Non mi sarei mai aspettata di incontrare un altro drago, tranne Shruikan. Magari di sottrarre le nova a Galbatorix, questo sì, ma le mie speranze si limitavano a questo. E invece adesso! La dragonessa fremette di gioia sotto di lui. Glaedr è incredibile, non trovi? È così vecchio e forte, e le sue squame sono così brillanti. Dev'essere due, no, tre volte più grosso di me. Hai visto che artigli? Sono...


Continuò così per lunghi minuti, sperticandosi di lodi per le qualità di Glaedr. Ma più forti delle sue parole erano le emozioni che Eragon percepiva ribollire in lei: frenesia ed entusiasmo, mescolati a qualcosa che si poteva definire soltanto struggente adorazione.


Eragon tentò di raccontare a Saphira quanto aveva appreso da Oromis - poiché sapeva che lei non aveva prestato attenzione - ma scoprì che era impossibile farle cambiare argomento. Rimase seduto in silenzio sul suo dorso, il mondo un oceano di smeraldo, e si sentì la persona più sola dell'universo.


Tornati ai loro alloggi, Eragon decise di non andare a passeggio; era troppo stanco per gli eventi della giornata e le settimane di viaggio. E Saphira era più contenta di accucciarsi nel suo giaciglio e continuare a chiacchierare di Glaedr, mentre lui esplorava i misteri dello stanzino da bagno degli elfi.


Arrivò la mattina, e con essa un pacchetto avvolto in carta velina con il rasoio e lo specchio che Oromis gli aveva promesso. La lama era di fattura elfica, perciò non aveva bisogno di essere affilata. Sorridendo, Eragon prima fece un bagno nell'acqua calda e fumante, poi prese lo specchio e si studiò il volto.


Sembro più vecchio. Più vecchio e più sfibrato. Non era solo quello: i suoi lineamenti si erano fatti più affilati, dandogli un aspetto ascetico, da falco. Non era un elfo, ma nessuno lo avrebbe scambiato per un puro umano se lo avesse ispezionato da vicino. Tirandosi indietro i capelli, portò alla luce le orecchie, che ora terminavano con una leggera punta, ulteriore prova di quanto il suo legame con Saphira lo stesse cambiando. Si toccò un orecchio, seguendo il profilo inconsueto con le dita.


Gli era difficile accettare la trasformazione della carne. Pur sapendo che sarebbe successo - e a volte ne considerava la prospettiva con entusiasmo, come conferma definitiva del suo essere Cavaliere - la realtà del cambiamento lo riempiva di confusione. Si risentiva del fatto di non avere voce in capitolo su come il suo corpo veniva alterato, eppure allo stesso tempo era curioso di scoprire dove lo avrebbe condotto il processo. E poi sapeva di trovarsi nel pieno dell'adolescenza umana, e nel suo regno di misteri e difficoltà.


Quando finalmente capirò chi sono e che cosa sono?


Posò il filo del rasoio sulla guancia, come aveva visto fare a Garrow, e lo fece scorrere sulla pelle. I peli vennero via a chiazze, ma rimasero troppo lunghi in alcuni punti. Cambiò l'angolazione della lama e provò di nuovo, con un po' più di successo.


Quando raggiunse il mento, però, il rasoio gli sfuggì di mano e gli procurò un taglio dall'angolo della bocca fin sotto la mascella. Ululò di dolore e lasciò cadere il rasoio, premendosi la mano sulla ferita, da cui fiottava sangue sul collo. Sibilando le parole a denti stretti, disse: «Waise heill.» Il dolore scemò, mentre la magia gli ricuciva la pelle, anche se il cuore ancora gli batteva per lo shock.


Eragon! gridò Saphira. Infilò a forza la testa e le spalle nel vestibolo e aprì la porta del camerino con il muso, dilatando le narici all'odore del sangue.


Sopravviverò, la rassicurò lui.


Lei scoccò un'occhiata all'acqua tinta di rosso. Devi stare più attento. Ti preferisco con la peluria a chiazze come un cervo in periodo di muta, che non decapitato per una rasatura spinta troppo a fondo.


Anch'io. Adesso vai, sto bene.


Saphira brontolò e si ritrasse a malincuore.


Eragon restò seduto a guardare con odio il rasoio. Alla fine borbottò: «Al diavolo!» e si ricompose, ripassando il suo inventario di parole nell'antica lingua per scegliere quelle che gli servivano. Si fece rotolare sulla lingua l'incantesimo improvvisato, e una debole pioggia di polvere nera gli cadde dalla faccia, mentre la rada peluria svaniva, lasciandogli le guance perfettamente lisce.


Soddisfatto, Eragon andò a sellare Saphira, che subito si alzò in volo, diretta verso la rupe di Tel'naeìr. Atterrarono davanti al capanno dove trovarono Oromis e Glaedr ad attenderli.


Oromis esaminò la sella di Saphira. Seguì ogni cinghia con le dita, soffermandosi sulle cuciture e sulle fibbie, e poi lo dichiarò un lavoro discreto, considerato come e quando era stato eseguito. «Brom è sempre stato bravo con le mani. Usa questa sella quando vuoi viaggiare a gran velocità. Ma quando vuoi stare comodo...» rientrò nel capanno e ricomparve con una grossa sella ricurva, decorata da incisioni dorate sul sedile e sugli alloggiamenti per le gambe, «... usa questa. È stata fatta a Vroengard e dotata di potenti incantesimi perché non ti tradisca mai nel momento del bisogno.»


Eragon barcollò sotto il peso della sella ricevuta da Oromis. Per forma era simile a quella di Brom, con una serie di fibbie che servivano a immobilizzargli le gambe. Il cuoio del sedile era sagomato per consentirgli di volare per ore senza stancarsi, sia seduto eretto che proteso sul collo di Saphira. Inoltre le corregge che cingevano il petto di Saphira erano dotate di passanti e nodi per poterle allungare e adattarsi alla sua crescita. Una serie di lunghi legacci ai lati del pomo della sella catturarono l'attenzione di Eragon. Ne chiese lo scopo.


Glaedr borbottò: Servono a legarti i polsi e le braccia per non farti morire come un topo sballottato quando Saphira esegue una manovra complessa.


Oromis aiutò Eragon a liberare Saphira dalla sella. «Saphira, oggi tu andrai con Glaedr, mentre io lavorerò qui con Eragon.»


Come desideri, disse lei, vibrante di eccitazione. Sollevando la mole dorata dal suolo, Glaedr prese il volo verso nord, seguito a ruota da Saphira.


Oromis non diede tempo a Eragon di riflettere sull'eccessivo entusiasmo di Saphira, e lo condusse in un recinto quadrato di terra compatta, sotto un salice dall'altro lato della radura. Parandosi davanti a lui, Oromis disse: «Sto per mostrarti la Rimgar, la Danza del Serpente e della Gru. Si tratta di una serie di pose che sviluppammo per preparare i nostri guerrieri al combattimento, anche se adesso gli elfi la usano per mantenere la salute e la forma fisica. La Rimgar consiste in quattro livelli, ognuno più difficile del precedente. Cominceremo dal primo.»


L'apprensione per il compito che lo aspettava fece venire a Eragon una tale nausea che quasi non riusciva a muoversi. Strinse i pugni e incurvò le spalle, con la cicatrice che gli tirava la pelle della schiena, tenendo lo sguardo fisso a terra. «Rilassati» lo ammonì Oromis. Eragon aprì le mani e le lasciò pendere dalle braccia rigide. «Ti ho chiesto di rilassarti, Eragon. Non puoi eseguire la Rimgar se resti rigido come un ciocco di legno.»


«Sì, maestro.» Eragon fece una smorfia e a malincuore sciolse i muscoli e le articolazioni, anche se gli rimaneva un nodo di tensione nello stomaco.


«Tieni i piedi uniti e paralleli, e le braccia lungo i fianchi. Guarda dritto avanti a te. Ora fai un respiro profondo e alza le braccia sopra la testa, unendo i palmi... Sì, così. Espira e flettiti in avanti il più possibile, toccando il terreno con le mani. Fai un altro respiro... e torna indietro. Bene. Inspira, inarca il busto all'indietro e guarda verso il cielo... ed espira, alzando il bacino fino a formare un triangolo. Inspira con la gola... ed espira. Inspira... ed espira. Inspira...» Con sommo sollievo di Eragon, gli esercizi si dimostrarono abbastanza agevoli da non innescare il dolore alla schiena, pur essendo abbastanza difficili da farlo sudare e ansimare. Si ritrovò a sorridere di gioia. Svanita ogni traccia di diffidenza, Eragon passò fluidamente da una posizione all'altra - molte delle quali mettevano a dura prova la sua flessibilità - con più energia e sicurezza che prima della battaglia del Farthen Dùr. Forse sono guarito! Oromis eseguì la Rimgar insieme a lui, mostrando un livello di forza e flessibilità che sbalordì Eragon, soprattutto pensando all'età del maestro. L'elfo riusciva a toccarsi la punta dei piedi con la fronte. Durante tutta la seduta di allenamento, rimase impeccabile e composto, come se stesse facendo una semplice passeggiata nei prati. Impartiva gli ordini con più calma e pazienza di Brom, ma con inflessibile rigore. Non permetteva alcuna distrazione. «Laviamoci il sudore» disse Oromis, quando ebbero terminato.


Andarono al torrente che scorreva vicino alla casa e si spogliarono in fretta. Eragon scoccò un'occhiata furtiva all'elfo, curioso di vedere com'era senza vestiti. Oromis era molto magro, ma i suoi muscoli erano perfettamente delineati, guizzanti sotto la pelle con la perfezione di una scultura di legno. Non aveva peli sul torace e sulle gambe, e nemmeno all'inguine. Il suo corpo sembrava quasi grottesco, in confronto agli uomini che Eragon era abituato a vedere a Carvahall, anche se possedeva una certa raffinata eleganza, come quella di un gatto selvatico.


Quando si furono lavati, Oromis condusse Eragon nel folto della Du Weldenvarden, fino a una conca protetta da alberi cupi, inclinati verso il centro a oscurare il cielo con l'intrico di rami e brandelli penzolanti di licheni. I piedi gli affondavano nel muschio fino alle caviglie. Tutto era immerso nel silenzio.


Indicando un ceppo bianco dalla sommità liscia e piatta al centro della conca, Oromis disse: «Siediti lì.» Eragon obbedì. «Incrocia le gambe e chiudi gli occhi.» Il mondo intorno a lui piombò nell'oscurità. Alla sua destra, sentì Oromis bisbigliare: «Apri la mente, Eragon. Apri la mente e ascolta il mondo intorno a te, i pensieri di ogni essere di questa radura, dalle formiche negli alberi ai vermi nella terra. Ascolta finché non li sentirai tutti e comprenderai la loro natura e il loro scopo. Ascolta, e quando non sentirai più nulla, mi dirai che cosa hai imparato.»


Poi la foresta tacque.


Non sapendo se Oromis se ne fosse andato, Eragon provò ad abbassare le difese della mente per dilatare la coscienza, come faceva quando cercava di chiamare Saphira a grandi distanze. Al principio si ritrovò circondato dal vuoto, ma poi barlumi di luce e calore cominciarono a comparire nell'oscurità, crescendo d'intensità finché non si trovò al centro di una galassia di costellazioni vorticanti, e ciascun puntino brillante rappresentava una vita. Ogni volta che aveva chiamato altri esseri con la mente, come Cadoc, Fiammabianca o Solembum, il suo fuoco si era sempre concentrato su quello con cui voleva comunicare. Ma in quel momento... era come se fosse stato sordo in mezzo a una folla e all'improvviso potesse sentire i flussi di conversazione che scorrevano intorno a lui.


Di colpo si sentì vulnerabile; era completamente esposto al mondo. Chiunque o qualunque cosa volesse impadronirsi della sua mente e controllarlo, avrebbe potuto farlo in quell'istante. La tensione lo indusse a ritirarsi in se stesso, e la consapevolezza che aveva della conca scomparve. Ricordando una delle lezioni di Oromis, Eragon rallentò la respirazione e controllò l'espansione dei polmoni fino a rilassarsi abbastanza da riaprire la mente. Di tutte le vite che percepiva, la stragrande maggioranza appartenevano agli insetti. Rimase sbalordito dal loro numero immenso. Decine di migliaia di minuscoli esseri dimoravano in un fazzoletto di muschio, milioni e milioni nel resto della piccola conca, e chissà quanti oltre. Eragon ebbe quasi paura. Aveva sempre saputo che in Alagaésia gli umani erano pochi e isolati, ma non si sarebbe mai immaginato che fossero superati in numero perfino dagli scarafaggi. Poiché erano fra i pochi insetti che conosceva, e Oromis le aveva menzionate, Eragon si concentrò sulle colonne di formiche rosse che marciavano sul terreno e risalivano lungo gli steli di un cespuglio di rose selvatiche. Ciò che colse non furono tanto pensieri - i loro cervelli erano troppo primitivi - ma urgenze: l'urgenza di trovare cibo ed evitare pericoli, l'urgenza di difendere il territorio, l'urgenza di accoppiarsi. Studiando gli istinti delle formiche, cominciò a riconoscere i loro comportamenti.


Lo affascinò scoprire che - tranne i rari individui che si avventuravano in esplorazione fuori dai confini del loro territorio - le formiche sapevano esattamente dove stavano andando. Pur non riuscendo a individuare il meccanismo che le guidava, notò che seguivano precisi percorsi dai loro nidi al cibo e viceversa. La fonte di cibo fu un'altra sorpresa. Come si era aspettato, le formiche uccidevano altri insetti e si nutrivano di loro, ma la maggior parte dei loro sforzi era concentrata sulla coltivazione di... di qualcosa che punteggiava il cespuglio di rose. Qualunque forma di vita fosse, era appena percettibile. Si concentrò con tutte le sue forze per identificarla e soddisfare la propria curiosità. La risposta fu così semplice che gli venne da ridere quando comprese: afidi. Le formiche si comportavano come pastori di afidi, guidandoli e proteggendoli, ed estraevano da essi il nutrimento massaggiando le loro pance con la punta delle antenne. Eragon non riusciva quasi a crederci, ma più le guardava, più si convinceva di avere ragione. Seguì le formiche nel sottosuolo, nel complesso labirinto di cunicoli, e osservò come si prendevano cura di un particolare membro della loro specie, molto più grosso di una normale formica. Tuttavia il ruolo dell'insetto gli rimase oscuro; non vide altro che servitori che gli sciamavano intorno, ruotandolo e rimuovendo particelle di materia che produceva a intervalli regolari.


Dopo un po', Eragon decise che aveva tratto ogni informazione possibile dalle formiche - a meno che non volesse restare lì seduto per il resto della giornata - e stava per tornare nel suo corpo quando uno scoiattolo balzò nella radura. La sua comparsa fu come un lampo abbagliante per Eragon, che si era ormai abituato alle minuscole lucine delle formiche. Sconcertato, fu travolto da un'ondata di sensazioni e sentimenti che scaturivano dall'animale. Annusò la foresta col suo naso, sentì la corteccia cedere sotto le unghie curve e l'aria frusciare intorno alla coda eretta come un pennacchio. In confronto a una formica, lo scoiattolo ardeva di energia e possedeva un'indiscutibile intelligenza. Poi saltò su un altro ramo e si dileguò dalla sua coscienza.


La foresta sembrava molto più buia e silenziosa di prima, quando Eragon aprì gli occhi. Trasse un profondo respiro e si guardò intorno, apprezzando per la prima volta tutta la vita esistente al mondo. Allungando le gambe indolenzite, si avvicinò al cespuglio di rose. Si chinò a esaminarne i rametti, che infatti erano coperti di afidi e dei loro guardiani cremisi. E vicino alla base della pianta c'era il cumulo di aghi di pino che contrassegnava l'ingresso del formicaio. Era strano vederlo con i suoi propri occhi: nulla tradiva le numerose, sottili interazioni di cui adesso era consapevole. Assorto nei suoi pensieri, Eragon tornò nella radura, chiedendosi che cosa potesse mai calpestare a ogni passo. Quando emerse dal folto degli alberi, rimase di stucco nel vedere quanto si era spostato il sole. Devo essere rimasto seduto lì almeno tre ore.


Trovò Oromis nel capanno, intento a scrivere con un calamo di penna d'oca. L'elfo terminò la riga, poi pulì la punta del calamo, chiuse la boccetta dell'inchiostro e chiese: «Cos'hai sentito, Eragon?»


Eragon non vedeva l'ora di raccontare. Mentre descriveva l'esperienza, sentì la propria voce traboccare di entusiasmo nel soffermarsi sui dettagli della società delle formiche. Riferì tutto quanto riuscì a ricordare, fino alle più piccole e insignificanti osservazioni, orgoglioso delle informazioni che aveva raccolto.


Quando ebbe finito, Oromis inarcò un sopracciglio. «Tutto qui?»


«Ma...» Eragon cadde in preda allo sconforto nel rendersi conto che aveva in qualche modo mancato lo scopo dell'esercizio. «Sì, Ebrithil.»


«E che mi dici degli altri organismi nella terra e nell'aria? Sai dirmi cosa facevano mentre le tue formiche si occupavano delle loro greggi?»


«No, Ebrithil.»


«Ecco il tuo errore. Devi renderti consapevole di tutte le cose in eguai misura e non concentrarti su un particolare soggetto. Questa è una lezione essenziale, e finché non ci sarai riuscito, mediterai sul ceppo ogni giorno per un'ora.» «Come saprò quando ci sarò riuscito?»


«Quando potrai osservare uno e comprendere il tutto.»


Oromis fece cenno a Eragon di unirsi a lui a tavola, poi gli pose davanti un foglio di carta immacolato, insieme a un calamo e a una boccetta d'inchiostro. «Finora hai avuto una conoscenza incompleta dell'antica lingua. Nessuno sa riconoscere ogni singola parola di essa, ma devi familiarizzare con la grammatica e le strutture sintattiche, in modo da non tentare il suicidio per colpa di un verbo messo al posto sbagliato o errori del genere. Non mi aspetto che parli la nostra lingua come un elfo - ci vorrebbe una vita - ma mi aspetto che tu acquisisca una competenza inconscia. Voglio dire, devi essere in grado di usarla senza pensare.


«Inoltre devi imparare a leggere e scrivere nell'antica lingua. Ti aiuterà a memorizzare le parole, e in più è una capacità essenziale al fine di comporre un incantesimo particolarmente lungo se non ti fidi della tua memoria, o se trovi un incantesimo scritto e vuoi usarlo.


«Ogni razza ha sviluppato un proprio sistema per scrivere nell'antica lingua. I nani usano il loro alfabeto runico, come gli umani. Ma si tratta di metodi improvvisati che non sono in grado di esprimere le vere sottigliezze della lingua come fa la nostra Liduen Kvaedhi, la Poetica Scrittura. La Liduen Kvaedhi è stata creata per essere il più elegante, raffinata e precisa possibile. È composta da quarantadue forme diverse che rappresentano svariati suoni e si possono combinare in una gamma pressoché infinita di glifi che rappresentano sia parole individuali che intere frasi. Il simbolo sul tuo anello è uno di questi glifi. Il simbolo su Zar'roc un altro... Cominciamo: quali sono i principali suoni vocalici dell'antica lingua?»


«Cosa?»


L'ignoranza di Eragon sulle sfumature dell'antica lingua fu subito evidente. Quando aveva viaggiato con Brom, il vecchio cantastorie si era adoperato perché Eragon imparasse a memoria liste di parole che potevano essergli utili per sopravvivere, come anche a perfezionare la pronuncia. Se l'era cavata egregiamente in questi due campi, ma non sapeva nemmeno spiegare la differenza fra articolo determinativo e indeterminativo. Oromis non mostrò in alcun modo di essere irritato per le lacune nella sua istruzione, e invece cominciò a lavorare alacremente per colmarle. A un certo punto, durante la lezione, Eragon commentò: «Non ho mai avuto bisogno di molte parole per i miei incantesimi. Brom pensava che avessi un talento naturale, visto quello che riuscivo a fare solo con brisingr. Credo di aver usato l'antica lingua soprattutto quando parlavo con Arya nella sua mente, e quando ho benedetto un'orfana nel Farthen Dùr.»


«Hai benedetto una bambina nell'antica lingua?» disse Oromis, allarmato. «Ricordi come hai formulato la benedizione?» «Sicuro.»


«Recitala per me.» Eragon ripete le parole, e un'espressione di puro orrore si dipinse sul volto di Oromis, che esclamò: «Hai usato skòlirl Sei sicuro? Non era skoliro?»


Eragon si accigliò. «No, skolir. Perché non avrei dovuto usarla? Skolir significa protetta... "e che tu possa essere protetta dalla sventura". Era una benedizione.»


«Non è stata una benedizione, ma una maledizione.» Oromis era agitato come Eragon non l'aveva mai visto. «Il suffisso o forma il participio passato dei verbi che finiscono in rei. Skoliro significa protetto, ma skolir significa protezione. Quello che hai detto è: "Che la fortuna e la felicità ti assistano e che tu possa essere una protezione dalla sventura". Invece di preservare quella bambina dai capricci del fato, l'hai condannata a sacrificarsi per gli altri, ad assorbire le loro miserie e le loro sofferenze perché possano vivere in pace.»


No, no! Non può essere! Eragon tentò di negare la possibilità con tutte le sue forze. «Gli effetti di un incantesimo non sono determinati soltanto dal senso delle parole, ma anche dalle intenzioni, e io non avevo intenzione di farle del male...»


«Non puoi rinnegare la natura intrinseca di una parola. Piegarla, sì. Guidarla, certo. Ma non contraddire la sua definizione per implicare l'esatto contrario.» Oromis congiunse i polpastrelli, con lo sguardo fisso sul tavolo, la bocca ridotta a una sottile riga bianca. «So bene che non intendevi farle del male, altrimenti i miei insegnamenti finirebbero qui. Se eri sincero e il tuo cuore puro, allora questa benedizione causerà meno tribolazioni di quanto temo, pur restando fonte di più sofferenze di quante vorremmo.»


Eragon fu scosso da un tremito violento nel rendersi conto di quanto aveva fatto alla vita della bambina. «Magari non cancellerà il mio errore» mormorò, «ma forse potrà alleviarlo: Saphira ha marchiato la bambina sulla fronte, come marchiò il mio palmo con il gedwéy ignasia.»


Per la prima volta in vita sua, Eragon vide un elfo restare di stucco. Oromis spalancò gli occhi e strinse così forte i braccioli della sedia che il legno gemette. «Una persona che porta il segno dei Cavalieri, ma non è un Cavaliere» mormorò alla fine. «In tutta la mia lunga vita, non ho mai conosciuto qualcuno come voi due. Ogni decisione che prendete sembra avere conseguenze che superano di gran lunga ogni previsione. Cambiate il mondo con il vostro arbitrio.»


«Ed è un bene o un male?»


«Né l'uno, né l'altro. È così e basta. Dove si trova adesso la bambina?» Eragon impiegò qualche istante per rimettere ordine nei propri pensieri. «Con i Varden, quindi nel Farthen Dùr o nel Surda. Credi che il marchio di Saphira l'aiuterà?» «Non lo so» rispose Oromis. «Non esistono precedenti su cui basarmi per capirlo.»


«Devono esserci dei modi per cancellare la benedizione, per annullare un incantesimo.» Eragon stava quasi implorando.


«Ci sono. Ma perché siano efficaci, dovresti essere tu a utilizzarli, e per il momento non puoi allontanarti da qui. Perfino nelle migliori circostanze, residui della tua magia perseguiteranno la bambina per sempre. Questo è il potere dell'antica lingua.» Fece una pausa. «Vedo che hai compreso la gravita della situazione, perciò te lo dirò soltanto una volta: su di te pesa la totale responsabilità del destino di quella bambina e a causa del torto che le hai fatto sarà tuo compito aiutarla, se mai dovesse presentarsi questa necessità. Per la legge dei Cavalieri, lei rappresenta la tua vergogna, come se l'avessi generata fuori dal vincolo matrimoniale, un disonore fra gli umani, se ben ricordo.»


«Sì» mormorò Eragon. «Capisco.» Capisco che ho costretto una bambina indifesa a seguire un certo destino senza averle dato scelta. Può qualcuno essere davvero buono se non ha mai avuto l'opportunità di comportarsi male? Io l'ho resa schiava. E sapeva anche che se lo avessero vincolato in quel modo senza il suo consenso, avrebbe odiato il suo carceriere con ogni fibra del suo essere.


«Allora non ne parleremo mai più.»


«Sì, Ebrithil.»


Eragon era ancora sconvolto, addirittura depresso, alla fine della giornata. A stento alzò lo sguardo quando uscirono per andare incontro a Saphira e Glaedr che tornavano. Gli alberi ondeggiarono per la furia del vento che i due draghi crearono con le loro ali. Saphira sembrava orgogliosa di sé; inarcò il collo e avanzò fiera verso Eragon, schiudendo le fauci in un ghigno lupesco.


Una pietra si frantumò sotto il peso di Glaedr, quando il vecchio drago puntò un occhio gigantesco - grande quanto un vassoio da portata - su Eragon, e chiese: Quali sono le tre regole per individuare le correnti discendenti, e le cinque regole per sfuggirle?


Riscosso dai propri pensieri, Eragon potè soltanto battere le palpebre perplesso. «Non lo so.»


Allora Oromis si rivolse a Saphira e le domandò: «Quali creature allevano le formiche, e come estraggono nutrimento da esse?»


Non saprèi, dichiarò Saphira. Sembrava offesa.


Un lampo di collera illuminò lo sguardo di Oromis, che incrociò le braccia, pur conservando un'espressione calma. «Dopo tutte le cose che voi due avete fatto insieme, credevo che aveste imparato la lezione basilare di uno Shur'tugal: condividere tutto con il proprio compagno. Taglieresti il tuo braccio destro? Voleresti con un'ala soltanto? Mai. Allora perché ignorare il legame che vi unisce? Così facendo, rinnegate il vostro dono più grande e il vantaggio che avete sugli avversari. Badate che non si tratta di parlarsi con la mente, ma di fondere le vostre coscienze fino ad agire e pensare come un'entità unica. Mi aspetto che entrambi sappiate cosa viene insegnato all'altro.»


«E la nostra intimità?» obiettò Eragon.


Intimità? disse Glaedr. Tenete per voi i vostri pensieri quando siete lontani da qui, se così vi aggrada, ma finché siamo i vostri maestri, non ci sarà posto per le cose private.


Eragon guardò Saphira, sentendosi peggio di prima. Lei evitò il suo sguardo, poi pestò una zampa per terra e si voltò di scatto. Allora?


Hanno ragione. Siamo stati negligenti.


Non è colpa mia.


Non ho detto che lo fosse. Ma la dragonessa intuì la sua opinione: era geloso delle attenzioni che rivolgeva a Glaedr e di come questo la allontanasse da lui. Faremo del nostro meglio, vero?


Naturale! ribatte lei.


Tuttavia Saphira si rifiutò di porgere le proprie scuse a Oromis e Glaedr, lasciando il compito a Eragon. «Non vi deluderemo più.»


«Ci conto. Domani vi interrogheremo su ciò che ha imparato l'altro.» Oromis aprì il palmo e mostrò un ninnolo rotondo di legno. «Finché ti ricorderai di caricarlo regolarmente, questo congegno ti aiuterà a svegliarti a tempo debito ogni mattina. Torna non appena ti sarai lavato e avrai mangiato.»


Quando Eragon lo prese in mano, si accorse che l'oggetto aveva un peso sorprendente. Grande quanto una noce, recava incise profonde spirali che si annodavano intorno a una piccola manopola, intagliata a forma di bocciolo di rosa muschiata. Provò a girare la manopola e udì tre scatti, mentre un meccanismo nascosto cominciava ad avanzare. «Grazie» disse.

Sotto l'albero di Menoa

Dopo aver salutato i maestri, Eragon e Saphira tornarono in volo alla loro casa sull'albero, con la nuova sella che penzolava fra gli artigli della dragonessa. Senza nemmeno accorgersene, a poco a poco aprirono le menti e permisero al loro legame di ampliarsi e approfondirsi, anche se nessuno dei due chiamò l'altro consapevolmente. Tuttavia le emozioni di Eragon dovevano essere così tumultuose che Saphira le percepì comunque, perché domandò: Che cosa è successo?


Eragon avvertì un dolore pulsante dietro agli occhi mentre le spiegava il terribile crimine che aveva commesso nel Farthen Dùr. Saphira rimase sgomenta quanto lui. Eragon disse: Il tuo dono potrebbe aver aiutato quella bambina, ma ciò che ho fatto non ha scuse e le procurerà solo del male.


La colpa non è soltanto tua. Io condivido la tua conoscenza dell'antica lingua, e non ho individuato l'errore come te. Quando Eragon rimase in silenzio, aggiunse: Se non altro la schiena non ti ha fatto male, oggi. Rallegrati di questo. Lui borbottò un assenso, riluttante ad abbandonare il cattivo umore. £ tu cos'hai imparato in questa bella giornata? A identificare ed evitare elementi atmosferici pericolosi. Fece una pausa, pronta a condividere i suoi ricordi con lui, ma Eragon era troppo angosciato per la benedizione distorta per indagare oltre. Né poteva tollerare il pensiero di entrare in intimità così presto. Quando non la interrogò sulla materia, Saphira si ritirò nel silenzio.


Tornati agli alloggi, Eragon trovò un vassoio di cibo accanto alla porta scorrevole, come la sera prima. Portò il vassoio a letto - che era stato cambiato con lenzuola fresche di bucato - e cominciò a mangiare, contrariato dalla mancanza di carne. Indolenzito dalla Rimgar, si appoggiò con la schiena ai cuscini, e stava per addentare il primo boccone quando sentì un lieve picchiettio all'uscio. «Avanti» ringhiò. Bevve un sorso d'acqua.


Per poco non soffocò quando Arya entrò nella stanza. Si era spogliata dei soliti indumenti di pelle per indossare una leggera tunica verde stretta in vita da una cintura tempestata di pietre di luna. Si era anche tolta la fascia per capelli, che adesso le ricadevano in morbide onde intorno al viso e sulle spalle. Il cambiamento più evidente, tuttavia, non era tanto nell'abbigliamento, quanto nell'atteggiamento: la lieve tensione che la permeava da quando Eragon l'aveva conosciuta era scomparsa.


Finalmente sembrava tranquilla.


Lui si affannò a scendere dal letto, notando che lei era a piedi nudi. «Arya! Come mai sei venuta?» Sfiorandosi le labbra con le dita, lei disse: «Hai intenzione di passare un'altra serata in casa?»


«Io...»


«Sei a Ellesméra da tre giorni, e ancora non hai visto niente della città. Eppure so che hai sempre desiderato visitarla. Dimentica la stanchezza e vieni con me.» Avvicinandosi a lui, prese Zar'roc e gli fece cenno di seguirla. Passarono nel vestibolo, dove scesero attraverso la botola e lungo la ripida scala a chiocciola che circondava il tronco. In alto, banchi di nuvole rosseggiavano per gli ultimi raggi del sole, che presto scomparve oltre i confini del mondo. Un pezzo di corteccia cadde sulla testa di Eragon, che guardò in alto per vedere Saphira affacciata dalla camera da letto, aggrappata al legno con gli artigli. Senza dispiegare le ali, la dragonessa spiccò un balzo e atterrò cento piedi più in basso, sollevando un turbine di polvere. Vengo anch'io.


«Naturale» disse Arya, come se non si aspettasse altro. Eragon si accigliò; avrebbe voluto restare da solo con lei, ma evitò di lamentarsi.


Camminarono sotto gli alberi, dove le tenebre già allungavano i loro tentacoli dai tronchi cavi, dalle crepe nei massi e dalle grondaie nodose. Qua e là, una lanterna tremolava dal fianco di un albero o all'estremità di un ramo, proiettando coni di luce su entrambi i lati del sentiero.


Gli elfi illuminati dal raggio delle lanterne erano perlopiù individui solitari, tranne qualche sporadica coppia. Molti erano seduti in alto fra i rami e suonavano leggiadre melodie con le loro siringhe di canne, mentre altri contemplavano il cielo con espressione serena, né del tutto svegli, né del tutto addormentati. Un elfo era seduto a gambe incrociate davanti a un tornio da ceramista che ruotava a ritmo costante, mentre un vaso delicato prendeva forma sotto le sue mani. La gatta mannara, Maud, era accovacciata al suo fianco nell'ombra, intenta a guardare l'opera. I suoi occhi lampeggiarono d'argento quando vide Eragon e Saphira. L'elfo seguì il suo sguardo e li salutò con un cenno del capo senza fermarsi. Attraverso gli alberi, Eragon intravvide un elfo maschio o femmina, chissà - accovacciato su un masso al centro di un torrente, impegnato a mormorare un incantesimo sul globo di vetro che teneva stretto fra le mani. Eragon tese il collo nel tentativo di vedere meglio, ma lo spettacolo era già svanito nel buio.


«Cosa fanno gli elfi» domandò Eragon a bassa voce per non disturbare nessuno «per vivere o come professione?» Arya rispose in tono altrettanto pacato. «La nostra profonda conoscenza delle arti magiche ci garantisce tutto il tempo libero che vogliamo. Non andiamo a caccia e non coltiviamo, e di conseguenza passiamo le giornate ad approfondire i nostri interessi, quali che siano. Non esistono molte cose per cui dobbiamo sforzarci.»


Attraverso una galleria di sanguinella tappezzata di rampicanti, entrarono nell'atrio di una casa cresciuta da un anello di alberi. Un rifugio senza pareti occupava il centro dell'atrio, che ospitava una forgia e un assortimento di strumenti che Eragon sapeva avrebbe fatto felice Horst.


Un'elfa impugnava un paio di piccole tenaglie infilate in un cumulo di braci ardenti, azionando un mantice con la mano destra. Con rapidità sorprendente, estrasse le tenaglie dal fuoco - rivelando un anello d'acciaio incandescente stretto fra le ganasce - poi infilò l'anello nel bordo di un corsaletto di maglia incompleto appeso sull'incudine, prese un martello e saldò le estremità dell'anello con un colpo solo, in un'esplosione di scintille.


Soltanto allora Arya si avvicinò. «Atra esterni ono thelduin.»


L'elfa li guardò, il collo e le guance arrossati dalla luce violenta delle braci. Come una fitta filigrana incisa nella pelle, il suo volto era solcato da un delicato intrico di rughe, la più grande dimostrazione di età che Eragon avesse mai visto in un elfo. Non rispose ad Arya, un gesto che lui sapeva essere scortese e offensivo, specie dal momento che la figlia della regina l'aveva onorata parlando per prima.


«Rhunòn-elda, ti porto a conoscere il nuovo Cavaliere, Eragon Ammazzaspettri.»


«Ho sentito che eri morta» disse Rhunòn ad Arya. La sua voce era rauca, molto diversa da quella degli altri elfi. Ricordava a Eragon quella dei vecchi di Carvahall, seduti sotto il portico di casa a fumare la pipa e narrare storie. Arya sorrise. «Quand'è stata l'ultima volta che sei uscita di casa, Rhunòn?»


«Dovresti saperlo. È stato per quella Festa di Mezza Estate dove mi hai trascinata a forza.»


«Tre anni fa.»


«Sul serio?» Rhunòn aggrottò la fronte, mentre premeva sulle braci e le copriva con una grata. «E allora? Trovo irritante la compagnia. Soltanto un mucchio di chiacchiere insulse che...» S'interruppe per rivolgere un'occhiata torva ad Arya. «Perché parliamo in questa stupida lingua? Immagino che tu voglia farmi forgiare una spada per lui. Lo sai che ho giurato di non creare mai più strumenti di morte, non dopo che quel Cavaliere traditore ha portato morte e distruzione con la mia lama.»


«Eragon possiede già una spada» disse Arya. Alzò la mano e mostrò Zar'roc all'elfa.

Rhunòn prese Zar'roc con espressione stupita. Accarezzò il fodero color vinaccia, indugiò sul simbolo nero inciso, tolse una piccola incrostazione di terra dall'elsa, poi chiuse le dita sull'impugnatura ed estrasse la spada con tutta l'autorità di un guerriero. Esaminò entrambi i fili della spada, e flette la lama fra le mani finché Eragon non ebbe paura che si spezzasse. Poi, con un unico movimento, Rhunòn fece roteare Zar'roc in alto e la calò con forza sulle tenaglie, spezzandole in due con un tintinnio sonoro.


«Zar'roc» mormorò Rhunòn. «Mi ricordo di te.» Cullò la spada come una madre avrebbe fatto con il suo primogenito. «Perfetta come il giorno in cui hai visto la luce.» Voltando la schiena, alzò lo sguardo ai rami nodosi, mentre seguiva con le dita i contorni del pomello. «L'intera vita ho trascorso a forgiare queste spade dal metallo grezzo. Poi arrivò lui e le distrusse. Secoli di fatica cancellati in un istante. Sapevo che soltanto quattro esemplari della mia arte erano sopravvissuti. La sua spada, quella di Oromis, e altre due custodite da famiglie che erano riuscite a sottrarle ai Wyrdfell.»


Wyrdfell? domandò Eragon ad Arya con la mente.


Un altro nome per chiamare i Rinnegati.


Rhunòn si rivolse a Eragon. «Ora Zar'roc è tornata da me. Di tutte le mie creazioni, questa è l'ultima che mi aspettavo di rivedere. Come sei entrato in possesso della spada di Morzan?»


«Mi è stata data da Brom.»


«Brom?» L'elfa soppesò la spada con aria distratta. «Brom... mi ricordo di Brom. Mi implorò di sostituire per lui la spada che aveva perduto. Avrei voluto aiutarlo con tutto il cuore, ma avevo già pronunciato il mio giuramento. Il mio rifiuto lo fece andare su tutte le furie. Oromis dovette stenderlo con un colpo perché non voleva andarsene.» Eragon accolse l'informazione con interesse. «La tua spada mi ha servito bene, Rhunòn-elda. Sarei morto da tempo se non fosse stato per Zar'roc. Con essa ho ucciso lo Spettro Durza.»


«Davvero? Allora un po' di bene l'ha fatto.» Rinfoderò la spada e la restituì a malincuore al giovane, poi rivolse lo sguardo a Saphira. «Ah, lieta di conoscerti, Skulblaka.»


Piacere mio, Rhunon-elda.


Senza nemmeno prendersi il disturbo di chiedere il permesso, Rhunòn si avvicinò alla spalla di Saphira e le sfiorò una squama con le unghie corte, inclinando la testa da un lato e dall'altro nel tentativo di esaminare la placca translucida. «Bel colore. Non come quei draghi marroni, tutti fangosi e scuri. A dire il vero, la spada di un Cavaliere dovrebbe essere dello stesso colore del suo drago, e questo azzurro sarebbe stato perfetto per una lama...» Il pensiero parve sottrarle energia. Tornò all'incudine e guardò avvilita le tenaglie spezzate, come se non le importasse più di sostituirle. Eragon aveva la sensazione che sarebbe stato un peccato chiudere la conversazione su quel mesto registro, ma non riusciva a pensare a un modo corretto per cambiare argomento. Il corsaletto scintillante catturò la sua attenzione e, mentre lo studiava, rimase sbalordito nel vedere che ogni anello era saldato. Poiché gli anelli così piccoli si raffreddavano rapidamente, di solito bisognava saldarli prima di unirli al pezzo di maglia principale, il che significava che anche la maglia più fine - come l'usbergo di Eragon - era composta da elementi alternativamente saldati e ribattuti. A meno che il fabbro non possedesse la rapidità e la precisione dell'elfa.


Eragon disse: «Non ho mai visto una maglia come la tua, nemmeno fra i nani. Dove trovi la pazienza di saldare ogni anello? Perché non usi la magia e ti risparmi la fatica?»


Non si sarebbe mai aspettato lo sfogo di passione che infiammò Rhunòn. L'elfa scrollò la testa dai corti capelli e disse: «E privarmi del piacere del lavoro? Certo, tutti noi elfi possiamo usare la magia per soddisfare i nostri desideri, e alcuni lo fanno, ma allora che significato ha la vita? Come riempiresti il tempo? Dimmelo.»


«Non lo so» ammise Eragon.


«Perseguendo ciò che più ami. Quando puoi ottenere tutto quello che vuoi pronunciando qualche parola, non ha più importanza la meta, ma il viaggio per raggiungerla. Una lezione che ti servirà. Ti troverai ad affrontare lo stesso dilemma, un giorno, se vivrai abbastanza... Ma ora andate! Sono stanca di queste chiacchiere.» A queste parole, Rhunòn tolse il coperchio dalla forgia, prese un nuovo paio di tenaglie e immerse un anello nelle braci, azionando il mantice con foga.


«Rhunòn-elda» disse Arya, «ricorda. Tornerò a prenderti alla vigilia di Agaetf Blòdhren.» Un borbottio fu l'unica risposta.


Il ritmico tintinnio dell'acciaio sull'acciaio, solitario come il verso di un allocco nella notte, li accompagnò mentre ripassavano nel tunnel di sanguinella e riprendevano il sentiero. Alle loro spalle, Rhunòn non era più che una sagoma nera china sul bagliore rosseggiante della forgia.


«Ha fabbricato tutte le spade dei Cavalieri?» chiese Eragon. «Fino all'ultima?»


«Questo e anche di più. È il più grande fabbro mai esistito. Ho pensato che sarebbe stato interessante incontrarvi, sia per lei che per te.»


«Grazie.»


È sempre così brusca? chiese Saphira.


Arya rise. «Sempre. Per lei nulla ha importanza tranne il suo lavoro, ed è famosa per non tollerare che qualcosa o qualcuno interferisca con esso. Tuttavia sopportiamo le sue stravaganze per le sue incredibili capacità.» Mentre parlava, Eragon cercò di trovare il significato di Agaeti Blodhren. Era sicuro che blodh stesse per sangue, e che blò'dhren significasse quindi giuramento di sangue, ma non aveva mai sentito la parola agaeti.


«Celebrazione» gli spiegò Arya. «La Celebrazione del Giuramento di Sangue si tiene una volta ogni secolo, per onorare il nostro patto con i draghi. Siete entrambi fortunati a trovarvi qui in questa occasione, perché siamo molto vicini...» Le sopracciglia oblique si incontrarono quando aggrottò la fronte. «Il fato ha predisposto la più augurale delle coincidenze.»


Continuò a condurre Eragon sempre più nel folto della Du Weldenvarden, lungo sentieri fiancheggiati da ortiche e cespugli di uvaspina, finché la luce intorno a loro svanì e si addentrarono nella natura selvaggia. Nel buio, Eragon dovette affidarsi all'acuta visione notturna di Saphira per non smarrirsi. Gli alberi nodosi e contorti diventarono sempre più grandi e fitti, minacciando di formare una barriera impenetrabile. Proprio quando sembrava che non fosse possibile proseguire oltre, la foresta terminò per aprirsi su una radura bagnata dal chiaro di luna della falce che splendeva nel cielo a oriente.


Un pino solitario svettava al centro della radura. Non più alto del resto dei suoi simili, era però largo quando un centinaio di tronchi messi insieme; in confronto, gli altri pini sembravano giovani alberelli in balia del vento. Un tappeto di radici si estendeva dal tronco massiccio, coprendo il terreno di venature legnose che davano l'impressione che l'intera foresta nascesse dall'albero, come se fosse il cuore della Du Weldenvarden stessa. L'albero troneggiava nel bosco come una matriarca benevola, proteggendo i suoi abitanti sotto il tetto dei suoi rami.


«Questo è l'albero di Menoa» sussurrò Arya. «Festeggiamo l'Agaeti Blòdhren nella sua ombra.» Un brivido gelido corse lungo la schiena di Eragon nel ricordare quel nome. Dopo che Angela gli aveva predetto la sorte a Teirm, Solembum gli si era avvicinato dicendo: Quando giungerà il momento e ti servirà un'arma, guarda sotto l'albero di Menoa. Poi, quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime. Eragon non riusciva a immaginare quale tipo di arma potesse nascondersi sotto l'albero, né come avrebbe potuto trovarla.


Vedi niente? chiese a Saphira.


No, ma dubito che le parole di Solembum avranno un senso finché non si presenterà l'occasione. Eragon riferì ad Arya l'ammonimento del gatto mannaro, anche se, come aveva fatto con Ajihad e Islanzadi, tenne per sé la profezìa di Angela a causa della sua natura personale, e perché temeva che potesse indurre Arya a indovinare la sua attrazione per lei.


Quando ebbe finito, Arya disse: «I gatti mannari di rado offrono aiuto, ma quando lo fanno non devono essere ignorati. Per quanto ne so, non c'è nessuna arma sepolta qui, e non ne parlano nemmeno i canti o le leggende. Per quanto riguarda la rocca di Kuthian... il nome mi riecheggia nella mente come una voce da un sogno dimenticato, familiare, eppure estraneo. L'ho già sentito, ma non ricordo dove.»


Mentre si avvicinavano all'albero di Menoa, l'attenzione di Eragon fu catturata dalla moltitudine di formiche che zampettavano sulle radici. Gli insetti non erano che minuscoli puntini neri, ma il compito che Oromis gli aveva affidato lo aveva reso più attento alle forme di vita che lo circondavano, e adesso riusciva a percepire la primitiva coscienza delle formiche nella mente. Abbassò le difese e consentì alla propria coscienza di fluire all'esterno, sfiorando Saphira e Arya per poi espandersi e vedere che cos'altro viveva nella radura.


All'improvviso incontrò un'immensa entità, un essere senziente di una natura così colossale da non poter trovare i confini della sua psiche. Persino il vasto intelletto di Oromis, con cui Eragon era entrato in contatto nel Farthen Dùr, era modesto in confronto a questa presenza. L'aria stessa sembrava ronzare di energia e forza emanata da... dall'albero? La fonte era inequivocabile.


Con deliberata e inesorabile volontà, i pensieri dell'albero si espansero a ritmo misurato, lento come l'avanzare del ghiaccio sul granito. Non si soffermò su Eragon, ne era certo, né sui singoli individui, ma abbracciò completamente tutte le cose che crescevano e prosperavano al sole, dall'apocino al giglio, dall'enagra alla serica digitale alla senape gialla che svettava alta dietro il melo selvatico dai boccioli purpurei.


«È sveglio!» esclamò Eragon, sbalordito. «Voglio dire... è intelligente.» Sapeva che anche Saphira lo percepiva; la dragonessa allungò la testa verso l'albero di Menoa, come in ascolto, poi volò su uno dei suoi rami, grosso quanto la strada che portava da Carvahall a Therinsford. Lì rimase appollaiata, facendo ondeggiare con grazia la coda penzoloni. Era uno spettacolo così inconsueto, un drago su un albero, che Eragon quasi scoppiò a ridere.


«Certo che è sveglia!» disse Arya. La sua voce era bassa e melodiosa nell'aria notturna. «Vorresti sentire la storia dell'albero di Menoa?»


«Volentieri.»


Una sagoma bianca sfrecciò nel cielo come un fantasma e si posò accanto a Saphira. Era Blagden. Le spallucce e il collo corto del corvo gli davano l'aspetto di uno spilorcio che si bea al fulgore dell'oro. Il corvo levò la pallida testa e lanciò il suo profetico grido: «Wyrda!»


«Ecco cosa accadde. Un tempo viveva una donna, Linnéa, negli anni delle spezie e del vino, prima della nostra guerra contro i draghi, e prima che diventassimo immortali, come lo può essere una creatura pur sempre fatta di carne vulnerabile. Linnéa era invecchiata senza il conforto di un compagno o dei figli, ma non ne aveva mai sentito la mancanza, poiché preferiva dedicarsi all'arte del cantare alle piante, di cui era maestra. Questo finché un giovane uomo non bussò alla sua porta e la circuì con parole d'amore. Il suo affetto risvegliò in lei una parte che non aveva mai sospettato di avere, un forte desiderio di sperimentare le cose che aveva inconsapevolmente sacrificato. L'offerta di una seconda opportunità era troppo allettante per ignorarla. Trascurò il suo lavoro e si dedicò al ragazzo, e per un certo periodo furono felici.


«Ma l'uomo era giovane, e cominciò a desiderare una compagna più vicina alla sua età. I suoi occhi caddero su una fanciulla, e lui la corteggiò e la conquistò. E per un certo periodo anche loro furono felici.


«Quando Linnéa scoprì di essere stata ripudiata, tradita e abbandonata, impazzì di dolore. Il giovane uomo aveva fatto la peggiore cosa possibile: le aveva dato un assaggio della pienezza della vita, per poi negargliela senza farsi il minimo scrupolo, come un galletto che passa da una gallina all'altra. Linnéa lo trovò con la donna e, in un accesso d'ira, lo pugnalò a morte.


«Linnéa sapeva di aver fatto una cosa terribile. Sapeva anche che se anche l'avessero perdonata per il delitto, non sarebbe mai potuta tornare alla sua esistenza precedente. La vita aveva perso ogni gioia per lei. Così andò vicino all'albero più antico della Du Weldenvarden, premette il suo corpo contro il tronco e si cantò dentro l'albero, recidendo ogni legame con la propria razza. Per tre giorni e tre notti cantò, e quando ebbe finito, era diventata tutt'uno con le sue adorate piante. E da allora, nel corso dei millenni, ha fatto la guardia alla foresta. Così nacque l'albero di Menoa.»

Al termine del racconto, Arya ed Eragon si sedettero fianco a fianco su di un'enorme radice sporgente. Eragon faceva rimbalzare i talloni contro il legno, domandandosi se Arya gli avesse raccontato quella storia come monito o soltanto come semplice aneddoto.


Il suo dubbio divenne certezza quando lei gli domandò: «Credi che la colpa della tragedia sia del giovane uomo?» «Credo» disse lui, sapendo che una risposta inadeguata l'avrebbe fatta infuriare «che quello che fece lui fu crudele, e che Linnéa reagì in maniera spropositata. Erano entrambi in torto.»


Arya continuò a fissarlo, finché lui non abbassò lo sguardo. «Non erano fatti l'uno per l'altra.»


Eragon fece per obiettare, ma si fermò. Arya aveva ragione. E lo aveva manipolato perché fosse lui a dirlo ad alta voce, perché fosse lui a dirlo a lei. «Può darsi» ammise.


Il silenzio crebbe fra di loro come sabbia che si accumula a formare una barriera, senza che nessuno dei due avesse intenzione di abbatterla. L'acuto frinire delle cicale riecheggiava dai margini della radura. Alla fine, lui disse: «Sembri felice di essere tornata a casa.»


«Lo sono.» Con estrema naturalezza, l'elfa si chinò a raccogliere un rametto che era caduto dall'albero di Menoa e cominciò a intrecciare un cestino con una manciata di aghi di pino.


Eragon si sentì affluire il sangue al viso mentre la guardava. Sperò che il debole chiarore della luna non bastasse a rivelare le chiazze rosse che gli imporporavano le guance. «Dove... dove vivi? Tu e Islanzadi avete un palazzo o un castello...?»


«Viviamo nel Palazzo di Tialdari, la residenza dei nostri antenati, nella zona ovest di Ellesméra. Mi piacerebbe mostrarti la nostra casa, un giorno.»


«Ah.» Una domanda tecnica s'intromise nei pensieri confusi di Eragon, scacciando l'imbarazzo. «Arya, tu hai dei fratelli o delle sorelle?» Lei fece di no con la testa. «Allora sei l'unica erede al trono degli elfi?»


«Naturalmente. Perché me lo chiedi?» Suonò perplessa per la sua curiosità.


«Non capisco come mai ti sia stato concesso di diventare ambasciatrice presso i Varden e i nani, come anche di portare l'uovo di Saphira avanti e indietro da qui a Tronjheim. È una missione troppo pericolosa per una principessa, ancor più per una futura regina.»


«Vuoi dire troppo pericoloso per una donna umana. Ti ho già detto che non sono una delle vostre femmine inermi. Quello che non riesci a capire è che noi consideriamo i nostri sovrani in maniera diversa da quella vostra o dei nani. Per noi, la più grande responsabilità di un re o di una regina è quella di servire il popolo comunque e dovunque. Se questo significa sacrificare la nostra vita, abbracciamo con gioia l'occasione di dimostrare la nostra devozione, come dicono i nani, alla patria, al clan e all'onore. Se fossi morta nello svolgimento del mio dovere, sarebbe stato scelto un successore negli altri vari casati. Perfino adesso non è detto che diventi regina, se trovassi sgradevole la prospettiva. Noi non scegliamo monarchi che non siano disposti a dedicarsi del tutto ai loro obblighi.» Esitò, poi si strinse le ginocchia al petto e ci posò sopra il mento. «Non sai quanti anni ho passato a discutere questo argomento con mia madre.» Per un minuto, il cri-cri delle cicale proseguì indisturbato nella radura. Poi lei gli domandò: «Come vanno gli studi con Oromis?»


Eragon borbottò nel sentir riaffiorare il malumore indotto dai brutti ricordi che avvelenarono il piacere di stare con Arya. In quel momento desiderò soltanto ficcarsi sotto le coperte, dormire e dimenticare tutto. «Oromis-elda» disse, facendo attenzione a ogni parola prima di pronunciarla «è alquanto meticoloso.»


Lui trasalì quando l'elfa gli strinse il braccio con forza. «Qualcosa è andato storto?»


Lui cercò di liberarsi dalla stretta. «Niente.»


«Ho viaggiato con te abbastanza a lungo da sapere quando sei felice, arrabbiato... o sofferente. È successo qualcosa fra te e Oromis? Se è così, devi dirmelo perché si possa rimediare il prima possibile. O è stata la schiena? Potremmo...» «Non si tratta dell'addestramento!» Malgrado l'irritazione, Eragon notò che l'elfa sembrava sinceramente preoccupata, e in cuor suo ne fu contento. «Chiedi a Saphira. Lei può dirtelo.»


«Voglio sentirlo da te» rispose lei in tono sommesso.


Eragon strinse i denti, con la mascella contratta percorsa dagli spasmi. A bassa voce, non più di un sussurro, prima le descrisse come aveva fallito nella meditazione nella conca, poi l'incidente che gli ammorbava il cuore come una vipera in seno: la benedizione.


Arya gli liberò il braccio e si afferrò alla radice dell'albero di Menoa, come se stesse per cadere. «Barzul.» L'imprecazione dei nani lo allarmò; non l'aveva mai sentita pronunciare blasfemie prima, e quella era particolarmente adatta, poiché significava sciagura. «Sapevo del tuo gesto nel Farthen Dùr, ma non avrei mai pensato... mai sospettato che fosse successo una cosa del genere. Imploro il tuo perdono, Eragon, per averti costretto a lasciare la tua stanza, questa notte. Non ho compreso la tua pena. Volevi restare da solo.»


«No» disse lui, «no. Apprezzo la compagnia e le cose che mi hai mostrato.» Le sorrise e, dopo un istante, lei ricambiò il sorriso. Insieme rimasero seduti alla base dell'antico albero e contemplarono la luna che tracciava un arco nel cielo sopra la foresta silenziosa, prima di essere nascosta da un banco di nubi. «Mi chiedo solo che ne è stato della bambina.»


In alto sopra le loro teste, Blagden arruffò le penne candide e gridò: «Wyrda!»

Nasuada incrociò le braccia senza preoccuparsi davanti a lei.


Quello a destra aveva il collo così grosso che la testa gli sporgeva dalle spalle quasi ad angolo retto, dandogli un'aria ottusa. Per giunta aveva la fronte sporgente solcata da due sopracciglia così cespugliose da nascondergli quasi gli occhi, e labbra carnose che teneva strette a formare un fungo rosa, anche quando parlava. Ma Nasuada sapeva bene di non doversi fidare di quell'apparenza ripugnante. Per quanto alloggiata in un muso da idiota, la lingua dell'uomo era tagliente come un rasoio.


L'unica nota distintiva dell'altro era la pelle pallida, che si rifiutava di scurirsi persino sotto il sole inclemente del Surda, anche se i Varden si trovavano ad Aberon, la capitale, ormai da settimane. Dal suo colorito, Nasuada capì che era nato nelle propaggini più settentrionali dell'Impero. Teneva in mano un berretto di lana che continuava a torcere come uno straccio.


«Tu» fece lei, puntandogli un dito contro. «Quante galline dici che ti ha ucciso?»


«Tredici, signora.»


Nasuada rivolse la sua attenzione a quello brutto. «Un numero sempre sfortunato, mastro Gamble. Così è stato per te. Sei colpevole di furto e distruzione di proprietà altrui, senza aver offerto la ricompensa adeguata.» «Non l'ho mai negata.»


«Mi chiedo soltanto come hai fatto a mangiare tredici galline in quattro giorni. Non ti senti mai pieno, mastro Gamble?» Lui le rivolse un ghigno scherzoso e si grattò una guancia. Il rumore prodotto dalle unghie sulla barba incolta la infastidì, e fu soltanto grazie a un immane sforzo di volontà che evitò di chiedergli di smettere. «Be', non per mancare di rispetto, signora, ma riempirmi lo stomaco non sarebbe un problema se tu ci nutrissi come si deve, con tutto il lavoro che facciamo. Io sono un uomo grande e grosso, e devo riempirmi la pancia dopo mezza giornata passata a spaccare pietre con una mazza. Ho fatto del mio meglio per resistere alla tentazione, davvero. Ma tre settimane di razionamento, passate a guardare questi contadini che allevano grasso bestiame senza volerlo condividere con un morto di fame... Be', devo ammetterlo, ho ceduto. Non sono forte quando si tratta di cibo. Mi piace caldo e in abbondanza. E non credo di essere l'unico a volersi servire da solo.»


È questo il problema, si disse Nasuada. I Varden non potevano permettersi di sfamare a dovere tutti i loro membri, nemmeno con l'aiuto di Orrin, il re del Surda. Orrin aveva spalancato i suoi forzieri, ma si rifiutava di comportarsi come faceva Galbatorix quando spostava l'esercito nell'Impero, ossia requisire le scorte alimentari dei suoi sudditi senza pagarli. Un nobile sentimento, che però rende più difficile il mio compito. Eppure sapeva che proprio quel comportamento era ciò che distingueva lei, Orrin, Rothgar e Islanzadi dalla tirannia di Galbatorix. Sarebbe così facile valicare questo confine senza darvi importanza.


«Comprendo le tue ragioni, mastro Gamble. Tuttavia, sebbene i Varden non siano una nazione e non rispondano a nessuna autorità se non la nostra, questo non autorizza né te né nessun altro a ignorare le leggi emanate dai miei predecessori o quelle osservate qui nel Surda. Pertanto ti ordino di pagare una moneta di rame per ogni gallina che hai rubato.»


Gamble la sorprese accettando senza protestare. «Come desideri, signora.»


«Tutto qui?» esclamò l'uomo pallido, torcendo ancora di più il berretto. «Non è un prezzo equo. Se le avessi vendute al mercato, avrei...»


Nasuada non riuscì più a trattenersi. «Sì! Avresti guadagnato di più. Ma si da il caso che io sappia che mastro Gamble non può permettersi di pagarti il prezzo pieno delle galline, perché sono io che gli pago il salario! Come il tuo. Dimentichi che se decidessi di acquistare i tuoi polli per il bene dei Varden, te li pagherei non più di una moneta di rame ciascuno, e saresti fortunato. Intesi?»

Contrasti

di nascondere la sua impazienza mentre esaminava i due uomini «Ma non può...»


«Intesi?»


Dopo un momento, l'uomo pallido si arrese e mormorò: «Sì, signora.»


«D'accordo. Con voi due ho finito.» Con un'espressione di sardonica ammirazione, Gamble si sfiorò la fronte e s'inchinò a Nasuada, prima di indietreggiare lungo la sala di pietra insieme al suo avversario avvilito. «Anche voi potete andare» disse lei alle guardie appostate sull'uscio.


Non appena fu rimasta sola, si accasciò nella sedia con un sospiro sconsolato e prese il ventaglio, sventolandosi in un inutile tentativo di dissipare le gocce di sudore che le imperlavano la fronte. Il caldo afoso la privava di energia e le rendeva difficile anche il compito più semplice.


Ma aveva la sensazione che si sarebbe sentita esausta anche se fosse stato inverno. Per quanto informata sui segreti più intimi dei Varden, le era costato molto più del previsto spostare l'intera organizzazione dal Farthen Dùr, attraverso i Monti Beor, fino al Surda e Aberon. Rabbrividì


al ricordo dei lunghi e disagevoli giorni passati in sella. Pianificare la partenza e metterla in pratica era stato oltremodo difficile, come lo era adesso il compito di integrare i Varden nel nuovo ambiente, preparando al tempo stesso un attacco all'Impero. Le mie giornate sono troppo brevi per risolvere tutti questi problemi, si lamentò fra sé. Alla fine, lasciò il ventaglio e tirò il cordone della campanella per chiamare la sua ancella, Farica. Lo stendardo appeso alla destra della scrivania di ciliegio sventolò quando si aprì la porta nascosta dietro di esso. Farica entrò nella stanza e si affiancò a Nasuada, a occhi bassi.


«Ce ne sono altri?» chiese Nasuada.


«No, signora.»


Nasuada cercò di non mostrare troppo sollievo. Una volta la settimana, riceveva a porte aperte i Varden che avevano bisogno di risolvere le loro dispute. Chiunque pensasse di aver subito un torto poteva chiederle udienza per ottenere giustizia. Nasuada non sapeva immaginare un compito più difficile e ingrato. Come le diceva spesso suo padre, dopo uno dei tanti negoziati con Rothgar, "un buon compromesso lascia tutti insoddisfatti". E così pareva. Rivolgendo l'attenzione alla questione sul tappeto, disse a Farica: «Voglio che a quel Gamble sia affidato un nuovo incarico. Dategli un lavoro dove possa mettere a frutto il suo talento con le parole. Furiere, per esempio, purché sia un lavoro con il quale ottenga razioni complete. Non voglio più vederlo davanti a me per aver rubato ancora.» Farica annuì e andò alla scrivania, dove annotò le istruzioni di Nasuada su una pergamena. Già il fatto che sapesse scrivere la rendeva indispensabile. Farica chiese: «Dove posso trovarlo?»


«In una delle squadre che lavorano nella cava.»


«Sì, signora. Oh, mentre eri impegnata, re Orrin ha chiesto che andassi da lui nel suo laboratorio.» «Che ha fatto questa volta, si è accecato?» Nasuada si lavò i polsi e il collo con acqua di lavanda, poi controllò l'acconciatura nello specchio di argento lucido che Orrin le aveva dato e si assestò la sopravveste per lisciarsi le maniche.


Soddisfatta del suo aspetto, uscì dalle sue stanze con Farica al seguito. Il sole era così splendente quel giorno che non occorrevano torce per illuminare l'interno del Castello Farnaci, né il loro calore sarebbe stato tollerabile. Fasci di luce penetravano dalle feritoie a croce che si aprivano nella parete del corridòio a intervalli regolari, tagliando l'aria con sbarre di polvere dorata. Nasuada guardò fuori da una feritoia verso il barbacane, dove oltre trenta elementi della cavalleria di Orrin, in tuniche arancio, si apprestavano al solito giro di perlustrazione nelle campagne che circondavano Aberon.


Non potrebbero fare molto se Galbatorix decidesse di attaccare, pensò amareggiata. La loro unica difesa era l'orgoglio di Galbatorix e, sperava, la sua paura di Eragon. Tutti usurpatori stessi avevano doppiamente paura della rappresentare. Nasuada sapeva di giocare un gioco molto pericoloso con il più potente pazzo di Alagaésia. Se si fosse sbagliata nel calcolare fino a quanto poteva provocarlo, lei e i Varden sarebbero stati distrutti, e con loro la speranza di porre fine al regno di Galbatorix.


L'odore di pulito del castello le rammentava le volte che vi era stata da bambina, ai tempi in cui il padre di Orrin, re Larkin, regnava ancora. All'epoca non vedeva spesso Orrin. Lui era più grande di lei di cinque anni, ed era già impegnato con i suoi incarichi di principe. Adesso però aveva la sensazione di essere lei la più grande. Davanti alla porta del laboratorio di Orrin, fu costretta a fermarsi e ad aspettare che le sue guardie del corpo, schierate sulla soglia, annunciassero la sua presenza. La voce di Orrin rimbombò nell'androne. «ledy Nasuada! Sono così felice che sei venuta. Ho qualcosa da mostrarti.»


Facendosi forza, Nasuada entrò nel laboratorio con Farica. Un labirinto di tavoli carichi di uno spropositato numero di alambicchi, ampolle e storte le aspettava, come un bosco di vetro in attesa di afferrare un lembo dei loro vestiti con un fragile ramo. L'odore acre dei vapori metallici fece lacrimare gli occhi di Nasuada. Sollevando l'orlo delle vesti da terra, le due donne si fecero strada verso il fondo della sala, passando davanti a clessidre e bilance, arcani volumi rilegati di ferro nero, astrolabi minuscoli, e pile di prismi di cristallo fosforescente che producevano lampi di luce azzurra. Trovarono Orrin chino su un banco dal piano di marmo, dove rimestava in un crogiolo di mercurio con un tubo di vetro chiuso a un'estremità e aperto dall'altra, che doveva misurare almeno tre piedi di lunghezza, anche se era spesso soltanto un quarto di pollice.


«Sire» disse Nasuada. Come si conveniva a una persona di rango pari al re, lei rimase ferma, mentre Farica faceva la riverenza. «A quanto pare ti sei ripreso dall'esplosione della settimana scorsa.»


Orrin le rivolse un sorriso bonario. «Ho imparato che non è saggio mescolare fosforo e acqua in uno spazio chiuso. Il risultato può essere alquanto violento.»


i sovrani conoscevano il rischio dell'usurpazione, ma gli

minaccia che un singolo individuo determinato poteva «Ti è tornato l'udito?»


«Non del tutto, ma...» Sorridendo come un ragazzino davanti al suo primo pugnale, il re accese una sottile candela con i carboni di un braciere - Nasuada non riusciva a capire come potesse sopportarlo con quel clima torrido -, poi riportò la fiammella al banco di lavoro e la usò per accendere una pipa riempita di foglie di cardo.


«Non sapevo che fumassi.»


«Infatti» confessò lui. «Solo che, grazie al mio timpano non ancora del tutto rimarginato, ho scoperto di essere capace di fare questo...» Trasse una boccata dalla pipa e gonfiò le guance finché un sottile filo di fumo non gli uscì dall'orecchio sinistro, come un serpentello che lasciava la tana e risaliva a spirale al lato della testa. Fu una scena così inaspettata che Nasuada scoppiò a ridere. Dopo un momento, anche Orrin prese a ridere, liberando uno sbuffo di fumo dalla bocca. «È una sensazione molto particolare» le confidò. «Fa un solletico terribile mentre esce.» Tornando seria, Nasuada gli chiese: «C'è qualcos'altro di cui vuoi discutere con me, sire?»


Lui fece schioccare le dita. «Ma certo.» Intinse il lungo tubo di vetro nel crogiolo, lo riempì di mercurio, poi tappò con un dito l'estremità aperta e le mostrò il tubo. «Convieni che qui dentro c'è soltanto mercurio?»


«Convengo.» È per questo che mi ha mandata a chiamare?


«E adesso?» Con un rapido movimento, capovolse il tubo e infilò l'estremità aperta nel crogiolo, togliendo il dito. Invece di uscire tutto, come Nasuada si aspettava, il mercurio nel tubo calò fino alla metà, poi si fermò. Orrin indicò la sezione vuota sul metallo sospeso, e le chiese: «Cosa occupa questo spazio?»


«Dev'essere aria» dichiarò Nasuada.


Orrin sogghignò e scrollò il capo. «Se fosse così, come ha fatto l'aria a sorpassare il metallo liquido o a diffondersi nel vetro? Non ci sono vie possibili per cui l'atmosfera possa essere entrata.» Fece un cenno a Farica. «Qual è la tua opinione, ancella?»


Farica esaminò il tubo, poi si strinse nelle spalle e disse: «Non c'è niente, sire.»


«Ah, ma è esattamente quel che penso io: niente. Credo di aver risolto uno dei più antichi enigmi della filosofia naturale creando e dimostrando l'esistenza del vuoto! Questo invalida completamente le teorie di Vacher e significa che Làdin era un genio. Quei dannati elfi hanno sempre ragione.»


Nasuada si sforzò di mantenere un tono cortese nel chiedere: «Qual è il suo scopo?»


«Scopo?» Orrin la guardò con sincero stupore. «Nessuno, naturalmente. Almeno non uno che mi venga in mente. Tuttavia, questo ci aiuterà a comprendere la meccanica del nostro mondo, come e perché le cose accadono. È una scoperta meravigliosa. Chissà a cosa potrà condurci.» Mentre parlava, svuotò il tubo e lo depose con cura in un astuccio foderato di velluto che conteneva altri strumenti ugualmente delicati. «La prospettiva che mi eccita di più, devo ammettere, è quella di usare la magia per scoprire i segreti della natura. Sai, giusto ieri, con un solo incantesimo, Trianna mi ha aiutato a scoprire due nuovi gas. Immagina che cosa potremmo imparare se la magia venisse sistematicamente applicata alle discipline della filosofia naturale. Sto pensando di imparare io stesso la magia, ammesso che ne abbia il talento, e se riuscirò a convincere qualche stregone a divulgare le sue conoscenze. E un peccato che il tuo Cavaliere dei Draghi, Eragon, non ti abbia accompagnata qui; sono sicuro che avrebbe potuto aiutarmi.» Rivolgendosi a Farica, Nasuada disse: «Aspettami fuori.» La donna s'inchinò e uscì. Quando Nasuada sentì chiudersi la porta del laboratorio, esclamò: «Orrin, ti è andato di volta il cervello?»


«Che vuoi dire?»


«Mentre passi il tuo tempo rinchiuso qui dentro a condurre esperimenti che nessuno capisce, mettendo in pericolo la tua stessa salute, il tuo paese vacilla sull'orlo di una guerra. Una moltitudine di problemi aspetta una tua decisione, e tu te ne stai qui a soffiare fumo dalle orecchie e a giocare col mercurio?»


Il volto del sovrano s'indurì. «Sono più che consapevole dei miei dovéri, Nasuada. Tu sarai anche il capo dei Varden, ma io resto il re del Surda, e dovresti ricordartene prima di rivolgerti a me in modo così irriguardoso. Occorre forse rammentarti che la vostra permanenza qui dipende dalla mia benevolenza?»


Nasuada sapeva che si trattava di una minaccia futile: molti surdani avevano parenti fra i Varden, e viceversa. Erano troppo intimamente legati per abbandonarsi a vicenda. No, la vera ragione per cui Orrin si era offeso era la questione dell'autorità. Dato che era quasi impossibile mantenere cospicue truppe armate, pronte a combattere, per prolungati periodi di tempo - come Nasuada aveva imparato, sfamare tante bocche inattive era un incubo logistico - i Varden avevano cominciato a svolgere dei lavori, a impiantare fattorie e a integrarsi nel paese ospitante. Dove mi porterà tutto questo alla fine? Diventerò il capo di un esercito fantasma? Un generale o un consigliere sotto il governo di Orrin? La posizione di Nasuada era precaria. Se si fosse mossa troppo in fretta o avesse dimostrato troppa iniziativa, Orrin l'avrebbe potuta prendere come una minaccia e voltarle le spalle, specie ora che lei poteva vantare la gloriosa vittoria dei Varden nel Farthen Dùr. Ma se avesse indugiato troppo, avrebbero perso l'occasione di sfruttare la momentanea debolezza di Galbatorix. Il suo unico vantaggio in quel ginepraio era l'autorità che deteneva sull'unico elemento che aveva generato quell'atto del dramma: Eragon e Saphira.


Disse: «Non ho alcuna intenzione di minare la tua autorità, Orrin. Non ho mai voluto una cosa del genere, e ti chiedo scusa se il mio comportamento ti ha indotto a crederlo.» Lui chinò il capo con il collo rigido. Non sapendo bene come continuare, Nasuada appoggiò le dita sull'orlo del bancone. «È solo che... ci sono così tante cose da fare. Io lavoro giorno e notte, tengo una lavagnetta accanto al letto per scrivere appunti, e ancora non riesco a sbrogliare la matassa. Ho sempre la sensazione di essere in bilico sull'orlo del disastro.»


Orrin prese un pestello macchiato di nero e se lo fece rotolare fra i palmi a un ritmo costante e ipnotico. «Prima che tu venissi... no, non è corretto. Prima che il tuo Cavaliere si materializzasse dall'etere come Moratensis dalla fontana, mi aspettavo di vivere la mia vita come mio padre e mio nonno prima di me. Ossia opponendomi a Galbatorix in segreto. Devi capire che mi occorre del tempo per abituarmi a questa nuova realtà.»


Era quanto di più vicino a un atto di contrizione lei si potesse aspettare. «Capisco.»


Lui smise di rigirare il pestello per un momento. «Hai da poco preso il potere, mentre io conservo il mio da un certo numero di anni. Se posso permettermi di darti un consiglio, ho scoperto che è essenziale per la mia sanità mentale dedicare una certa frazione del giorno ai miei interessi personali.»


«Io non potrei mai farlo» obiettò Nasuada. «Ogni momento perso potrebbe essere il momento dello sforzo necessario a sconfiggere Galbatorix.»


Il pestello si fermò di nuovo. «Non fai che danneggiare i Varden se insisti a spremerti in questo modo. Nessuno può agire con lucidità senza un momento di pace e tranquillità. Non devono essere lunghi intervalli, bastano cinque o dieci minuti. Potresti allenarti con l'arco e continuare a perseguire i tuoi obiettivi, anche se in maniera diversa... Ecco perché ho allestito questo laboratorio. Perché quando soffio fumo dalle orecchie o gioco col mercurio, come dici tu, almeno non urlo di rabbia e delusione per il resto della giornata.»


Malgrado fosse ancora restìa a modificare la sua opinione di Orrin come un irresponsabile perdigiorno, Nasuada non potè fare a meno di riconoscere il valore delle sue argomentazioni. «Terrò a mente il tuo consiglio.» Quando Orrin sorrise, riaffiorò qualcosa della sua precedente bonarietà. «È tutto quello che ti chiedo.» Avvicinatasi alla finestra, Nasuada aprì le persiane e lasciò vagare lo sguardo su Aberon, con le grida dei suoi mercanti dalla lingua sciolta che imbonivano ingenui compratori, le nuvole di polvere gialla sollevate sulla via dalle carovane che si avvicinavano alle porte ovest della città, l'aria che tremolava di calura sulle tegole d'argilla dei tetti e portava l'odore dei cardi e dell'incenso dai templi di marmo, e i campi che circondavano Aberon come petali di un fiore. Senza voltarsi, Nasuada chiese: «Hai ricevuto le copie dei nostri ultimi rapporti dall'Impero?»


«Sì.» Orrin si avvicinò a lei davanti alla finestra.


«Qual è la tua opinione?»


«Sono troppo scarni e incompleti per trarre una qualsiasi conclusione.»


«Ma sono il meglio a nostra disposizione, al momento. Parlami dei tuoi sospetti e delle tue impressioni. Deduci dai fatti come faresti se fosse uno dei tuoi esperimenti.» Sorrise. «Ti prometto che non aggiungerò alcun significato a ciò che mi dirai.»


Aspettò a lungo una risposta, che arrivò con tutto il doloroso peso di una funesta profezìa. «Aumenti delle tasse, guarnigioni svuotate, cavalli e buoi confiscati in tutto l'Impero... Si direbbe che Galbatorix stia radunando le forze per combatterci, anche se non so stabilire se per offesa o per difesa.» Ombre fuggevoli passarono sui loro volti mentre una formazione di storni volteggiava davanti al sole. «La domanda che mi assilla è: quanto impiegherà per mobilitarsi? Perché questo determinerà il corso della nostra strategia.»


«Settimane. Mesi. Anni. Non posso prevedere le sue azioni.»


Il re annuì. «I tuoi agenti continuano a diffondere notizie su Eragon?»


«Sta diventando sempre più pericoloso, ma sì. La mia speranza è che se spargiamo la voce delle imprese di Eragon in città come Dras-Leona, quando alla fine raggiungeremo la città e gli abitanti lo vedranno, si uniranno a noi di loro spontanea volontà, dandoci modo di evitare un assedio.»


«Di rado la guerra è così facile.»


Lei lasciò cadere il commento. «E che cosa mi dici del tuo esercito? I Varden sono pronti a combattere, come sempre.» Orrin allargò le braccia in un gesto conciliante. «È difficile sollevare una nazione, Nasuada. Ci sono nobili che devo convincere a sostenermi, armature e armi da fabbricare, provviste da accumulare...»


«E nel frattempo, come sfamerò la mia gente? Abbiamo bisogno di più terra di quanta ce ne hai concessa...» «Sì, lo so» disse lui.


«... e la otterremo soltanto invadendo l'Impero, a meno che tu non voglia fare dei Varden un'appendice permanente del Surda. Se è così, dovrai trovare una casa alle migliaia di persone che ho portato con me dal Farthen Dùr, il che non piacerà ai tuoi sudditi. Qualunque sia la tua scelta, decidi in fretta, perché temo che se continui ad aspettare, i Varden si disintegreranno in un'orda incontrollabile.» Cercò di non farla suonare come una minaccia.


Tuttavia Orrin non apprezzò l'insinuazione. Arricciò il labbro superiore e disse: «Tuo padre non si sarebbe mai lasciato sfuggire di mano i suoi uomini. Confido che nemmeno tu lo farai, se hai intenzione di restare capo dei Varden. Quanto ai nostri preparativi, c'è un limite a quel che si può fare in così breve tempo: dovrai aspettare finché non saremo pronti.»


Lei strinse con forza il davanzale tanto che le si gonfiarono le vene dei polsi e le unghie affondarono nelle fessure fra le pietre, ma non permise alla collera di alterare il suo tono. «In questo caso, presterai ai Varden altro oro per comprare il cibo?»


«No. Vi ho già dato tutto quello che potevo.»


«Come mangeremo, allora?»


«Ti suggerisco di trovare voi stessi i fondi.»


Furibonda, gli rivolse il più ampio e luminoso dei sorrisi - mantenendolo abbastanza a lungo da farlo sentire a disagio poi fece una riverenza profonda, come la più umile delle cameriere, senza mai abbandonare quel falso sorriso. «Ti saluto, mio sire. Spero che il resto della tua giornata sia gradevole come lo è stata la nostra conversazione.» Orrin borbottò una risposta incomprensibile mentre lei imboccava la porta del laboratorio. Nella foga, Nasuada urtò un flacone di giada con la manica e lo rovesciò; il flacone si ruppe e del liquido giallastro le schizzò sulla manica e le colò sulla veste. Fece un gesto stizzito, ma non si fermò.


Farica la incontrò in cima alle scale, e insieme riattraversarono il dedalo di corridoi fino alle stanze di Nasuada.

Appesi a un filo

Nasuada spalancò di colpo la porta dei suoi appartamenti, marciò verso la scrivania e si lasciò cadere su una sedia, cieca a tutto il resto. La sua schiena era così rigida che le spalle non toccavano nemmeno lo schienale. Si sentiva paralizzata dall'irrisolvibile dilemma che i Varden dovevano affrontare. Il suo respiro affannato rallentò fino a diventare quasi impercettibile. Ho fallito, continuava a ripetersi.


«Signora, la tua manica!»


Riscossa dai propri pensieri, Nasuada girò lo sguardo e vide Farica che le batteva il braccio destro con uno straccio. Un filo di fumo si levava dalla manica ricamata. Allarmata, Nasuada si alzò dalla sedia e ruotò il braccio, in cerca dell'origine del fumo. La manica e parte della gonna si stavano disintegrando in una sorta di ragnatela gessosa che emetteva acri vapori.


«Aiutami a levarlo» disse.


Si costrinse a restare immobile, con il braccio contaminato proteso lontano dal corpo, mentre Farica le slacciava la sopravveste. Le dita dell'ancella annasparono frenetiche sulla schiena di Nasuada, impigliandosi nei nodi, poi finalmente liberò il busto di Nasuada dal corsetto di lana. Non appena l'abito si afflosciò, Nasuada sfilò le braccia dalle maniche e si liberò della stoffa.


Ansante, rimase accanto alla scrivania, vestita soltanto della lunga camiciòla di lino e delle pantofoline ricamate. Con suo sollievo, la costosa sottoveste non era rimasta danneggiata, anche se aveva assunto un odore nauseabondo. «Ti sei bruciata?» chiese Farica. Nasuada scosse la testa, incapace di muovere la lingua. Farica spinse la sopravveste con la punta del piede. «Che diavoleria è mai questa?»


«Uno di quegli orribili intrugli di Orrin» gracchiò Nasuada. «L'ho fatto cadere nel suo laboratorio.» Cercando di calmarsi con lunghi respiri, esaminò sgomenta l'abito rovinato. Era stato tessuto dalle nane del Dùrgrimst Ingietum come dono per il suo ultimo compleanno, ed era uno dei pezzi più eleganti del suo guardaroba. Non aveva niente per sostituirlo, né poteva commissionare un altro abito, viste le difficoltà finanziarie dei Varden. In qualche modo dovrò farne a meno.


Farica scosse il capo. «Che peccato, perdere un vestito così bello.» Girò intorno alla scrivania per prendere un cestino da lavoro e tornò con un paio di forbici. «Cercherò di salvare quanta più stoffa possibile. Il resto lo faremo bruciare.» Nasuada s'incupì e cominciò a misurare la stanza a grandi passi, schiumante di collera per la propria sbadataggine e per l'ennesimo problema che si aggiungeva alla sua già lunga lista di preoccupazioni. «Cosa indosserò a corte, adesso?» si lamentò.


Le forbici penetrarono nella morbida lana con vivace autorità. «Magari il vestito di lino.»


«È troppo semplice per comparire davanti a Orrin e ai suoi nobili.»


«Fammi provare, signora. Sono sicura di poterlo sistemare in qualche modo. Quando avrò finito, sembrerà due volte più elegante di questo.»


«No, no. Non funzionerebbe. Riderebbero di me. Già è difficile ottenere il loro rispetto quando sono ben vestita, figurati se indossassi una veste rattoppata che dichiara ai quattro venti la nostra povertà.»


La donna fissò Nasuada con uno sguardo tenace. «Funzionerà, purché tu non chieda scusa per il tuo aspetto. Non solo, ti garantisco che le altre signore rimarranno così colpite dal tuo nuovo abito che vorranno imitarti. Aspetta e vedrai.» Farica andò alla porta e la socchiuse quel tanto da infilarci il braccio teso che reggeva il tessuto danneggiato. «Tieni» disse rivolta a una guardia. «La tua signora vuole che lo bruci. Fallo in segreto e non dire una parola ad anima viva, altrimenti ne risponderai a me.» La guardia battè i tacchi e si allontanò.


Nasuada non potè fare a meno di sorridere. «Come farei senza di te, Farica?»


«Te la sapresti cavare egregiamente, mia signora.»


Dopo aver indossato la tenuta da caccia verde - ideale, con la sua gonna leggera, per la calura opprimente della giornata - Nasuada decise che, malgrado la sua irritazione verso Orrin, avrebbe seguito il suo consiglio e interrotto le febbrili attività quotidiane con qualcosa che la distraesse, niente di più importante che aiutare Farica a togliere i punti dalla sopravveste. Trovò il lavoro ripetitivo un eccellente modo per chiamare a raccolta i pensieri. Mentre tirava i fili, discusse della situazione dei Varden con Farica, nella speranza che lei potesse intuire una soluzione che a lei era sfuggita.


Alla fine, l'unico aiuto di Farica fu un'osservazione: «A quanto pare, le cose che più contano a questo mondo hanno a che fare con l'oro. Se ne avessimo abbastanza, potremmo comprare il trono nero di Galbatorix, senza nemmeno dover combattere contro i suoi uomini.»


Davvero mi aspettavo che qualcuno facesse il mio lavoro per me? si disse Nasuada. lo ho condotto i Varden in questo vicolo cieco, e io devo trovare il modo di uscirne.


Con l'intenzione di tagliare un punto, tese troppo il braccio e infilò la punta delle forbicine in una guarnizione di merletto, strappandola in due. Contemplò lo squarcio frastagliato nel merletto, le estremità sfrangiate color pergamena che pendevano sulla stoffa come vermi contorti, e si sentì afferrare la gola da una risata isterica, mentre le affioravano le lacrime agli occhi. Poteva essere più sfortunata?


Il merletto era la parte più preziosa dell'abito. Anche se richiedeva estrema perizia per essere realizzato, la sua rarità e il suo prezzo erano dovuti principalmente al suo più cospicuo ingrediente: una grande, enorme, gigantesca quantità di tempo. Ci voleva così tanto tempo per produrlo che volendo farsi un velo di merletto da sola, i progressi si sarebbero misurati in mesi, non in settimane. Calcolandolo a peso, il merletto valeva più dell'oro o dell'argento. Fece scorrere le dita sull'intreccio di fili, soffermandosi sullo squarcio che aveva aperto. È come se il merletto non richiedesse tanto energia, quanto tempo... Si odiò per essere stata lei la causa dello scempio. Energia... energia... In quel momento, una serie di immagini le balenarono nella mente: Orrin che parlava di usare la magia per le sue ricerche; Trianna, la donna che aveva guidato il Du Vrangr Gata dalla morte dei Gemelli; uno dei guaritori dei Varden che spiegava i principi della magia a Nasuada quando aveva soltanto cinque o sei anni. Le diverse esperienze si collegarono in una catena di ragionamento così improbabile e sfrontata che alla fine liberò la risata prigioniera della sua gola.


Farica la guardò con aria perplessa. Nasuada si alzò, facendo cadere la sua metà di sopravveste sul pavimento. «Vai a cercare subito Trianna» disse. «Non m'importa quello che sta facendo; falla venire qui subito.»


Le piccole rughe intorno agli occhi di Farica si incresparono, ma l'ancella si limitò a fare un inchino e a dire: «Come desideri, signora.» Uscì dalla porticina nascosta.


«Grazie» mormorò Nasuada alla stanza vuota.


Comprendeva la riluttanza della cameriera; anche lei si sentiva a disagio ogni volta che aveva a che fare con gli stregoni. In effetti, lei si fidava di Eragon soltanto perché era un Cavaliere - anche se non era una prova di virtù, come aveva dimostrato Galbatorix - e per via del suo giuramento di fedeltà: sapeva che lui non lo avrebbe mai infranto. La spaventavano i poteri dei maghi e degli stregoni. Il pensiero che una persona dall'apparenza innocua potesse uccidere con una sola parola; invadere la tua mente come voleva; ingannare, mentire e rubare senza essere scoperta; e sfidare la società in ogni maniera possibile restando impunita...


Il suo cuore accelerò i battiti.


Come poteva far rispettare la legge quando una parte importante della popolazione possedeva poteri speciali? In buona sostanza, la guerra dei Varden contro l'Impero non era altro che il tentativo di restaurare la giustizia laddove un uomo aveva abusato delle proprie arti magiche, e di impedirgli di commettere altri crimini. Tutte queste sofferenze e queste devastazioni solo perché nessuno ha avuto la forza di sconfiggere Galbatorix. E potrebbe non morire dopo un normale ciclo vitale!


Sebbene non le piacesse la magia, sapeva che avrebbe svolto un ruolo cruciale nello sconfiggere Galbatorix, e che non poteva permettersi di alienarsi coloro che la praticavano, almeno fino a vittoria ottenuta. A quel punto, avrebbe trovato il modo di risolvere il problema.


Un rintocco metallico alla porta della sua camera la distolse dai suoi pensieri. Stampandosi un sorriso cordiale sul volto e difendendo la mente come le era stato insegnato, Nasuada rispose: «Avanti!» Era importante che si mostrasse cortese, dopo aver convocato Trianna in maniera tanto rude.


La porta si aprì e la maga entrò nella stanza, i folti riccioli neri ravviati sulla testa con fretta evidente. Sembrava che si fosse appena alzata dal letto. Facendo un inchino alla maniera dei nani, disse: «Hai chiesto di me, signora?» «Sì.» Nasuada si rilassò sulla sedia e scrutò Trianna da capo a piedi. La maga alzò il mento, fiera, sotto lo sguardo intenso di Nasuada. «Devo sapere una cosa: qual è la regola più importante della magia?»


Trianna aggrottò la fronte. «Qualunque cosa si faccia con la magia richiede la stessa quantità di energia che ci vorrebbe per farla altrimenti.»


«E quello che si può fare è limitato soltanto dal grado di creatività e dalla conoscenza dell'antica lingua?» «Ci sono altre limitazioni, ma in generale, sì. Signora, perché me lo chiedi? Questi sono i principi cardine della magia che, sebbene non familiari a tutti, sono sicura tu conosca bene.»


«Infatti. Volevo soltanto essere sicura di averli compresi bene.» Senza muoversi dalla sedia, Nasuada raccolse la sopravveste da terra per mostrare a Trianna il merletto strappato. «Quindi, entro questi limiti, tu dovresti essere in grado di formulare un incantesimo che ti consenta di fabbricare il merletto con la magia.»


Un sorriso di condiscendenza deformò le labbra scure della maga. «Il Du Vrangr Gata ha compiti molto più importanti che riparare i tuoi vestiti, signora. La nostra arte non è così banale da impiegarla per simili capricci. Sono sicura che troverai delle ricamatrici in grado di esaudire la tua richiesta. Ora, se vuoi scusarmi, ho...» «Calma, donna» disse Nasuada con voce atona. Lo stupore interruppe Trianna a metà frase. «Mi vedo costretta a insegnare al Du Vrangr Gata la stessa lezione che ho impartito al Consiglio degli Anziani. Sarò anche giovane, ma non sono più una bambina da redarguire. Ti ho chiesto del merletto perché se puoi fabbricarlo rapidamente e facilmente con la magia, allora potremo sostenere i Varden vendendo merletti a poco prezzo in tutto l'Impero. Sarà lo stesso popolo di Galbatorix a fornirci i fondi necessari alla nostra sussistenza.»


«Ma è ridicolo» protestò Trianna. Perfino Farica sembrava scettica. «Non si può sovvenzionare una guerra con i merletti.»


Nasuada inarcò un sopracciglio. «Perché no? Le donne che altrimenti non potrebbero permettersi di possedere costosi merletti coglieranno al volo l'occasione di comprare i tuoi. Tutte le mogli di contadini che desiderano apparire più ricche li vorranno. Perfino i mercanti facoltosi e i nobili ci daranno il loro oro per i nostri merletti, perché saranno più fini e delicati di qualunque merletto fabbricato da mani umane. Guadagneremo una fortuna che competerà con quella dei nani. Sempre che tu sia in grado di eseguire con la magia ciò che voglio.»


Trianna alzò la testa di scatto. «Dubiti delle mie capacità?»


«Sei capace?»


Trianna esitò, poi prese la sopravveste dalle mani di Nasuada e ne studiò il merletto a lungo. Alla fine, disse: «Credo che sia possibile, ma devo prima effettuare qualche prova per averne la certezza.»


«Comincia subito. Da questo momento in poi, sarà il tuo più importante incarico. E trova un'esperta merlettaia che ti dia consigli sui disegni.»


«Sì, ledy Nasuada.»


Nasuada addolcì i toni. «Bene. Vorrei anche che scegliessi i membri più brillanti del Du Vrangr Gata per elaborare con loro altre tecniche magiche per aiutare i Varden. Questa è una tua responsabilità, non mia.»


«Sì, ledy Nasuada.»


«Adesso sei scusata. Torna domattina a riferirmi.»


«Sì, ledy Nasuada.»


Soddisfatta, Nasuada guardò la maga allontanarsi, poi chiuse gli occhi e si concesse il lusso di godersi un momento di orgoglio per quanto aveva fatto. Sapeva che nessun uomo, nemmeno suo padre, avrebbe mai pensato a quella soluzione. Questo è il mio contributo ai Varden, si disse, desiderando che Ajihad fosse lì a vederla. Ad alta voce, chiese: «Ti ho sorpresa, Farica?»


«Come sempre, signora.»

Elva

"Signora?... Sei desiderata, signora.» «Cosa?» Riluttante a muoversi, Nasuada aprì gli occhi e vide Jòrmundur che entrava nella stanza. Il coriaceo veterano si tolse l'elmo e se lo mise nell'incavo del gomito destro, avanzando con la sinistra poggiata sul pomo della spada.


Gli anelli metallici del suo usbergo tintinnarono quando s'inchinò. «Mia signora.»


«Benvenuto, Jòrmundur. Come sta oggi tuo figlio?» Nasuada era contenta di vederlo. Di tutti i membri del Consiglio degli Anziani, era l'unico ad aver accettato di buon grado la sua guida, servendola con la stessa determinazione e lealtà canina che aveva per Ajihad. Se tutti i miei guerrieri fossero come lui, non ci fermerebbe nessuno. «La tosse gli è passata.»


«Sono lieta di sentirlo. Che cosa ti porta da me?»


Rughe profonde solcarono la fronte di Jòrmundur. Si passò la mano libera tra i capelli, legati indietro in una coda, poi riprese un contegno e abbassò la mano lungo il fianco. «Magia, del genere più inusuale.»


«Oh.»


«Ricordi la bambina benedetta da Eragon?»


«Sì.» Nasuada l'aveva vista soltanto una volta, ma era al corrente delle voci esagerate che circolavano fra i Varden sul suo conto, come anche delle speranze che i Varden nutrivano per i suoi futuri successi una volta cresciuta. Nasuada era più pragmatica sull'argomento. Qualunque cosa fosse diventata, non sarebbe successo ancora per molti anni, e nel frattempo la battaglia contro Galbatorix sarebbe stata vinta, o persa.


«Mi è stato chiesto di portarla da te.»


«Chiesto? Chi? E perché?»


«Sul campo di addestramento un ragazzo mi ha detto che dovresti vedere la bambina. Dice che la troveresti interessante. Il ragazzo si è rifiutato di dirmi come si chiamava, ma assomigliava parecchio a quello in cui si trasforma il gatto mannaro dell'indovina, così ho pensato... Be', ho pensato che forse era il caso di vedere la bambina.» Jòrmundur aveva l'aria imbarazzata. «Ho chiesto ai miei uomini di fare qualche domanda sul suo conto, e a quanto pare lei... è diversa.»


«In che senso?»


Jòrmundur si strinse nelle spalle. «Abbastanza da credere che dovresti fare quel che dice il gatto mannaro.» Nasuada aggrottò la fronte. Sapeva dalle vecchie storie che ignorare quel che diceva un gatto mannaro era la più stolida delle follie, e spesso conduceva alla morte. Tuttavia la sua compagna - Angela l'erborista - era un'altra specie di strega di cui Nasuada non si fidava del tutto; era troppo indipendente e imprevedibile. «Magia» disse, come se fosse una parolaccia.


«Magia» ripete Jòrmundur, anche se lui usò la parola con un certo timore reverenziale.


«D'accordo, vediamo questa bambina. Si trova nel castello?»


«Orrin ha dato a lei e alla sua domestica un alloggio nell'ala ovest del maschio.»


«Portami da lei.»


Raccogliendo le gonne, Nasuada ordinò a Farica di posticipare gli altri appuntamenti della giornata, poi lasciò le sue stanze. Dietro di sé, sentì Jòrmundur che schioccava le dita per ordinare a quattro guardie di schierarsi intorno a lei. Un momento dopo, si pose al suo fianco per indicarle la strada.


Il caldo all'interno del Castello Farnaci era aumentato al punto da dare la sensazione di trovarsi in una gigantesca fornace. L'aria tremolava come vetro liquido lungo i davanzali.


Pur a disagio, Nasuada sapeva di sopportare meglio di tanta gente quel caldo terribile, grazie alla pelle scura. Chi aveva seri problemi a resistere alle alte temperature erano quelli come Jòrmundur e le guardie, che indossavano l'armatura tutto il giorno, anche sotto i raggi impietosi del sole.


Nasuada osservava i cinque uomini, mentre il sudore gli imperlava le parti di pelle esposta e il loro respiro si faceva sempre più affannato. Da quando erano arrivati ad Aberon, un certo numero di Varden erano svenuti per un colpo di calore - due erano addirittura morti un paio d'ore più tardi - e lei non aveva alcuna intenzione di perderne altri spingendoli oltre i loro limiti fisici.


Quando le parve che avessero bisogno di riposare, ordinò loro di fermarsi - ignorando le loro obiezioni - e chiese ai servitori acqua da bere. «Non voglio vedervi cadere come birilli.»


Dovettero fare altre due soste prima di raggiungere la loro destinazione, una porta quasi invisibile, incassata nella parete interna del corridòio. Il pavimento davanti alla soglia era disseminato di regali.


Jòrmundur bussò, e una voce tremula dall'interno chiese: «Chi è?»


«ledy Nasuada, venuta a far visita alla bambina» rispose lui.


«Sei di cuore sincero e di solida volontà?»


Questa volta rispose Nasuada. «Il mio cuore è puro e la mia volontà di ferro.»


«Varca la soglia, dunque, e sii la benvenuta.»


La porta si aprì su un ingresso illuminato da una sola lanterna rossa, tipica dei nani. Non c'era nessuno alla porta. Nasuada entrò e vide che le pareti e il soffitto erano coperti da strati di tessuto scuro, dando all'ambiente l'aspetto di una grotta o di una tana. Con sua sorpresa, l'aria era abbastanza fresca, quasi fredda, come una frizzante notte autunnale. L'apprensione affondò i suoi artigli velenosi nel suo ventre. Magia.


Una tenda di rete nera ostruiva il cammino. Scostandola, si ritrovò in quello che un tempo doveva essere un salottino. I mobili erano stati tolti, a parte una fila di sedie addossate alle pareti rivestite. Un grappolo di lanterne rosse era appeso in una piega del tessuto increspato, proiettando strane ombre multicolori in ogni direzione.


Una vecchia dalla schiena curva la osservava dai recessi di un angolo, affiancata da Angela l'erborista e dal gatto mannaro, che aveva i peli del collo ritti. Al centro della stanza era inginocchiata una bambina pallida che Nasuada calcolò dovesse avere tre o quattro anni. La bambina piluccava da un piatto di cibo che teneva in grembo. Nessuno parlava.


Confusa, Nasuada domandò: «Dov'è la neonata?»


La bambina alzò lo sguardo.


Nasuada trasalì nel vedere il marchio del drago splendere sulla fronte della bambina, che la scrutava con profondi occhi viola. La bimba le rivolse un terribile, saggio sorriso. «Io sono Elva.»


Nasuada indietreggiò d'istinto, stringendo l'elsa del pugnale che teneva legato all'avambraccio sinistro. Era una voce da adulta, ed emanava l'esperienza e il cinismo di un'adulta. Suonava profana emessa dalla bocca di una bambina. «Non temere» disse Elva. «Sono tua amica.» Mise da parte il piatto; adesso era vuoto. Si rivolse alla vecchia: «Ancora.» La vecchia si affrettò a uscire dalla stanza. Elva batte il palmo sul pavimento accanto a sé. «Prego, siediti. Ti aspettavo da quando ho imparato a parlare.»


Continuando a stringere il pugnale, Nasuada si accomodò sul pavimento di pietra. «Quando è stato?» «La settimana scorsa.» Elva s'intrecciò le dita in grembo. Fissava Nasuada con i suoi occhi spettrali, inchiodandola con la forza innaturale del suo sguardo. Nasuada aveva la sensazione che una lancia violetta le avesse trafitto il cranio per rimestare nella sua mente, fra pensieri e ricordi. Si sforzò di non mettersi a urlare.


Elva si protese verso di lei e le posò una mano delicata su una guancia. «Sai, Ajihad non avrebbe saputo guidare i Varden meglio di te. Hai scelto la via giusta. Il tuo nome sarà ricordato nei secoli per aver avuto il coraggio e la saggezza di spostare i Varden nel Surda, e di attaccare l'Impero quando tutti gli altri pensavano che fosse una pazzia.» Nasuada rimase a bocca aperta, sbalordita. Come una chiave giusta per la sua serratura, le parole di Elva aderivano perfettamente alle sue primordiali paure, ai dubbi che la tenevano sveglia di notte, a sudare freddo nel buio. Si sentì pervadere da un'intensa emozione, un senso di fiducia e di pace che non aveva mai più provato dalla morte di Ajihad. Lacrime di sollievo le sgorgarono dagli occhi, rotolando giù per le guance. Era come se Elva avesse saputo esattamente che cosa dire per confortarla.


Nasuada la odiò per questo.


La sua euforia lottava contro la repulsione per quel momento di debolezza, per come era stato indotto e da chi. Né si fidava delle ragioni della bambina.


«Cosa sei?» le disse.


«Sono ciò che Eragon mi ha fatto.»


«Ti ha benedetta.»


I terribili occhi saggi si oscurarono per un momento. «Lui non ha capìto le sue azioni. Da quando Eragon mi ha stregata, ogni volta che vedo una persona avverto tutte le sofferenze che l'affliggono o che l'affliggeranno. Quando ero più piccola non potevo farci niente. Perciò sono cresciuta.»


«Perché avresti...»


«La magia che scorre nel mio sangue mi costringe a proteggere le persone dal dolore... indipendentemente dal male che infliggo a me stessa, o dal fatto che voglia aiutarle o meno.» Il suo sorriso prese una piega amara. «Mi costa caro resistere a quest'impulso.»


Mentre Nasuada rifletteva sulle implicazioni, si rese conto che l'inquietante aspetto sofferenze a cui era stata esposta. Nasuada rabbrividì al pensiero di quello che Dev'essere stato terribile provare questo impulso e non essere capace di controllarlo. Ancora una volta, malgrado la propria diffidenza, cominciò a provare una certa compassione per Elva.


«Perché mi dici questo?»


«Pensavo che avresti dovuto sapere chi sono e cosa sono.» Elva fece una pausa, e il fuoco del suo sguardo divampò come un incendio. «E che combatterò per te a ogni costo. Usami come faresti con un sicario... nel buio, in incognito, senza pietà.» Rise con voce acuta e agghiacciante. «Ti domandi perché; lo vedo. Perché se questa guerra non finirà, prima o poi - piuttosto prima che poi - diventerò pazza. Già mi è difficile avere a che fare con le sofferenze della vita di tutti i giorni, senza dovermi anche confrontare con le atrocità di una battaglia. Usami per porre fine a questa guerra, e io ti garantisco che la tua vita sarà lunga e felice quanto un umano ha avuto il privilegio di sperimentare.» In quel momento tornò la vecchia, trafelata. S'inchinò davanti a Elva e le porse un nuovo vassoio di cibo. Fu un sollievo fisico per Nasuada quando Elva distolse lo sguardo per addentare un cosciotto di montone, spingendosi la carne in bocca con le mani. Mangiava con la voracità di un lupo affamato, senza un briciolo di decoro. Con gli occhi violetti nascosti, e la frangetta scura che le copriva il marchio del drago, parve di nuovo una qualunque bimbetta innocente.


di Elva era un prodotto delle

la bambina aveva sopportato. Nasuada aspettò finché non comprese che Elva aveva detto tutto quanto aveva in mente. Poi, richiamata da un cenno di Angela, accompagnò l'erborista attraverso una porta laterale, lasciando la bimba pallida al centro della stanza oscurata dai tendaggi, come un piccolo feto annidato nell'utero, che aspetta il momento di emergere. Angela si assicurò di aver chiuso bene la porta, poi disse: «Non fa altro che mangiare e mangiare. Non riusciamo a saziare il suo appetito con le razioni concesse. Puoi...» «Sarà nutrita. Non devi preoccuparti di questo.» Nasuada si massaggiò le braccia, cercando di sradicare il ricordo di quei terribili occhi...


«Grazie.»


«È mai successo a qualcun altro?»


Angela fece di no con il capo; i riccioli neri le rimbalzarono sulle spalle. «Mai, nell'intera storia della magia. Ho cercato di vedere il suo futuro, ma è un guazzabuglio insondabile - bella parola, guazzabuglio - perché la sua vita s'intreccia con moltissime altre.»


«È pericolosa?»


«Siamo tutti pericolosi.»


«Sai che cosa voglio dire.»


Angela fece spallucce. «È più pericolosa di alcuni, e meno di altri. Ma la persona che è più probabile che uccida è se stessa. Se incontrasse qualcuno che sta per morire e l'incantesimo di Eragon la cogliesse impreparata, prenderebbe il posto della persona predestinata. Ecco perché resta chiusa qui tutto il tempo.»


«Con che ampiezza riesce a prevedere gli eventi?»


«Due o tre ore al massimo.»


Appoggiandosi al muro, Nasuada riflettè su questa nuova complicazione nella sua vita. Elva poteva rivelarsi un'arma potente, se guidata nella maniera corretta. Attraverso di lei potrei scoprire i crucci e le debolezze dei miei avversari, come anche i loro desideri, e piegarli ai miei voléri. In caso di emergenza, la bambina avrebbe potuto anche agire come infallibile guardia del corpo, se uno dei Varden, come Eragon o Saphira, avesse avuto bisogno di protezione. Non la si può lasciare senza controllo. Ho bisogno di qualcuno che la sorvegli. Qualcuno che capisca la magia e abbia abbastanza fiducia nella propria identità da resistere all'influenza di Elva... e di cui io mi possa fidare. Subito scartò Trianna. Poi guardò Angela. Anche se diffidava dell'erborista, sapeva che Angela aveva aiutato i Varden in questioni della più delicata importanza - come la guarigione di Eragon - e non aveva chiesto nulla in cambio. Nasuada non riusciva a pensare a nessun altro che avesse il tempo, la disposizione e l'esperienza per badare a Elva. «Mi rendo conto» disse Nasuada «che è presuntuoso da parte mia, poiché non sei sotto il mio comando e so poco della tua vita e dei tuoi impegni, ma ho un favore da chiederti.»


Angela fece un cenno con la mano. «Va' avanti.»


Nasuada esitò, sconcertata, poi proseguì. «Vorresti tenere d'occhio Elva per me? Ho bisogno...» «Ma certo! Terrò tutti e due gli occhi su di lei, se potrò. Mi attira l'idea di studiarla.»


«Dovrai riferirmi tutto» l'ammonì Nasuada.


«Già, la ciliegina avvelenata sulla torta di panna montata. Oh, be', d'accordo, immagino di poterlo fare.» «Ho la tua parola, dunque?»


«Hai la mia parola.»


Sollevata, Nasuada gemette e si accasciò su una sedia lì accanto. «Oh, che disastro. Che guazzabuglio. Come signora di Eragon, sono responsabile dei suoi atti, ma non avrei mai pensato che avrebbe fatto una cosa terribile come questa. È una macchia sul mio onore, oltre che sul suo.»


Una sequela di lievi scoppiettii risuonò nella stanza, quando Angela si fece schioccare le nocche. «Già. Intendo parlargli quando tornerà da Ellesméra.»


La sua espressione era così feroce che Nasuada si allarmò. «Non avrai intenzione di fargli del male, spero. Abbiamo bisogno di lui.»


«Non gliene farò... nulla di permanente.»

Ritorno di fiamma

Una violenta raffica di vento strappò Eragon dal sonno.


Le coperte gli svolazzavano intorno, mentre una tempesta infuriava nella sua stanza, scagliando gli oggetti per aria e facendo cozzare le lanterne contro le pareti. Fuori, il cielo era fosco di nubi.


Saphira guardò Eragon alzarsi a fatica, barcollando per mantenere l'equilibrio sull'albero che oscillava come una nave in balia delle onde. Abbassò la testa contro la furia del vento e camminò a tentoni lungo la parete fino a trovare l'apertura a forma di goccia da cui entrava il fortunale.


Eragon fece capolino per guardare il terreno sottostante; l'impressione era che ondeggiasse da un lato e dall'altro. Deglutì e cercò di ignorare la nausea.


Sempre a tentoni, trovò il bordo della membrana di tessuto che si poteva srotolare dal muro per coprire l'apertura. Si preparò a lanciarsi dall'altro lato, sapendo che se fosse scivolato, niente gli avrebbe impedito di schiantarsi ai piedi dell'albero.


Aspetta, disse Saphira.


Si spostò dalla pedana su cui dormiva e distese la coda accanto a lui perché potesse usarla come corrimano. Tenendo la stoffa soltanto con la mano destra, Eragon usò le punte cornee della coda di Saphira per spostarsi dall'altro lato del portale. Non appena lo raggiunse, afferrò la stoffa con tutte e due le mani e ne spinse il bordò nella scanalatura che la bloccava.


Nella stanza scese il silenzio.


La membrana si gonfiava verso l'interno sotto la furia degli elementi, ma non dava cenni di cedimento. Eragon premette un dito contro la stoffa: era tesa come la pelle di un tamburo.


È sorprendente ciò che gli elfi riescono a fare, disse.


Saphira tese il collo, poi sollevò la testa fino ad appiattirla contro il soffitto, in ascolto. Faresti meglio a chiudere anche lo studio; il vento sta mandando tutto a soqquadro.


Mentre Eragon saliva le scale, l'albero sussultò, e lui barcollò urtando un ginocchio.


«Maledizione» ringhiò.


Lo studio era un tornado di fogli e penne, che volavano da tutte le parti come dotati di volontà propria. Eragon si tuffò nel caos con le braccia intorno alla testa e la sensazione di trovarsi sotto una sassaiola quando le punte delle penne lo colpivano.


Lottò con tutte le sue forze per chiudere il portale superiore senza l'aiuto di Saphira. Nel momento in cui ci riuscì, il dolore - uno smisurato, devastante dolore - gli spezzò la schiena.


Lanciò un grido straziato che gli bruciò la gola. La vista gli si annebbiò di macchie rosse e gialle, poi sfumò nel nero più assoluto, mentre cadeva di fianco. Sentì Saphira di sotto che ululava di frustrazione; la scala era troppo piccola e, fuori il vento era troppo violento perché lei tentasse di raggiungerlo. Il suo legame con lei si assottigliò. Eragon si arrese alle tenebre come una liberazione dalla sua agonia.


Si ridestò con un sapore amaro in bocca. Non sapeva quanto tempo era rimasto raggomitolato sul pavimento, ma i muscoli delle braccia e delle gambe gli dolevano per essere stati troppo a lungo contratti. La tempesta squassava ancora l'albero, accompagnata da una pioggia battente che andava di pari passo con il martellare che gli pulsava nella testa.


Saphira...?


Sono qui. Vieni giù?


Ci provo.


Si sentiva troppo debole per alzarsi sul pavimento ondeggiante, così strisciò fino alle scale e si lasciò scivolare un gradino alla volta, fremendo a ogni contraccolpo. A metà strada, incontrò Saphira, che aveva infilato la testa e il collo nella tromba delle scale, scheggiando il legno nella fretta.


Piccolo mio. La dragonessa fece guizzare la lingua e gli sfiorò la mano con la punta ruvida. Lui sorrise. Allora lei inarcò il collo per ritrarsi, ma non ci riuscì.


Che succede?


Sono incastrata.


Sei... Eragon non riuscì a trattenersi; scoppiò a ridere anche se gli faceva male. La situazione era troppo assurda. Lei ringhiò e inarcò tutto il corpo, scuotendo l'albero con i suoi sforzi e mandando Eragon a gambe all'aria. Alla fine crollò sfinita. Be', non startene seduto lì a sogghignare come una volpe idiota. Aiutami!


Combattendo contro l'impulso di ridacchiare, Eragon le mise un piede sul naso e cominciò a spingere il più forte possibile, mentre Saphira si torceva e si dimenava nel tentativo di liberarsi.


Ci vollero dieci minuti buoni perché il tentativo riuscisse. Soltanto allora Eragon si accorse dell'entità del danno alle scale. Si lasciò sfuggire un gemito. Le squame della dragonessa avevano inciso profondamente la corteccia e cancellato i delicati disegni che crescevano dal legno.


Oops, disse Saphira.


Se non altro sei stata tu, non io. Gli elfi ti perdoneranno. Canterebbero ballate d'amore dei nani notte e giorno, se solo tu glielo chiedessi.


Si sistemò con Saphira sulla pedana e si accoccolò contro le squame lisce del suo ventre, ascoltando la tempesta che infuriava intorno a loro. La grande membrana diventava translucida ogni volta che un fulmine illuminava la notte con la sua traiettoria serpeggiante.


Secondo te che ore sono?


Manca ancora parecchio al nostro appuntamento con Oromis. Coraggio, dormi e riprenditi. Veglierò su di te. Lui non si fece pregare due volte e si addormentò, nonostante i sussulti dell'albero.

Perché combatti?

Il segnatempo di Oromis squillò come un corno gigantesco, assordando le orecchie di Eragon, finché lui non si decise a prenderlo e a caricare di nuovo il meccanismo. Il ginocchio gli era diventato viola, ma gli doleva tutto il corpo, sia per la crisi che lo aveva aggredito, sia per la Danza del Serpente e della Gru; per giunta, non riusciva a emettere che suoni gracchianti con la gola irritata. Ma la cosa peggiore era il terribile presentimento che non sarebbe stata l'ultima volta che la ferita di Durza lo avrebbe tormentato.


Sono passate tante settimane dall'ultima crisi, disse, e cominciavo a sperare, soltanto sperare, di essere guarito... Immagino che solo per un puro caso io sia stato risparmiato così a lungo.


Allungando il collo, Saphira gli sfiorò il braccio col muso. Sai di non essere solo, piccolo mio. Farò qualsiasi cosa per aiutarti. Lui rispose con un flebile sorriso. Lei gli leccò la faccia e aggiunse: Dovresti prepararti per uscire. Lo so. Eragon guardò il pavimento, senza alcuna voglia di alzarsi, poi si trascinò nel camerino da bagno, dove si lavò e usò la magia per radersi.


Si stava asciugando, quando sentì una presenza toccargli la mente. Senza soffermarsi a riflettere, Eragon cominciò a innalzare barriere mentali, concentrandosi sull'immagine del suo alluce con l'esclusione di tutto il resto. Poi sentì Oromis che diceva: Ammirevole, ma inutile. Porta con te Zar'roc, oggi. La presenza svanì.


Eragon si rilassò con un sospiro tremante. Devo stare più attento, disse a Saphira. Se fosse stato un nemico, sarei stato alla sua mercé.


Non con me nei dintorni.


Quando ebbe finito le sue abluzioni, Eragon sganciò la membrana dalla parete e montò su Saphira, tenendo Zar'roc stretta nell'incavo del gomito.


Saphira spiccò il volo e puntò subito verso la rupe di Tel'naeir. Dall'alto videro i danni che la tempesta aveva provocato nella Du Weldenvarden. A Ellesméra non era caduto alcun albero, ma in lontananza, dove la magia degli elfi era più debole, numerosi pini erano stati abbattuti. Il vento residuo faceva cozzare i rami e i tronchi, producendo un sonoro coro di gemiti e scricchiolii. Nuvole di polline dorato, denso come polvere, scorrevano dagli alberi e dai fiori. Mentre volavano, Eragon e Saphira si scambiarono ricordi delle lezioni separate del giorno prima. Lui le raccontò quello che aveva imparato sulle formiche e sull'antica lingua, e lei gli parlò delle correnti discendenti e degli altri fenomeni meteorologici pericolosi, e di come evitarli.


Così, quando atterrarono e Oromis interrogò Eragon sulle lezioni di Saphira, e Glaedr interrogò Saphira su quelle di Eragon, riuscirono entrambi a rispondere correttamente a ogni domanda.


«Molto bene, Eragon-vodhr.»


Già. Benfatto, Bjartskular, disse Glaedr a Saphira.


Ancora una volta, Saphira volò via insieme a Glaedr, mentre Eragon rimase sulla rupe, anche se questa volta lui e Saphira badarono a mantenere il contatto per assorbire le lezioni dell'altro.


Quando i draghi si allontanarono, Oromis osservò: «Oggi hai la voce roca, Eragon. Sei ammalato?» «La schiena mi ha fatto di nuovo male, stamattina.»


«Ah. Hai tutta la mia compassione.» Gli fece un cenno con l'indice. «Aspetta qui.»


Eragon guardò Oromis entrare nel capanno e tornare con aria fiera e guerresca, la capigliatura d'argento che fluttuava nel vento, e la spada color bronzo in mano. «Oggi» disse «metteremo da parte la Rimgar e incroceremo le nostre due lame, Naegling e Zar'roc. Sfodera la tua spada e smussa la lama come ti ha insegnato il tuo primo maestro.» Eragon avrebbe voluto rifiutarsi, ma non aveva alcuna intenzione di infrangere la promessa o di mostrarsi timoroso davanti a Oromis. Inghiottì la sua trepidazione. Questo significa essere un Cavaliere, pensò.


Attingendo alle sue riserve, localizzò nel profondo della mente il nucleo che lo collegava al selvaggio flusso della magia. Vi entrò, e l'energia lo soffuse. «Géuloth du knìfr» disse, e una tremolante stella azzurra gli guizzò fra il pollice e l'indice, saltando dall'uno all'altro mentre lui li faceva scorrere lungo il filo pericoloso di Zar'roc.


Nell'istante in cui le due spade s'incrociarono, Eragon capì di essere inferiore a Oromis, come lo era stato rispetto a Durza e ad Arya. Era uno spadaccino umano straordinario, ma non poteva competere con guerrieri dal sangue denso di magia. Il suo braccio era troppo debole, i suoi riflessi troppo lenti. Eppure questo non gli impedì di provare a vincere. Si battè ai limiti delle sue possibilità, anche se alla fine si rivelò un futile tentativo.


Oromis lo mise alla prova in ogni modo possibile, costringendolo a utilizzare il suo intero arsenale di colpi, reazioni e finte. Tutto inutile. Non riuscì mai nemmeno a toccare l'elfo. Come ultima risorsa, cercò di variare il suo stile di combattimento, perché questo poteva disorientare anche il più incallito dei veterani. Non ottenne altro che una violenta botta su una coscia.


«Muovi i piedi più in fretta» gridò Oromis. «Chi resta fermo come un pilastro, muore in battaglia. Chi si piega come una canna, trionfa!»


L'elfo in azione era uno spettacolo, una perfetta miscela di controllo e violenza. Saltava come un gatto, colpiva come un airone e si destreggiava per schivare gli attacchi con la grazia di un furetto.


Si stavano allenando da una ventina di minuti quando Oromis esitò, i lineamenti affilati contratti in una smorfia fugace. Eragon riconobbe i sintomi della misteriosa malattia di Oromis e roteò Zar'roc per colpire. Sapeva che era una cosa meschina, ma si sentiva così frustrato da voler approfittare di quell'occasione, per quanto scorretta, solo per avere la soddisfazione di toccare Oromis almeno una volta.


Zar'roc non raggiunse mai il suo bersaglio. Nel voltarsi, Eragon si stirò la schiena.


Il dolore lo aggredì senza preavviso. L'ultima cosa che sentì fu Saphira che gridava: Eragon!


Nonostante l'intensità del dolore, Eragon rimase cosciente durante tutta la crisi. Non era consapevole di quanto aveva intorno, ma soltanto del fuoco che gli bruciava le carni e prolungava ogni secondo in un'eternità. La cosa peggiore era che non poteva far niente per porre fine a quello strazio, se non aspettare...


... e aspettare...


Eragon giaceva ansante nel fango. Battè le palpebre per rimettere a fuoco la vista e vide Oromis seduto su uno sgabello accanto a lui. Alzandosi su un ginocchio, si guardò la tunica nuova con un misto di rammarico e disgusto: la raffinata stoffa color ruggine era incrostata di sudiciume per le sue convulsioni sul terreno. Aveva perfino i capelli insozzati.


Percepì Saphira nella sua mente, che irradiava angoscia nell'attesa che lui la notasse. Come puoi continuare così? gli disse. Ti distruggerà.


La sua apprensione minò gli ultimi residui di fermezza di Eragon. Saphira non aveva mai dubitato del suo successo, non a Dras-Leona, non a Gil'ead o nel Farthen Dùr, né davanti ad alcun pericolo che avevano incontrato. La sua fiducia gli aveva infuso coraggio. Senza di essa, Eragon ebbe davvero paura.


Dovresti concentrati sulla tua lezione, le disse.


Devo concentrarmi su di te.


Lasciami in pace! Il suo tono brusco era quello di un animale ferito che desidera leccarsi le ferite nel silenzio e nel buio. Lei tacque, mantenendo un labile contatto mentale sufficiente perché lui potesse vagamente sentire Glaedr che le parlava dell'epilobio, una pianta utile da masticare per facilitare la digestione.


Eragon si tolse frammenti di fango secco dai capelli, poi sputò un grumo di sangue. «Mi sono morso la lingua.» Oromis annuì come se già lo sapesse. «Hai bisogno di guarirti?»


«No.»


«Molto bene. Recupera la spada, poi lavati e vai al ceppo nella conca, per ascoltare i pensieri della foresta. Ascolta, e quando non sentirai più niente, torna da me a raccontarmi cosa hai imparato.»


«Sì, maestro.»


Seduto sul ceppo, Eragon scoprì che il groviglio turbolento di pensieri ed emozioni gli impediva di concentrarsi abbastanza da aprire la mente e percepire le creature della conca. Né aveva voglia di farlo.


Tuttavia, la pace che regnava intorno a lui a poco a poco placò il suo risentimento, la sua confusione e la testarda rabbia. Non lo rendeva felice, ma gli donava una sorta di accettazione fatalista. Questo è quanto mi è toccato nella vita, e farò meglio ad abituarmici perché non andrà migliorando nel prevedibile futuro.


Dopo un quarto d'ora, le sue facoltà riacquistarono la loro consueta acutezza, così ricominciò a studiare la colonia di formiche rosse che aveva scoperto il giorno prima. Cercò anche di percepire tutto il resto che viveva nella conca, come Oromis gli aveva detto.


Eragon riscontrò un limitato successo. Se si rilassava per assorbire informazioni da tutte le coscienze attorno a sé, migliaia di immagini e sensazioni gli scorrevano nella testa, accumulandosi in fulminei sprazzi di suoni e colori, contatti e odori, piaceri e dolori. La quantità di informazioni era impressionante. Per abitudine, la sua mente balzava da un soggetto all'altro del flusso, escludendo tutto il resto prima che lui si rendesse conto di averlo fatto, e allora si concentrava per tornare in uno stato di passiva ricettività. Il ciclo si ripeteva ogni qualche secondo. Eppure fu in grado di approfondire la sua comprensione del mondo delle formiche. Scoprì il primo indizio sulla loro specie quando dedusse che l'enorme formica al centro della loro tana stava deponendo le uova, uno ogni minuto, il che significava che era una femmina. E quando accompagnò un gruppo di formiche rosse su per lo stelo di una rosa, ebbe una vivida dimostrazione del tipo di nemici che dovevano affrontare: qualcosa sbucò da sotto una foglia e uccise una delle formiche che stava seguendo. Non riuscì a determinare che tipo di creatura fosse, poiché le formiche ne vedevano soltanto frammenti, e si affidavano più all'olfatto che non alla vista. Se fossero state persone, avrebbe detto che erano aggredite da un mostro terrificante delle dimensioni di un drago, con mascelle potenti quanto le saracinesche acuminate di Teirm, in grado di muoversi alla velocità del lampo.


Le formiche circondarono il mostro come garzoni di stalla che cercano di catturare un cavallo imbizzarrito. Gli saltavano addosso senza paura, mordendogli le zampe articolate e facendosi indietro un istante prima di essere colpite dalle ganasce di ferro del mostro. Sempre più formiche si aggiungevano alla battaglia. Lavoravano insieme per sconfiggere l'intruso, senza mai esitare, anche quando due furono catturate e uccise, e quando parecchie sorelle caddero dallo stelo sul terreno.


Era una battaglia disperata; nessuna delle due parti aveva intenzione di cedere. Soltanto la fuga o la vittoria avrebbe impedito ai combattenti di salvarsi da una morte orribile. Eragon seguiva la scena col fiato sospeso, ammirato dal coraggio delle formiche che continuavano a combattere nonostante le ferite che avrebbero fermato un umano. Era così assorbito dalla battaglia che quando alla fine le formiche prevalsero, si lasciò sfuggire un grido di sollievo così forte da spaventare gli uccelli sui rami.


Incuriosito, tornò nel suo corpo e si avvicinò al cespuglio di rose per osservare il mostro con i suoi occhi. Quello che vide fu un normalissimo ragno marrone, con le zampe rannicchiate, trasportato dalle formiche nella loro tana come cibo. Stupefacente.


Fece per andarsene quando si rese conto di aver trascurato ancora una volta di osservare la miriade di altri insetti e ammali della conca. Chiuse gli occhi e vagò nella mente di decine e decine di altre creature, facendo del suo meglio per trattenere quanti più dettagli possibile. Era un magro surrogato della prolungata osservazione, ma aveva fame e aveva già esaurito l'ora a disposizione.


Quando tornò da Oromis nel capanno, l'elfo gli chiese: «Com'è andata?»


«Maestro, potrei ascoltare giorno e notte per i prossimi vent'anni e tuttavia non conoscere ancora tutto quello che accade nella foresta.»


Oromis inarcò un sopracciglio. «Hai fatto progressi.» Dopo che Eragon gli ebbe descritto cosa aveva visto, Oromis disse: «Non è abbastanza, temo. Devi impegnarti di più, Eragon. So che puoi farcela. Sei intelligente e tenace, e hai il potenziale per essere un grande Cavaliere. Per quanto sia difficile, devi imparare a mettere da parte i tuoi crucci e concentrarti soltanto sul compito assegnato. Trova la pace dentro di te e lascia che le tue azioni scaturiscano da lì.» «Faccio del mio meglio.»


«No, questo non è il tuo meglio. Riconosceremo il tuo meglio quando verrà.» Fece una pausa meditabonda. «Forse ti sarebbe utile avere un compagno di studi con cui competere. Forse allora vedremmo il tuo meglio... Ci penserò.» Dalla credenza, Oromis prese una pagnotta di pane fresco, un barattolo di legno colmo di burro di nocciole - che gli elfi usavano al posto del vero burro - e un paio di scodelle che riempì di minestrone di verdure che sobbolliva in una pentola appesa su un letto di carbone nel caminetto ad angolo.


Eragon guardò il minestrone con disgusto: era stufo del cibo elfico. Aveva voglia di carne, pesce, pollame, qualcosa di solido in cui affondare i denti. «Maestro» chiese per distrarsi, «perché devo meditare? Solo per comprendere la vita degli animali o degli insetti, o c'è dell'altro?»


«Non ti viene in mente nessun altro motivo?» Oromis sospirò quando Eragon scosse il capo. «Sempre così, i miei nuovi allievi, specie quelli umani. La mente è l'ultimo muscolo che allenano o usano, e quello che tengono in rninor considerazione. Fa' loro una domanda sull'arte della scherma, e ti sapranno elencare ogni singola mossa di un duello vecchio di un mese, ma chiedi di risolvere un problema o di fare un'affermazione coerente e... be', sei fortunato se ottieni più di uno sguardo smarrito in risposta. Sei ancora nuovo al mondo della negromanzia, la magia propriamente detta, ma devi cominciare a considerarne tutte le implicazioni.»


«Ossia?»


«Immagina per un momento di essere Galbatorix, con tutte le sue vaste risorse a tua disposizione. I Varden hanno distrutto il tuo esercito di Urgali con l'aiuto di un Cavaliere dei Draghi rivàle, che tu sai di essere stato istruito, almeno in parte, da uno dei tuoi più pericolosi e implacabili nemici, Brom. Sai anche che i tuoi avversari si stanno ammassando nel Surda per una possibile invasione. Con queste premesse, qual è la maniera più semplice di affrontare tutte queste minacce, a meno di non volare tu stesso in battaglia?»


Eragon rimestò il minestrone per raffreddarlo, mentre rifletteva sulla domanda. «Secondo me» disse lentamente «la cosa più semplice da fare sarebbe addestrare un gruppo di stregoni... non è necessario che siano nemmeno tanto potenti... e costringerli a giurarmi fedeltà nell'antica lingua, per poi infiltrarli nel Surda allo scopo di sabotare gli sforzi dei Varden, avvelenare i pozzi, e assassinare Nasuada, re Orrin e gli altri membri importanti della resistenza.» «E perché Galbatorix non l'ha ancora fatto?»


«Perché finora il Surda non gli ha dato grossi problemi, e perché i Varden sono rimasti nascosti nel Farthen Dùr per decenni, dove erano in grado di esaminare la mente di ogni nuovo arrivato in cerca di mistificatori, cosa che non possono fare nel Surda, poiché i suoi confini e la sua popolazione sono troppo vasti.»


«Sei arrivato alle mie stesse conclusioni» disse Oromis. «A meno che Galbatorix non lasci il suo covo a Urù'baen, il maggiore pericolo che ti troverai ad affrontare durante la campagna dei Varden verrà da altri stregoni. Sai bene quanto me come sia difficile guardarsi dalla magia, specie se il tuo avversario ha giurato nell'antica lingua di ucciderti, a qualunque costo. Invece di tentare di conquistare la tua mente, un nemico del genere si limiterà a evocare un incantesimo per distruggerti, anche se un momento prima di morire sarai ancora in grado di contrattaccare. Tuttavia non puoi abbattere un nemico simile se non sai chi o dove è.»


«Perciò a volte non serve assumere il controllo della mente del tuo avversario?»


«A volte, ma è un rischio da evitare.» Oromis fece una pausa per sorbire qualche cucchiaio di minestrone. «Ora per arrivare al cuore del problema, come puoi difenderti da nemici anonimi che possono tralasciare qualunque precauzione fisica e uccidere con una parola?»


«Non lo so, a meno che...» Eragon esitò, poi sorrise. «A meno che io non sia consapevole di tutte le coscienze che mi circondano. Allora potrei percepire le loro intenzioni.»


Oromis parve compiaciuto della risposta. «Esatto, Eragon-finiarel. E questa è la risposta alla tua domanda. La meditazione condiziona la tua mente al fine di trovare ed esplorare brecce nell'armatura mentale del nemico, non importa quanto siano piccole.»


«Ma un altro stregone non capirà se lo tocco con la mente?»


«Sì, lo capirà, ma la maggior parte della gente no. Quanto agli stregoni, sì, loro lo sapranno, avranno paura e schermeranno le loro menti per proteggersi, e tu li riconoscerai proprio per questo.»


«Ma non è pericoloso abbassare le difese della coscienza? Se vieni attaccato mentalmente, è facile restare preda del nemico.»


«È meno pericoloso che restare insensibile al mondo.»


Eragon annuì. Tamburellò con il cucchiaio contro il bordo della scodella, immerso nei propri pensieri, poi disse: «Non mi sembra giusto.»


«Oh? Spiegati meglio.»


«E l'intimità delle persone? Brom mi ha insegnato a non intrufolarmi mai nella mente di qualcuno, a meno che non sia assolutamente necessario... Mi sentirei a disagio, se spiassi nei segreti della gente... segreti che gli altri hanno tutto il diritto di tenere per sé.» Inclinò la testa da un lato. «Perché Brom non me ne ha parlato se era così importante? Perché non mi ha addestrato lui?»


«Brom ti ha detto» replicò Oromis «quello che era giusto dirti in quelle circostanze. Sondare le profondità della mente può essere una droga allettante per una personalità distorta o per coloro che aspirano al potere. Non veniva insegnato ai futuri Cavalieri - anche se li facevamo meditare come te durante l'addestramento - finché non eravamo convinti che fossero maturi abbastanza da resistere alla tentazione.


«Sì, è un'invasione dell'intimità, e apprenderai molte cose che non avresti mai voluto sapere. Ma è per il tuo bene, e per il bene dei Varden. Per esperienza personale, come anche secondo quella di altri Cavalieri, posso dirti che ti aiuterà soprattutto a comprendere che cosa muove le persone. E la comprensione genera compassione, anche per l'ultimo dei mendicanti dell'ultimo villaggio sperduto di Alagaésia.»


Restarono in silenzio a mangiare per qualche minuto, poi Oromis chiese: «Sai dirmi qual è lo strumento mentale più importante che una persona possa avere?»


Era una domanda seria, ed Eragon riflettè a lungo prima di osare rispondere. «La determinazione.» Oromis spezzò il pane in due con le lunghe dita pallide. «Posso capire perché sei arrivato a questa conclusione... la determinazione ti è servita spesso nelle tue avventure... ma no. Quello che intendo io è lo strumento più necessario a scegliere la strategia migliore in ogni circostanza. La determinazione è comune fra le persone di scarso intelletto quanto fra le menti brillanti. Perciò no, la determinazione non è quello che stiamo cercando.»


Questa volta Eragon considerò la domanda come se fosse un indovinello, contando il numero di parole, sussurrandole a bassa voce per scoprire quali facevano rima ed esplorando i significati nascosti. Il problema era che non era mai stato un grande solutore di enigmi, e non si era mai piazzato tra i primi posti nella gara annuale di indovinelli di Carvahall. Pensava in maniera troppo letterale per scoprire le risposte a indovinelli che non aveva mai sentito, un retaggio dell'educazione pragmatica di Garrow.


«La saggezza» disse alla fine. «La saggezza è lo strumento più importante per una persona.» «Un buon tentativo, ma ancora non ci siamo. La risposta è la logica. O per meglio dire, la capacità di ragionare in maniera analitica. Applicata a dovere, può compensare qualunque mancanza di saggezza, che si ottiene soltanto con l'età e l'esperienza.» Eragon si accigliò. «Sì, ma avere un cuore puro non è più importante della logica? La sola logica può condurti a conclusioni eticamente sbagliate, mentre se sei una persona retta e giusta non compirai azioni vergognose.» Un sorriso sottile increspò le labbra di Oromis. «Tu confondi la questione. Io voglio sapere qual è lo strumento più utile a una persona, indipendentemente dalla sua natura buona o malvagia. Sono d'accordo che è importante essere di indole virtuosa, ma credo che se dovessi scegliere fra dare a un uomo un'indole nobile e insegnargli a pensare lucidamente, sarebbe di gran lunga preferibile insegnargli a pensare lucidamente. Troppi problemi a questo mondo sono causati da uomini di indole nobile e mente annebbiata.


«La storia è fitta di esempi di soggetti convinti di fare la cosa giusta, mentre commettono crimini proprio per questo. Ricorda, Eragon, che nessuno ritiene di essere cattivo, e pochi prendono decisioni che ritengono sbagliate. Una persona può non apprezzare la propria scelta, ma la sosterrà anche nelle peggiori circostanze, perché crede che sia la migliore possibile in quel momento.


«Di per sé, essere una persona rispettabile non garantisce che si agisca sempre nel modo migliore, il che ci conduce all'unica protezione che abbiamo contro i demagoghi, i mistificatori e la follia del popolo, e la nostra guida più sicura attraverso gli incerti della vita: il pensiero lucido e razionale. La logica non ti tradisce mai, purché tu non sia inconsapevole, né ignori deliberatamente le conseguendo ze delle tue azioni.»


«Se gli elfi sono tanti logici» disse Eragon, «allora vi trovate sempre d'accordo su quello che fate.» «Di rado» sentenziò Oromis. «Come ogni altra razza, anche noi ci atteniamo a una vasta conseguenza spesso arriviamo a conclusioni diverse, anche se in identiche situazioni. aggiungere, hanno un senso logico dal punto di vista di ciascuno. E vorrei che fosse altrimenti, ma non tutti gli elfi hanno allenato la propria mente in maniera adeguata.»


«Come intendi insegnarmi questa logica?»


Il sorriso di Oromis si allargò. «Col metodo più antico ed efficace: il dibattito. Ti farò una domanda, e tu risponderai difendendo la tua posizione.» Attese che Eragon gli riempisse di nuovo la scodella di minestrone. «Per esempio, perché combatti l'Impero?»


L'improvviso cambio di argomento colse Eragon alla sprovvista. Aveva la sensazione che Oromis avesse appena centrato l'obiettivo verso cui lo stava attirando. «Come ho già detto, per aiutare coloro che soffrono sotto il dominio di Galbatorix e, in minor misura, per una vendetta personale.»


«Quindi combatti per ragioni umanitarie?»


«Che cosa vuoi dire?»


«Che combatti per aiutare coloro che subiscono le angherie di Galbatorix e per impedirgli di fare ancora del male.» «Esatto» disse Eragon.


«Ah, ma rispondi a questo, mio giovane Cavaliere. Non è possibile che la tua guerra contro Galbatorix provochi più sofferenze di quante tu ne intenda prevenire? La maggior parte della popolazione dell'Impero conduce una vita normale, produttiva, incontaminata dalla follia del re. Come giustificheresti l'invasione delle loro terre, la distruzione delle loro case, l'uccisione dei loro figli?»


Eragon rimase a bocca aperta, sconcertato da una simile domanda - Galbatorix era il male - e dal fatto di non riuscire a trovare una facile risposta. Sapeva di avere ragione, ma come provarlo? «Tu non credi che Galbatorix debba essere deposto?»


«Non è questo il punto.»


«Ma devi crederci» insistette Eragon. «Guarda che cosa ha fatto ai Cavalieri.»


Chinando il capo sul piatto, Oromis ricominciò a mangiare, lasciando che Eragon schiumasse in silenzio. Quando ebbe finito, si intrecciò le mani in grembo e gli chiese: «Ti ho turbato?»


«Sì.»


«Bene. Allora continua a riflettere sulla domanda finché non troverai una risposta. E mi aspetto che sia una risposta convincente.»


gamma di principi, e di Conclusioni che, vorrei

Il convolvolo nero

Riordinarono la tavola e portarono fuori i piatti per strofinarli con la sabbia. Oromis sbriciolò gli avanzi di pane intorno alla casa per sfamare gli uccelli, poi tornarono dentro.


Oromis prese calami e inchiostro per Eragon, e ricominciarono le lezioni di Liduen Kvaedhi, la scrittura dell'antica lingua, che era molto più elegante delle rune dei nani e degli umani. Eragon si smarrì negli arcani glifi, lieto di avere un compito che non richiedesse nulla di più arduo che una memoria meccanica.


Dopo ore trascorse chino sui fogli, Oromis gli fece un cenno con la mano e disse: «Basta così. Continueremo domattina.» Eragon inarcò la schiena e si sciolse le spalle, mentre Oromis sceglieva cinque rotoli di pergamena dalle loro nicchie nella parete. «Due di questi sono nell'antica lingua, tre nella tua lingua madre. Ti aiuteranno a destreggiarti con entrambi gli alfabeti, e ti forniranno preziose informazioni che per me sarebbe troppo tedioso vocare.» «Vocare?»


Con precisione infallibile, la mano di Oromis saettò verso la parete, da cui estrasse un sesto rotolo, che aggiunse alla piramide fra le braccia di Eragon. «Questo è un dizionario. Dubito che ci riuscirai, ma prova a leggerlo tutto.» Quando l'elfo aprì la porta per farlo uscire, Eragon gli disse: «Maestro.»


«Sì, Eragon?»


«Quando cominceremo a lavorare con la magia?»


Oromis si appoggiò con un braccio allo stipite della porta, come se non avesse più la forza di restare in piedi. Poi sospirò e disse: «Devi fidarti di come conduco la tua istruzione, Eragon. Tuttavia immagino sarebbe sciocco da parte mia indugiare oltre. Vieni, lascia i rotoli sul tavolo, e andiamo a esplorare i misteri della negromanzia.» Sul prato davanti alla casa, Oromis si fermò a contemplare il panorama dalla rupe di Tel'naeir, le spalle rivolte a Eragon, i piedi divaricati, le mani intrecciate dietro la schiena. Senza voltarsi, chiese: «Cos'è la magia?»


«La manipolazione di energia mediante l'uso dell'antica lingua.»


Ci fu una lunga pausa prima della risposta di Oromis. «Tecnicamente hai ragione, e molti stregoni non sono mai andati più in là di così. Ma la tua descrizione non riesce a catturare l'essenza della magia. La magia è l'arte del pensare, e non riguarda soltanto la forza o il linguaggio. Anche tu sai che un vocabolario limitato non rappresenta un ostacolo all'impiego della magia. Come tutte le altre cose che andrai a imparare, la magia si basa su un intelletto disciplinato. «Brom ha sorvolato sul normale regime di addestramento e ha ignorato le sottigliezze della negromanzia per assicurarsi che tu avessi le capacità che ti servivano per sopravvivere. Anch'io dovrò deviare dal normale corso di addestramento per concentrarci sulle capacità che più ti serviranno nella guerra incombente. Ma mentre Brom ti ha insegnato la nuda meccanica della magia, io ti insegnerò le sue più sottili applicazioni, i segreti che erano riservati ai Cavalieri più saggi: come uccidere muovendo appena un dito, come trasportare istantaneamente un oggetto da un luogo all'altro, una formula che ti consenta di individuare i veleni nel cibo o nelle bevande, una variazione della cristallomanzia che ti farà ascoltare, oltre che vedere, il mondo per estrarre energia dall'ambiente circostante per preservare la tua, e come sfruttare al massimo la tua forza in ogni situazione.


«Queste tecniche sono così potenti e pericolose che non sono mai state insegnate a un Cavaliere novizio come te, ma le circostanze mi impongono di rivelartele e di confidare nel fatto che non ne abuserai.» Alzando il braccio destro, la mano chiusa ad artiglio, Oromis esclamò: «Adurna!»


Eragon guardò una sfera d'acqua levarsi dal ruscello che scorreva vicino al capanno, e fluttuare nell'aria fino a restare sospesa fra le dita aperte di Oromis.


Il ruscello era scuro e fangoso sotto il fogliame della foresta, ma la sfera estratta da esso era incolore come il vetro. Frammenti di muschio, terriccio e altri detriti galleggiavano nel globo trasparente.


Con lo sguardo ancora rivolto all'orizzonte, Oromis disse: «Prendi.» Scagliò la sfera all'indietro verso Eragon. Eragon cercò di afferrare la palla, ma non appena toccò la sua pelle, l'acqua perse coesione e gli schizzò sul petto. «Prendila con la magia» disse Oromis. Poi di nuovo gridò: «Adurna!» e una sfera d'acqua si materializzò sulla superficie del ruscello e volò sulla sua mano come un falco addestrato obbedisce al suo padrone. Questa volta Oromis scagliò il globo senza preavviso. Tuttavia Eragon era preparato, e disse: «Reisa du adurna» mentre allungava la mano. La sfera rallentò fino a fermarsi a un soffio dalla sua pelle.


«Una pessima scelta di parole» disse Oromis, «ma tuttavia accettabile.»


Eragon sorrise e mormorò: «Thrysta.»


La sfera invertì la rotta e sfrecciò verso la nuca argentata di Oromis, ma invece di finire dove Eragon avrebbe voluto, oltrepassò l'elfo, gli girò intorno e tornò da Eragon a velocità raddoppiata.


L'acqua rimase solida come il marmo quando urtò il cranio di Eragon, con un tonfo sordo. Il colpo lo mandò riverso sull'erba, dove rimase intontito, battendo le palpebre, mentre sciami di puntini luminosi gli danzavano davanti agli occhi.


«Già» disse Oromis. «Sarebbe stato meglio dire letta o kodthr.» Finalmente si volse per guardare Eragon e inarcò un sopracciglio con evidente sorpresa. «Che cosa stai facendo? Alzati. Non possiamo restare qui tutto il giorno.» «Sì, maestro» borbottò Eragon.


Quando si fu rimesso in piedi, Oromis gli fece manipolare l'acqua in diversi modi - fare dei nodi, cambiare il colore della luce che assorbiva o rifletteva, congelarla secondo una sequenza precisa - nessuno dei quali si rivelò difficile per lui. Gli esercizi continuarono così a lungo che l'iniziale interesse di Eragon cominciò a sfumare, rimpiazzato da impazienza e sconcerto. Non voleva rischiare di offendere Oromis, ma non capiva il punto di quello che stava facendo l'elfo; era come se Oromis stesse evitando qualunque incantesimo che richiedesse un minimo di impegno in più da parte sua. Ho sempre dimostrato la portata delle mie capacità. Perché insiste a farmi ripassare questi trucchetti da principiante? Ad alta voce, disse: «Maestro, queste cose le so già. Non possiamo fare qualcos'altro?»


I muscoli del collo di Oromis si tesero, e le sue spalle divennero di granito; persino il respiro dell'elfo si fermò, prima che esclamasse, indignato: «Non imparerai mai il rispetto, Eragon-vodhr? E sia!» Pronunciò quattro parole nell'antica lingua a voce così bassa che Eragon non riuscì a capirle.


Il giovane lanciò un grido allarmato quando le sue gambe subirono una pressione che gli strizzava i polpacci tanto da rendergli impossibile camminare. Le cosce e il torso erano liberi di muoversi, ma per il resto era come avviluppato in un blocco di malta rappresa.


«Liberati» disse Oromis.


Era una sfida con cui Eragon non si era mai cimentato prima: reagire all'incantesimo di un altro. C'erano due modi per recidere gli invisibili legacci che lo paralizzavano. Il più efficace sarebbe stato sapere come Oromis lo aveva immobilizzato - se agendo direttamente sul suo corpo o usando una fonte esterna - perché in questo modo avrebbe potuto indirizzare l'elemento o la forza per disperdere il potere di Oromis. Oppure poteva usare un incantesimo vago e generico per bloccare qualunque cosa Oromis stesse facendo. Lo svantaggio di questa tattica era che avrebbe portato a uno scontro diretto di potenza fra di loro. Doveva succedere, prima o poi, pensò Eragon. Non aveva alcuna speranza di prevalere su un elfo.


Mettendo insieme la frase necessaria, disse: «Losna kalfya iet.» Libera i miei polpacci.


La quantità di energia che abbandonò il suo corpo fu più grande di quanto avesse previsto; dalla moderata stanchezza per la crisi della mattina e gli esercizi della giornata passò alla sensazione di aver camminato su un terreno accidentato fin dall'alba. Poi la pressione svanì all'improvviso, facendolo barcollare mentre recuperava l'equilibrio. Oromis scrollò il capo. «Sciocco» disse, «molto sciocco. Se mi fossi impegnato davvero a mantenere l'incantesimo, ti saresti ucciso. Non usare mai gli assoluti.»


«Gli assoluti?»


«Non formulare mai un incantesimo che abbia soltanto due risultati: successo o morte. Se un nemico ti avesse intrappolato le gambe e fosse stato più forte di te, avresti speso tutte le tue energie per rompere il suo incantesimo. Saresti morto senza alcuna possibilità di interrompere il tentativo quando ti fossi accorto che era inutile.» «Come faccio a evitarlo?» chiese Eragon.


«È più sicuro fare dell'incantesimo un processo che puoi concludere a tua discrezione. Invece di dire lìbera i miei polpacci, che è un assoluto, avresti potuto dire riduci la magia che mi blocca i polpacci. Un po' prolisso, lo ammetto, ma in questo modo avresti potuto stabilire la quantità di incantesimo da ridurre per poi decidere se era sicuro eliminarlo del tutto. Proviamo di nuovo.»


Nell'istante in cui Oromis mormorò la sua inafferrabile invocazione, la pressione tornò a serrare le gambe di Eragon. Si sentiva così stanco che dubitava di poter opporre resistenza, ma provò ugualmente a evocare la magia. Prima ancora che l'antica lingua lasciasse la bocca di Eragon, si accorse di una curiosa sensazione mentre il peso che gli bloccava le gambe diminuiva a ritmo costante: un formicolio che gli dava l'impressione di essere estratto da una palude di freddo e denso fango. Scoccò un'occhiata a Oromis e vide che la faccia dell'elfo era contratta dallo sforzo, come se si aggrappasse a qualcosa di prezioso che non sopportava di perdere. Una vena gli pulsava su una tempia. Quando gli arcani ceppi si dissolsero, Oromis sussultò come se fosse stato punto da una vespa e rimase impalato a fissarsi le mani, il torace minuto che ansimava. Per forse un minuto non si mosse, poi raddrizzò le spalle e camminò fino all'orlo della rupe di Tel'naeir, una figura solitària che si stagliava contro il cielo pallido.


Eragon si sentì pervadere da rammarico e compassione, le stesse emozioni che aveva provato nel vedere per la prima volta la zampa mutilata di Glaedr. Si maledisse per essere stato così arrogante con Oromis, così dimentico della sua infermità, e per non aver riposto più fiducia nel giudizio dell'elfo. Non sono l'unico a dover convivere con le ferite del passato. Eragon non aveva pienamente compreso quando Oromis aveva detto che, tranne qualche semplice esempio, la magia sfuggiva al suo controllo. Ora capiva la gravità delle condizioni di Oromis e la sofferenza che dovevano causare, specie per uno della sua razza, nato e cresciuto nella magia.


Eragon si avvicinò a Oromis, s'inginocchiò e si prostrò alla maniera dei nani, premendo la fronte livida sul terreno. «Ebrithil, ti chiedo perdono.»


L'elfo non diede segni di aver sentito.


I due rimasero immobili, mentre il sole calava davanti a loro, gli uccelli cantavano le loro canzoni notturne, e l'aria diventava sempre più fredda e umida. Da nord provenivano i deboli tonfi delle ali di Saphira e Glaedr che tornavano. Con voce atona e distante, Oromis disse: «Cominceremo


daccapo domani, con questo e altri argomenti.» Dal suo profilo, Eragon intuì che Oromis aveva riacquistato il consueto contegno impassibile. «È accettabile per te?»


«Sì, maestro» disse Eragon, grato per la domanda.


«Credo sia meglio, d'ora in poi, se ti sforzerai di parlare soltanto nell'antica lingua. Abbiamo poco tempo a disposizione, e questo è il metodo più rapido per imparare.»


«Anche quando parlo con Saphira?»


«Anche allora.»


Adottando la lingua degli elfi, Eragon promise: «Allora m'impegnerò con tutte le mie forze, finché non soltanto penserò, ma sognerò nella tua lingua.»


«Se ci riuscirai» disse Oromis, usando a sua volta l'antica lingua, «la nostra missione potrà avere qualche speranza di successo.» Fece una pausa. «Invece di volare qui, domattina, accompagnerai l'elfo che manderò da te. Ti condurrà dove gli abitanti di Ellesméra si esercitano alla scherma. Resta là per un'ora, poi continua come di consueto.» «Non mi insegnerai tu?» chiese Eragon, sentendosi respinto.


«Non ho niente da insegnarti. Tu sei fra i migliori spadaccini che abbia mai conosciuto. Di scherma non ne so più di te, e quello che io possiedo e tu no non posso dartelo. A te non resta che preservare il tuo attuale livello di abilità.» «Perché non posso farlo con te... maestro?»


«Perché non mi piace cominciare la giornata con agitazione e conflitto.» Guardò Eragon, poi addolcì i toni e aggiunse: «E perché sarà un bene per te conoscere altri individui che vivono qui. Io non sono l'espressione della mia razza. Ma adesso basta. Guarda, arrivano.»


I due draghi planarono passando davanti al disco solare. Prima arrivò Glaedr con un ruggito di vento, oscurando il cielo con la sua mole imponente prima di atterrare sull'erba e ripiegare le ali dorate, poi Saphira, agile e svelta come un passerotto in confronto a un'aquila.


Come quella mattina, Oromis e Glaedr fecero alcune domande per assicurarsi che Eragon e Saphira avessero prestato attenzione alle reciproche lezioni. Non l'avevano fatto sempre, ma collaborando e condividendo informazioni fra di loro, riuscirono a rispondere a tutte le domande. L'unico punto debole fu la lingua straniera con cui avrebbero dovuto comunicare d'ora in avanti.


Meglio, brontolò Glaedr. Molto meglio. Rivolse lo sguardo su Eragon. Tu e io ci alleneremo insieme molto presto. «Certo, Skulblaka.»


Il vecchio drago sbuffò e arrancò verso Oromis, saltellando sulla zampa sana per compensare quella mancante. Saphira si protese e afferrò con le labbra la punta della coda di Glaedr, lanciandola in aria con uno scatto della testa, come se volesse spezzare il collo di un cervo. Sussultò sorpresa


quando Glaedr si volse di scatto e fece schioccare le fauci a un soffio dal suo collo.


Anche Eragon trasalì e troppo tardi si coprì le orecchie per proteggerle dal ruggito di Glaedr. Dalla rapidità e dall'intensità della reazione di Glaedr, arguì che non era la prima volta quel giorno che Saphira lo importunava. Invece di rimorso, Eragon individuò in lei un'eccitata gaiezza - come una bimba con un nuovo giocattolo - e una cieca devozione verso l'altro drago.


«Contieniti, Saphira!» le intimò Oromis. Saphira indietreggiò e si accovacciò in silenzio, anche se niente del suo atteggiamento esprimeva contrizione. Eragon mormorò una flebile scusa; Oromis agitò una mano e disse: «Filate, tutti e due!»


Senza protestare, Eragon salì in groppa a Saphira.


Dovette spronarla per prendere il volo, e una volta in aria, la dragonessa volò per tre volte in circolo sulla radura prima che lui la costringesse a prendere la rotta per Ellesméra.


Ma che cosa ti è venuto in mente? Dargli quel morso! disse lui. Pensava di saperlo, ma voleva una conferma da lei. Stavo solo giocando.


Era la verità, dato che parlavano nell'antica lingua, eppure Eragon sospettava che si trattasse soltanto di una piccola parte di una verità più ampia. Già, ma a che gioco? La sentì irrigidirsi sotto di lui. Dimentichi il tuo dovere. Continuando a... Cercò la parola giusta. Continuando a provocare Glaedr, distrai lui, Oromis e me... pregiudicando la riuscita dei nostri sforzi. Non sei mai stata così sventata prima d'ora.


Non credere di essere la mia coscienza.


Eragon scoppiò a ridere, per un momento dimentico di dove era seduto, gettando la testa all'indietro col rischio di cadere di sella. Oh, ma quale ironia, dopo tutte le volte che sei stata tu a dirmi che cosa fare. Io sono la tua coscienza, Saphira, come tu sei la mia. Hai avuto ragione a rimproverarmi e ad ammonirmi in passato, e adesso mi vedo costretto a fare lo stesso con te. Smettila di infastidire Glaedr con le tue attenzioni.


La dragonessa rimase in silenzio.


Saphira?


Ti sento.


Lo spero.


Dopo un minuto di volo tranquillo, lei disse: Due crisi in un giorno solo. Come stai adesso?


Ammaccato e indolenzito. Fece una smorfia. In parte per la Rimgar e l'allenamento di scherma, ma soprattutto per i postumi della crisi. È come un veleno, che mi indebolisce i muscoli e mi annebbia la mente. Spero soltanto di restare sano abbastanza a lungo da vedere la fine di questo addestramento. In seguito, però... non so cosa farò. Di sicuro non posso combattere per i Varden in questo stato. Non pensarci, gli suggerì lei. Non puoi farci niente, e rimuginarci sopra ti fa soltanto sentire peggio. Vivi nel presente, ricorda il passato, e non temere il futuro, perché il futuro non esiste e mai esisterà. C'è soltanto il momento presente.


Lui le diede una pacca sulla spalla e sorrise con rassegnata gratitudine. Alla loro destra, un astore cavalcava una corrente d'aria calda mentre pattugliava la foresta in cerca di prede pennute o pelose. Eragon lo osservava, riflettendo sul quesito che Oromis gli aveva posto: come poteva giustificare la sua guerra contro l'Impero, sapendo che avrebbe causato tante morti e sofferenze?


Ho la risposta, disse Saphira.


Ossia?


Galbatorix ha... La dragonessa esitò, poi disse: No, non te lo dico. Dovrai scoprirlo da solo.


Saphira! Sii ragionevole.

Lo sono. Se non sai perché quello che facciamo è la cosa giusta, tanto vale arrenderti a Galbatorix. Nonostante le sue insistenti suppliche, Eragon non riuscì a cavarle più nulla, perché lo aveva escluso da quella parte della sua mente. Tornati sull'albero, Eragon consumò una cena leggera, e stava per aprire uno dei rotoli di Oromis quando qualcuno disturbò la sua quiete bussando alla porta scorrevole.


«Avanti» disse lui, sperando che fosse Arya.


Era lei.


Arya salutò Eragon e Saphira, poi disse: «Ho pensato che ti sarebbe piaciuto visitare il Palazzo di Tialdarì e i suoi giardini, dato che hai espresso questo interesse ieri. Se non sei troppo stanco.» Indossava una lunga, morbida tunica rossa, orlata da preziosi ricami neri. L'abbinamento di colori ricordava i mantelli della regina ed enfatizzava la forte somiglianza fra madre e figlia.


Eragon spinse da parte i rotoli. «Mi piacerebbe moltissimo.»


Vuole dire ci piacerebbe moltissimo, intervenne Saphira.


Arya rimase sorpresa quando entrambi parlarono nell'antica lingua; perciò Eragon le spiegò la volontà di Oromis. «Un'idea eccellente» commentò lei, nella stessa lingua. «E molto più appropriata, finché resterete qui.» Quando tutti e tre furono scesi dall'albero, Arya li guidò verso ovest, in una zona sconosciuta di Ellesméra. Incontrarono molti elfi lungo la strada, e tutti si fermarono per inchinarsi a Saphira.


Eragon notò ancora una volta che non si scorgevano bambini. Lo disse ad Arya, che rispose: «Sì, abbiamo pochi bambini. Al momento ce ne sono soltanto due a Ellesméra, Dusan e Alanna. Per noi i bambini sono la cosa più preziosa del mondo perché sono la più rara. Avere un figlio è il più grande fra gli onori e le responsabilità che un essere vivente possa ricevere.»


Alla fine giunsero davanti a un arco acuto costolato cresciuto fra due alberi - da cui si accedeva a un vasto complesso. Sempre nell'antica lingua, Arya intonò: «Radice di albero, frutto di tasso, in nome del mio sangue lasciami il passo.» I due battenti della porta ogivale tremarono, poi si aprirono verso l'esterno, liberando cinque farfalle monarca che volarono verso il cielo violetto. L'arco si affacciava su un vasto giardino floreale che era stato creato per dare l'impressione di un campo selvatico naturale e incontaminato. L'unico elemento che tradiva l'artificio era la grande varietà di piante: molte specie erano in fiore fuori stagione, o erano originarie di climi più caldi o più freddi e non avrebbero potuto prosperare senza la magia degli elfi. Il giardino era illuminato dalle lanterne senza fiamma a foggia di gemma, con l'aggiunta di sciami di lucciole.


Arya si rivolse a Saphira. «Attenta alla coda, non farla strisciare sulle aiuole.»


S'inoltrarono nel giardino, diretti verso una linea di alberi radi. Prima ancora di capire dove fosse, Eragon vide gli alberi che si infittivano fino a diventare compatti come una parete. Si ritrovò sulla soglia di un palazzo di lucido legno, senza essersi nemmeno reso conto di essere entrato.


La sala era calda e accogliente: un luogo di pace, riflessione e conforto. La sua forma era definita dai tronchi degli alberi, che nella parte interna erano stati scortecciati, lucidati e strofinati con olio fino a far risplendere il legno come ambra. Ampie fessure regolari fra i tronchi fungevano da finestre. L'aroma di aghi di pino sminuzzati profumava l'aria. Nella sala c'erano molti elfi, intenti a leggere, scrivere e, in un angolo più buio, a suonare siringhe di canne. Tutti si fermarono per chinare la testa verso Saphira.


«Stareste qui» disse Arya, «se non foste Cavaliere e drago.»


«È magnifico» commentò Eragon, estasiato.


Arya guidò lui e Saphira in ogni luogo del palazzo accessibile ai draghi. Ogni nuova stanza era una sorpresa: non ce n'erano due uguali, e in ogni camera erano stati trovati nuovi modi per incorporare la foresta nella costruzione. In una, un ruscello limpido scorreva lungo la parete rugosa e proseguiva sul pavimento di sassi per dileguarsi sotto il cielo notturno. In un'altra, le pareti erano ricoperte di rampicanti, un arazzo verde ininterrotto ornato di fiori dall'ampia corolla rosa e bianca. Arya la chiamò Lianì Vine.


Videro molte opere d'arte, da fairth e dipinti a sculture e splendenti mosaici di vetro colorato, tutte basate sulle forme curve di piante e animali.


Islanzadi li incontrò per qualche minuto in un padiglione aperto collegato agli altri due edifici da passaggi coperti. S'informò sui progressi di Eragon nell'addestramento e sulle condizioni della sua schiena, e lui rispose con brevi frasi cortesi che parvero soddisfare la regina, che scambiò qualche parola con Saphira e poi se ne andò. Alla fine tornarono in giardino. Eragon camminava al fianco di Arya - con Saphira alle loro spalle - incantato dal suono della sua voce, mentre lei gli parlava delle varietà di fiori, del loro luogo di origine, di come si coltivavano e di come, in molti casi, erano stati alterati con la magia. Indicò anche i fiori che schiudevano i petali soltanto di notte, come una datura bianca.


«Qual è il tuo preferito?» chiese Eragon.


Arya sorrise e lo scortò verso un albero ai margini del giardino, accanto a un laghetto circondato di giunchi. Intorno al ramo più basso dell'albero era avvinghiato un convolvolo con tre piccoli, vellutati boccioli neri.


Soffiando su di loro, Arya sussurrò: «Apritevi.»


I petali frusciarono nello schiudersi, rivelando un cuore colmo di nettare. La gola dei fiori campanulati era di un intenso blu che sfumava nell'inchiostro della corolla come le vestigia del giorno nella notte.


«Non è il più perfetto e adorabile dei fiori?» chiese Arya.


Eragon la guardò, squisitamente consapevole di quanto fossero vicini, e disse: «Sì...» e prima che il coraggio lo abbandonasse, aggiunse: «Come te.»


Eragon! esclamò Saphira.


Arya ricambiò il suo sguardo con un'intensità che lo costrinse ad abbassare gli occhi. Quando osò guardarla di nuovo, rimase mortificato nel vederla sorridere, come divertita dalla sua reazione. «Sei troppo gentile» mormorò lei. Tese una mano e sfiorò il bordo di una corolla; poi tornò a guardare Eragon. «Fàolin l'ha creato apposta per me, un solstizio d'estate di tanto tempo fa.»


Il giovane si sentì a disagio e borbottò qualche parola incomprensibile, ferito e offeso dal fatto che lei non avesse preso sul serio il complimento. Avrebbe voluto diventare invisibile, e per un attimo pensò addirittura di evocare un incantesimo che gli consentisse di farlo.


Alla fine drizzò le spalle e disse: «Ti prego di scusarci, Arya Svit-kona, ma è tardi, e dobbiamo tornare al nostro albero.»


Il sorriso di lei si allargò. «Ma certo, Eragon. Capisco.» Li accompagnò all'arco principale, aprì le porte per loro, e disse: «Buonanotte, Saphira. Buonanotte, Eragon.»


Buonanotte a te, Arya, rispose Saphira.


Malgrado l'imbarazzo, Eragon non potè fare a meno di chiederle: «Ci vedremo domani?»


Arya inclinò la testa da un lato. «Temo di essere impegnata domani.» Poi le porte si chiusero, lasciandogli intrawedere un'ultima immagine di lei che si allontanava per tornare al palazzo.


Accovacciandosi sul sentiero, Saphira sospinse Eragon con il muso. Smettila di sognare a occhi aperti e salimi in groppa. Arrampicandosi sulla sua zampa sinistra, Eragon prese posto come al solito sulle spalle della dragonessa e si aggrappò alla punta del collo più vicina a lui, mentre Saphira si ergeva in tutta la sua altezza. Dopo qualche passo, lei disse: Come puoi criticare il mio comportamento con Glaedr e poi fare tu stesso una cosa del genere? Che cosa stavi pensando?


Tu lo sai quello che provo per lei, bofonchiò Eragon.


Bah! Se tu sei la mia coscienza e io la tua, allora è mio dovere dirti che ti stai comportando come un povero corteggiatore goffo e lezioso. Non stai usando la logica, come Oromis ci ha detto di fare. Cosa ti aspetti che succeda fra te e Arya? Lei è una principessa!


E io un Cavaliere.


Lei è un'elfa, tu un umano!


Sembro sempre più un elfo ogni giorno che passa.


Eragon, lei ha più di cent'anni!


Potrei vivere a lungo quanto lei o qualsiasi altro elfo.


Già, ma non ancora, ed è questo il problema. Non colmerai mai questo divario. Lei è una donna adulta con un secolo di esperienza, mentre tu sei...


Avanti, cosa sono? ringhiò lui. Un bambino? È questo che vuoi dire?


No, non un bambino. Non dopo quello che hai visto e fatto da quando ci siamo incontrati. Ma sei giovane, perfino secondo i criteri della tua razza dalla breve vita... figuriamoci per i nani, i draghi, e gli elfi!


Come te.


La sua brusca replica la fece tacere per un minuto. Poi: Sto solo cercando di proteggerti, Eragon. Tutto qui. Voglio che tu sia felice, e temo che non lo sarai se insisti a desiderare Arya.


I due stavano per coricarsi quando udirono sbattere la botola nel vestibolo, e il tintinnio di una cotta di maglia di qualcuno che entrava. Con Zar'roc in pugno, Eragon aprì la porta scorrevole, pronto ad affrontare l'intruso. Abbassò il braccio quando vide Orik sul pavimento. Il nano bevve un lungo sorso da una bottiglia che stringeva nella sinistra, poi guardò Eragon con gli occhi socchiusi. «Ehi, sciacco d'ossa, dove scei? Eccoti lì. Mi chiedevo che fine avevi fatto. Non riuscivo a trovarti... così mi sono detto che in questa bella scierata malinconica magari potevo farti una visitina... Di che vogliamo parlare, tu e io, ora che sciamo insciente in questo bel nido di uccelli?» Prendendolo per il braccio libero, Eragon lo aiutò ad alzarsi, sorpreso da quanto fosse pesante e massiccio il nano, come un macigno in miniatura. Quando Eragon gli lasciò il braccio, Orik cominciò a ondeggiare da un lato e dall'altro, col rischio di cadere al minimo gesto.


«Entra» disse Eragon nella sua lingua. Chiuse la botola. «Ti prenderai un malanno lì fuori.»


Orik guardò Eragon con occhi rotondi e infossati. «Non ti ho mai visto nel mio eremo frondoscio, mai, dico. Mi hai abbandonato in compagnia degli elfi... una compagnia avvilente e noioscia, credi a me.»


Eragon nascose una punta di rimorso dietro un sorriso goffo. Vero, si era dimenticato del nano, con tutte le cose che aveva avuto da fare. «Mi dispiace di non essere venuto a cercarti, Orik, ma i miei studi mi tengono molto occupato. Coraggio, dammi il mantello.» Mentre aiutava il nano a liberarsi dal mantello marrone, gli chiese: «Che cosa stai bevendo?»


«Faelnirv» dichiarò il nano. «Che pozione meraviglioscia e corroborante. La migliore e più grande delle invenzioni elfiche; ti da il dono della favella. Le parole ti scorrono dalla lingua come banchi di alìci argentee, come stormi di leggiadri colibrì, come fiumi di scierpenti scinuosi.» Fece una pausa, sorpreso anche lui dalla magnificenza delle proprie similitudini. Quando Eragon lo sospinse in camera da letto, Orik salutò Saphira levando la bottiglia e disse: «Scialute a te, Zannediferro. Che le tue squame posciano brillare come i carboni della forgia di Morgothal.»


Salute a te, Orik, disse Saphira, appoggiando la testa sul bordo della pedana. Cosa ti ha ridotto in questo stato? Non è da te. Eragon ripetè la domanda ad alta voce.


«Coscia mi ha ridotto in questo stato?» disse Orik. Si lasciò cadere sulla sedia che Eragon gli offrì - i suoi piedi dondolavano a due palmi da terra - e cominciò a scuotere il capo. «Questo si fa, quest'altro non si fa, elfi qui ed elfi là. Sto annegando in un mare di elfi e nella loro stramaledetta cortescia. Non hanno sciangue nelle vene. Non parlano mai. Sci, scignore. No, scignore. Tre sciacchetti, scignore. Ma questo è il massimo che sciono riuscito a cavargli.» Guardò Eragon con un'espressione afflitta. «Che devo fare mentre tu gei occupato con quel tuo addestramento? Restare sceduto a rigirarmi i pollisci mentre divento pietra e raggiungo gli spiriti dei miei antenati? Dimmelo, sciaggio Cavaliere.»


Non hai qualche passatempo o interesse con cui tenerti occupato? chiese Saphira.


«Sì» rispose Orik, «non me la cavo male come fabbro, ma a chi vuoi che interesci? Perché dovrei fabbricare armi e armature per gente che non le scia apprezzare? Sciono inutile, qui. Inutile come una Feldùnost senza una zampa.» Eragon tese una mano verso la bottiglia. «Posso?» Orik fece guizzare gli occhi fra lui e la bottiglia, poi sogghignò e gliela diede. Il faelnirv era freddo come il ghiaccio mentre scorreva lungo la gola di Eragon, pungente e vivificante. Dopo una seconda sorsata, restituì la bottiglia a Orik, contrariato per quanto poco ne era rimasto. «E quali trucchetti» chiese Orik, «sciete riusciti a imparare da Oromisc nei vostri bucolici incontri?» Il nano alternò sonore risate e cupi borbottii mentre Eragon gli descriveva l'addestramento, la benedizione sbagliata nel Farthen Dùr, l'albero di Menoa, il dolore alla schiena, e tutto quello che era successo negli ultimi giorni. Eragon terminò con l'argomento che gli stava più a cuore: Arya. Reso audace dal liquore, confessò il suo affetto per lei e gli descrisse come l'elfa aveva ignorato le sue avance.


Agitando un dito sotto il naso di Eragon, Orik disse: «La roccia sotto i tuoi piedi è argilloscia, ragazzo. Non sfidare il destino. Arya...» S'interruppe, poi brontolò e bevve un altro sorso di faelnirv. «Ah, è troppo tardi per queste cosce. Chi sciono io per dire coscia è giusto e coscia no?»


Saphira aveva già chiuso gli occhi da un pezzo. Senza aprirli, domandò: Sei sposato, Orik? La domanda sorprese Eragon; lui non si era mai soffermato sugli aspetti personali della vita di Orik.


«Età» rispose il nano. «Anche se sciono promescio alla bella Vedrà, figlia di Thorgerd Monocolo e Himinglada. Dovevamo sposciarci in primavera, ma poi gli Urgali ci hanno attaccati e Rothgar mi ha spedito in questo maledetto viaggio.»


«Appartiene al Dùrgrimst Ingietum?» chiese Eragon.


«Naturale!» ruggì Orik, picchiando un pugno sul bracciolo della sedia. «Pensi che sposcerei una che non è del mio clan? È la nipote di mia zia Vardrùn, cugina di scecondo grado di Rothgar, con polpacci bianchi e rotondi e lisci come la scieta, guance roscie come mele. È la più bella nana che scia mai escistita.»


Senza dubbio, commentò Saphira.


«Sono sicuro che la rivedrai presto» disse Eragon.


«Hmf.» Orik fissò Eragon. «Credi nei giganti? Giganti alti, giganti forti, giganti grosci e barbuti con dita come badili?» «Non li ho mai visti» disse Eragon. «Ne ho sentito parlare solo nelle leggende. Se esistono, non sono in Alagaésia.» «Invece escistono, eccome!» esclamò Orik, scuotendo la bottiglia. «Dimmi, Cavaliere. See un terribile gigante ti incontrasele per strada, come ti chiamerebbe, see non cena?»


«Eragon, suppongo.»


«No. No. Ti chiamerebbe nano, perché un nano sciaresti per lui.» Orik ridacchiò e diede di gomito a Eragon nelle costole. «Capisci? Gli umani e gli elfi sciono i giganti. La terra pullula di giganti, che calpestano tutto con i loro enormi piedi, oscurandoci con le loro ombre sconfinate.» Continuò a ridere, dondolandosi sulla sedia fino a perdere l'equilibrio. Cadde sul pavimento con un tonfo sonoro.


Aiutandolo ad alzarsi, Eragon disse: «Credo che sia meglio se resti qui per stanotte. Non sei in condizioni di scendere le scale nel buio.»


Orik accettò con allegra indifferenza. Permise a Eragon di sfilargli la cotta di maglia e di farlo rotolare su un lato del letto. Infine Eragon sospirò, schermò le luci e si distese sul suo lato del materasso.


Si addormentò con la voce del nano che borbottava in sottofondo: «... Vedrà... Vedrà... Vedrà...»

La natura del male

Il radioso mattino arrivò troppo presto. Strappato al sonno dall'improvviso ronzio del segna tempo, Eragon balzò dal letto col pugnale in mano, pronto a sventare un attacco. Boccheggiò di dolore quando il corpo protestò per gli abusi che aveva subito negli ultimi due giorni.


Ricacciando indietro le lacrime, Eragon ricaricò il segnatempo. Orik non c'era; il nano doveva essersene andato alla chetichella alle prime luci dell'alba. Gemendo come un vecchio afflitto dai reumatismi, Eragon si avviò riluttante verso lo stanzino da bagno.


Lui e Saphira aspettarono per dieci minuti ai piedi dell'albero prima di veder arrivare un elfo con l'aria solenne e lunghi capelli neri. L'elfo s'inchinò e si portò due dita alle labbra - gesto che Eragon ricambiò - poi lo anticipò dicendo: «Che la fortuna vi assista.»


«E che le stelle ti proteggano» rispose Eragon. «Ti manda Oromis?»


L'elfo lo ignorò e si rivolse a Saphira. «Piacere di conoscerti, dragonessa. Io sono Vanir del Casato di Haldthin.» Eragon si accigliò, irritato.


Il piacere è mio, Vanir.


Soltanto allora l'elfo si rivolse a Eragon. «Ti mostrerò dove allenarti con la spada.» S'incamminò a grandi passi, senza aspettare che Eragon lo raggiungesse.


Il campo di allenamento era gremito di elfi di entrambi i sessi che combattevano a coppie o in gruppo. Le loro straordinarie capacità fisiche si manifestavano in un turbinio di colpi così fluidi e scattanti da risuonare come una pioggia di grandine su una campana di ferro. Sotto gli alberi che orlavano il campo, elfi solitari eseguivano la Rimgar con più grazia e flessibilità di quanta Eragon avrebbe mai potuto sperare di ottenere.


Dopo che tutti si furono fermati per inchinarsi a Saphira, Vanir estrasse la sua spada sottile e disse: «Se vuoi smussare la tua lama, Mano d'Argento, possiamo cominciare.»


Eragon osservava con trepidazione la prodigiosa maestria degli altri elfi con la spada. Perché devo farlo? disse. Sarò umiliato.


Andrà tutto bene, lo rassicurò Saphira, anche se il giovane avvertì la sua apprensione.


Giusto.


Mentre preparava Zar'roc, le sue mani tremavano di paura. Invece di gettarsi a capofitto nel duello, combattè contro Vanir a distanza, schivando, scartando di lato e facendo il possibile per evitare un'altra crisi. Malgrado le manovre diversive di Eragon, Vanir lo toccò quattro volte in rapida successione: sul torace, su uno stinco e su tutte e due le spalle.


L'iniziale espressione di impassibile stoicismo di Vanir si trasformò ben presto in manifesto disprezzo. Con un movimento dei piedi simile a un passo di danza, fece scivolare la sua lama sulla lunghezza di Zar'roc, poi la fece roteare torcendo il polso di Eragon. Eragon preferì lasciare la presa piuttosto che resistere alla forza superiore dell'elfo. Vanir calò la sua spada sul collo di Eragon e disse: «Morto.» Liberandosi dalla lama con una scrollata di spalle, Eragon si chinò a raccogliere Zar'roc. «Sei morto» ripetè Vanir. «Come pensi di sconfiggere Galbatorix in questo modo? Mi aspettavo di meglio, anche se da un umano debosciato.»


«Perché non vai tu a combattere Galbatorix, invece di nasconderti nella Du Weldenvarden?»


Vanir s'irrigidì, oltraggiato. «Perché» rispose, gelido e sprezzante, «non sono un Cavaliere. Se lo fossi, non sarei un codardo come te.»


Nessuno si mosse o parlò sul campo.


Con la schiena rivolta a Vanir, Eragon raccolse Zar'roc e alzò la testa al cielo. Non sa niente. Questa è soltanto un'altra prova da superare.


«Codardo, ho detto. Il tuo sangue è annacquato come nel resto della tua razza. Credo che Saphira sia stata sviata dalle astuzie di Galbatorix e abbia fatto la scelta sbagliata per il suo Cavaliere.» Gli altri elfi trasalirono alle parole di Vanir, e borbottarono fra loro per quella gravissima infrazione di etichetta. Eragon digrignò i denti. Poteva sopportare gli insulti diretti a lui, ma non a Saphira. La dragonessa si stava già muovendo quando le frustrazioni, la paura e la rabbia represse esplosero dentro di lui. Eragon si volse di scatto, fendendo l'aria con la punta di Zar'roc. Il colpo avrebbe ucciso Vanir, se questi non lo avesse parato all'ultimo istante. Parve sorpreso dalla ferocia dell'attacco. Senza risparmiarsi, Eragon spinse Vanir al centro del campo, menando affondi e fendenti come un ossesso, deciso a ferire l'elfo a ogni costo. Colpì il fianco di Vanir abbastanza da fargli uscire il sangue, nonostante la lama smussata di Zar'roc.


In quel preciso istante, la schiena di Eragon si spezzò in un'esplosione di dolore che lui sperimentò con tutti e cinque i sensi: una scrosciante cascata che gli assordò le orecchie; un sapore metallico che gli ricoprì la lingua; un odore acido e pungente che gli riempì le narici, acre come l'aceto; una galassia di colori pulsanti; e soprattutto la sensazione che Durza gli avesse appena squarciato la schiena.


Vide Vanir torreggiare su di lui con un sorriso di scherno. Un istante prima di sprofondare nel buio, pensò che Vanir era molto giovane.


Ripresosi dall'attacco, Eragon si asciugò il sangue dalla bocca con la mano e lo mostrò a Vanir, dicendo: «Ti sembra abbastanza annacquato?» Vanir non si degnò di rispondere, ma rinfoderò la spada e fece per allontanarsi. «Dove credi di andare?» lo chiamò Eragon. «Non abbiamo ancora finito, tu e io.»


«Non sei in condizioni di duellare» sbuffò l'elfo.


«Mettimi alla prova.» Eragon poteva essere inferiore agli elfi, ma si rifiutava di dar loro la soddisfazione di confermare le loro scarse aspettative su di lui. Si sarebbe guadagnato il loro rispetto con la perseveranza, se non altro. Insistette per completare l'ora di allenamento che Oromis gli aveva assegnato, poi Saphira marciò minacciosa verso Vanir e lo toccò sul petto con la punta di un artiglio d'avorio. Morto, disse. Vanir impallidì. Gli altri elfi si scostarono da lui.


Una volta in aria, Saphira disse: Oromis aveva ragione.


Su cosa?


Che ti saresti impegnato al massimo con un degno avversario.


Giunti al capanno di Oromis, la giornata si svolse come al solito: Saphira accompagnò Glaedr per la sua lezione, mentre Eragon rimase con Oromis.


Eragon rimase sgomento quando Oromis pretese che eseguisse la Rimgar dopo l'estenuante esercizio cui era stato sottoposto. Ci volle tutto il suo coraggio per obbedire. La sua apprensione si rivelò inutile, poiché la Danza del Serpente e della Gru era troppo delicata per fargli male.


Inoltre la meditazione nella conca isolata gli fornì la prima occasione della giornata per mettere ordine nei propri pensieri e riflettere sulla domanda che Oromis gli aveva posto.


Nel frattempo osservò le formiche rosse invadere un piccolo formicaio rivàle, travolgendo i suoi abitanti e depredandoli delle loro risorse. Alla fine del massacro, soltanto un pugno di formiche avversarie erano rimaste in vita, sole e smarrite nella vasta e ostile landa di aghi di pino.


Come i draghi in Alagaèsia, pensò Eragon. Il suo legame con le formiche si dissolse mentre rifletteva sull'infelice destino dei draghi; e a poco a poco gli si rivelò la risposta al quesito, una risposta che riteneva più che valida, una risposta in cui sentiva di credere profondamente.


Concluse la seduta di meditazione e tornò al capanno. Questa volta Oromis parve piuttosto soddisfatto di quello che Eragon era riuscito a compiere. Mentre Oromis serviva il pranzo, Eragon disse: «So perché è giusto combattere Galbatorix, anche se potrebbe significare la morte di migliaia di persone.»


«Davvero?» Oromis si sedette. «Dimmi pure.»


«Perché Galbatorix ha causato più sofferenze negli ultimi cento anni di quante ne potremmo mai vedere in una sola generazione. E diversamente da un qualsiasi tiranno, non possiamo aspettare che muoia. Potrebbe governare per secoli, o millenni, continuando a perseguitare e tormentare il popolo, se non lo fermiamo. Se diventasse abbastanza forte, potrebbe marciare sui nani, o persino qui nella Du Weldenvarden, e uccidere o sottomettere entrambe le razze. E...» Eragon strofinò la base del palmo contro il bordo del tavolo, «... perché sottrargli le due uova che possiede è l'unico modo per salvare i draghi.»


Il bollitore cominciò a fischiare, sempre più stridente, tanto che a Eragon ronzavano le orecchie. Oromis si alzò per togliere il bollitore dal fuoco e versò l'acqua per l'infuso di more. Le rughe intorno ai suoi occhi si addolcirono. «Adesso» disse «hai capìto.»


«Ho capìto, ma non mi da alcuna gioia.»


«Ed è giusto che sia così. Ma adesso avremo la garanzia che non ti ritirerai dalla lotta, quando assisterai alle ingiustizie e alle atrocità che i Varden inevitabilmente commetteranno. Non possiamo permetterci che ti lacerino i dubbi nel momento in cui la tua forza e la tua concentrazione sono più necessari.» Oromis appoggiò i gomiti sul tavolo e giunse i polpastrelli, con lo sguardo fisso sullo specchio ;' scuro del suo infuso, contemplando chissà cosa nei suoi tenebrosi riflessi. «Tu credi che Galbatorix sia malvagio?» •


«Assolutamente!» «E credi che lui si consideri malvagio?» «No, ne dubito.»


Oromis tamburellò le dita fra loro. «Quindi credi anche che Durza fosse malvagio.»


Gli tornarono in mente i frammenti di memorie che aveva intravvisto nella mente di Durza mentre combattevano a Tronjheim, ricordandogli come il giovane Spettro Carsaib, all'epoca - era stato ridotto in schiavitù dagli spiriti che aveva evocato per vendicare la morte del suo mentore, Haeg. «Non era malvagio lui, ma gli spiriti che lo controllavano.»


«E gli Urgali?» continuò Oromis, bevendo un sorso di té. «Sono malvagi?»


Le nocche di Eragon sbiancarono quando strinse il cucchiaio. «Quando penso alla morte, vedo il muso di un Urgali. Sono peggio delle bestie. Le cose che hanno fatto...» Scrollò il capo, incapace di proseguire. «Eragon, che opinione ti faresti degli umani se li dovessi giudicare soltanto dalle azioni dei guerrieri sul campo di battaglia?» «Non è...» Trasse un profondo respiro. «È diverso. Gli Urgali meritano di essere spazzati via, fino all'ultimo.» «Anche le donne e i bambini? Quelli che non ti hanno mai fatto del male e mai te ne farebbero? Gli innocenti? Li stermineresti, condannando l'intera razza all'estinzione?»


«Loro non ci risparmierebbero mai, se ne avessero l'occasione.»


«Eragon!» esclamò Oromis, in tono aspro. «Non voglio mai più sentirti usare una simile scusa, che siccome qualcuno ha fatto o farebbe una cosa, tu puoi fare altrettanto. È spregevole, meschino, indizio di una mente inferiore. Sono stato chiaro?»


«Sì, maestro.»


L'elfo si portò la tazza alle labbra e bevve, continuando a tenere lo sguardo fisso su Eragon. «Cosa sai degli Urgali in realtà?»


«Conosco le loro forze e le loro debolezze, e so come ucciderli. So quanto mi basta di sapere.»


«Perché odiano e combattono gli umani, secondo te? Cosa sai della loro storia e delle loro leggende, o della loro vita quotidiana?»


«Che importanza ha?»


Oromis sospirò. «Ricorda solo» disse in tono sommesso «che a un certo punto, i tuoi nemici potrebbero diventare tuoi alleati. Così va la vita.»


Eragon resistette all'impulso di protestare. Rimestò l'infuso nella tazza, facendo accelerare il liquido fino a formare un vortice scuro con una macchia di schiuma bianca sul fondo. «È per questo che Galbatorix ha arruolato gli Urgali?» «Non è l'esempio che avrei scelto io, ma sì.»


«Mi sembra strano che si fidi di loro. In fin dei conti furono gli Urgali a uccidergli il drago. Guarda che cosa ha fatto a noi, ai Cavalieri, e non eravamo nemmeno responsabili della sua disgrazia.»


«Ah» disse Oromis, «Galbatorix sarà anche un pazzo, ma resta pur sempre astuto come una volpe. Immagino che volesse usare gli Urgali per distruggere i Varden e i nani... e altri ancora, se avesse trionfato nel Farthen Dùr... per sbarazzarsi di due nemici e al contempo indebolire gli Urgali per poi liberarsene in un secondo momento.» Lo studio dell'antica lingua si portò via tutto il pomeriggio; alla fine ripresero a esercitarsi con la magia. La maggior parte delle lezioni di Oromis vertevano sulla maniera più adeguata di controllare le varie forme di energia, come la luce, il calore, l'elettricità e persino la gravità. Spiegò che, dato che questi elementi consumavano energia più in fretta di qualsiasi incantesimo, era più prudente trovarli già in natura, per poi plasmarli con la negromanzia, piuttosto che tentare di crearli dal nulla.


Abbandonando l'argomento, Oromis chiese: «Come uccideresti


con la magia?»


«L'ho già fatto in molti modi» rispose Eragon. «Ho cacciato con un sasso, spostandolo e prendendo la mira con la magia. Ho usato la parola jierda per spezzare le gambe e il collo degli Urgali. Una volta, con thrysta, ho fermato il cuore di un uomo.»


«Ci sono metodi più efficaci» gli rivelò Oromis. «Cosa occorre per uccidere un uomo, Eragon? Una spada nel petto? Un collo rotto? Un'emorragia? Sappi che basta spezzare una singola arteria nel cervello, o recidere determinati nervi. Con il giusto incantesimo, potresti annientare un esercito.»


«Avrei dovuto pensarci nel Farthen Dùr» disse Eragon, arrabbiato con se stesso. Non soltanto nel Farthen Dùr, ma anche quando i Kull ci inseguivano nel Deserto di Hadarac. «Perché Brom non me l'ha detto?»


«Perché non si aspettava che dovessi affrontare un esercito nel giro di pochi mesi; non è una cosa che si insegna a un Cavaliere ancora inesperto.»


«Ma se è così facile uccidere la gente, perché noi, o lo stesso Galbatorix, ci affanniamo a radunare un esercito?» «Per dirla in una parola, è tattica. Gli stregoni sono vulnerabili agli attacchi fisici quando sono impegnati nelle loro schermaglie mentali. Perciò hanno bisogno di soldati che li proteggano. E i soldati devono essere protetti, almeno in parte, dagli attacchi magici, altrimenti verrebbero sterminati in pochi minuti. Questa duplice limitazione comporta che quando due eserciti si affrontano, i loro rispettivi maghi si sparpagliano fra le truppe, vicini alla prima linea, ma non abbastanza da rischiare la vita. Gli stregoni di entrambi i fronti aprono la mente e tentando di percepire se qualcuno sta usando o sta per usare la magia. Poiché i loro nemici potrebbero trovarsi al di là della loro portata, gli stregoni evocano incantesimi di difesa intorno a se stessi e ai propri soldati per fermare o rallentare attacchi a lunga gittata, come un sasso scagliato contro di loro da un miglio di distanza.»


«Ma un solo uomo non può difendere un intero esercito» obiettò Eragon.


«Da solo no, ma un numero sufficiente di stregoni è in grado di fornire una ragionevole dose di protezione. Il maggior pericolo in questo genere di conflitto è che uno stregone astuto può escogitare un attacco che possa superare le tue difese senza abbatterle. Solo questo basta a decidere le sorti di una battaglia.


«Inoltre» proseguì Oromis «devi tenere a mente che l'abilità nell'uso della magia è straordinariamente rara fra le razze. Noi elfi non facciamo eccezione, anche se vantiamo più maghi di tutti gli altri, grazie ai giuramenti con i quali ci siamo vincolati secoli fa. La maggior parte di coloro che hanno il dono della magia non hanno però il talento per usarla: faticano perfino a guarire un livido.»


Eragon annuì. Aveva incontrato stregoni simili fra i Varden. «Ma la quantità di energia necessaria a compiere qualcosa resta sempre la stessa.»


«Certo, ma rispetto a te o a me, gli stregoni mediocri hanno difficoltà a percepire il flusso dell'energia e immergersi in esso. Sono pochi i maghi abbastanza potenti da rappresentare una minaccia per un esercito. E quelli che lo sono, di solito passano la maggior parte della battaglia a eludere, rintracciare o combattere i propri avversari, una circostanza fortunata dal punto di vista dei soldati, che altrimenti verrebbero uccisi subito.»


Sconcertato, Eragon disse: «I Varden non hanno molti stregoni.»


«È una delle ragioni per cui tu sei così importante.»


Passò un momento, mentre Eragon rifletteva sulle parole di Oromis. «Questi incantesimi di difesa ti sottraggono energia soltanto quando sono attivati?»


«Sì.»


«Allora, avendo tempo a disposizione, si potrebbero accumulare infiniti strati di protezione. Uno potrebbe rendersi. ..» si sforzò di trovare la parola adatta nell'antica lingua, «... invulnerabile?... refrattario?... refrattario a qualsiasi attacco, fisico o mentale.»


«Gli incantesimi di difesa» disse Oromis «si basano sulla forza del proprio corpo. Non è importante quanti riesci a evocarne; sarai in grado di bloccare un attacco soltanto finché il tuo corpo resisterà al dispendio di energia.» «Ma la forza di Galbatorix cresce di anno in anno... Com'è possibile?»


Era una domanda retorica, ma quando Oromis rimase in silenzio, i suoi occhi a mandorla fissi su un terzetto di passeri che piroettavano nel cielo, Eragon capì che stava riflettendo su come dargli la risposta più adeguata. Gli uccellini s'inseguirono per alcuni minuti. Quando scomparvero dalla visuale, Oromis disse: «Non è opportuno discutere di questo aspetto al momento.»


«Allora lo sai?» esclamò Eragon, sbalordito.


«Sì. Ma questa informazione dovrà aspettare che tu abbia approfondito il tuo addestramento. Non sei ancora pronto.» Oromis lo guardò, come se si aspettasse una protesta.


Eragon chinò il capo. «Come vuoi tu, maestro.» Non avrebbe mai estorto l'informazione a Oromis finché l'elfo non avesse voluto rivelarla, quindi che senso aveva insistere? Eppure non poteva fare a meno di domandarsi che cosa ci fosse di tanto pericoloso da imporre il silenzio, e perché gli elfi avessero tenuto il segreto perfino con i Varden. Lo attraversò un altro pensiero, e lo espresse ad alta voce. «Se le battaglie con i maghi vengono condotte come dici, allora perché Ajihad mi ha fatto combattere nel Farthen Dùr senza incantesimi di protezione? Non sapevo nemmeno di dover tenere la mente aperta in cerca di nemici. E perché Arya non ha ucciso gran parte degli Urgali, se non tutti? Non c'era nessuno stregone in grado di resisterle, tranne Durza, e lui non poteva difendere le sue truppe da sottoterra.» «Ajihad non ti ha fatto proteggere da Arya o da qualcuno del Du Vrangr Gata?» chiese Oromis.


«No, maestro.»


«E tu hai combattuto così?»


«Sì, maestro.»


Gli occhi di Oromis si oscurarono, mentre si chiudeva in se stesso, restando immobile sul prato. Riprese a parlare di getto. «Mi sono consultato con Arya, e lei sostiene che i Gemelli dei Varden avevano ricevuto l'ordine di esaminare le tue capacità. Hanno detto ad Ajihad che eri esperto in ogni sorta di incantesimo, compresi quelli di protezione. Né Ajihad né Arya hanno dubitato del loro giudizio.»


«Quei luridi vermi, cani rognosi, serpi dalla lingua biforcuta» imprecò Eragon. «Hanno cercato di farmi uccidere!» Passando alla propria lingua, proseguì con altri insulti più coloriti.


«Non appestare l'aria» lo ammonì Oromis. «Non serve... A ogni buon conto, sospetto che i Gemelli ti abbiano fatto scendere in battaglia senza difese non per farti uccidere, ma perché Durza ti catturasse vivo.»


«Cosa?»


«Secondo il tuo racconto, Ajihad sospettava che i Varden fossero stati traditi quando Galbatorix cominciò a colpire i loro alleati nell'Impero con mira infallibile. I Gemelli erano a conoscenza dell'identità dei collaboratori dei Varden. Inoltre ti hanno attirato nel cuore di Tronjheim, separandoti da Saphira, per spingerti tra le grinfie di Durza. Che fossero loro i traditori è l'unica spiegazione logica.»


«Che fossero i traditori» disse Eragon «ormai non conta più: sono morti e sepolti.»


Oromis inclinò il capo da un lato. «E sia. Arya sostiene che gli Urgali avevano degli stregoni nel Farthen Dùr e che ne ha combattuti molti. Nessuno di loro ti ha attaccato?»


«No, maestro.»


«Prova ulteriore del fatto che tu e Saphira dovevate essere catturati da Durza per essere portati da Galbatorix. Una trappola ben congegnata.»


Durante l'ora seguente, Oromis insegnò a Eragon una dozzina di metodi per uccidere, nessuno dei quali richiedeva più energia di quanta ne occorresse per sollevare una penna. Quando ebbe finito di memorizzare l'ultimo, a Eragon sovvenne un pensiero che lo fece sogghignare. «La prossima volta che incroceranno la mia strada, i Ra'zac non avranno scampo.»


«Non devi sottovalutarli» lo ammonì Oromis.


«Perché? Tre parole, e saranno morti stecchiti.» «Che cosa mangiano i martin pescatori?» Eragon lo guardò stupito. «Pesce, naturalmente.» «E se un pesce fosse più svelto e più intelligente dei suoi simili, riuscirebbe a sfuggire a un martin pescatore?» «Ne dubito» disse Eragon. «Almeno non per molto.» «Proprio come i martin pescatori sono fatti per essere i migliori cacciatori di pesce, i lupi sono i migliori cacciatori di cervi e altra selvaggina, e ogni animale possiede i requisiti più idonei a perseguire il suo obiettivo, anche i Ra'zac sono perfetti per predare gli umani. Sono i mostri annidati nel buio, i viscidi incubi che tormentano le notti della vostra razza.»


Eragon si sentì formicolare la nuca dall'orrore. «Che razza di creature sono?»


«Non sono elfi, né umani, né nani, né draghi, né bestie di terra, di cielo o di mare, né rettili, né insetti, né qualsiasi altra categoria di animali.»


Eragon emise una risatina nervosa. «Sono piante, allora?» «Nemmeno questo. Si riproducono deponendo le uova, come i draghi. Quando queste si schiudono, i piccoli, detti pupe, sviluppano un esoscheletro nero che ricorda vagamente le sembianze umane. È un'imitazione grottesca, ma sufficiente a convincere le vittime a farsi avvicinare dai Ra'zac senza destare allarme. In tutti gli aspetti in cui gli umani sono deboli, i Ra'zac sono forti. Riescono a vedere in una notte nuvolosa, a fiutare una traccia come un segugio, a saltare più in alto e a muoversi più in fretta. Tuttavia la luce forte li infastidisce e hanno una paura morbosa dell'acqua, perché non sanno nuotare. La loro arma più potente è il loro fiato pestilenziale, che annebbia la mente degli umani, rendendoli incapaci di reagire, anche se ha meno effetto sui nani e gli elfi ne sono immuni.»


Eragon rabbrividì al ricordo di quando aveva visto per la prima volta i Ra'zac a Carvahall, e di come era stato incapace di fuggire quando lo avevano scorto. «Mi sembrava di trovarmi dentro un incubo in cui volevo fuggire, ma non riuscivo a muovermi, per quanto mi sforzassi.»


«Una buona descrizione» disse Oromis. «Sebbene i Ra'zac non sappiano usare la magia, non bisogna sottovalutarli. Se sapessero che dai loro la caccia, non si mostrerebbero, ma rimarrebbero nell'ombra, dove sono più potenti, in attesa di tenderti un agguato come hanno fatto a Dras-Leona. Persino l'esperienza di Brom non è riuscita a proteggerlo da essi. Non essere mai troppo sicuro di te, Eragon. Non diventare arrogante, perché compiresti azioni avventate, e i tuoi nemici approfitterebbero della tua debolezza.»


«Sì, maestro.»


Oromis piantò i suoi occhi severi su di lui. «I Ra'zac restano pupe per vent'anni, finché maturano. Al sorgere della prima luna piena del loro ventesimo anno, si liberano dall'esoscheletro, dispiegano le ali ed emergono come adulti pronti a cacciare tutte le creature, non soltanto gli umani.»


«Perciò le cavalcature dei Ra'zac, quei mostri su cui volano, sono...»


«Sì, i loro genitori.»

Immagine di perfezione

finalmente ho capìto la natura dei miei nemici, pensò Eragon. Temeva i Ra'zac da quando erano comparsi a Carvahall, non soltanto per le loro azioni scellerate, ma perché sapeva ben poco di quelle creature. Nella sua ignoranza, aveva attribuito ai Ra'zac molti più poteri di quanti ne possedevano in realtà, e li aveva considerati con un timore quasi superstizioso. Incubi. Ma adesso che la spiegazione di Oromis li aveva spogliati della loro aura di mistero, non gli sembravano più così formidabili. Il fatto che fossero vulnerabili alla luce e all'acqua lo portava all'assoluta convinzione che al loro prossimo incontro avrebbe distrutto i mostri responsabili dell'uccisione di Garrow e di Brom. «Anche i loro genitori si chiamano Ra'zac?» domandò.


Oromis fece no con la testa. «Lethrblaka, li chiamiamo. E laddove la loro progenie è di mente limitata, sebbene astuta, i Lethrblaka possiedono l'intelligenza di un drago. Un drago crudele, malvagio e perverso.»


«Da dove vengono?»


«Con ogni probabilità, dai territori che i tuoi antenati abbandonarono. È facile supporre che siano state le loro scorrerie a costringere re Palancar a emigrare. Quando noi Cavalieri ci accorgemmo della nefanda presenza dei Ra'zac in Alagaèsia, facemmo del nostro meglio per estirparli, come facciamo con la ruggine delle foglie. Purtroppo il nostro successo fu parziale. Due Lethrblaka riuscirono a fuggire, e sono stati loro, insieme alle pupe, la causa delle tue sofferenze. Dopo aver ucciso Vrael, Galbatorix li rintracciò e strinse con loro un patto perché lo servissero in cambio di protezione e del permesso di servirsi a volontà del loro cibo preferito. Ecco perché Galbatorix consente loro di vivere vicino a Dras-Leona, una delle maggiori città dell'Impero.»


Eragon serrò la mascella. «La pagheranno.» E la pagheranno cara, se andrà come dico io.


«Già» convenne Oromis. Tornando al capanno, varcò il vano oscuro della porta e ricomparve portando una mezza dozzina di tavolette di ardesia, larghe mezzo piede e lunghe uno. Ne porse una a Eragon. «Lasciamo stare questi argomenti sgradevoli per un po'. Ho pensato che forse ti va d'imparare a realizzare un fairth. È un eccellente metodo per focalizzare i pensieri. La tavoletta è abbastanza impregnata di inchiostro per coprirla con qualsiasi combinazione di colori. Ti basta quindi concentrarti sull'immagine che desideri catturare e dire "Quello che vedo con l'occhio della mente sia replicato sulla superficie di questa tavoletta".» Mentre Eragon osservava la lastra, Oromis indicò la radura. «Guardati intorno, Eragon, e trova qualcosa che valga la pena di preservare.»


I primi soggetti che Eragon notò gli parvero troppo ovvi, troppo banali: un giglio giallo vicino ai suoi piedi, il capanno di Oromis, il ruscello, e il panorama. Non c'era niente di particolare. Non c'era niente che avrebbe fornito all'osservatore un'introspezione del soggetto del fairth o di chi lo aveva creato. Le cose che cambiano e vanno perdute, ecco cosa vale la pena di preservare, pensò. Il suo sguardo si posò sui germogli verde pallido che crescevano sulla punta dei rami di un albero, e poi sulla profonda, stretta ferita che marchiava il tronco dove una tempesta aveva spezzato un ramo, portando via un pezzo di corteccia. Gocce di resina trasparente incrostavano la cicatrice, catturando e rifrangendo la luce.


Eragon si dispose a fianco del tronco, perché le galle rotonde della linfa rappresa dell'albero sporgessero di profilo, incorniciate da un ventaglio di nuovi aghi. Poi fissò la scena nella sua mente meglio che potè e mormorò la formula magica.

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