla porzione meridionale dell'Occhio era sempre più improbabile. Così prodigiosa era la corrente che l'Ala di Drago sbandò a dritta al punto che Roran si ritrovò sospeso sull'acqua ruggente.


Malgrado i progressi dell'Ala di Drago, le corvette continuavano a guadagnare terreno. Le navi nemiche veleggiavano ormai fianco a fianco col mercantile, a meno di un miglio di distanza, coi remi che si muovevano in perfetta sincronia, due pinne d'acqua che si levavano dalla prua che fendeva l'oceano. Roran non potè che ammirare lo spettacolo. Si rimise il cannocchiale nella camicia; ormai non gli serviva più. Le corvette erano abbastanza vicine da scorgerle a occhio nudo, mentre il gorgo era sempre più oscurato dalle nubi di vapore bianco che eruttava. Attirato verso gli abissi, il vapore formava una sorta di spirale che imitava lo stesso vortice.


Poi l'Ala di Drago virò a sinistra, divergendo dalla corrente mentre Uthar la governava verso il mare aperto. La chiglia rumoreggiò tagliando il mare spumeggiante, e la velocità della nave si dimezzò, mentre l'Ala di Drago combatteva contro il risucchio mortale dell'Occhio del Cinghiale. L'albero di maestra fu scosso da una violenta vibrazione che fece sbattere i denti di Roran, e la coffa sbandò nella direzione opposta, dandogli le vertigini.


Roran si accorse con terrore che rallentavano sempre di più. Si liberò dalle corde e sprezzante del pericolo scavalcò la coffa, si afferrò alle sartie e cominciò a scendere così rapido che a un tratto perse l'appiglio e precipitò per parecchi piedi prima di riuscire ad aggrapparsi di nuovo a una cima. Saltò sul ponte, corse verso il boccaporto di prua e scese al primo banco di remi, dove si unì a Baldor e Albriech che spingevano un lungo remo di quercia.


Non si scambiarono una sola parola, ma continuarono a vogare al suono del loro respiro affannato, al battito frenetico del tamburo, alle grida rauche di Bonden, e al ruggito dell'Occhio di Cinghiale. Roran sentiva il potente gorgo opporre resistenza a ogni colpo di remi.


Nonostante i loro sforzi, l'Ala di Drago sembrava bloccata in un punto morto. Non ce la faremo, pensò Roran. La schiena e le gambe gli dolevano per lo sforzo. I polmoni gli bruciavano. Fra un battito e l'altro del tamburo, sentì Uthar gridare ai marinai sul ponte di orientare le vele per sfruttare il vento infido.


Due file davanti a Roran, Darmen e Hamund lasciarono il posto a Thane e Ridley, poi si distesero al centro del corridòio, tremanti di fatica. Meno di un minuto dopo, qualcun altro crollò sfinito fra i banchi, e fu subito sostituito da Brigit e un'altra donna.


Se sopr•avviveremo, pensò Roran, sarà solo perché siamo così numerosi da poter sostenere questo ritmo per tutto il tempo necessario.


Gli parve di passare un'eternità inchiodato a quel remo, in quello spazio buio e fumoso, a spingere e tirare, spingere e tirare, facendo del suo meglio per ignorare il suo corpo che gridava pietà. Il collo gli faceva male per essere stato troppo a lungo chino sotto il basso soffitto. Il legno scuro del remo era striato di sangue, colato dalle vesciche che gli si erano formate per poi scoppiare. Si strappò di dosso la camicia facendo cadere il cannocchiale, l'avvolse intorno al remo e riprese a vogare.


Alla fine non ce la fece più. Le sue gambe cedettero e Roran cadde di lato, scivolando sul pagliolato, in un bagno di sudore. Orval prese il suo posto. Roran rimase immobile finché non riprese fiato, poi si mise carponi e strisciò verso il boccaporto. Come un ubriaco in preda a una sbornia colossale, risalì a tentoni la scaletta, barcollando a ogni movimento della nave e appoggiandosi alla paratia per riposare. Quando uscì sul ponte, si fermò un istante a inspirare l'aria fresca, poi arrancò verso poppa, con le gambe che minacciavano di tradirlo a ogni passo.


«Come va?» chiese ansimante a Uthar, che manovrava la ruota del timone.


Uthar scosse il capo.


Guardando oltre il parapetto, Roran vide le tre corvette a mezzo miglio di distanza, leggermente spostate a ovest, più vicine al centro dell'Occhio. Sembravano immobili rispetto all'Ala di Drago.


Lì per lì, Roran ebbe l'impressione che la posizione delle quattro navi restasse invariata. Poi avvertì un lieve mutamento nella velocità dell'Ala di Drago, come se la nave avesse superato un punto cruciale e le forze che la bloccavano si stessero arrendendo. Era una differenza sottile, non più di qualche piede al minuto, ma abbastanza perché la distanza fra il mercantile e le corvette aumentasse. A ogni colpo di remi, l'Ala di Drago guadagnava velocità. Le corvette non riuscivano comunque a contrastare la terrificante potenza del gorgo. I remi via via rallentarono finché, una dopo l'altra, le navi furono trascinate all'indietro verso il muro di nebbia, oltre il quale le attendevano le turbinanti pareti d'acqua nera e gli aguzzi scogli sul fondo dell'oceano.


Non riescono a remare, capì Roran. Gli uomini degli equipaggi sono troppo pochi e troppo stanchi. Non potè fare a meno di provare un impeto di compassione per il destino dei marinai sulle corvette.


In quel preciso istante, dalla nave più vicina fu scagliata un freccia, che scoppiò in una vampa di fiamme verdi prima di raggiungere l'Ala di Drago. La freccia doveva essere sostenuta dalla magia per volare così lontano. Colpì l'albero di mezzana ed esplose in globi di fuoco liquido che piovvero incendiando tutto quel che toccavano. Nel giro di pochi secondi, venti piccoli incendi ardevano lungo l'albero di mezzana, la vela, e il ponte di sotto.


«Non riusciamo a spegnerli» gridò uno dei marinai, in preda al panico.


«Tagliate tutto quello che brucia e gettatelo fuori bordo!» ruggì Uthar.


Sfoderando il pugnale da caccia, Roran si mise all'opera per asportare un grumo di fuoco verde dalle tavole ai suoi piedi. Passarono lunghi minuti di tensione, ma in breve tempo i fuochi innaturali furono eliminati e si ebbe la certezza che l'incendio non si sarebbe propagato al resto della nave.


Al grido di "Cessato allarme!", Uthar rilassò la stretta sulla ruota del timone. «Se questo è il massimo che riesce a fare il loro stregone, allora direi che non abbiamo nulla da temere.»


«Riusciremo a superare l'Occhio del Cinghiale, non è vero?» chiese Roran, aspettando con ansia una conferma alle sue speranze.


Uthar squadrò le spalle e sogghignò, orgoglioso e al tempo stesso incredulo. «Non per questo ciclo, ma ci siamo vicini. Non ci allontaneremo da quel mostro finché la marea non si sarà placata. Vai a dire a Bonden di rallentare il ritmo; non voglio che perdano i sensi ai remi se non è necessario.»


E così fu. Roran fece un altro turno ai banchi; il tempo di tornare sul ponte e si accorse che il gorgo stava diventando più piccolo. L'ululato spettrale del vortice si era ridotto al consueto rumore del vento; l'acqua aveva assunto un aspetto placido e piatto che mai avrebbe lasciato supporre la violenza che in genere si scatenava in quel punto; e la nebbia che aveva vorticato sull'abisso si dissolse sotto i caldi raggi del sole, lasciando l'aria tersa e limpida come vetro. Dell'Occhio del Cinghiale, notò Roran quando recuperò il cannocchiale dai banchi, non restava altro che il disco di schiuma giallastra che ruotava sull'acqua.


Al centro della spuma gli parve di scorgere tre alberi spezzati e una vela nera che continuavano a galleggiare in un circolo senza fine. Ma forse era soltanto uno scherzo della sua immaginazione.


O almeno fu ciò che si disse.


Elain lo raggiunse, una mano posata sul ventre gonfio. Con una vocina sottile, gli disse: «Siamo stati fortunati, Roran. Molto più fortunati di quanto avessimo ragione di sperare.»


«Già» mormorò lui.

Verso Aberon

Sotto le ali azzurre di Saphira, la densa foresta si estendeva da un orizzonte pallido all'altro, scolorendo via via dal più intenso dei verdi fino a un porpora sbiadito e caliginoso. Balestrucci, corvi e altri uccelli dei boschi volteggiavano sulle chiome dei pini nodosi, lanciando acute strida d'allarme non appena scorgevano Saphira. La dragonessa sorvolava bassa il fogliame per proteggere i due passeggeri dalle temperature artiche delle maggiori altitudini. Era la prima volta, da quando Saphira era sfuggita ai Ra'zac sulla Grande Dorsale, che lei e Eragon avevano l'opportunità di volare insieme per una grande distanza, senza doversi fermare ad aspettare compagni che viaggiavano via terra. Saphira in particolar modo si godeva il volo, compiaciuta di poter mostrare a Eragon come le lezioni di Glaedr avessero contribuito ad aumentare la sua forza e la sua resistenza.


Dopo l'iniziale imbarazzo, Orik disse a Eragon: «Dubito che mi troverò mai a mio agio per aria, ma capisco perché a te e a Saphira piace tanto. Volare ti fa sentire libero e indipendente, come un falco dalla vista acuta che caccia le prede. Mi batte il cuore, mi batte!»


Per alleviare la noia del viaggio, Orik cominciò a giocare agli indovinelli con Saphira. Eragon si astenne dalla gara perché non era mai stato bravo con gli enigmi; il pensiero macchinoso necessario a risolverli gli sfuggiva. In questo, Saphira era molto più brava di lui. Come tutti i draghi, era affascinata dagli indovinelli e li trovava piuttosto facili da risolvere.


«Gli unici indovinelli che conosco» disse Orik «sono nel linguaggio dei nani. Farò del mio meglio per tradurli, ma il risultato potrebbe suonare grossolano e poco scorrevole.» Poi disse:


Se son alta ho lunga vita, Ma se bassa son finita. Su di me risplende il fuoco, Se Urùr fiata duro poco. Non è giusto, ribattè Saphira. Non so niente dei vostri dei. Eragon non dovette ripetere le sue parole, perché Orik le aveva dato il permesso di proiettarle direttamente nella sua mente.


Orik rise. «Ti arrendi?»


Mai. Per qualche minuto, l'unico suono fu il rumore delle sue ali, finché non chiese: È la candela? «Esatto.»


Una piccola nube di fumo ardente investì la faccia di Orik ed Eragon quando la dragonessa sbuffò. Non me la cavo bene con questi indovinelli. Non sono stata dentro una casa da quando il mio uovo si è schiuso. Ho difficoltà a risolvere gli enigmi che riguardano oggetti domestici. Poi fu il suo turno.


Come si definiscono le più fedeli compagne dei draghi?


L'indovinello si rivelò piuttosto ostico per il nano. Orik borbottò e mugugnò e digrignò i denti per la frustrazione. Dietro di lui, Eragon sogghignava, perché vedeva la risposta a chiare lettere nella mente di Saphira. Alla fine, Orik disse: «Be', allora? Mi dichiaro sconfitto.»


La parola è composta E il suono s'accosta, Le ali è la risposta.


Fu la volta di Orik di protestare: «Non è giusto! Questa non è la mia lingua di origine. Non puoi aspettarti che conosca questi giochi di parole!»


Era un indovinello normalissimo.


Eragon guardò i muscoli del collo di Orik tendersi e gonfiarsi mentre il nano faceva scattare la testa avanti. «D'accordo, se la metti su questo piano, Zannediferro, allora risolvimi questo indovinello che conoscono perfino i bambini dei nani.»


Mi chiamano Forgia di Morgothal e Grembo di Helzvog. La Figlia di Nordvig nascondo morte grìgia diffondo, Col Sangue di Helzvog faccio nuovo il mondo. Chi sono?


Continuarono su questo tono, scambiandosi indovinelli di crescente difficoltà, mentre la Du Weldenvarden scorreva sotto di loro. Di tanto in tanto, nella volta verdeggiante si apriva uno squarcio che rivelava bagliori argentei, tratti dei numerosi fiumi che serpeggiavano per la foresta. Intorno a Saphira, le nuvole assumevano forme dall'architettura fantastica: archi, cupole, pilastri, bastioni scanalati, torrioni alti come montagne; e poi colline e valli immerse in una luce fiammante che dava a Eragon l'impressione di volare in un sogno.


Saphira fu così veloce che al calar della sera si erano già lasciati la Du Weldenvarden alle spalle e avevano raggiunto i prati verdeggianti che separavano la grande foresta dal Deserto di Hadarac. Si accamparono fra l'erba e si strinsero intorno a un piccolo falò, sentendosi terribilmente soli sulla terra. Erano scuri in volto e parlarono poco, perché le parole non facevano che sottolineare il loro ruolo insignificante in quella landa deserta e desolata. Eragon approfittò della sosta per immagazzinare energia nel rubino che ornava il pomo di Zar'roc. La gemma assorbì tutto il potere che le infuse, come anche quello di Saphira, che si prestò volentieri. Eragon giunse alla conclusione che ci sarebbero voluti parecchi giorni per saturare sia il rubino che i dodici diamanti nascosti nella cintura di Beloth il Savio.


Stanco per lo sforzo, si avvolse nelle coperte, si sdraiò accanto a Saphira e si abbandonò al suo stato di dormiveglia, dove i fantasmi della notte giocavano a rincorrersi con le stelle che brillavano in cielo.


Poco dopo aver ripreso il viaggio, l'indomani mattina, l'erba ondeggiante cedette il passo a un'arida prateria dagli steli sempre più secchi e sporadici, che alla fine furono sostituiti da un terreno brullo e bruciato dal sole, dove non cresceva niente se non le piante più resistenti. Comparvero le prime dune rosseggianti. Dall'alto sembrava di sorvolare una serie di onde che si susseguivano verso una costa remota.


Quando il sole cominciò a calare, Eragon notò in lontananza, a est, un gruppo di montagne e capì che si trattava delle Du Fells Nàngoròth, dove i draghi selvatici andavano per accoppiarsi, allevare i cuccioli e infine morire. Dobbiamo andarci, un giorno o l'altro, disse Saphira, seguendo il suo sguardo.


Sì.


Quella notte, Eragon sentì la solitudine più forte che mai, perché si erano accampati nella regione più desolata del Deserto di Hadarac, dove nell'aria c'era così poca umidità che le sue labbra si screpolarono presto, anche se le spalmava spesso di nalgask. Percepiva pochissima vita nel suolo, soltanto un pugno di miserabili piante, qualche insetto e qualche lucertola.


Come aveva fatto quando erano fuggiti da Gil'ead attraverso il deserto, Eragon trasse acqua dal suolo per riempire le borracce, e prima di consentire alla sabbia di riassorbire l'acqua, la usò per divinare Nasuada e vedere se i Varden erano già stati attaccati. Con sollievo, scoprì di no.


Il terzo giorno da quando erano partiti da Ellesméra, il vento prese a soffiare alle loro spalle, facendo diventare Saphira ancora più veloce e trasportandoli ai confini del deserto.


Sorvolarono una carovana di nomadi che indossavano lunghi mantelli per proteggersi dal calore. Gli uomini inveirono nel loro rozzo linguaggio e agitarono le spade e le lance contro Saphira, ma nessuno osò scagliare una freccia.


Eragon, Saphira e Orik bivaccarono quella notte nelle propaggini meridionali della Foresta Imbiancata che costeggiava il lago Tùdosten, così chiamata perché composta quasi soltanto da faggi, salici e pioppi tremuli. In contrasto con la perenne penombra che regnava sotto i pini della Du Weldenvarden, la Foresta Imbiancata era inondata di luce, di canti di allodole e del gentile fruscìo delle foglie verdi. Gli alberi emanavano un'aria giovane e spensierata, ed Eragon fu felice di trovarsi lì. E sebbene fosse sparita ogni traccia del deserto, il clima era molto più caldo rispetto a quanto Eragon era abituato in quel periodo dell'anno. Sembrava più estate che primavera.


Da lì volarono diretti ad Aberon, la capitale del Surda, guidati dalle indicazioni che Eragon trasse dai ricordi degli uccelli che incontrarono. Saphira non fece nulla per nascondersi durante il tragitto, e spesso udirono grida di stupore e di allarme levarsi dai villaggi che sorvolava.


Era tardo pomeriggio quando giunsero ad Aberon, una città bassa e fortificata che si sviluppava intorno a un picco roccioso, in un panorama altrimenti piatto. In cima al picco sorgeva il Castello Farnaci. L'irregolare cittadella era protetta da tre cinte di mura concentriche, numerose torri e, notò Eragon, centinaia di baliste costruite per abbattere i draghi. La calda luce ambrata del sole morente faceva risaltare i profili degli edifici di Aberon e illuminava una nuvola di polvere che si levava dal cancello ovest della città, dove una fila di soldati aspettava di entrare.


Mentre Saphira scendeva verso la corte interna del castello, Eragon entrò in contatto con la moltitudine di pensieri degli abitanti della capitale. Il frastuono dapprima lo confuse - come poteva ascoltare in cerca di nemici e restare vigile allo stesso tempo? - ma poi si rese conto che, come al solito, si era concentrato troppo sugli individui. Non doveva far altro che percepire le generali intenzioni della gente. Ampliò il suo raggio mentale, e le singole voci che reclamavano la sua attenzione si fusero in un flusso continuo di emozioni. Era come un velo impalpabile steso sul panorama, che si ondulava a seconda delle sensazioni delle persone e si gonfiava dove qualcuno era in preda a una forte passione. In questo modo, Eragon percepì l'allarme destato fra la gente dalla comparsa di Saphira. Attenta, le disse. Non voglio che ci attacchino.


La polvere si levò in piccoli mulinelli mentre Saphira batteva lentamente le ali per atterrare al centro del cortile, affondando gli artigli nel terreno per mantenere l'equilibrio. I cavalli legati nel cortile nitrirono di paura, suscitando un tale fracasso che Eragon decise di insinuarsi nelle loro menti per calmarli con dolci parole nell'antica lingua. Eragon smontò dopo Orik, tenendo d'occhio i molti soldati schierati lungo i merli e le minacciose baliste. Non temeva le armi, ma non aveva alcun desiderio di essere coinvolto in uno scontro con i suoi stessi alleati.


Un drappello di dodici uomini, alcuni dei quali erano soldati armati, uscì dal maschio per correre verso Saphira. Erano capitanati da un uomo alto con la pelle scura come quella di Nasuada, la terza persona con la pelle di quel colore che Eragon avesse incontrato. Fermandosi a dieci passi di distanza, l'uomo s'inchinò - come gli altri - e poi disse: «Benvenuto, Cavaliere. Io sono Dahwar, figlio di Kedar. Sono il siniscalco di re Orrin.»


Eragon inclinò la testa. «E io sono Eragon Ammazzaspettri, figlio di nessuno.»


«E io Orik, figlio di Thrifk.»


E io Saphira, figlia di Vervada, disse Saphira, usando Eragon come portavoce.


Dahwar s'inchinò di nuovo. «Mi scuso se non ci sono dignitari di più alto rango a ricevere ospiti del vostro prestigio, ma re Orrin, ledy Nasuada, e tutti i Varden sono da tempo in marcia per affrontare l'esercito di Galbatorix.» Eragon annuì. Se l'era aspettato. «Hanno lasciato ordine che se tu fossi venuto a cercarli, avresti dovuto unirti a loro direttamente, perché la tua presenza è indispensabile per avere una speranza di vittoria.»


«Puoi mostrarci su una mappa dove possiamo trovarli?» chiese Eragon.


«Ma certo, mio signore. Mentre mando a prenderla, non gradiresti cercare un riparo da questo calore e qualche rinfresco?»


Eragon fece di no con la testa. «Non abbiamo tempo da


perdere. Per giunta, non sono io che ho bisogno della mappa, ma Saphira, e dubito che lei entrerebbe nel vostro palazzo.»


Questo parve cogliere il siniscalco di sorpresa. Battè le palpebre e fece scorrere lo sguardo su Saphira, poi disse: «Naturalmente, mio signore. A ogni buon conto, la nostra ospitalità è a vostra disposizione. Se c'è qualcosa che tu e i tuoi compagni desiderate, non esitate a chiedere.»


Per la prima volta, Eragon si rese conto che poteva dare ordini e aspettarsi che venissero eseguiti. «Ci servono viveri per una settimana. Per me soltanto frutta, verdure, farina, formaggio, pane... cose del genere. E acqua per riempire le borracce.» Rimase colpito quando Dahwar non lo interrogò sulla mancanza di carne. Orik aggiunse la sua richiesta di carne salata, prosciutto e altri prodotti di analoga natura.


Con uno schiocco di dita, Dahwar mandò due servitori nel maschio a prendere le provviste. Mentre tutti aspettavano che tornassero, chiese: «Dalla tua presenza qui, Ammazzaspettri, posso desumere che il tuo addestramento con gli elfi è stato completato?»


«Il mio addestramento non finirà finché vivrò.»


«Capisco.» Poi, dopo un momento, Dahwar disse: «Ti prego di scusare la mia impertinenza, signore, perché non sono avvezzo agli usi dei Cavalieri, ma tu sei umano? Mi avevano detto che lo eri.»


«Certo che lo è» borbottò Orik. «È stato... cambiato. E tu dovresti rallegrarti per ciò che è diventato, altrimenti ci troveremmo in guai ben peggiori.» Dahwar fu abbastanza discreto da non indagare oltre, ma dai suoi pensieri Eragon arguì che il siniscalco avrebbe pagato uno sproposito per avere ulteriori dettagli: qualunque informazione su Eragon e Saphira era importante nel governo di Orrin.


Il cibo, l'acqua e la mappa arrivarono poco dopo, fra le braccia di due paggi dagli occhi sgranati. Su ordine di Eragon, posarono gli oggetti davanti a Saphira con aria terrorizzata, poi si rintanarono alle spalle di Dahwar. Inginocchiatosi per terra, Dahwar dispiegò la mappa, che raffigurava il Surda e i territori confinanti, e tracciò una linea in direzione nordovest, da Aberon a Cithri. «Le ultime notizie» disse «ci riferiscono che re Orrin e ledy Nasuada si sono fermati qui per gli approvvigionamenti. Non avevano intenzione di fermarsi, però, perché l'Impero avanza verso sud lungo il fiume Jiet, e volevano trovarsi già sul posto all'arrivo dell'armata di Galbatorix. A questo punto i Varden potrebbero trovarsi ovunque, fra la città di Cithri e il fiume Jiet. È soltanto la mia umile opinione, ma direi che il posto migliore per cercarli sono le Pianure Ardenti.»


«Le Pianure Ardenti?»


Dahwar sorrise. «Probabilmente le conosci con il loro antico


nome, quello che usavano gli elfi: Du Vòllar Eldrvarya.»


«Ah, sì.» Adesso Eragon rammentava. Ne aveva letto in una delle pergamene che Oromis gli aveva dato. Le pianure che contenevano enormi depositi di torba - si estendevano lungo la riva orientale dello Jiet, dove i confini del Surda lo attraversavano, ed erano state teatro di una feroce battaglia fra i Cavalieri e i Rinnegati. Durante lo scontro, i draghi avevano inavvertitamente incendiato la torba, e il fuoco scaturito dalle loro fauci era sceso in profondità, dov'era rimasto a covare fin da allora. La terra era diventata inospitale a causa dei fumi nocivi che uscivano dalle bocche rosseggianti aperte nel terreno carbonizzato.


Un brivido corse lungo la schiena di Eragon nel ricordare la premonizione: masse di guerrieri che si scontravano su un campo giallo e arancio, accompagnate dalle grida rauche dei corvi e dal sibilo delle frecce nere. Rabbrividì ancora. Il destino converge su di noi, disse a Saphira. Poi, indicando la mappa: Hai visto abbastanza?


Sì.


Muovendosi in fretta, lui e Orik infilarono le provviste nelle bisacce, rimontarono su Saphira, e dalla sua groppa ringraziarono Dahwar per i suoi servigi. Mentre Saphira stava per prendere il volo, Eragon trasalì: una nota discordante risuonava dalle menti che stava chiamando a sé. «Dahwar, due stallieri litigano nelle scuderie, e uno di loro, Tathal, ha intenzione di uccidere l'altro. Puoi fermarlo, però, se ti affretti a mandare là degli uomini.»


Dahwar spalancò gli occhi esterrefatto, e persino Orik si volse a guardare Eragon. Il siniscalco domandò: «Come lo sai, Ammazzaspettri?»


Eragon si limitò a rispondere: «Sono un Cavaliere.»


Poi Saphira dispiegò le ali, e tutti i presenti indietreggiarono rapidi per non essere investiti dallo spostamento d'aria quando la dragonessa le spinse verso il basso e si librò nel cielo. Mentre il Castello Farnaci rimpiccioliva dietro di loro, Orik chiese: «Riesci a sentire i miei pensieri, Eragon?»


«Vuoi che ci provi? Non l'ho mai fatto, lo sai.»


«Prova.»


Aggrottando la fronte, Eragon concentrò la sua attenzione sulla coscienza del nano e rimase sorpreso nel trovarla ben protetta da forti barriere mentali. Percepiva la presenza di Orik, ma non i suoi pensieri e le sue sensazioni. «Niente.» Orik sogghignò, soddisfatto. «Bene. Volevo essere sicuro di non aver dimenticato le antiche lezioni.» Per tacito accordo, non si fermarono per la notte, ma continuarono a volare nel cielo buio. Non c'era traccia di luna o di stelle, né luci né distanti chiarori a illuminare le tenebre opprimenti. Le ore si trascinarono lente, aggrappandosi a ogni secondo, come riluttanti a concedersi al passato.


Quando finalmente tornò il sole, portando con sé la sospirata luce, Saphira si posò sulle rive di un laghetto perché Eragon e Orik potessero sgranchirsi le gambe, rinfrescarsi e fare colazione senza il costante movimento che subivano stando sulla sua schiena.


Si erano appena levati di nuovo in volo quando una lunga e bassa nube marrone comparve all'orizzonte, come una macchia d'inchiostro scuro su un foglio di carta immacolato. La nube divenne sempre più ampia a mano a mano che Saphira si avvicinava, finché nella tarda mattinata non arrivò a oscurare l'intera terra sotto una cappa di vapori nauseabondi.


Avevano raggiunto le Pianure Ardenti di Alagaésia.

Le Pianure Ardenti

Eragon tossì mentre Saphira perforava lo strato di fumo planando verso il fiume Jiet, nascosto dalla densa foschia. Socchiuse le palpebre e si asciugò le lacrime. I vapori acri gli bruciavano gli occhi.


Vicino al suolo, l'aria era più limpida e permise a Eragon di avere una visuale completa della loro destinazione. Il velo increspato di fumo nero e rosso filtrava i raggi del sole in maniera tale che ogni cosa al di sotto era immersa in una malsana luce arancione. Squarci sporadici nel cielo offuscato lasciavano passare pallidi raggi di luce che colpivano il terreno, dove restavano come pilastri di vetro translucido finché non venivano recisi dalle nubi in movimento. Il fiume Jiet scorreva davanti a loro, gonfio e sinuoso come un serpente satollo; la superficie screziata di ombre rifletteva la stessa spettrale sfumatura che pervadeva le Pianure


incontaminata illuminava il fiume, l'acqua appariva opaca, gessosa,


sembrava risplendere di luce propria.

Ardenti. Perfino quando un raggio di luce come il latte di qualche bestia spaventosa, e

Due eserciti erano schierati lungo la riva orientale del fiume. A sud c'erano i Varden e gli uomini del Surda, appostati dietro numerosi baluardi difensivi, dove avevano disposto eleganti vessilli, file di tende e i destrieri della cavalleria reale di Orrin. Per quanto apparissero forti, il loro numero impallidiva al confronto con la moltitudine di forze assemblate a nord. L'esercito di Galbatorix era così imponente che misurava tre miglia da parte a parte, e quante miglia in lunghezza era impossibile da stabilire, perché i singoli individui si confondevano in una massa scura in lontananza. Fra i due schieramenti di acerrimi nemici c'era una zona franca larga all'incirca due miglia. Quella terra, e la terra su cui erano accampate le milizie, era costellata da innumerevoli orifizi da cui guizzavano verdi lingue di fuoco. Era da quelle livide torce che si levavano i fumi che oscuravano il sole. Non esisteva una sola traccia di vegetazione sul terreno bruciato, a parte chiazze di licheni neri, arancione e verdognoli che dall'alto conferivano alla terra un aspetto pustoloso e infetto.


Era il panorama più ostile che Eragon avesse mai visto.


Saphira emerse dalla cappa di nubi sulla terra di nessuno che separava i due schieramenti; virò e scese in picchiata verso i Varden, alla massima velocità possibile, poiché fino a quando rimanevano esposti all'Impero erano vulnerabili agli attacchi di stregoni nemici. Eragon dilatò la mente in ogni direzione, in cerca di coscienze ostili che potessero percepire la sua presenza invasiva e reagire: le menti degli stregoni e quelle di coloro che erano addestrati a difendersi dagli stregoni.


Quello che invece avvertì fu l'improvviso panico che travolse le sentinelle dei Varden, molte delle quali, si rese conto, non avevano mai visto Saphira. La paura fece loro ignorare il buon senso, e scagliarono un nugolo di frecce per intercettarla.


Alzando la mano destra, Eragon gridò: «Letta orya thorna!» Le frecce si arrestarono in aria. Con uno scatto del polso e la parola "Ganga", Eragon le deviò verso la terra di nessuno, dove si conficcarono nel terreno bruciato senza fare danni. Soltanto una freccia gli sfuggì, perché era stata scagliata qualche secondo dopo la prima raffica. Sporgendosi il più possibile a destra, e più rapido di qualsiasi umano, Eragon afferrò la freccia in volo mentre Saphira la incrociava.


Ad appena cento piedi dal suolo, Saphira dispiegò le ali per rallentare la discesa, e atterrò prima sulle zampe posteriori e poi su quelle anteriori, piombando fra le tende dei Varden spinta dall'inerzia.


«Werg» ringhiò Orik, sciogliendo le cinghie che gli serravano le gambe. «Preferirei trovarmi faccia a faccia con una dozzina di Kull piuttosto che ripetere un atterraggio del genere.» Si lasciò penzolare da un lato della sella, poi saltò sulla zampa davanti di Saphira e da lì, sul terreno.


Mentre anche Eragon smontava, decine di guerrieri attoniti si radunarono intorno a Saphira. Dal centro della mischia si fece largo a spintoni un energumeno che Eragon riconobbe all'istante: era Fredric, il maestro d'armi dei Varden nel Farthen Dùr, che indossava come sempre la corazza irsuta di pelle di bue. «Chiudete quelle bocche penzoloni, idioti!» ruggì Fredric. «Non restate lì impalati; tornate ai vostri posti o vi faccio assegnare il doppio dei turni!» Alle sue parole, la folla cominciò a disperdersi, fra borbottii risentiti e occhiate furtive. Quando Fredric si avvicinò, Eragon notò la sua reazione davanti al proprio aspetto tanto mutato. L'omaccione barbuto fece del suo meglio per nascondere lo stupore toccandosi la fronte e dicendo: «Benvenuto, Ammazzaspettri. Sei arrivato giusto in tempo... Non sai quanto mi vergogno per quell'aggressione. L'onore di ogni uomo sarà macchiato da questa ignominia. Siete rimasti feriti?» «No.»

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